martedì 28 dicembre 2010

MAMMA LI TURCHI!

Cioè, gli anni Settanta. Sono tornati? Stanno tornando? Si accingono a tornare per inquinare di incubi i nostri sonni innocenti? L’allarme è scattato, il mondo pacifico trema, s’inquieta, si arrabbia: secondo la sensibilità delle sue componenti. Che sono varie, soprattutto per diversificazione economica e, di conseguenza, sociale, e in tanti casi anche politica.
Insomma, i tafferugli, gli scontri, gli episodi di violenza e i graffi causati a certi monumenti-ornamenti della capitale, durante le sfilate originali di martedì 14 dicembre, hanno indotto lo scampanio di questo allarme. Sempre in primo piano per zelo informativo, le televisioni pubbliche e private non cessano di martellare quegli eventi lungo le ventiquattro ore del giorno e per tutti i santi giorni residui del mese in discesa e con prevedibile seguito in quelli del nuovo anno. Quanto alle tonalità dei commenti dominanti, c’è poco da distinguere e sottolineare: fanno un coro unanime di condanna per i “teppisti”, variamente dosata soltanto nel pimento moraleggiante. Vale a dire: tutte le specificità del nostro paesaggio politico sparano la condanna, ma certe posizioni si distinguono per un eccesso di furore che rima preciso con livore: non sorprende che le bocche intente a sciacquarsene le gengive stiano quasi tutte intorno al maestro di violenze variegate, anche se non fragorose: il testé vincitore –compratore della battaglia parlamentare sulla mozione di sfiducia pensata da alcuni simpaticoni ignari delle risorse del Caimano. Scivolando verso il centro e spostandosi un po’ più’ in là i toni sono meno strillanti, ma la condanna solenne non soffre di anemia. Tutti addosso ai black bloc, sovvertitori dell’ordine costituito. E tutti, con sfumature appena sensibili, a recitare solidarietà alle “forze dell’ordine”. Le quali, nell’opinione di troppi campioni del moderatismo incline all’idolatria dell’Ordine con la maiuscola, hanno sempre ragione, qualunque cosa facciano. Anche la più sporca. Come accade, quasi puntualmente, ogni qualvolta s’incontrano con manifestanti un po’ troppo incazzati. Donde la levata di scudi verbali di troppe autorità e soggetti portati all’autoassoluzione smemorata e all’oblio sbarazzino del proprio passato e delle possibili attenuanti dell’ira esplosiva. Dal sindaco ex (s)fascista della capitale al leghista ex rivoluzionario scissionista che occupa il ministero dell’Interno; dai troppi pappagalli arcoriani (Cicchitto Bondi Bonaiuti Lupi Capezzone e altri testoni) al ministro spaziale della Giustizia, è stato tutto un coro di allarmi aizzamenti censure ai magistrati che hanno rimesso in libertà i giovani fermati contro i quali non emerse nessuna imputabile scorrettezza da immediata custodia cautelare. Con un picco di azzardo che inclina al ridicolo: l’invio di ispettori nel presidio giuridico della capitale da parte dell’astrale Alfano. Pochi, e soltanto a sinistra, pur condannando la baldoria scassa-vetrine e brucia-macchine, si son dati pensiero di capire le spinte irate di certa gioventù contro questo Stato non proprio paterno. Sensibilità che manca a troppi politici (professionali o abusivi), e giornalisti al soldo del moderatume sopra non omaggiato. Presso i quali manca una denuncia ampia, documentata, sincera fino alla rotta di collisione con il pestifero conformismo libero-capitalista, i cui crimini mai vengono riconosciuti e bollati per quel che sono. Perché, stringi stringi, questo è il busillis: tanto libero commercio, tantissima libera finanza, condita di liberissima delocalizzazione globalistica (creatura bastarda ma geneticamente incontestabile del capitalismo brado), e un indotto largamente disastroso per tanta parte delle fasce sociali esposte, operai e giovani in testa.
Quando ai giovani si nega il futuro, quando li si costringe alla stasi inerte della famiglia gravitante su modestissime entrate (da salario o da avarissima pensione, spesso di nonni), pensano, i benpensanti del cavolfiore, che se ne debbano e possano stare buoni e tranquilli fino alla improbabile vecchiaia? Eppure è questo il sottinteso di quanto pensano i campioni del liberismo dogmatico, tetragoni all’evidenza dei fatti e misfatti di quel credo applicato alla gestione dello Stato democratico. Un’ autorevole figura di questo campionario, Piero Ottone, nell’editoriale corseresco di sabato 18 (titolo, I diritti e la legge, sovrastato da questo occhiello di un bel rosso-allarme, “La violenza non è mai giustificabile”) recita l’ennesima sintesi replicante del suo pensiero cristallizzato, sbandierando formule seducenti e ottative astrazioni festosamente veleggianti sopra la materiale brutalità degli eventi. Seguiamolo come in un pellegrinaggio penitenziale. Comincia con un altolà rigido come un blocco di marmo sagomato: “C’è da parte di alcuni media – trasmissioni tv e giornali – una certa irresponsabile indulgenza, persino una sorta di giustificazionismo morale e ideologico, nei confronti dei responsabili dei disordini di Roma, che male si conciliano con l’idea di democrazia liberale”. Tanto strazio della Libertà maiuscolata (ma in quali media l’ha letto e ascoltato?) poggerebbe, secondo Ostellino in codesta “tesi di fondo”, che “la classe politica, nella circostanza, si sarebbe arroccata dentro al Palazzo, al sicuro di una ‘zona rossa’ e non avrebbe saputo guardare, oltre a ciò che stava accadendo nelle strade, anche alla maggioranza degli italiani che non manifestano, ma che sono ugualmente depressi e sfiduciati.” Questa “piadina” drogata e abusiva non sarebbe altro che “una versione aggiornata dei ‘compagni che sbagliano’(ma hanno ragione)”. E qui scatta l’impeto indignato del sacerdote della Libertà offesa: “Dire che le parole a giustificazione delle criminali violenze che hanno messo a ferro e fuoco la capitale sono sbagliate è dire poco.” Ripetiamo: ma dove le ha beccate? E cosa bisogna aggiungere a quel “poco”? Presto detto: quelle parole sono anche “pericolose”. E sia detto, precisa don Piero, senza alcuna indulgenza per “questa classe politica”, di cui “si può dire tutto il male possibile”: come fa lui personalmente di persona (per dirla alla Catarella camilleriano) “in ogni suo articolo”. Ma tanto eventuale rigore non giustifica l’accusa a quella scadente congerie “di non saper capire che le ragioni della violenza sono anche quelle della maggioranza degli italiani” (che non perciò vanno a bruciare macchine costose): una tale accusa equivale a “negare la Politica stessa”. La quale Politica (doverosamente incappucciata di maiuscola) “rimane il solo strumento di pacifica composizione delle differenze e dei conflitti”. Una solida barriera, al di là della quale non si fa altro che “spalancare le porte al terrorismo”. Come non capire che la “zona rossa” non intendeva “difendere la classe politica, ma le istituzioni”; difenderle da quei “delinquenti o idioti convinti di fare la rivoluzione spaccando vetrine e bancomat”. Non solo, ma secondo l’editorialista (che qui s’improvvisa indovino) quegli idioti fracassoni erano anche “intenzionati a estendere al Parlamento lo stesso trattamento”. Più o meno come è accaduto con i giovani “che volevano dimostrare pacificamente il loro dissenso e sono stati travolti essi stessi dalla violenza”. A questo punto non rimane che passare alla teoresi. “Manifestare è una libertà liberale inalienabile, un diritto costituzionale”. E fin qui, tutto liscio e cielo sereno. Il quale cielo si intorbida, però, quando si passa a quella “diversa e più complessa definizione” che riguarda “la rivendicazione, da parte di gruppi di ogni categoria sociale, dei propri diritti corporativi, ogni volta che siano toccati dalla politica, con la pretesa che il Parlamento ridiscuta con loro le scelte fatte ad ogni stormire di manifestazione, pena la ‘separazione’ del Paese reale dal Paese legale e il rischio di violenze”. Ed eccoci fuori “dalla democrazia liberale e rappresentativa”, anzi addirittura precipitati “in un surreale pluralismo che rifiuta le regole del Costituzionalismo e ignora le libertà individuali”. Ovvero, per dirla a colori più accesi (dopo un’ovvia censura all’ingenuo Rousseau): “Si finisce, in sostanza, nel permanente assemblearismo di Piazza, nella negazione dell’esito delle libere lezioni, cioè nello svuotamento della sovranità popolare, nel totalitarismo di una supposta ‘volontà generale’ (che è, poi , sempre particolare). Salvo voler rientrare nella democrazia rappresentativa se a vincere le elezioni è la propria parte politica”.
E qui ci scappa un modesto lamento: Homini sumus, non dei. Ovviamente, “quando si ricorre alla violenza, non si parla più di diritti. Si mette in discussione la Legge. Che va rispettata. E’ un fatto che il ‘rivendicazionismo continuo di diritti (o di privilegi?) collettivi e corporativi sia un sintomo di crisi della democrazia rappresentativa”. A chiusura dello sfogo, una lezioncina-monito su questa democrazia, della quale -- scrive, didattico-- “si dovrebbe discutere con proprietà di linguaggio culturale e politico, senza concessioni demagogiche e totalitaristiche, ed evitando di stravolgerne, come invece si fa, i fondamenti stessi”.
Qualche postilla a tanta dottrina ci tenta come un dovere ineludibile. Se la russoviana “volontà generale” si riduce sempre a particolare, come mai lo stesso processo logico-dimagrante non accade alla sua “volontà popolare”? Perché, forse, le appare garantita dal “libero voto”? Bene. Vediamolo questo passe-partout del democratismo liberale. Tanto libero voto appartiene in grandissima e prevalente parte agli strati sociali meno dotati di istruzione, capacità di valutazione politica di persone ed eventi, largamente disponibile al mercato (lo stesso che ha conquistato la striminzita maggioranza al premier, ma più vasto e più facile per il compratore). Durante le elezioni amministrative siciliane nella città di Liotria quel tale mercato prevedeva somme diverse per ogni livello sociale di votante: si citavano cifre che salivano dai 50 euro ai cento e 150. L’eletto fu il sindaco delle grandi aspettative, medico personale del Caimano, ma che finì giudicato e condannato per sperperi e abusi di ogni genere. Centinaia di pubblici amministratori sono di questa sostanza: liberi votanti? Perché no: ma del genere “a qual prezzo!”. Il che mina alla base la pretesa e sottintesa purezza delle radici e dell’humus della decantata democrazia liberale. Rispetto della legge? Non può essere un assoluto: altrimenti dovremmo giustificare i boia nazisti che invocavano quel rispetto. Ma si trattava di una dittatura: sì, ma portata al potere dalla “libera volontà” dei votanti. Si obietterà: le leggi non eque si possono modificare. Certo, ma con quel vizio del particolarismo che il liberale s’illude di evitare. Magari trasferito nel santuario bacato detto Parlamento. E quando mai le democrazie liberali hanno garantito equità a tutte le categorie e fasce sociali? Leggi che il “libero parlamento” ha votato a favore di ceti e consorterie privilegiate (Mammona docente) dovrebbero essere rispettate da quelli soccombenti? A dirlo, in clima di astrazioni teoriche, ci vuol poco; si può recitarlo magari in latino, dura lex, sed lex, sopportarne gli effetti pratici è un tantino più pesante. Planando verso terra, la situazione odierna in Italia e in cento altri Paesi è tale che stupisce come non siano scoppiate rivolte ben più severe che questi scoppi di malumore lesivo di qualche vetrina e bancomat e berline di lusso. Ma, in fondo, la spiegazione del buonumore dei privilegiati sermoneggianti è così ovvia che umilia persino spendere parole per commentarla. Ed è tanto coriacea che non servirebbe nemmeno rinfacciare a quei signori lo scandalo dei loro vantaggi e privilegi, sovente di magnitudo scandalosamente provocatoria. Ma sì, penso ai superstipendi di manager e dirigenti di mille e mille agenzie disparate. E allo scialo di pubblico denaro (cioè, di soldi tolti alle nostre tasche e famiglie) che indigna indagatori pazienti e alacri, come Gian Antonio Stella e Aldo Rizzo: ultima denuncia, la scialo molisano. Che ha dell’incredibile, per la sua vastità, spudoratezza, inerzia delle strutture di controllo. E che dire degli scandali mazzettari di tutti i livelli che vanno emergendo a getto continuo? La storica tangentopoli non è stata uccisa da Mani pulite, si è solo acquattata per qualche pausa coatta e poter riesplodere altrettanto virulenta.
Questa è la realtà della democrazia liberale tanto infiorata dalla teoresi astratta. E dappertutto, anche se l’Italia vi celebra uno dei suoi molti primati negativi. I quali dall’attuale maggioranza sono stati, non combattuti ed evitati, ma diffusamente esaltati. Come dimostra la percentuale di indagati e intercettati. E non c‘è male per gente che si presentava all’incasso elettorale come affossatori della “vecchia politica” e moralizzatori della nuova. Sì, i nuovi marpioni della mazzetta sono colpiti da nostalgia per la “gloriosa” tangentopoli. Ma arriverà mai una seconda Mani pulite dipietrizzata? In compenso, si risparmia sui poveri cristi indifesi, come i pensionati della Scuola. Al punto che un professore di filosofia e storia, dopo quarant’anni di onesto servizio, si ritrova con una pensione che non arriva, al netto, nemmeno a duemila euro mensili (e sfido, con un prelievo fiscale del 26%). Mentre gli sfaticati ciarlieri del sovrano Parlamento sguazzano nel bagno dei mille privilegi, facendo boccacce ai soliti contaballe che promettono, ad ogni volger di stagione, tagli delle pletore parlamentari, risparmi sugli spostamenti “illustri” (auto blu, voli e quant’altro), supercontrolli sull’uso vastamente plurale delle pubbliche finanze, così spesso “abusate” nel più e nel meno. E tutto questo non sarebbe violenza? Forse converrebbe prestare più guardinga attenzione a quello strano e sagace libello dell’Anonimo ateniese del V secolo a. C., La democrazia come violenza (tale il titolo dell’edizione Sellerio curata e magistralmente commentata da Luciano Canfora). Non certo per celebrare la dittatura, ma certamente per non cantare lodi liberal-democratiche ignare dei vulnera che ne rendono imperfetta la realtà operativa.
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Eureka! Abbiamo vinto. Cioè, ha vinto la pace. Perciò, di riflesso, noi pacifici e pacifisti. Questo scrittorello, già concluso un paio di giorni fa, era stato bloccato per attendere il nuovo appuntamento del 22 scorso: il corteo romano degli studenti. Oggi possiamo complimentarci con quei ragazzi per la prova di autocontrollo e (a suo modo) allegra inventiva che gli ha suggerito di evitare la “zona rossa” e gli eventuali (anzi inevitabili in caso di sfida) scontri comunque attizzati. E di averlo fatto con goliardica ironia e sorridente compostezza. Uno dei loro “cartelli” diceva questa boutade-verità: “Voi soli nella zona rossa, noi liberi per la città”. Ecco come lo presenta un articolo del Corsera: “Scritta in bianco su fondo blu, lo striscione srotolato davanti alla Sapienza annuncia di buon mattino la beffa organizzata dagli studenti. Nessun tentativo di forzare i blocchi della polizia […] ma una marcia pacifica, colorata e ironica che invade la periferia romana, blocca per qualche ora la tangenziale e l’autostrada per l’Aquila (un simbolo anche questo) e in più di un’occasione incassa la solidarietà della gente per strada”. Culmine dell’avventura, la gioia di essere ricevuti dal Presidente Napolitano, ascoltati con vivo (verrebbe voglia di dire paterno) interesse, invitati a mettere per iscritto le loro obiezioni alla riforma Gelmini (“Bisogna che cominciate a costruire queste eventuali correzioni”) e a inviargliele: “Inviatemele, le valuterò”. Quanto all’appello ingenuamente rivolto dai cortei al Presidente perché rifiuti di firmare i relativi decreti, non restava alla sua cortese pazienza che improvvisare una sorridente lezioncina atipica sui limiti costituzionali dei suoi poteri. E anche questo l’Uomo del Colle ha fatto con comprensiva tolleranza.
Di fronte al successo romano, gli episodi di violenza di Palermo e Milano sbiadiscono come piccoli spruzzi di pioggia in un cielo in prevalenza sereno. Mentre le considerazioni di esperti e giornalisti di vaglia (quali, per fare un esempio, Di Vico e Ferrera: Corsera, Le risorse che ci sono: “La giornata di ieri si è chiusa con un bilancio positivo. La temuta Apocalisse non c’è stata […] la coraggiosa iniziativa del capo dello Stato ha fatto il resto”) sulla necessità di assicurare risorse alle istituzioni culturali, a cominciare dalla Scuola in tutte le sue articolazioni, e alla ricerca, conservano tutto il loro valore di stimolo. A verniciarsi di rosso le non sempre attraenti facce dovrebbero essere certi politici appassionati di arresti preventivi e carcerazioni ingiustificate.
Beninteso, questo momento di, come dire?, relax speranzoso, resta ben lontano dalla traduzione delle corrette attese in realtà legislative e atti operativi. Conosciamo fin troppo bene le furbizie dei signori politici, specialmente di questa maggioranza scheggiata dall’incerto destino, per abbandonarci all’euforia di robuste speranze e vigilie di certezze. Le parole di Luca Cafagna (il giovane che sfidò La Russa ad “Annozero”) sono incisive: “Adesso il governo apra un confronto con noi, perché non è possibile chiudersi sempre dentro le zone rosse e blindarsi nei palazzi”. Ma non possiamo dargli più che un augurio sentito (quanto dubbioso verso l’Interlocutore).
Pasquale Licciardello



mercoledì 24 novembre 2010

STATO INFETTO E DEMOCRAZIE BACATE

Che la storia d’Italia sia piena di misteri è, da tempo, un luogo comune onorato da ogni ricerca storica degna del nome. Che ognuno di questi misteri sia un covone di crimini è ovvia constatazione della ricerca e della pubblica opinione attenta ai fasti e nefasti del mondo. Dello stesso grado di veridicità è l’induzione di una presenza attiva dello Stato (nel senso di certi uomini di qualche sua struttura) in alcune delle trame criminali sfociate nel delitto. Né è meno ovvio che la ricerca della verità non sia gradita da gran parte delle classi dirigenti: uomini di governo, responsabili delle istituzioni strutturali, figure degli apparati di sicurezza socio-politica, servizi segreti e complementi vari dell’autodifesa statale. Ma neanche eminenze della vita economico-finanziaria gradiscono l’“accanimento” nella ricerca della verità, venendo a spalleggiare, così, gli avversari politici delle verità pudende, e tutti gli altri che, in argomento, hanno la proverbiale coda di paglia.
I misteri d’Italia hanno radici e proliferazioni lunghe e frondose: inevitabile, dunque, che se ne restringa l’ambito di riferimento. Per esempio, cominciando dall’immediato dopoguerra della seconda ecatombe infernale. Tra gli anni ’44-47 una serie di omicidi misteriosi eliminarono una folta quantità di sindacalisti e militanti dei partiti socialista e comunista. Il culmine plurale di questa vera e propria strategia del terrore si ebbe nel tragico 1° maggio del 1947 con la strage di Portella della ginestra: uomini, donne e bambini attratti in quella spianata da pacifici comizi celebrativi della ritrovata festa del lavoro vennero falciati da raffiche di mitra provenienti dalle colline circostanti. Ebbene, non esiste ancora oggi una versione ufficialmente acquisita e riconosciuta di quei crimini. Ricerche di studiosi indipendenti hanno raccolto elementi bastevoli a formulare una versione convincente di quei tragici fatti: in quegli anni torbidi d’incertezze politiche un imperativo dominava le apprensioni degli Stati Uniti: impedire che il risveglio socio-politico delle forze popolari portasse l’Italia, e quindi la sua grossa porzione insulare, la Sicilia, nell’area del comunismo sovietico. Indi, terrore e stragi a gogò. Il tutto, ovviamente, in nome della “bella, immortal, benefica fede” democratica. E vaticana. Basti un solo titolo tra i non molti che hanno fatto luce su quelle infamie: Giuseppe Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della ginestra, Tascabili Bompiani, 2005. La vasta documentazione di prima mano, in gran parte nuova, e la congeniale Introduzione di Nicola Tranfaglia (dal titolo incisivamente allusivo: Anatomia di una strage con molti colpevoli), garantiscono ulteriormente la sostanziale autorevolezza della meritoria fatica.
Naturalmente, anche la vicenda del Bandito Giuliano rientra in questa logica criminalmente realpolitica. Se ne sta riparlando in questi giorni, e i media assolvono festosamente il loro compito. E’ venuta fuori perfino l’ipotesi di riesumare i resti del bandito-fantoccio per controllarne l’identità: sì, si dubita anche della “autenticità” del cadavere. E i familiari sono in fermento. Giuliano fu un facile strumento nelle mani delle stesse forze eversive, italiane e straniere, che lavoravano con le stragi terroristiche: residuati fascisti, di Salò e della diaspora post-Salò, tutti protetti da certi ufficiali americani impegnati (con discrezione, si capisce, ma una discrezione piena di buchi) nell’impresa storica di arginare, respingere prevenire il dilagare della “peste comunista”. E, con Giuliano, il cugino Pisciotta, al quale si attribuì il tradimento omicida del bandito, che consentì alle forze dell’ordine di sorprendere e uccidere in uno scontro il “terrore di Montelepre”: insomma, una bella storia, ma tutta inventata. Tranne i morti ammazzati: con proditorio attacco militare, come Giuliano (o il suo “pupo” sostitutivo), o col silente caffè al cianuro (come Pisciotta).
Il torbidume al sangue innocente dei fatti appena richiamati, si ritrova anche negli eventi più freschi (ma pur sempre “maggiorenni”, se hanno raggiunto i 18 anni!), come le stragi di Capaci e Via D’Amelio, cioè (sia detto per i giovani poco informati) l’eliminazione dei giudici antimafia Giovanni Falcone (23. 05.’92) e Paolo Borsellino (19. 07. ’92), con inclusi gli uomini delle scorte (e la moglie di Falcone). Nessuna verità piena e solare, nei due casi. Né, tantomeno, sugli attentati, anch’essi stragisti, di Firenze, coda dell’estate ’92 e seguito targato 1993, più quelli, contemporanei, ma, casualmente incruenti, di Roma e Milano.
Anche per questi crimini, indizi, rivelazioni di pentiti (Spatuzza e altri), testimonianze orali e documentali di Massimo Ciancimino stanno svelando verità pudende sugli accordi Stato-Mafia e conseguenti complicità di alti ufficiali dei carabinieri e di agenti segreti con Cosa nostra. Massimo è figlio di don Vito Ciancimino, famigerato sindaco mafioso di Palermo eroe nero della sua cementificazione selvaggia (il cosiddetto “sacco di Palermo”), amico e complice “strutturato” dei capimafia, prima dei Bontate e soci, poi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Il rampollo Ciancimino era messo al corrente dei movimenti paterni dal genitore in persona, e perciò possiede documenti probanti (il famoso “papello”, tra l’altro), ha mostrato di non aspettarsi vantaggi dalle sue rivelazioni, eppure la professionale cautela dei giudici (Ingroia in testa) nel valutare le rivelazioni di Massimo e dei pentiti viene amplificata e storpiata dal coro arcoriano, compatto nel lanciare calunniose offese ai collaboratori di giustizia. E, implicitamente, taciti “consigli” agli inquirenti. I pentiti e Massimo sono tutti bugiardi, c’è dietro di loro un comitato mafioso con un preciso piano diffamatorio puntato contro la cristallina lealtà di galantuomini onestamente inseriti nelle istituzioni democratiche. Se si chiede quali sarebbero questi specchiati campioni di coerenza morale e squisitezza democratica saltano fuori, prima i nomi del senatore Dell’Utri, del colonnello (oggi generale) Mori, dell’ex ministro (ed ex vice presidente del Csm) Mancino, più quelli di alcune figure minori di recente acquisizione nel gota delle eccellenze. E perfino il riverito nome dello “stalliere” Vittorio Mangano, “guardiano” delle innocenti stalle di Arcore definito dal senatore “un vero eroe”. Come si presentano questi signori alla pubblica opinione e alla solerzia inquisitrice dei magistrati? Dell’Utri è stato già condannato due volte (primo grado e appello) come mafioso, Mori ha negato e nega ogni responsabilità criminale, Mancino si dice altrettanto pulito e ignaro di trattative Stato-mafia. E così via per altre figure di minore spicco. Ma dietro questi nomi sta qualcuno e qualcosa di ben più grosso e sconvolgente: stanno l’immacolato testimone di ogni verità onestà capacità manageriale e politica, insomma il Cavaliere par excellence, don Silvio Berlusconi. Uomo della provvidenza, anche lui come il Duce, ma più e meglio di quello, finito male, secondo i suoi lecchini; nonché manager incomparabile, generoso elargitore di premi ai volenterosi (complici coscienti e ignari adoratori), premier–coraggio dalle mille risorse, e via intronando (per tacere delle escort, delle feste più o meno drogate, delle minorenni ispiratrici di “protezioni” costose). Ma dire Berlusconi significa illuminare la nascita, non solo di un vasto impero economico imprenditoriale, ma addirittura della cosiddetta Seconda Repubblica, con i suoi luccichii e le sue ombre. In sintesi, la tesi circolante fra pentiti e magistrati pur cautelosi, intellettuali non inquadrati nei reparti certosini, osservatori sensibili che fanno “due più due dà quattro”, studiosi che incollano al giusto posto i vari tasselli del puzzle, è questa: lo Stato ha trattato con i capi mafia Riina e Provenzano, ne ha accettato le condizioni offerte per la cessazione delle stragi, Dell’Utri, mediatore delle trattative, ha svuotato nelle casse del Cavaliere una barca di soldi, così da finanziargli la “discesa in campo” e il relativo successo politico. Dal quale nasce la Seconda Repubblica e le sue implicazioni malamente rinnovatrici che abbiamo potuto ammirare negli ultimi tre lustri. Tutto questo è venuto ufficialmente fuori nella motivazione della sentenza d’appello contro il Senatore, uscita in questi giorni. E subito commentata dai media, “rigettata” dagli amici, respinta dal Bersaglio. Il quale si sta sbracciando a negare le evidenze registrate in quel documento concedendo interviste a destra e a manca. La sintesi del suo “pensiero” è in questo giudizio che dovrebbe mostrare la “illogicità” della sentenza: “La sentenza è illogica” perché la sospettata alleanza fra Dell’Utri e i capi mafia non sarebbe stata sfruttata a pieno dal terzo polo dell’intreccio, cioè Berlusconi. Illazione che non sfiorò neppure i giudici quando scrissero questa “motivazione”: Dell’Utri “ha svolto, ricorrendo all’amico Gaetano Cinà e alle sue “autorevoli” conoscenze e parentele, un’attività di mediazione quale canale di collegamento tra l’associazione mafiosa, in persona del suo più influente esponente dell’epoca, Stefano Bontate, e Silvio Berlusconi, così apportando un consapevole rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale ha procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata da una delle più affermate realtà imprenditoriali di quel periodo, divenuta nel volgere di pochi anni un vero e proprio impero finanziario ed economico”. Finita l’epoca dei Bontate, Teresi eccetera, tocca ai nuovi boss presentarsi all’incasso presso l’imprenditore fortunato. Ancora la motivazione giudiziaria con altre piccanti rivelazioni: “fin dalla metà degli anni Ottanta, Riina, oltre al preminente interesse economico di carattere estorsivo, intendeva agganciare l’imprenditore Silvio Berlusconi per giungere fino all’onorevole Bettino Craxi, uno degli uomini politici italiani più influenti e rappresentativi del tempo, essendo a tutti nota l’amicizia che legava i due” (riportiamo dal Corsera del 20 novembre). Per Dell’Utri questa valanga di accuse, puntuali e circostanziate, sono soltanto fantasie di menti malate, meglio connotabili con linguaggio spiccio e sprezzante: “Le debbo ripetere [dice all’intervistatore] che sono ‘minchiate’? Dobbiamo sentire echeggiare sempre le stesse infamie? Ci rendiamo conto che stiamo parlando di cose vecchie di trentasei anni? Uno come fa a difendersi da accuse ricostruite dopo una vita?”
Dei molti commenti dei berlusconiani alla sentenza (7 anni di carcere), il più dei quali prevedibilmente cretini per eccesso di cecità obbligata, non vale la pena di parlare. Salvo, forse, per il “dolore” di Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, che sospira questa dichiarazione proiettata su un destino storico aere perennius: “E’ una sentenza ingiusta che ci addolora, speriamo che la Cassazione sia più coraggiosa”. Sperare non è proibito. Al più, può essere spudorato. Ed entrare in una consuetudine ferrigna in quel di Arcore. E poi, chissà?, si vocifera che in Cassazione siedano anche frammassoni: saranno impermeabili alle insinuazioni amicali? (si staranno chiedendo in quel di arcorlandia.
Fra i commenti delle opposizioni (prevedibili al dettaglio), ricordiamo soltanto l’appello di Di Pietro: “Adesso che anche le sentenze parlano di rapporti ravvicinati fra mafia a premier, speriamo che si trovino 316 parlamentari che lo sfiducino”. Ahimè, non sentiamo salire altro che un sospiro scettico dal fondo delle nostre cumulate delusioni storiche: “campa cavallo!”
Quanto all’olocausto che ha tolto di mezzo due ostacoli tosti al successo del progetto, cioè Falcone e Borsellino, molti indizi già da tempo indicano nei Servizi segreti cosiddetti deviati i pupari zannuti della soluzione tragica. Eccone qualcuno. Falcone non spargeva ai quattro venti giorno ora percorso dei suoi spostamenti, e negli ultimi tempi li cambiava all’ultimo momento. Come fecero, i suoi assassini, a conoscerli? Stessa domanda, ed altre, per Borsellino, con la risposta che sembra collocarsi nel castello di monte Pellegrino, da cui si poteva controllare parte di via D’Amelio e relativa piazzetta. Di più: l’esplosivo usato per imbottirne la Cinquecento esplosa era in dotazione soltanto alle forze militari. Infine, il mistero della borsa scomparsa con dentro la famosa agenda rossa, rifugio degli appunti sensibili del giudice. Quell’agenda, vista in mano a un militare nel momento della perquisizione della macchina sventrata, sventola, in riproduzione e metafora, ad ogni annuale manifestazione pro veritate, che vede in campo il fratello di Paolo, la sorella e altri familiari, nonché le persone sensibili alla giustizia e al rispetto della vita umana.
Indizi, ricostruzioni problematiche, sospetti, e quant’altro converge con la comoda cautela del Giure (troppo onorato nei fatti procedurali, ma tradito nella sostanza reale che gronda sangue innocente), non permettono, ancora oggi, di sigillare con la parola risolutiva vicende criminali sconvolgenti per la storia umana del nostro Paese. Di tanto in tanto qualche voce si alza a chiedere verità, i giornali se ne occupano (recentemente è stato Veltroni a chiederla, a voce alta) ma presto la voce si spegne e la risposta non arriva. E c’è da temere che non arriverà mai: troppi nomi di peso vi sono implicati, troppe relazioni pubbliche e istituzionali vi sono coinvolte. E forse (magari senza forse) molte conseguenze pesanti ne scapperebbero fuori. Non è del tutto escludibile che vi siano coinvolte perfino potenze straniere. Come nel caso Moro, sacrificato cinicamente ad una torma di menzogne gestite dall’esterno, con in mezzo un oceano continentale e un fiume casalingo, ma che separa due Stati. Si tirò in ballo, come alibi, l’inviolabilità dello Stato, lo stesso Bene sacro che si era tradito decine di volte. Questo mitico Stato non poteva trattare con dei terroristi! E dunque si fa luce sulla posizione vaticana rutilante nelle dichiarazioni di un alto prelato: “E’ meglio che muoia un uomo solo piuttosto che crolli lo Stato”. Era la risposta saettata in faccia a tre presuli che si offrivano come ostaggi alle Br per salvare Moro, ed erano già entrati in contatto con quei terroristi tragicamente illusi. Ingenuamente, chiedevano il permesso ufficiale al loro gesto generoso. Ma quel grande capo suonò il no perentorio che troncava ogni discussione. E spiega anche perché papa Paolo VI fu costretto a chiedere la liberazione del prigioniero “senza condizioni”: cioè nella sola maniera inaccettabile per quei sognatori che inseguivano il riconoscimento di “forza politica” dallo sputtanatissimo Stato italiano. Risuonano ancora le dolenti parole del Prigioniero: “Anche il papa ha fatto pochino”.

Pasquale Licciardello


venerdì 12 novembre 2010

THE ONLY FLAG DEL CAVALIERE

Il libro di Bruno Vespa fa bella mostra di sé in uno degli scaffali del reparto libri e cartoleria di un supermercato: Nel segno del Cavaliere. Ne emana un interrogativo: quale sarà questo segno per Vespa? La presentazione web assegna all’autore il merito di “un’angolazione tanto paradossale quanto inedita” nel rivisitare “la storia italiana degli ultimi diciassette anni”. La meraviglia consisterebbe nell’aver seguito “da vicino il percorso privato e pubblico di Berlusconi, con le sue luci e le sue ombre” come l’unico modo per capire “perché quest’uomo – dato per politicamente finito ogni volta che ha perso le elezioni – è sempre riuscito a risorgere, condizionando la politica italiana anche negli otto anni trascorsi all’opposizione”. Il segno ipotizzato da Vespa dentro quel perché non lo illumina abbastanza. E non solo per le ombre troppo pallide. Berlusconi è un Proteo, un “animale” sfuggente per le classificazioni sbrigative: i suoi tanti aspetti rendono impervio il cammino verso una semplificazione dogmatica. Magnate, politico, barzellettiere, Epicuri de grege porcum (a dirla con Orazio), sciupafemmine, maniaco delle minorenni, imbroglione..: sono tutti lati del suo poliedro psicofisico, ma nessuno appare decisamente prevalente fino a poterlo caratterizzare in toto. Non solo: ciascuno degli epiteti tende a ramificarsi. Diciamo magnate? Certo, lo è, ma in estensione plurale: magnate dell’edilizia (“Milano 2”, “Milano 3”...), magnate delle televisioni (non solo le sue 3 reti, anche pezzi di altre), dell’editoria cartacea e telematica, delle librerie, della pubblicità, delle agenzie di produzione programmi, e via ramificando. Politico? Come no. Ma di quel genere particolare che ha (avuto) pochi e minori precedenti rispetto all’ibridata versatilità berlusconiana. Ed è anche una cosa ovvia: un tipo che ama le donne e la bella vita e le facezie e si porta dentro queste qualità anche nel mestiere più difficile, appunto la politica, non è certo un unicum, (basta pensare ai fratelli Kannedy), ma non sono folla. Certo l’Europa non ha mai avuto un premier simile al nostro. Che dico! neanche lontanamente comparabile.
Eppure ci dev’essere, nel suo dna, un gene che sovrasti tutti gli altri. Leggendo quel geniale e ponderoso thriller di un autore proteiforme (ma ben diversamente dal Cavaliere) qual è Giorgio Faletti, dall’eccitante titolo Io sono Dio ci imbattiamo in un motto evidenziato: The only flag. Si tratta del motto che i pirati stampano sul loro vessillo, e significa, letteralmente, “La sola bandiera”, nel senso che sarebbe l’unica eccellente, il migliore emblema (della virilità, della forza, eccetera). Ed ecco che mi si accende la lampadina che nei fumetti indica “idea”, botta di mente: potremmo indicare una only flat berlusconiana? L’associazione fisiologica implicita non concede titubanze: non solo possiamo, ma tocchiamo il massimo consentito nella caratterizzazione del personaggio. Non è una specie di pirata? non si sente come il migliore degli uomini estroversi e versatili (affari, politica, galanteria...)? Ecco, dunque, una chiave abbastanza incisiva e duttile per interpretare la complessità “silvestre”. Don Silvio è quel mucchio di “cose” che è in quanto in ciascuna stampa il marchio di fabbrica della vocazione piratesca.
Genetisti di valore, non afflitti, cioè, da tare idealistiche e residui spiritualistici, ripetono che il nostro destino è scritto nelle triplette biochimiche delle doppie eliche cromosomiche. Non che vi siano inscritte le vicende “esterne”o determinate le scelte professionali, ma il modo di reagire e di agire in qualunque scelta, e una certa restrizione nelle scelte, sì. In questo senso Berlusconi è un pirata. Del resto, è tutta la sua vita pubblica che lo prova: abbiamo scritto della sua insofferenza verso le regole, dunque verso leggi e regolamenti, restrizioni e costituzioni e relativi custodi (magistratura, eminenze costituzionali, assemblee e corpi politici o religiosi, ecc.). La prima prova della fisiologia piratesca è la storica amicizia con Dell’Utri, uomo-mistero, ma con due chiare condanne per mafia, primo grado e appello. Potrebbe risultare innocente dopo l’atteso transito in Cassazione? E sta bene, ma intanto il senatore lascia tracce che possono orientare nel senso peggiore: per esempio, l’elogio al finto (e defunto) stalliere di Arcore, Mangano, da lui definito “un eroe”, mentre era da tempo schedato come mafioso. Don Silvio rispose con entusiasmo all’invito dellutresco di darsi alla politica. E nacque la c.d. Seconda Repubblica, copertura finanziaria più che generosa, terreno sgombrato da molesti ostacoli umani: tale è la versione, alquanto plausibile, di alcuni pentiti e di Massimo Ciancimino.
Le ultime vicende nella biografia del premier, come ogni suo gesto anteriore, sono improntate alla tecnica del pirata: arraffare e sparare fendenti di menzogne, imbrogli, finte e controfinte, depistaggi, invenzioni funzionali al proprio interesse, telefonate fatte e negate, o “travisate”. Vediamolo alle prese con lo scandalo scoppiato dall’arresto per furto dell’affascinante marocchina Ruby: l’intervento del premier vitellone è subito caratterizzato dalle bufale: la parentela con Mubarak affibbiata alla minorenne ragazzotta, l’ennesima delle sue “protette” (ce ne saranno altre, per ora nascoste?). La vicenda, tuttora in pieno svolgimento, ha dato la stura a rivelazioni e amplificazioni su nuovi soggetti del gentil sesso implicati, che coinvolgono amici, “domestici” politici e televisivi, ministri. La prima cosa che salta agli occhi è la diffusione della menzogna “ambientale”, anzi il mentire progressivo, una ciliegina tira l’altra. Mubarak zio, l’affido alla sua “dipendente”, Nicole Minetti (una delle “gallinelle” messe in lista dal supergallo), la balla delle “case di accoglienza” senza posto per la ragazza. E via tacendo. Ma la più bella balla, la madre delle altre, è quella del suo buoncuore che lo porta ad aiutare chiunque gli si rivolga per bisogno. E non perché di aiutare non sia capace, anzi: la balla nasce quando la generosità pelosa viene drappeggiata da altruismo disinteressato. Nel caso, a botte di 5000 euro per volta. Più regali in oggetti costosi. Come i cerchi di un sasso nello stagno, l’affaire dilaga e coinvolge sempre più persone: altre donne, escort in vena di pubbliche rivelazioni, smentite di ministri coinvolti, di giornalisti gratificati dal Paperon pagante, come Emilio Fede, primatista del lecchismo certosino, o il nano Brunetta, già aspirante moralizzatore e castiga-sfaticati. Tutti negano, ovvio: nessuno ammette di avere toccato escort e minorenni al di là di una innocente stretta di mano o di casti bacetti su innocenti guance e casta fronte.
E’ il caso di aggiungere che gli uomini del suo entourage di bugie e barzellette ne sparano non meno, e non certo meno esilaranti delle originali certosine? Prendiamo il cardinalizio Bondi, che, replicando al solito recital parolaio di Galli della Loggia (Il coraggio della verità, Corsera 1°. nov.), che parlava di verità al Pirata come a un uomo normale, prevede-minaccia il caos in un eventuale vuoto arcoriano. E bolla il Corriere come afflitto dalla fissa del delenda Cartago, posto che la Cartagine metaforica sia il governo in atto e il partito che vi sta appollaiato sopra. Il bravuomo esamina la situazione italiana, constata l’insignificanza della sinistra e l’impotenza di ogni altra bottega politica, e predica: “Berlusconi altro non è che la vittima del male profondo che attanaglia questo Paese, quel male che, dalla politica alla cultura, dall’informazione alla giustizia, mortifica e si oppone ad ogni serio progetto di rinnovamento”. In coda a questo acuto da pulpito veggente il cardinaloide gorgheggia l’elegia del dolore personale per tanto sfacelo: “Vivo con angoscia questi giorni, non solo per l’ennesima campagna scandalistica e giudiziaria contro un uomo da sedici anni sotto un attacco disumano e senza precedenti in una democrazia occidentale, ma anche per le conseguenze che ne potrebbero derivare.” Al languore elegiaco Bondi oppone, seguitando, un piglio savonaroliano incollato alla previsione di quelle “conseguenze” e comicamente ottimista sul valore assoluto del suo Côté politique: “Sono convinto infatti che solo il Pdl di Berlusconi e la Lega di Bossi possono guidare oggi l’Italia attraverso i marosi dell’attuale crisi e garantire una politica di modernizzazione. E so per certo che non vi è un’alternativa a questa politica e a questo governo. L’unica alternativa è il caos e il ritorno alla palude della vecchia politica, che porterebbe rapidamente l’Italia verso il baratro e la rinuncia definitiva al cambiamento”.
Abbiamo appena letto uno sproloquio farcito di rinsecchite parolette rimodellate in neologismi magici: vecchia politica, cambiamento, rinnovamento, e via suonando. Sono tre lustri che le ripetono, non tanto il Pirata quanto i suoi ministri e faccendieri. Che sono, la loro parte, ingenui e fideistici, ma non quanto testimonia il candore abbaziale del Bondi: forse l’unico a soffrire del presente andazzo, e anche se non ha la forza di vedere, prima, e poi di rinfacciare al suo patron la realtà e consigliarlo per il meglio (o il meno peggio) possiede almeno l’attenuante del candore da Novellino. Cosa che non si può dire di un Cicchitto, un Lupi, un Buonaiuti, e via elencando, con un occhio di riguardo alle ministre e altre figure femminili del seguito, non meno del Bondi penetrabili dagli slogans di battaglia e dalle sonorità “metafisiche” del soprastante modello: cambiamento, rinnovamento, riforme, e simili, senza contenuti caratterizzanti, stonano come distrofie neuronali. Risultati: sacralizzazione della parola e caos semantico. Il cambiamento può svolgersi nei due sensi opposti: positivo e negativo. E quello che abbiamo visto gattonare finora è del secondo tipo. Ma i berluscones non amano i dilemmi e vedono un solo colore: l’azzurro del successo. Che. se non è ancora completo, è per colpa della satanica sinistra e dei suoi complici, evangelicamente ignari di quel che che fanno.
Non c’è traccia di candore, invece, nel ghigno osceno di Ghedini-zombi quando spara questa meraviglia di puttanata: “Continua un’incredibile strumentalizzazione di una banale telefonata quando i fatti sono ormai ampiamente chiariti. Di una vicenda assolutamente priva di ogni connotazione negativa si sta tentando di creare un caso mediatico e, per alcuni, addirittura giudiziario”. Ghedini teme che il Pirata possa ricevere il trattamento riservato a Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti, “l’igienista dentale” del premier ed ex ballerina Tv, eletta, per volere di Silvio, alle regionali lombarde (lista di Formigoni il politico di Dio, indi uomo di tutte le castità ), indagati per favoreggiamento della prostituzione e abuso di minori. Perciò s’illude che, abbaiando, qualcuno del “complotto” si spaventi: “Sarebbe davvero gravissimo, anche se contro il presidente Berlusconi ormai si è assistito nel corso degli anni alle più assurde fantasie, che qualcuno potesse costruire artificiosamente ipotesi di reato così come suggerito da certa stampa, su un comportamento che non può che essere valutato come caratterizzato da contenuti assolutamente positivi”. Tirando il respiro, dopo questo tour de force addosso a quella congesta prosetta prolissamente notarile e di sgradevole sonorità, cosa si può immaginare di più cretino in una simile sortita adulatorio-difensiva? Inchieste ancora in corso, convergenze di confessioni plurali ed esibizioni di figure in ballo, e questo signor-ciarla pompato dai milioni del padrone fa il galletto minacciante. E se questa spocchia rallegrava cronisti al fronte e lettori piccati di ieri, 2 novembre, gli stessi, oggi 3, godono del previsto rilancio del Rinaldo in campo: infatti, i giornali odierni recano la notizia che assolve Berlusconi dal sospetto affidamento illegale della ragazza. Che altro aspettarsi se non titoli come questo del Corsera? La procura di Milano: l’affido di Ruby fu regolare. Il Pdl: la bolla si sgonfia. Se la sfera Pdl gongola, dentro il suo volume Ghedini tripudia...Invano questi titoli dettagliano così: “Fase finale ‘corretta’, al vaglio le presunte pressioni” (occhiello del Corsera). Quel vaglio non disturba l’euforia del canile latrante di frettolosa gioia. Né il Cavaliere si muove per frenare tanta agitazione prematura. Anzi, rilancia e la spinge all’isterismo sensuale sparando una delle sue provocazioni ad alta risonanza: mi fate una colpa del mio debole per le belle donne? Ed io me ne vanto coram populo e pimento il vanto con uno sberleffo alle checche (questa parolina gentile non l’ha pronunciata, in verità, ma giureremmo che quel gay spolverato al suo posto ne era la maschera pubblica). Ecco il cocktail nel titolone del Corsera lungo quanto larga l’intera pagina 10 così dedicata: “Primo piano. Centrodestra Il premier”, al fianco, un pensierino severo di Paola Concia, del Pd: “Nessun politico europeo pensa, né si permetterebbe mai, di fare una battuta così spregevole nei confronti degli omosessuali.” Così il coro delle proteste viene gonfiato sempre più e il Berlù se la ride di gusto, in cuor suo spregiando tanta ipocrisia (che altro potrebbe essere per lui, questa pruderie?). Ma volgiamoci al testo dell’articolo, dove le parole testuali del mandrillo sono queste: “Meglio essere appassionati di belle ragazze che essere gay”. Tiè. Il cronista assicura: “Frase che ha costretto le agenzie di stampa a un superlavoro per la valanga di reazioni che ha provocato”. La sortita (alla Fiera di Milano) è parte di una strategia difensiva che mescola la battuta provocatoria al collaudato “numero” del processo a chi lo processa: magistratura, stampa, format televisivi ostili. Lui svampa di pubblico sdegno, ma se la gode: questa duplicità reattiva non entra nelle “coscienze” dei suoi detrattori, né in quelle dei consiglieri. E’, la sua, una pulsione genetica, cui non si resiste. Questa sua reiterazione di marachelle sessuali (o di innocue galanterie con signore istituzionali straniere) lo diverte, per così dire, a ventaglio: per il giochino in sé e per le reazioni moralesche che suscita intorno a sé. Capita anche a persone di specchiata correttezza sociale e severa morale di avvertire un moto di simpatia goliardica per questo scavezzacollo impunito e incorreggibile. Quella sua faccia tosta riesce a farsi perdonare per la sua stessa reiterata spavalderia. Una non risibile parte dell’itala gente dalle molte vite ama questo rodomonte dell’inganno e del successo economico. E non è un caso la presenza di molti personaggi del bel sesso tra i suoi collaboratori: dalle ministre alle... vivandiere. Il Bucaniere ama confessarsi in pubblico, a tal punto che soffre se deve proprio frenarsi: sa che a molti piace e che certo non dispiace alle belle donne, affascinate, se non dal suo fisico, dai suoi miliardi, segno del savoir faire che conta. Ecco un’altra pubblica confessione (questa, “allocata” a Bruxelles): “Amo la vita, amo le donne. Faccio una vita con sforzi disumani. Se ogni tanto sento il bisogno di una serata distensiva, nessuno mi potrà far cambiare il mio stile di vita, di cui sono orgoglioso.”.
Dinanzi a tanta saldezza di coerenza fra dire e fare, i suoi detrattori hanno la vita difficile. Come quel pupazzone di plastica di qualche decennio fa, don Silvio puoi piegarlo a terra per qualche secondo, ma appena lo molli ritorna dritto: si chiamava “Ercolino sempre in piedi”. Si dirà: allora non c’è niente da fare? Bisogna rassegnarsi all’attesa della sua scomparsa materiale? Ricordate quella battuta di un celebre film con il mitico Bogarth: “E’ la stampa, bellezza! E tu non puoi farci nulla.” Così è del bucaniere Berlù. Poi, diciamocela tutta: che specie di oppositori ci ritroviamo? gente pallida: di pensiero, di programma, di oratoria (assente). L’unico oppositore tosto e coerente è Di Pietro, ed è “fuggito” come la peste da certa dirigenza così detta di centrosinistra (per tacere dell’incensato Centro!). C’è anche Grillo, è vero, ma anche lui, utile e convincente, non attrae abbastanza la “gente seria”. Il duo Tonino-Beppe è troppo emotivo, sciamannato, urlante per i notai ragionatori dell’opposizione “assimilata”. Né il meno piccolo dei partiti oppositori è coeso e compatto: al contrario, linee di frattura potenziale continuano a renderne precaria la consistenza-resistenza. Per esempio, quella coabitazione fra cattolici vaticanofili e laici timidi: come può saldarsi in compatta omogeneità programmatica? Conosciamo l’obbiezione: se perdiamo i cattolici, cosa ci resta? A dirla ottimistica, mezzo partito. Risposta: meglio mezzo compatto che un intero frastagliato. Lo stesso vale per certi giovanotti sensibili alle casinerie: meglio perderli che trovarli (anche se hanno cognomi famosi!).
Tornando al Bucaniere. Dilettiamoci ancora un po’ alle castronerie dei seguaci e dei critici sprovveduti o di lui peggiori. Cicchitto, precedenza assoluta: Donde la sicurezza che ostenta sulla sorte del governo? E Perché non accettare un appoggio esterno dal Fli? Naturalmente, assolve il premier delle sue marachelle. Distinguere tra amare le donne e frequentare minorenni? E’ una parola. Meglio scivolare, sorvolare, stendere un pietoso silenzio sulla ragazzotta piacente da 5000 euro ad incontro (paterno, dice Cicchitto, pura opera di beneficenza, come sostiene il principale). Alle cicchitterie Adolfo Urso [Fli] risponde: “La battuta sui gay è da osteria, come Italia abbiamo fatto una pessima figura a livello internazionale”. Forse. Ma Silvio risponderebbe: state facendo un casino di una battuta scherzosamente provocatoria. Vi mancano argomenti più di peso? Julianne Moore: “Ha detto davvero così? Mi sembra un giudizio arcaico, idiota, infelice, imbarazzante”. Dall’interprete di un film su una relazione lesbica che altro aspettarsi?
Alfonso Signorini, direttore del settimanale Chi, gay dichiarato: “Sono sicuro che è stata una boutade, ma molto infelice e quand’è così si dice.” Prende le distanze, ma non diserta: “Sono sempre dalla sua parte e lo sostengo. Abbiamo parlato più volte di omosessualità e non l’ho mai trovato prevenuto. Io stesso ne sono la prova acclarata, visto che dirigo due corazzate Mondadori come Chi e Sorrisi e canzoni”. La reazione più tranchant la dobbiamo alla bocca larga della Santanché: di cosa vi scandalizzate, razza di bacchettoni? Tutti (sottinteso, i maschi) la pensano così, anche se non hanno il coraggio di dirlo. E il botto reattivo non si fece aspettare. Però per una volta quella bocca merita plauso e non l’auspicata transferta in più gai (gai, non gay!) impegni. Ma stop a quello che ormai è più gossip che dramma.
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Al momento di licenziare questo articolo un Evento (la maiuscola non è uno scivolo di tasto) ci ferma: il trionfo (non è un lapsus calami) di Fini alla prima convention di Fli a Bastia Umbra (Perugia): un Fini inatteso, che dà l’ultimatum a Berlusconi: vattene! Questa la sostanza dura e pura dell’exploit oratorio finiano. Le parole che la contengono sono meno drastiche, ma hanno un retrogusto ambiguo, non privo di un’infiltrazioncella ironica. Eccole: “Berlusconi deve mostrare coraggio (sic!), dare un colpo d’ala: rassegni le dimissioni e avvii la discussione per una nuova agenda e un nuovo programma”. Insomma, un nuovo governo. Con gli stessi alleati, se ci stanno, ma anche con l’Udc. Un tuono di applausi dal popolo del nuovo partito, giovani in prevalenza. Ma nessuno in fronzoli nostalgici. Ce ne occuperemo, forse, a situazione maturata. Per ora registriamo la replica indiretta del Pirata in veste di San Tommaso: se non vedo (e tocco) non credo. In chiaro: “Mi sfiduci in Parlamento, se vorrà assumersi la responsabilità”. Il trono trema: Berlusconi confida di non aver perduto ancora la maggioranza alla Camera, ma le certezze hanno messo le ali e tendono a volare lontano. Il quadro politico è in piena fermentazione, mentre il contenzioso cumulato dal Pirata con i suoi azzardi vitelloneschi (e non soltanto) è tutt’altro che esaurito.
La faccenda Ruby non è chiusa, né in senso politico né in quello giudiziario. Altre rivelazioni confessioni e indagini hanno allargato il perimetro del pluralissimo caso. C’è di mezzo il favoreggiamento della prostituzione, l’abuso di minore e via celebrando. E c’è, sopratutto, il gruzzolo di critiche e di conseguenti richieste messe in conto dal lungo discorso di Fini: non si governa senza legalità, l’Italia non merita i casi Ruby e meno ancora che i suoi tesori archeologici crollino e si polverizzino da soli (casa dei gladiatori, a Pompei), che il suo territorio si sfasci sotto la furia di Giove pluvio o sopra la silenziosa pestificazione dei rifiuti tossici ammucchiati e sepolti a milioni di tonnellate senza un adeguato trattamento innocuizzante. Non merita neppure le brutte figure che la leggerezza istrionica del premiser le ha procurato all’estero. 

venerdì 29 ottobre 2010

SERIETA’ DEI CASINI

Casini, come ognuno sa, è sostantivo di nobile tradizione: così erano chiamate, con spiccia sobrietà, le gloriose “Case di tolleranza”, cioè quelle dimore estrose che curavano (è il caso di dire) le primizie sessuali dei giovani maschi (la specificazione aggettivale non sorprenderà il lettore accorto, con i tempi che corrono!). Vi sostavano le “signorine” offerte al nobile compito di quella iniziazione e del suo immancabile seguito biografico. A guidare la Casa era una signora proprietaria dei locali (o anche soltanto affittuaria ben pagante). Le signorine, invece, ruotavano: c’era la famosa “quindicina”, ossia la permanenza media delle officianti nello stesso “sito”: 15 giorni. E quando arrivavano le bolognesi si scatenava un piccolo tripudio nella tribù degli aficionados: avevano fama, quelle fitting and fizzy girls, di eccezionale bravura in certa cinetica della caverna facciale (vulgo, cavo orale).
Ma Casini è anche il nome di un nostro politico di gradevole aspetto, ma afflitto da un morbo contagioso: il presenzialismo loquace. Tanta passione lo vede protagonista di puntuali commenti ai fatti politici del Paese. In tali exploits il Nostro usa spesso la parola “serietà” e i suoi derivati: serio, seria,... L’avverbio “spesso” significa che in una sola intervista ti può condannare a leggere quel “composto” magari dieci volte. Prendiamo quella riportata dal Corsera del 18 ottobre, che tuona al centro della prima pagina con un titolone perentorio: Casini: mai con questo Pd, il cui “occhiello” spiega: “Parla il leader Udc dopo i cortei della Fiom”. “Se seguono la piazza, alleanza impossibile”. L’incipit del servizio suona ancora parole del Casini: “Se l’idea dell’opposizione è quella di creare un’alternativa partendo da piazza San Giovanni, allora siamo fritti. L’Udc non si allea con il Pd se queste sono le loro posizioni”. Avere avuto militanti al seguito della grande sfilata della Fiom (la sezione metalmeccanici della Cgil) che ha riempito la famosa piazza non è stata una cosa seria, per Casini. E lui con le persone frivole non tratta. Ed ecco la prima entrata in scena della paroletta seduttiva (mal servita, tra l’altro, da una scarica di “che” pronome relativo) intenta a frugare nei due schieramenti avversari alla pesca della serietà: “Il Paese si rilancia mettendo insieme a governare le persone serie che nel Pd sanno che seguendo le piazze non si va da nessuna parte, e persone serie del Pdl che non ne possono più di dover sottostare ad un patto in cui è la Lega che dà le carte”. A pg. il seguito dell’intervista premia l’aggettivo magico dentro un titolone a pagina intera e virgolettato: “Appello ai moderati dei due fronti Portiamo al governo le persone serie”. Sotto il titolo in senso stretto, il “catenaccio” specifica: “Casini: niente alleanze con questo Pd, Enrico Letta, Pisanu, Fitto e Follini venite da me”. Incalzato, Casini spiega e chiarisce: salvato il “rispetto” per “le persone oneste” e i “lavoratori che hanno sfilato pacificamente”, è dovere di un leader moderato segnalare la contraddizione implicita nel partecipare a una manifestazione Fiom “proprio nel momento in cui l’esperienza dell’alleanza Lega-Pdl sta arrivando al capolinea, e la gente si sta accorgendo che Berlusconi è bravo a vincere le campagne elettorali ma non a governare”. Danno fastidio alla vibratile sensibilità del Casini “gli slogan e le idee di quella manifestazione” da “Anni 70”, nonché “i manifesti che indicavano come bersagli Bonanni e Marchionne” Né gli piace (a parte il “rispetto” cui noblesse oblige) Nichi Vendola, un amico, per carità, ma anche un estremista che osa accusare il Capitalismo (la maiuscola in conto Casini) “di avere depredato la gente”: si può essere più frivoli di così?, pensa Casini. Qualche speranzella, però, il Bello di casa ce l’ha ancora, visto che ha sentito “Bersani dire che imprenditori e lavoratori sono sulla stessa barca”. Ma una speranzella non è un atto di fede: Bersani non è serio abbastanza, dà “un colpo al cerchio e uno alla botte, posizione che non ha grande respiro”. Insomma, se la “sinistra moderata” vuol essere “parte costitutiva seria” (e dàgli!) dell’alternativa a Berlusconi, “non basta non partecipare al corteo della Fiom” (merito di cui si dà atto al leader Pd). Come non sufficit che Vendola sia “un interlocutore importante sulle regole”, perché “sul piano programmatico è ben lontano dalle stesse posizioni della sinistra europea come la conosciamo in Germania, Francia, Inghilterra”. Non resta a Pierferdi che auspicare una santa alleanza tra le “persone serie” invocate nel titolone. Se poi l’intervistatore gli fa notare che con la sua insistenza sulle “persone serie” il patron dell’Udc “si sta augurando una rottura nel Pd dopo quella avvenuta nel Pdl”, non senza sottolineare che questo “non è un bel modo per convincere Bersani a cambiare rotta”, Casini svicola, scivola, come un’anguilla bagnata nelle mani del pescatore. E, scivolando, cade nel ridicolo éclatant: “Io mi auguro che il Pd scelga, come mi auguravo che il Pdl scegliesse, non che si spaccasse”. L’ingenuo! Suggerisce ad ogni battuta la rottura e nega di augurarsela! Ma la serietà del Casini non si profila soltanto in queste puerilità, è più tosta, e scocca ben altre frecce dal suo arco polemico. Serietà alla Casini significa un bel po’ delle seguenti postulazioni: non è lecito attribuire disastri al Capitalismo; non si devono dare dispiaceri ai signori padroni; le trattative lavoro-patronato devono ripetere ad infinitum il modello Pomigliano; Marchionne è un galantuomo, e nessuno si deve permettere di criticarlo (o peggio, mandarlo al diavolo, magari con la scusa della... presunta somiglianza fisica); il collateralismo partito-sindacato è una sorta di incesto politico; le periodiche, e puntuali crisi finanziarie sono dovute esclusivamente all’ingorda ingenuità di pochissimi speculatori; anche soltanto evocare lo sciopero generale è una bestemmia politico-sociale (forse anche religiosa? dove se ne va la mitezza evangelica?). Nell’attesa di eventuali ulteriori implicazioni, proviamo a sbucciare le suddette. Il capitalismo “casinaro” diventa una res sacra, una specie di nuova Ecclesia governata da un’originale e sottintesa nuova Bibbia: tali i toni del j’accuse udc(inico) contro i suoi contestatori. I padroni sono perfusi della sacralità del Pensiero unico maiuscolato: sacri anch’essi. Bisogna chiedere con grata umiltà quando ci si rivolge alla loro paterna disponibilità. Fermo restando che se essi non concedono quanto è appetito dai postulanti, ciò non rivela una qualsiasi loro insensibilità verso i sottoposti (quale fitness in questo malinconico aggettivo!), ma soltanto un’impossibilità oggettiva. E dunque è dovere dei lavoratori accettare le eventuali briciole concesse dal padrone come il massimo che egli possa fare in quel dato tempo e in quelle condizioni economico-sociali. Pomigliano non ha dato quanto richiesto dai lavoratori, ma pur tra mugugni di taluni e parolacce in pectore, si è accettato quell’accordo come l’unica soluzione possibile nel contesto della santa globalizzazione. Non dimentichino, gli operai e i signori leader sindacali, che un capo aziendale deve garantire profitti all’azienda, costi quel che costi. Se non riesce a farlo in patria, fila all’estero, Serbia, Romania o Cina che sia: c’è per nulla l’altra santità, la faccia globale del nuovo liberismo?
Esageriamo? Non credo: la serietà sventolata come sacro vessillo dal genero del miliardario Caltagirone cela quelle implicitezze. La moderazione dei moderati alla Casini è un pungolo che ferisce, con la punta rivolta verso i lavoratori. Come tutti i dogmatici, il Casini chiude gli occhi davanti alle evidenze oppositive: le crisi finanziarie, e dunque economiche e sociali (spesso drammatiche fino all’epidemia di suicidi: lo sa Casini, quante vittime da disperazione ha già fatto l’ancora non cancellata attuale crisi?) sono state, e saranno, una costante della storia capitalistica: a scatenare l’ingordigia caca-crisi (se mi si scusa l’energica cacofonia) è la natura stessa del capitalismo, ben riassunta nel motto settecentesco enrichissez-vous, arricchitevi, ma i signori dogmatici del liberismo sono come i credenti religiosi: tutta la storia infame della non benedetta umanità nega i postulati di qualsiasi religione che supponga un Dio giusto e misericordioso, e altrettanto recita la Natura con le sue mille schifose malattie e i non meno torvi disastri ambientali, ma non per questo il numero dei credenti scema (tanto meno quello dei fanatici assassini di certe fedi intolleranti e militanti, Islam in testa). Ogni disposizione emozionale fideistica pratica la serietà casiniana. Un campione frenetico di siffatto liberismo è l’ex direttore del Corsera, Piero Ostellino, che scatta a sua difesa ad ogni stormir di fronde avverse: l’ultima sua discesa in campo è un intervento apologetico su quel giornale (del 20. 10) come risposta al suo amico Guido Rossi: lo ringraziamo per l’esplicitezza del titolo: Perché la crisi finanziaria non è una crisi del capitalismo. Gli argomenti sviluppati in questa difesa sono i soliti: li abbiamo criticati in altre occasioni. Quanto alla psicologia dei grandi manager, l’ha esposta spavaldamente proprio quel Marchionne sopra non lodato nella trasmissione Che tempo che fa, spiegando a Fazio come qualmente l’Italia sia, per la Fiat, una sorta di palla al piede. Ecco un titolone del Corsera del 25. 10: “L’Italia un peso per la Fiat”. E le ispirate parole del supermanager: “La Fiat ha fatto due miliardi di utile nei primi nove mesi 2010 e nemmeno un euro viene dall’Italia [...] Se potessimo tagliare l’Italia faremmo di più”. Ecco, insomma, un chiaro caso di serietà casiniana. Soltanto, un po’ più sincero, e perciò più cinico e provocatoriamente brutale. Ma questa è l’essenza del capitalismo schietto: monetizzare la vita, elevare il profitto al vertice di un’assiologia mammonica. Ai deboli, agli operai, briciole, e salate di fatica eccessiva. Il Marchionne è ancora disponibile per un’ulteriore pennellata al delizioso quadretto: ha stracciato l’accordo di Melfi riducendo di 30 minuti le pause, insiste nell’imporre il modello Pomigliano, perfino peggiorato, alle altre fabbriche. E via celebrando Mammona Pantocrator. Le reazioni? Tolte quelle della Fiom, vibrate e oneste, il resto è acqua tiepida (Bonanni) o spudorata condivisione. Ecco i fuochi pirotecnici del vicepresidente di Confindustria, dal cognome-omen, Bombassei: “Ho sentito cose del tutto condivisibili. Marchionne avrebbe potuto dirne molte di più”. Ancora: “Le questioni che la Fiat ha posto a Pomigliano d’Arco rappresentano una svolta per l’intero Paese. Non penso tanto alla questione dei dieci minuti di pausa, non è su quel terreno che si gioca la questione dei diritti. Penso piuttosto che Pomigliano sia l’occasione per sconfiggere una cultura, quella dell’antagonismo nei luoghi di lavoro”. Capìta l’antifona? Gli operai si rassegnino: niente antagonismi, solo accettazione dei diktat padronali. Sennò come convincere gli investitori stranieri “a scommettere sull’Italia” ed evitare che le nostre aziende “fuggano all’estero”? Insomma, sgobbare di più e ...mangiare di meno. E che sia la politica a fare eventuale beneficenza per i minus edentes.
Alla serietà casiniana, naturalmente, sarebbe troppo facile associare quella della stragrande maggioranza dei nostri politici moderati. Per esempio, la serietà guerriera del Fioroni, che scatta su un metaforico “attenti” di battaglia per dichiarare papale papale un ghe pensi mi di marca arcoriana: insomma, s’impegna a vigilare perché il Pd non cada in tentazione: Fioroni: impedirò che il partito scivoli a sinistra! (Corsera, 19. 10). Questo enfatico fiore di cattolico panciuto predica la tolleranza (francescana?) a chi tenta di salvare lavoro e famiglia, magari fino a provare con lo sciopero generale (torva bestemmia da anni settanta, secondo la serietà bacata dei signor Casini e assimilati!). Un mese fa il signor Beppe promosse un “movimento” dentro il Pd per compattare i cattolici doc del partito, allarmati da certe sensibilità di sapore “eretico-sinistroide”. L’iniziativa suscitò un largo coro di commenti negativi nell’ibrido partito: vi si avvertiva, fondatamente, il cattivo fiato della potenziale scissione. Ma il campione si difendeva con verbosa energia: “Io provengo da quel grande partito popolare di massa che era la Dc: per noi i documenti politici che proponevano soluzioni, indirizzi e una linea erano il pane quotidiano della partecipazione democratica. Non ho memoria di documenti politici che, anche in periodi più caldi di quello attuale, siano stati oggetto nell’allora Democrazia cristiana di anatemi, scomuniche e censure”. Oratoria vibrante di passione missionaria, come si vede, che ha un suo culmine nel passo seguente, dove si punta il dito contro i censori interni: “Un ragionamento politico che mette in movimento idee, aperto al contributo di tutti, può minare l’unità solamente in chi ha l’ossessione del pensiero unico o in chi non riesce a superare l’idea che il partito è la sua maggioranza [...] Non si può venire aggrediti e linciati per un documento di proposta politica. Non c’è un partito al mondo che non riterrebbe la nostra iniziativa un arricchimento e un contributo”. Tanta eloquenza per un’esile sostanza: aiutiamo i deboli, ma non diamo dispiaceri a Sua Santità e sacro Seguito!
Il peggio di questa trovata è che ha come primo motore l’ex segretario Pd, Veltroni, un altro moderato: onesto, in verità, ma poco accorto. Anche se da un po’ di tempo sta frenando la pulsione politicamente suicida. Ed evita di fare visite di cordoglio ai segretari di Cisl e Uil. A consolare Bonanni degli aggressivi striscioni Fiom ci ha pensato Fioroni, andando a trovarlo “con gli ex popolari della corrente dei 75 per dare la sua solidarietà” a tanta vittima. La quale, in realtà, non ha risparmiato insulti verso Epifani e “compagni”. Ancora Fioroni: “evitiamo che i moderati scappino dal Partito democratico. Il rischio oggettivamente, c’è, però saremo noi a garantire che non vi sarà nessuna riedizione del Pci”. E non s’illuda, Casini, pensando che il Pd possa “fare la gamba di sinistra, mentre a fare il centro ci pensano lui e il suo partito”. Domanda dell’intervistatore: “Dica la verità, Fioroni, lei adesso sta parlando a nuora perché suocera, ossia Bersani, intenda”. Risposta tosta: “Logico”
Se il Pd è agitato, il Pdl non sta fermo. Grandi manovre sono in corso per fargli una cura ricostituente: abolizione delle “quote” (nate dall’infelice matrimonio d’interesse con An), rivitalizzo dei coordinatori, eccetera.
Mentre il grande Capo si esercita nel suo gioco vocazionale: prendere a calci spettacolari logica coerenza credibilità...Vìstosi bocciato dal Colle il famigerato Lodo Alfano – nuova edizione (viziato da una cantonata contro l’articolo 90 della Costituzione), spara questa sintetica barzelletta: “A questo punto, si ritiri il lodo, che io non ho mai chiesto né voluto” . Repubblica it si acciglia: suggerisce di non ridere a questa “sfida” del premier, perché sottende un pensierino poco amabile. Questo: dico quel che mi pare, tanto gli italiani sono cretini (o, almeno, una gran parte). Noi ci ridiamo, invece, ma con il già “trilustrico” amaro in bocca. Né si ferma, l’amabile barzellettiere: nel giro di pochi giorni ne ha sparate una decina. Ne ricordiamo ancora un paio. Nel settimanale televisivo Report Milena Gabanelli rivela la storia delle ville acquistate da Berlusconi ai tropici, compresa quella, imponente, nell’isola tropicale di Antigua, intrecciando rapporti poco ortodossi con società e banche (la banca Arner, già sottoposta a ispezione da Bankitalia, per sospetto riciclaggio). La conduttrice ha mostrato fior di documenti, ma lo staff dell’inner cercle (la cerchia intima) del conducator arcoriano è scattata combatta a difesa del padre spirituale. L’avvocato Ghedini-ghigno ha chiesto alla Rai di non mandare in onda Report (mancava il contraddittorio!), il nuovo ministro Paolo Romani ha definito la trasmissione “una puntata francamente odiosa”. E zitti sugli altri sproloqui del coro.
Intanto scoppia la nuova guerra della spazzatura a Napoli e dintorni. Scontri, incendi, toni di sfida, feriti, e, aspettando il morto, l’immancabile sparata di padron Silvio: “In dieci giorni, problema risolto”. Testuale: “Dieci giorni per tornare alla normalità”. C’è per nulla Bertolaso superman? Dieci piccoli giorni, e l’inghippo di anni e decenni sarà sciolto. Intanto sulla stampa corrono titoli come questi del Corsera: Le bombe lungo la strada verso la discarica. Nella notte ancora scontri, cinque fermati. Il questore: è una guerriglia organizzata. “La protesta delle donne che fermano i camion inginocchiandosi. Occupati i municipi di Boscoreale e Terzigno” (20. 10). Rifiuti, i sindaci non firmano. Bertolaso: lo Stato va avanti. “Applicheremo le misure unilateralmente”. Ancora scontri e feriti, sequestrato esplosivo. Il vescovo di Nola. “Non basta congelare la discarica” Insomma, siamo in pieno fermento: da un momento all’altro può emergere il peggio. Cioè, l’eredità di decenni di malgoverno regionale e municipale, di complicità camorristiche, di lassismo criminale.
E qui ci fermiamo, con un pensiero amaro sulla qualità dei nostri politici (le minoranze ammodo non riscattano le masse corrotte o incapaci (non si fermano le scoperte del malaffare): da Lonardi a Scajola, di nuovo in ballo, all’insospettabile Maroni, non c’è che l’imbarazzo della scelta per pescare indagati e sospettati di irregolarità varie.
Allora la nausea ti salta alla gola e magari ti suggerisce un confronto non favorevole ai nostri moderati sazi: c’era più serietà nei casini con la minuscola che ora in quelli con la maiuscola. Quegli ambienti disprezzati (dall’ipocrisia corrente) davano quel che promettevano, senza frodi e vane lusinghe: la serietà dei nostri moderati politici incrementa disoccupazione e cassa integrazione (che, di corto respiro com’è, non risolve il disagio delle famiglie”). Il tutto, mentre continua indisturbata la pacchia dei grossi compensi per deputati e senatori, grandi manager e divi delle tivvù (e perfino dei barbieri del Quirinale). Né si toccano le Camere pletoriche, né lo spasso delle infinite macchine blu, né gli sprechi provocatori delle inutili Province e delle ingorde Regioni. Ma il propagandista della serietà, l’ineffabile Casini, non trova di meglio che attaccare per l’ennesima volta Di Pietro con accuse bizzarre e sognare nuovi governi senza elezioni. Decisamente, c’era più serietà nella “c” minuscola.
Pasquale Licciardello

martedì 12 ottobre 2010

Barzellette d'autore


Ci mette in imbarazzo. Si finisce col dubitare dell’uso clinico di questi nostri sfoghi lirici promossi, per pura costrizione tecnica, all’ambizione di articoli politici. Qualcuno dei miei tre lettori sta pensando al premier, cioè all’Uomo che l’ironia sadica del Destino ci ha imposto a sconto dei nostri peccati? Ci ha azzeccato: parliamo proprio di lui, non sappiamo più se detestarlo in blocco, criticarlo politicamente dettagliando, o addirittura ammirarlo. Ma sì, ammirarne la coriacea instancabilità, la faccia tosta a prova di bomba (politico-giudiziaria), l’indomabile attitudine clownesca. Ha appena chiuso un’avventura “bellica” spossante e subito ricomincia a combattere, sparando raffiche di barzellette al cianuro e bordate di accuse lunari alla magistratura, o (come dice lui) a quella sua parte che da tre lustri squalifica come comunista e persecutrice. Di che cosa? Ma della sua specchiata coscienza, naturalmente: di politico e premier di storica rilevanza. E, perché no? anche contribuente da favola: la figliola annunciava giorni fa che la sua famiglia paga al Fisco 2 milioni e mezzo di euro. L’anno? No, e nemmeno al mese: al giorno (sic). Ed eccoci costretti dal suo genio multiforme a sciupare il nostro tempo gustandone battutacce e mirabilia accusatorie.
Cominciamo dalle barzellette in senso stretto. Un ebreo racconta a un familiare...Ai tempi dei campi di sterminio un nostro connazionale venne da noi e chiese alla nostra famiglia di nasconderlo, e noi lo accogliemmo. Lo mettemmo in cantina, lo abbiamo curato, però gli abbiamo fatto pagare una diaria...E quanto era in moneta attuale? Tremila euro...Al mese? No, al giorno... Ah, però...Be’, siamo ebrei, e poi ha pagato perché aveva i soldi, quindi lasciami in pace...Scusa un’ultima domanda...tu pensi che glielo dobbiamo dire che Hitler è morto e che la guerra è finita? Fine della storiella. Ma non del clamore che n’è seguito. Che dura ancora mentre ne scriviamo. E che non sempre è calibrato sulla “fisiologia” del faceto “narratore”. Troppo serio, per esempio, quello dell’ex presidente delle comunità ebraiche italiane, Amos Luzzatto, che prende la barzelletta come indice della scarsa coscienza etico-storica degl’italiani: “Non siamo riusciti a trasmettere all’opinione pubblica la gravità dell’olocausto e delle persecuzioni che abbiamo subito [...]Gran parte degli Italiani crede che di fronte all’Olocausto gli ebrei fossero in condizione di mettersi al sicuro”. Non senza integrare con questa (peraltro, opportuna) smentita: “Purtroppo a questa visione falsata hanno contribuito i numeri gonfiati degli ebrei salvati per iniziativa di Pio XII, che in realtà furono una percentuale molto modesta”. Bastava dire che la barzelletta è l’autopresentazione di un bellimbusto privo di sensibilità empatica. Cioè, un uomo per il quale non c’è nulla di “sacro”, d’intoccabile. Insomma, d’indisponibile per le barzellette.
L’altra delle quali torna a punzecchiare un suo dilettevole bersaglio, Rosy Bindi (vedi eroismo del barzellettiere!): Durante una serata danzante un cavaliere va dalla ragazza scelta per ballare: lei si presenta con il nome di un fiore al femminile, l’uomo risponde con il nome del fiore al maschile e si balla. Quindi un uomo si avvicina a una ragazza, “Margherita”. E lui “Margherito”. Poi un altro si avvicina a un’altra ragazza, “Rosa” e lui “Roso”/ Un altro va verso Rosy Bindi, un po’ coperta nell’ombra, lei dice “Orchidea” e si tira in avanti, lui la guarda e dice “Orcodio” (ma La Stampa, da cui, trascriviamo, vela la bestemmia sotto tre puntini). Reazione (un po’ sprecona!) della Bindi: il Premier deve “chiedere scusa a tutti i credenti di questo Paese, alla Chiesa e alla stampa cattolica”. La quale non se lo fa dire, e attacca l’incauto sfottente: Famiglia cristiana, dal suo sito, è la più colorita: “Dal Cavaliere arriva uno dei più chiari esempi di quel ‘cristianesimo alla carta’ o ‘cristianesimo usa e getta’”. E, cristianamente, smaschera lo spudorato: un politico “intriso di sentimenti cattolici quando si tratta di chiedere voti, ma sostanzialmente estraneo al sentire cattolico in ogni altro momento”. Ma la molto apostolica ministra Gelmini garantisce: “Il Pdl è il partito più sensibile ai valori cattolici”.
Postilla. A leggere le reazioni si godono meglio le barzellette incaute. Questo “sentire cattolico”, per esempio, mi fa ricordare l’accoglienza festosa di Benedetto XVI all’incontro con Berlusconi a ridosso degli scandali delle escort e contesto. “Oh Presidente, che gioia!”. Il ricordo vuol dire: niente paura, in partibus infidelium, il voto cattolico non mancherà alle prossime elezioni. Il Paperon dei paperoni sa bene come (e quanto) farsi perdonare dalla santa madre Chiesa: questione di borsa e sborsamenti. Tutto qui. Quanto alla verità effettuale del “sentire cattolico”, basti ricordare le pesanti offese rivolte al premio Nobel Sagrafedo in occasione della sua morte per misurare quella sensibilità evangelica. Insomma, è un po’ barzelletta anche il “sentire cattolico”
Altre critiche di quella stampa. L’Osservatore Romano commenta così la sortita del premier “alcune battute del capo del governo [...] offendono indistintamente il sentimento dei credenti e la memoria sacra dei sei milioni di vittime della Shoah”. L’Avvenire, quotidiano dei vescovi, parla di “insopportabile bestemmia”, di “consunti stereotipi sugli ebrei”; e aggiunge: “c’è una cultura della battuta ad ogni costo che ha preso piede e fa brutta la nostra politica. E su questo tanti dovrebbero tornare a riflettere”, massime se si è “uomo delle istituzioni”, e addirittura “capo del governo”. Su costoro “grava inesorabile un più alto dovere di sobrietà e di rispetto per ciò che si rappresenta, per i sentimenti dei cittadini e per Colui che non va nominato invano”. Sembra l’annuncio di una svolta storica, e infatti la Repubblica ci spara sopra un titolo-azzardo: La bestemmia di Stato ha rotto l’incantesimo. Ma noi rinviamo il lettore alla nostra previsione sul voto cattolico e la borsa “certosina”. Non senza aggiungere una noterella sulla militanza dei media cartacei: su queste e simili esternazioni dei fogli cattolici il quotidiano di Scalfari stende titoloni cubitali: “Offesi i credenti e la Shoah” il Vaticano contro Berlusconi. E il giornale dei vescovi: “ci mancava la bestemmia”. Cui fa eco l’analisi di G. Zizola, strombettante come sopra. La stessa pagina del titolone ospita, un articolino che dovrebbe accendere qualche dubbio su quella presunta rottura: breve testo, e soprattutto piccolo titolo: Fisichella “assolve” il Cavaliere. La Bindi: “Così giustifica la blasfemia”. Secondo l’alto prelato le parole del premier “vanno contestualizzate”. Indi, non esageriamo con lo sdegno e le condanne! Comprensibile la reazione stizzita della Bindi: “Sarò all’antica, ma mi amareggia profondamente e mi turba constatare che per un pastore della mia Chiesa ci sarebbero occasioni e circostanze nelle quali è possibile derogare anche dal secondo comandamento”. Insomma, “barzellette” dall’uno all’altro campo. Lo sono, in certo modo, anche gli sfoghi di certe suscettibilità religiose, cattoliche o ebree che siano. Non diciamo la reazione alla storiella infame sulla Shoah, ma quando si arriva al solito clamore (con richieste di espulsione eccetera) per un Ciarrapico che insulta Fini chiedendogli se ha già “calzato” la biblica kippah, be’ siamo all’eccesso “barzellettistico”. Lo è di meno la cecità pelosa degli stessi clamanti per quel berretto sui crimini di Israele contro le popolazioni civili palestinesi, osando paragonare certi missili buoni a fare qualche buco nei muri al “terra bruciata” di Gaza e relative mutilazioni di bambini da “fosforo bianco” e altre diavolerie di provenienza alleata (leggi Usa).
E torniamo all’imputato major: come reagisce? Secondo il suo stile: scandalo? “E’ soltanto una risata, e lo scandalo, semmai, è di chi la pubblicizza”. Dunque? “Lo scandalo? E’ soltanto un pretesto per attacchi strumentali e ipocriti”. Il solito ribaltamento dei ruoli: il colpevole diventa vittima. Ma le barzellette migliori sono le involontarie, cioè i nuovi complimenti alla magistratura: dove, secondo il Cavaliere, si anniderebbe una vera e propria “associazione a delinquere”. E basta così? Macché: il Cavaliere dalla trista figura sogna “una commissione d’inchiesta” per snidare quella maligna congreca, estirpare quel bubbone infetto. Il progettino in nuce ispira i tg meno faziosi della domenica, e il Corsera del lunedì ride con questo titolo sulle sparate del plurindagato furens: “Inchiesta parlamentare sui pm. La sfida di Berlusconi”. E il bersaglio come risponde? Con signorile pacatezza: “Così accresce la tensione”. O, anche, con lapidaria sobrietà: “Non ci faremo intimidire”. Tutto qui. Qualche consigliori (pardon, consigliere) del Principe boccia la barzelletta: pretesa non prevista dalla Costituzione. E noi la cambieremo, replica con uno dei suoi “pezzi forti”. Ci vuole tempo? Vedremo. Mutevole come un galletto di latta segna-vento, l’inesauribile dice e disdice, afferma e nega a distanza di ore. Il tre ottobre minacciava: i finiani devono essere fedeli (al programma) “ogni giorno o subito al voto”. Il 6 il Corsera stendeva sull’intera pg.5 questo dietro-front del Cavaliere: Richiamo di Berlusconi: basta parlare di urne. Oggi, 7, la Repubblica apre con questo titolone virgolettato (sono parole del Berlù). “No al voto, temo governo tecnico”. L’incipit dell’articolo è l’ennesima barzelletta (del genere: “io? quando mai”). Eccolo: “Elezioni? Mai minacciate, sono sempre stato convinto che fossero un guaio.” Notate quegli avverbi: “mai”, “sempre”. Una vera passione. “Un guaio”: cioè, una minaccia capace di ispirare “un esecutivo tecnico”. E per tentare di zittire Bossi, che continua a gracchiare sul “voto a primavera”, promette mirabilia. Torniamo a leggere nel titolone: Berlusconi: oggi il federalismo, tra due settimane riforma della giustizia. Esternazione che compete validamente con le barzellette strictu sensu. E trascina il premier in un circolo completo. Il Corsera del 12 settembre riassumeva in un titolo perentorio, che è una citazione testuale del Cavaliere tutto-macchie: “Il presidente della Camera? Spero che ritorni in ginocchio” Il “catenaccio” del titolo è la traduzione di un tentativo sonoro di Bossi: Bossi: io sarei andato al voto, ma Silvio e il Colle non vogliono. L’occhiello, più sintetico, è anche più colorito: “Il Senatur evoca Fini e mostra il dito medio. Nel testo l’argomento digitale è conclusione mimica di un sintetico approccio verbale: “Fini dice che la Padania non esiste? Tié! Noi esistiamo e di solito vinciamo le elezioni.” Naturalmente, è quel “Tié” che alza il dito. E poi ci lamentiamo dello scarso umorismo dei nostri politici.
Ma torniamo al presente. L’azione convergente di consiglieri e “calcolatori” (“ho fatto bene a regalare a Silvio un pallottoliere [...] si vede che è servito. Lo vedo improvvisamente tornato in sé”: così Casini), spinge il Giove tonante di pochi giorni fa a questa amara resa al Fato (che, come insegnavano i nostri padri, conta più degli dei): “Basta, con Fini dobbiamo trattare”. Resa condita da questo sospiro, unico residuo esponibile dell’odio attizzato dalla passione istituzionale del Presidente della Camera: “Sono deluso, l’ho trattato per sedici anni come un figlioccio, ora lui mi ripaga così”. Come un figlioccio: voce dal sen fuggita, che evoca il Padrino. Ma forse domani lo Smemorato a gettoni alterni la rinnegherà. Non nel senso che se ne scusa (come è stato costretto a fare Ciarrapico con gli incontentabili ebrei italiani), ma nel senso che negherà di averla pronunciata: altrimenti che barzellettiere sarebbe?
Appena ieri (6. 10) abbiamo visto un Cavaliere in versione “tuona e sbraita”. Ecco titolo e incipit di un articolo del Corsera: “Si accorgeranno presto che non sono finito”: “L’umore è esposto ai rovesci della politica, come il suo governo, ma nonostante tutto sembri congiurare contro di lui, Berlusconi è convinto di portare a termine il ‘progetto’” (Verderami). Ed ecco le parole del premier clamans, anzi le nuove barzellette involontarie: “non mi curo se mi danno del ‘nonnetto’, se dicono che mi sono imbolsito, che sono finito. Se ne accorgeranno presto. Io non me ne andrò fino a quando non avrò dato vita al più grande ricambio generazionale della storia”. Da far tremare le vene e i polsi: che ci voglia trasformare tutti in 50 milioni di robottini arcoriani? Meno male che sono vecchio, e non farà in tempo, con me. Intanto comincia col rabbonire Santa Madre Chiesa (le maiuscole sono in conto Cavaliere) accelerando sul “piano per la vita”, come dire l’agenda vaticana che pretende di strozzare ogni “pretesa laicista”, ovvero ogni traccia di sana civiltà: indi, “campagna contro la RU486, aiuti alle nascite sacralmente corrette, norme restrittive sulla biopolitica, accanimento terapeutico, eccetera. I ministri Fazio (Salute) e Sacconi (Welfare) sono mobilitati. E Tremonti deve lasciarsi spremere qualche soldino per aiutare le famiglie cattoliche a fare figli. Nonché mandarli nelle scuole private cattoliche (come ha fatto Formigoni nella “sua” Lombardia. A proposito, il governatore purissimo è inguaiato per certi brogli elettorali). L’accelerazione serve anche a prevenire slittamenti clamorosi verso il Pierferdi nazionale. E seminare zizzania nel campo di Agramante, cioè dentro il composito Pd che ospita nel suo ventre molle la componente cattolica, sempre rognosa per eccesso di sensibilità vaticana.
Tutto si può dire della nostra vita pubblica, tranne che ci faccia sbadigliare di noia (o di sonno): non si finisce di gustare un evento che subito un altro viene a galla a fargli concorrenza. Nel caso si tratta ancora del Premier, della sua più recente invenzione (mai dire “ultima”, con lui!): i team elettorali(stici). Squadre di ragazzi ambosessi da sguinzagliare sul territorio a fare pubblicità alla santa Causa. Né finisce qui l’inventiva del fantasioso Consiglio dei consiglianti: c’è di mezzo anche un libro. Non è un lapsus: un vero libro. Per fare cosa? Indovinate. Sì, come avete pensato: a far radiosa luce sulle conquiste del regime, pardon del miracolo certosino. Che tradotto in italiano significa: a fare un elenco delle opere realizzate dal governo silvanico. Insomma, un altro bouquet di ghiottonerie barzellettistiche. Perché, come sa la componente non drogata del popolo italiano, quel tale elenco sarà un mostro di millanterie e di strampalate amplificazioni di piccoli risultati, presto sopraffatti e in gran parte cancellati dal ritorno del “rimosso”.
Ecco un altro stop all’invio telematico di questo excursus: “Dossier contro Emma Marcegaglia” Indagati direttore e vice del “Giornale” (Corsera, 8. 10) . E uno dei tanti commenti (Flavia Perina, Il secolo d’Italia): “Quel che è ipotizzato contro la Marcegaglia, cioè una campagna di denigrazione attraverso dossier, il Giornale lo ha già fatto nei confronti di Boffo e di Fini. Evidentemente qualcuno perde il pelo ma non il vizio”. Evidentemente. E queste non sono barzellette, ma pura e distillata verità machiavellicamente effettuale. Le barzellette vengono dalle “esternazioni” dei vari produttori di quel Mondo bacato. La Russa avverte la magistratura: “sappia che non deve dare l’impressione di una censura preventiva, una sorta di condizionamento della libera stampa”. La quale, sottintende Mefisto, deve essere libera fino alla calunnia e al ricatto, quando sono ben mascherate. La barzelletta di Bondi vince tutte le altre uscite da quelle bocche al tossico: “Si tratta di decidere se vogliamo vivere in un Paese civile oppure in una società in cui vengono violate le leggi da chi dovrebbe farle rispettare”. Sottinteso, la magistratura, la solita persecutrice, secondo quel testone curiale, dell’immacolato Idolo e del suo mondo sacralizzato dai troppi Bondi. Cicchitto è sempre quello che pretende di saperne più degli altri complici. “E’ evidente che i telefoni e i telefonini del Giornale e dei suoi redattori erano controllati da tempo”. Peccato che l’evidenza lampeggi da tutt’altra parte, e fa le boccacce alla malafede dei “censori” arcoriani: l’affaire nasce da un sms del vice direttore (Porro) di quel Giornale all’amico Rinaldo Arpisella, “strettissimo collaboratore della Marcegaglia”: vi si annuncia un servizio sulla famiglia Marcegaglia. Segue uno scambio di telefonate che convincono Arpisella di un rischio dossier per la sua “padrona”. La quale va dal procuratore, collegando la minaccia alla sua critica al governo, al quale aveva detto “che stava finendo la pazienza degli industriali”. La signora telefona, anche, a Fedele Confalonieri, che le assicura di fermare la “macchina”. Ma prega anche la signora di “cambiare atteggiamento” verso l’augusta fatica del premier. Mentre il gentiluomo Sallusti querela (sic) il pm di Napoli, Lepore, “per diffamazione”. Le ultimissime prima di spedire sono: la pubblicazione del dossier da parte dell’eroico Feltri (quattro pagine del Giornale!), la figuraccia di don Fedele, la fermezza della presidente di Confindustria: Marcegaglia: vado avanti e non mi faccio intimidire (La Stampa, 9.10), la decisione dei pm, che “ascolteranno Confalonieri come testimone” (senza mollare, intanto, sulle altre misure in corso).
Ecco, dunque, il mondo reale di codesta filibusta politico-giornalistica, che pretende punire i suoi avversari a furia di agguati proditori e montature vigliacche. E che spesso rimane scornata, come nel caso Di Pietro, che si pretendeva sospendere dalla Camera perché parla chiaro, e accusa il premier di “stuprare” la democrazia. Fallita l’offensiva in Aula contro di lui, il Tonino conferma: “Non rinnego una parola. Tornerò a fare un’opposizione ferma e risoluta in aula e ricorrerò a tutte le parole che il vocabolario mi mette a disposizione. Chi utilizza le istituzioni per farsi gli affari propri che altro è se non uno stupratore di democrazia?” Parole fieramente limpide, che non piacciono neppure ad alleati e concorrenti in opposizione politica.
Ma vogliamo chiudere con un’ultima manciata di barzellette involontarie di gentile fattura: l’esibizione della Santanché ad Annozero. Un vero spettacolo: una scolaretta che ripete cavolate colossali memorizzate alla scuola della disinformazione vocazionale. Un caso per metà da ridere per l’altra da meditare sull’insensibilità coriacea di certe figure. Un momento di quella trasmissione: un gruppo di giovani giornalisti calabresi intervistati dal collaboratore di Santoro rivelano le minacce mafiose cui sono fatti segno, con argomenti orali e simbolici, per scoraggiarne i servizi su drangheta e collusioni politiche. Sono ragazzi che rischiano la vita, decisi a non mollare. Tutta la reazione della gentildonna Santanchè fu un diluvio di sparate bugiarde su “questo governo che ha fatto più di qualsiasi altro contro le mafie” e giù cifre di torbida fantasia ripetitiva. Neanche un sospiro, mezza parola di solidarietà per quei candidati a non improbabile morte violenta. E uno guarda quella bocca inesausta, ammira quel labbro sporgente, e pensa a un suo più coerente destino, a un uso più giocoso e innocente.