martedì 16 febbraio 2010

Susanna, Frammento 57


In Calamagna ero solo, nel periodo-esami di quell’estate, e quindi dagli incontri con Susy restava esclusa e lontana Rina, rimasta in Sicania con la famiglia. Ma ritornammo tutti e quattro un mese dopo circa. Le vecchie padrone di casa del mio primo soggiorno magnogreco (quando, prima da solo poi con Rina e poi ancora anche col bambino, abitavamo a Siderato) ci misero a gratuita disposizione di pura amicizia nostalgica un appartamentino verticale: tre stanzette fra piano terra e secondo piano, ad angolo tra due viuzze nemmeno asfaltate o piastrellate. Risultato di un utilizzo obbligato del poco spazio occupato per anni da una vecchia casuccia demolita, a lungo usata come pollaio, quell’industre povertà in abbandono era stata promossa dall’inerte sterilità a un decoroso assetto abitativo turistico-stagionale di sicuro successo locativo. Il soggiorno non superò i venticinque giorni (per nostre esigenze di rientro sicanico), ma bastò per onorare l’estate con regolari bagni di mare quasi quotidiani. La casetta distava dal margine esterno del lungomare una cinquantina di metri (in linea d’aria) e dall’inizio della spiaggia una sessantina. La spiaggia, come più o meno tutte quelle della jonica, era molto larga. Della lunghezza non si può parlare perché le spiagge di quei paesi marini sono un solo continuum senza cesure che non siano rari letti e foci di fiumare: non proprio delle cesure, dunque, specialmente nella stagione dei bagni e del turismo, già sensibile in quell’anno. Tra i lungomari della zona, quello di Siderato era (come avrò già detto) il più lungo, largo e ricco di accessori di gradevole impatto e comodità: ampi marciapiedi con sedili di pietra bianca levigata, scale di ferro che dal marciapiedi lato mare scendono sulla spiaggia, piazzuole pubbliche, villette laterali ricche di piante (locali ed esotiche) e generose di ombre rompi-afa, con fontane dalle acque fresche di ottima qualità montana, sedili sparsi tra i rientri dei “sentieri”, bar e chioschi di vari rinfreschi a punteggiare gli spiazzi liberi del marciapiedi parallelo alla ferrovia. Larghe aiuole si aprivano sul marciapiede lato mare culminanti in alte palme qua solitarie là in coppia con altre specie arboree. In una parola, il più ricco e bello, non solo della zefiriade, questo felice parto dell’ingegneria stradale, ma, a quel tempo almeno, dell’intera spiaggia ionica. Altri ne sono stati costruiti, negli anni recenti, dai paesi vicini, e qualcuno degno di gareggiare col primo della serie. Del resto, è noto, nella regione, che questi ultimi campioni dell’orgoglio paesano nascono da uno spirito emulativo-agonistico di lungo corso. Che poi questo “spirito” si sia alimentato anche di tanta “materia”, lecita e meno lecita, locale e regionale, italiana ed europea, con intrecci mammonici di dubbia provenienza (anzi, chiara), è un altro discorso. Meritevole, in questa sede e occasione, di essere lasciato a un silente sonno.
Manuela stava con noi, in quella vacanza, ma Giampiero veniva, restava qualche giorno, e poi tornava in Sicania, a frequentare gli amici (ex compagni di liceo per lo più), di giorno; a far compagnia al nonno materno e alla sua seconda moglie, di notte. Susanna aveva ancora qualche settimana di vacanze da consumare in Calamagna, così potemmo vederci tante volte, con le figlie al seguito. Le sue avevano ormai 13 anni e mezzo la prima e undici la seconda; la mia 14 e 8 mesi. Fraternizzarono presto, e fecero qualche nuotata insieme. Mentre le mamme sciorinavano le loro confidenze. Il rancore di Rina per le rivelazioni (incomplete) di Susy, sette anni prima, era svaporato (o almeno, il prevedibile residuale restava compresso sotto un discreto controllo): la cordialità era piena e sembrava convinta. Io me ne stavo alla larga, durante le loro conversazioni, per evitare l’immancabile risentimento dell’umbratile consorte nel caso mi fossi mostrato “appiccicato” (come, un tempo, diceva lei) alla nostra amica. Ma quando le portavo al bar, stavamo tutti seduti intorno allo stesso tavolo, e allora ero naturalmente “autorizzato” a partecipare. Intervenivo, compativo mamma Susy e figlie per le malattie, e tutta la corona spinosa di guai molteplici, non mi sottraevo al bisogno di giudicare il marito fellone, che aveva rinunciato alle care creature in cambio di un miserabile risparmio di denaro. E dire che guadagnava bene, oltre lo stipendio statale: con una sua scuola privata per “recupero anni perduti” e costosi “aiuti ai bisognosi”. Un’attività, mi pareva di capire, del tutto illegale: senza “licenza” ministeriale o del provveditorato. Dunque con guadagni esentasse.
Ecco un elemento di giudizio perentorio per valutare una persona: subordinare i sentimenti a un qualsiasi vantaggio materiale, peggio se vilmente monetario. Così la pensavo, così la penso. Almeno dal germogliare di quella sensibilità ragionante che introduce alla maggiore età. Confortavo Susy. Lei si aiutava facendo supplenze in scuole elementari statali e qualche lezione privata. Ma era in cerca di un lavoro più solido. Chiuso in via definitiva il doloroso capitolo matrimonio, si sarebbe trasferita a Roma, dove già abitavano la sorella Tina e il fratello Carlo, ormai sposato, congedato, impiegato come comandante presso una compagnia aerea privata, padre di due ragazzi dell’età delle cugine ultime venute: le figlie di Susy, appunto. Sarebbe stato un conforto, comunque andassero le cose, sapere presenti nella stessa città, per quanto grande, familiari così stretti. Un conforto e una possibilità meno remota di frequentazione parentale per i ragazzi.
*
Tra i ricordi confusi, spiccano pochi episodi più netti. Il nostro primo invito in un bar sul lungomare di Zefiria, seduti a uno dei tavoli esterni, protetti, contro il solleone, da una cribrata tettoia di cannucce secche con pergolato. Fu l’occasione delle più drammatiche confidenze da Susy a Rina (io le avevo già avute, in buona parte, nel primo incontro, il luglio degli esami di Stato in corso). Oltre alle sofferenze coniugali, Susanna ci parlò (di nuovo, dopo le narrazioni del settennio) dei parti cesarei (e conseguente divieto di altre gravidanze), dei due interventi alla tiroide, di certi disturbi cardiaci di origine nervosa (indicazione vaga, ma non ne ho sentite altre). Malanni, che non bastavano a imporle la rinuncia alle sigarette, calorosamente consigliata da Rina e da me. O almeno a suggerirle una consistente riduzione del consumo e del danno. Per la verità, lei ci sorrise un “lo farò”, ma l’impatto con le nostre orecchie non distillò convinzione e tranquille certezze.
Nel ritorno a casa, Rina ripeteva la sua “filosofia” del “bella e sfortunata”, secondo il senso del pessimismo popolare, che lega bellezza e sfortuna come uno scivoloso destino. Il che certamente vale per una non piccola parte dell’umanità femminile baciata dalla dea. Ne scaturì un mio mugugno verbalizzato sulla natura umana, la sua vocazione basale, la sua sconcia storia. Nella quale parte non piccola, la storia insegna, la crema gerarchica delle varie società, da quelle antiche (estremo-orientali, ebraica e medio-orientali, greca, romana...) a quelle feudali europee, e moderne, via via salendo fino al nostro Ottocento e propaggini novecentesche, pescava i più ghiotti bocconcini di Venere per allietare feste mense e letti delle aerate mega-dimore e ville, dei turriti castelli, dei gonfi e debordanti palazzi barocchi. Per tacere, poi, delle drammatiche promozioni socio-economiche delle borghesie europee, odiate emule delle aristocrazie ridimensionate in privilegi e vizi. E meno male che il tragitto era breve, da Zefiria a Siderato.
Un pomeriggio andammo in gruppo nel vicino paese di Roccabella, il “paese delle belle donne” (belle, e anche, a giudizio popolare maschile, non troppo esigenti in moralibus). C’eravamo io Rina e Manuela, Susy con le figlie, mio cognato con moglie e la loro bambina di nove anni, e un paio di amiche della cognata. Si passeggiò sul lungomare (allora meschinello, oggi estrosamente competitivo per originalità di accessori e soluzioni spaziali scenografiche) un’oretta circa, poi mio cognato ci portò, suoi invitati, in un bel locale con piano-bar e comoda pista da ballo. Dopo le consumazioni, naturalmente si ballò. Io fui prudente nell’invitare prima Rina, poi la cognata, e infine Susy. Ma quando mi rintanai dentro la bolla isolante di quella specie di miracolo situazionale, tenere fra le braccia l’icona onirica pluriennale rifatta corpo (dopo quell’altro lungo black out), la curva della prudenza calò rapidamente. La strinsi più dello stretto (e pure largo) necessario, mi accostai al suo viso a ridottissima distanza di garanzia per istantanei ma ripetuti contatti di pelle, le sussurrai parole di riacceso amore. Lei rispondeva con sordina di assennato allarme: “Calma, non siamo soli” .– “Sto controllando, ti stringo solo quando loro non guardano” –“Non è prudente” – “Via!”– “E nemmeno giusto. Non voglio guastare la ritrovata amicizia con Rina” – “Non la guasterai” – “Sì, se continui a schiacciarmi contro la tua pancia” –“Scusami. Allento la presa” – “Ma stai per spezzarmi le dita della mano che stringi” – “Quante, quante volte ti ho sognata, vissuto questo momento nell’inganno benefico e costoso del sogno!” Sorrideva. – “Perché costoso?” –“C’era un prezzo da pagare: l’amarezza del risveglio, la ripresa della realtà degradata, spoglia di te...”
E poiché la curva “attrattoriale” non si avvicinava gran che all’asse delle ascisse, lei insisteva nell’esercizio della saggezza rinunciataria. “Sono lusingata, cosa credi?, il tuo buon ricordo mi è caro e...” – “Buon ricordo? Chiamalo febbre, invasione, ossessione.”– “Ehilà, siamo alle parole grosse. Dimentichi che hai avuto una figlia meno di due anni dopo il nostro ultimo contatto.”– “Che c’entra?” – “Continui a dire che non c’entra, ma ...” – “Continuo?”– “Hai dimenticato che la ‘questione’ fu trattata, diciamo così, nove anni fa?”.– “Ah, già: sì, me l’hai rinfacciato.”– “E c’entra, non dire di no.” –“Caspita, dovevo pure difendermi, dopo tutto.” – “Ma non ti sono bastati i soli rapporti coniugali.”– Sorrisi. –“Come sei ... disincarnata, stasera.” – “Sono, come?”– Arricciai il nasone sopra un secondo sorrisino satanico: “Voglio dire che non usi le parole spicce di una volta: rapporti sessuali, per esempio, invece del ripulito “coniugali.”–. Sorrise anche lei. –“Andiamo, non siamo nella situazione giusta per...”– Provocai. “Per usare l’esplicito? Un tempo non avevi questi riguardi.” – “Sono cresciuta, maturata. Sono due volte madre, pare che tu non ne voglia prendere atto.”
E difatti, stentavo nell’impresa. Susanna “doveva” essere la ragazza di sedici anni prima, bella, splendente di sensualità, leggera di pesi biografici ed esistenziali... Almeno, per qualche ora, per quella parentesi che me la concedeva fra le braccia, ballo o non ballo: non era pur sempre un bel contatto corporale, un minimale assaggio fisico? Così, pressappoco, esternai il mio impunito candore sognante. E lei, fra le rose di un aperto sorriso di buon avorio, tornò a punzecchiare con la storia dei rapporti coniugali non sterilizzati.
*
Rinfacci. E non conoscevi altre difese, ben più stringenti: le occasioni extra moenia. Pochissime, e quasi sempre respinte. Ma due di esse furono pupillari. E con fior di fanciulle. Magari non altrettanto belle di Susy la bella, di Susanna l’“estrema”, ma più o meno comparabili. Queste verità gelose rimuginavo dentro la teca ossea del cerebro supereccitato. Non senza ricordare alla brontolona di casa, la cosiddetta coscienza, che, in entrambi i casi, non mi spinsi mai oltre la linea di confine dei contatti labiali e degli abbracci vestiti. Rinunce tanto più meritorie in quanto sarebbe stato facile approfittare della debolezza dei soggetti e, per il secondo caso, anche di ghiotte occasioni ambientali offerte da un “viaggio di istruzione” del nostro liceo nel ruffiano incanto di una inesauribile Firenze catalizzante. Dunque, “scambi” molto meno arditi di quelli intercorsi fra me e Susy: niente intimità tattili e soltanto calore controllato di rapidi baci praticamente casti. Dovevo pur curare la malattia susannica. Inutile dire che le due girls avevano cominciato loro con l’attenzione titillatoria (quante sonore t sfuggite al controllo eufonico! “t”, iniziale, ahimè, anche di “tradimento”, mon diable!). Altrettanto inutili, quei flirt “imposti” (e del resto, di non lunga durata, per mio resipiscente decreto e complicità ambientali), come farmaci contro la malattia susinica: sembrava sparire e covava sotto la cenere.
Non riuscì a spegnerlo, quel fuoco, neppure un’occasione ghiotta fino al liberato olismo corporale: una stagionale avventura romana incorniciata nella sessione autunnale dell’esame di maturità. Correva l’anno della Guerra dei Sei giorni, cioè il successivo al distacco dalla maja desnuda calamagnese. Ero pesto in tutte le fibre corporali e mentali. Non esagero se confesso che anche quella storica svolta bellica, così tranchante, così tracotante da parte ebrea, contribuiva al mio malessere bisognoso di cure. Ma ogni rimedio – di lavoro famiglia vita sociale amore coniugale ed extra – mi sollevava dal turbinio sconcio dei pensieri sterili soltanto per il tempo della la sua durata. Finito l’episodio, tornava a danzarmi nella memoria fantasticante l’icona sfuggente dell’Invincibile: che cosa faceva, cosa pensava, mi ricordava, e come, quanto, se sì? Del doppio “invincibile”: ero stato, meditavo, tradito umiliato mortalmente offeso: risarcirmi era un mio diritto. Altrettanto tradito umiliato e offeso il popolo palestinese: chi poteva risarcirlo contro quel tripudiante seminatore imbattuto di futuro nefasto? E non soltanto per l’area geo-politica locale, ma per tutti. Meno complicato un risarcimento personale contro il primo invincibile. Comparatio blasfema? Forse. O più semplicemente, compresenze della vita brada. Al solito. E forse sarebbe il caso di stendervi sopra un bel frego.
Ne fossi capace. Invece mi tentano altre mescolanze (naturalmente, offerte dagli appunti diaristici sulle agende scolastiche). Per esempio, l’anno del (già ricordato in questo lungo exursus) compiuto settennio fu anche convoglio di altre coincidenze e compresenze, di non meno grande avvenire, ma di segno opposto: il terzo giorno del suo ultimo mese iniziò l’era dei trapianti cardiaci. Christian Barnard trapianta all’ortolano Lous Washkansky, di 55 anni, il cuore della ventiquattrenne Denise Davall, stroncata da un’auto assassina. E giacché ci siamo, ricordo che il primo trapianto di pancreas, realizzato in America, risale all’anno magico della mia love story.

mercoledì 3 febbraio 2010

Susanna, Frammento 56


II

SECONDO BLACK OUT: NOVE ANNI

“René Nelli fornisce un importante contributo su un punto molto tecnico ma per me decisivo: alludo all’asag, o assays, o essai cioè alla prova che la dama impone al suo spasimante [...] in rapporto al tantrismo.
Davenson ha rilevato come presso gli Arabi il rifiuto di adempiere completamente al desiderio sia il mezzo più “raffinato” per eternizzarlo. Così scrive Ibn Dawûd: ‘Ah!, no, non adenpiere alla tua promessa d’amore, temi l’oblio!...’.
Ma non vuole veder altro che “masochismo alambiccato”,“basso calcolo di una sensibilità morbosa” nello stesso fenomeno quando esso è documentato presso i trovatori, come Cercamon (1135-‘45): ‘Nulla desidero più / di un oggetto che mi sfugge’ / o come Matfre Ermengau (secoli XIII–XIV): ‘Il piacere di questo amore è distrutto quando il desiderio trova il suo appagamento’
René Nelli al contrario [...] , cerca di comprendere la natura e la funzione dell’asag nel comportamento cortese e giunge così a individuarne il segreto nella ‘Gioia d’amore’ stessa. Seguiamo la traiettoria di questa ricerca nell’Erotismo dei trovatori.
La joie (Gioia), Joy d’amors in occitanico, è un termine maschile il cui senso varia non solo a seconda delle epoche, da Guglielmo IX a Montanhagol, ma anche in uno stesso autore, a seconda del tono del poema. Il primo e generale significato è: ‘l’esaltazione che trova origine nella donna amata e che ha per oggetto l’amore stesso’ Talvolta è però semplicemente la gioia di vivere amando, o è un gioco, corteggiamento erotico, o petting. Ma già in Guglielmo IX, la Joy è conferita da Amore a ‘chi ne osserva le leggi’. E questa gioia vien detta ‘pura’ perché dipende da un bene che si desidera senza averlo (ancora) ottenuto: gioia di desiderare. Il senso di Joy oscilla dunque fra quello di piacere di essere amanti e quello di aspirazione ad eternizzare il desiderio, come presso gli arabi. / In Guglielmo IX il Joy diventa anche un influsso misterioso che emana dalla presenza e dagli occhi della dama:
‘Tutta la gioia del mondo è nostra /Signora, se ci amiamo’
e i suoi benefici effetti si esercitano sul corpo quanto sul cuore dell’amante:
‘Con la sua gioia può guarire il malato, /con la sua collera ucciderlo’
‘A mio vantaggio voglio trattenerla / Per ristorare il mio cuore / E rinvigorire il mio corpo /Così che non possa invecchiare / Un uomo vivrà più di cent’anni / Se riuscirà a cogliere le gioie dell’amore’
cioè se riuscirà a dominare le leggi del desiderio, esaltato dal controllo che la dama gli impone: ‘Nessuno può essere sicuro di aver trionfato in amore se non si sottomette in tutto alla sua volontà’ Il tema della sottomissione alla dama porta a quello della prova che il suo spasimante deve subire:
‘La mia signora mi mette alla prova e mi cimenta / per scoprire in qual guisa io l’ami’
Questo saggio, assay o asag, diventerà nel xiii secolo [...] la prova eroica della castità serbata “a letto”, nudus cum nuda, di cui Mircea Eliade ha descritto i modi nel tantrismo [...] L’asag si trasforma allora in una sorta di tecnica del joy e il joy diventa a sua volta gioco erotico per eccellenza, che suppone l’amor imperfectus come condizione non solo di fin’amors ma di gioia ‘pura’ cioè di piacere senza procreazione.
Di qui le moltissime scene descritte nei due grandi romanzi cortesi Flamenca e Jaufré, nei romanzi della Tavola Rotonda, nel Parsifal di Wolfram d’Eschenbach in cui gli amanti giacciono insieme nudi ma separati da una spada o un agnello, o un bimbo; e se cedono al desiderio, ciò è la prova che non si amano di fin’amors, di vero amore [...] “La castità, a condizione che gli spiriti animali fossero stati prima eccitati, diventava una forza benefica” scrive René Nelli che in nota aggiunge, con un punto interrogativo retorico: “Si tratta forse di una teoria gnostica diffusa in occidente dai catari?”
E’ d’altra parte noto che il catarismo si era diffuso fra le Beghine e in particolare le Beghine di S. Francesco, dal xiii secolo in poi [...] A proposito dell’asag inteso come “magia erotica fondata sulla preservazione e contenimento del principio vitale sessuale” René Nelli scrive: “La deposizione di Guillaume Roux nel Liber Sententiarum Inquisitionis Tolosanae non lascia dubbi a proposito dell’esistenza e diffusione fra le Beghine di tale ricerca della tentazione ‘meritoria’ e ‘salutare’”. G. Roux dichiara infatti che secondo le Beghine nessuno poteva essere dichiarato virtuoso (o virtuosa) nisi se possent ponere nudus cum nuda in uno lecto et tamen non perficerent actum carnalem (citato in L’érotique des Troubadours [..]
E’ attraverso l’asag che si rende non solo possibile ma quasi inevitabile l’incontro della cortezia dei trovatori con lo gnosticismo dei catari, anche se i motivi che determinano le due esperienze sono diversi: presso i trovatori esaltare il desiderio, presso gli gnostici trionfare su di esso (ascetismo dei perfetti) o permettergli di esprimersi ma evitandone le conseguenze procreatrici. (Il controllo imposto agli amanti dalle dame credenti associa esemplarmente i due motivi). Questo intendevo quando definivo l’Eros ‘desiderio senza fine’. Si rende qui evidente come l’amore cortese e il catarismo, pur restando due eresie distinte [...] non potevano fare a meno di entrare in simbiosi in numerosi campi di comportamento pratico – il che è infatti accaduto”
Denis de Rougemont, L’amore e l’Occidente, bur, 1977, pp.431-33

*

Già: nove anni ancora dopo il settennio compiuto e il ritrovarsi tanto “favoloso” e infine discretamente drammatico. Anni di silenzi alternati a improvvise riprese epistolari, mai, però, condite, anzi condensate, in incontri fisici: la lontananza corporale continuò per tutti quei nove anni, mentre i nostri corpi si trasformavano nella morsa implacabile del tempo, con le sue lentezze e le sue improvvise accelerazioni, malattie comprese: a moltiplicarne l’indaffarato “scorrere trasformando”. Trovo fra le disperse carte, malamente e incompiutamente ordinate, lettere di Susanna dell’anno successivo a quello dell’incontro estivo del settennale, e un paio (ma ce ne devono essere delle altre) dei primi quattro o cinque anni del decennio seguente. Serviranno da puntello-riscontro alle memorie scotomiche che qui tento di annotare.
Nel secondo anno del decennio in fasce ero commissario di maturità classica per la filosofia al liceo ginnasio di Zefiria. Tornavo nella Calamagna in veste di operatore scolastico per la prima volta, dopo il trasferimento in Sicania: erano trascorsi ben tredici anni. Fu una decisione cresciuta lentamente, tra varie difficoltà, logistiche e d’altra specie. E approdata a una problematicità suggestiva, che mi spronava come la visione progressiva di un’autentica avventura nebulosamente attraente. Avrei rivisto ex alunni e, soprattutto, alunne? Quasi certamente. Forse qualcuno/a di loro aveva un figlio, una figlia, candidati nella sessione d’esame che mi apprestavo a vivere da commissario esterno di Storia e Filosofia. Praticamente certa la presenza di qualche figlio o figlia di ex colleghi del magistrale o dell‘Istituto Tecnico Commerciale, la mia prima scuola statale. Molti minuti del pre-sonno e del post (in attesa di levata più o meno pigra) andarono occupati da fantasticherie dolci. S’intende che al culmine dei pensieri stava lei, l’indimenticabile assoluta.
Non sapevo come stesse in salute, cosa avesse passato negli anni del black out totale, se fosse ancora, o di nuovo, col marito. Non avevo notizie, neppure indirette (almeno, così mi pare. Salvo trovare, nel deprecato caos delle carte e dei diari, qualche testimonianza contraria, prima che concluda, se mai ci riuscirò, questo racconto minato). Com’era? Com’era cambiata, dopo tanti anni, nello splendido viso e nell’agile corpo serpentino (per ripetere il complimento a narici aperte di Tucano)? Aghi di curiosità pungevano la mia carne incalzata, e la carne della mia memoria, appena l’amarcord s’affacciava alla ribalta della coscienza. Bastava un fatto minimo, una comunissima notizia di giornale o televisione, una ricorrenza nominale o eventuale, una coincidenza di tempi e spettacoli che mi riportassero agli anni magici per richiamarne e ravvivarne i mai spenti ricordi. Per esempio, il primo successo decisivo di Caterina Caselli citato in una intervista di rotocalco. Canzone, che la rese famosa, Nessuno mi può giudicare, Festival di Sanremo. L’anno? Il top dei miei anni magici, la maturità magistrale di Susy. E vai con i ricordi caldi. Anzi, surriscaldati.
Nessuno mi può giudicare: magari. Qui l’associazione scatta un po’ anche per spinta di contrasto, ma è l’anno il proiettore assoluto. Passarono i giorni delle riunioni commissariali e delle prove scritte: nessuna visita a scuola di ex era possibile in quel tempo quaresimale, e dunque non me l’aspettavo. Ma erano possibili telefonate e magari qualche visita a casa. Un paio di telefonate ci furono, in effetti. E abbastanza tempestive perché io sapessi che l’alunno X era figlio del collega tal dei tali: una mia amichevole attenzione durante le prove scritte sarebbe stata più che gradita. A quale candidato non capita di incagliarsi in una difficoltà di lingua o di calcolo? Un suggerimento, un piccolo aiuto da parte del commissario di turno nella sorveglianza avrebbe ridotto la difficoltà. A volte l’aiutino veniva chiesto in flagranza di esplicito e di indelicatezza urtante. Ma la prevalente mediazione del cognato attutiva verso il sorriso indulgente: che fare? E’ usanza, è prassi, è perfino un’ovvietà sociale e capillare. Basterà, dunque, onorare il saggio monito oraziano (versione...lunga): “Est modus in rebus: sunt certi denique fines, / quos ultra citraque nequit consistere rectum”. (Satire, I,1, 106-7). Il che produrrà un incremento generalizzato di aiutini.
Quanto a visite, non ne incoraggiai, personalmente, per l’immediato: sapevo, se erano di ex colleghi con figli esaminandi, che la molla principale al contattarmi sarebbe stata la curiosità puntata sulla valutazione delle prove scritte: tema d’italiano e versione dal greco. E tuttavia non potei evitare che il cognato mi accogliesse, al mio arrivo in casa sua, con una lista di segnalati. E mica corta! Non la lessi subito, ma la sera, a letto, dopo la prima cena in terra magnogreca. C’erano nomi di molto varia provenienza. Alcuni riconoscibili come rampolli di colleghi remoti, altri a me sconosciuti, ma di famiglie ben note al cognato.
Finalmente, un bel mattino, durante le prove orali, colpisce la mia curiosità una bella ragazza del “pubblico” particolarmente attenta alla mia persona. Non ravvisavo nel suo faccino raffaellesco alcuna somiglianza con mie conoscenze pregresse. Seguiva l’esame con vivo interesse: una candidata? Non mi pareva di averla notata durante le prove scritte, e sono certo che un tale viso non sarebbe sfuggito alla mia registrazione mentale, sempre sensibile alle grazie venusee. Finito l’esame in corso, mi alzai per invitare il pubblico presente a lasciare l’aula che avrebbe ospitato, a minuti, il consiglio della commissione per la formulazione del giudizio sull’esaminata. Allora la ragazza mi si accostò con palese intenzione di rivolgermi la parola. Attraversai la porta dell’aula e mi portai sul corridoio per agevolarle il compito. Ed ecco l’apriti Sesamo: “Sono la nipote di una sua amica, la signora Susanna Castrato”. E qui, un tuffo del cuore nelle acque smosse del passato encantado. E una tremula voce: “Oh, ma che sorpresa! Come sta la mia amica?” “Bene, si trova qua, in casa dei genitori, e mi manda a dirle che avrebbe piacere di incontrarla”. In cima al sobbalzo di ogni mia cellula e liquido organico si esternò questa risposta a voce calda e forte: “Ma certo, farebbe piacere anche a me.” La fanciulla: “Grazie. Andrebbe bene stasera, alle sette, sul lungomare?” Ottimamente, fanciulla. Stasera alle sette sarò lì. “Vicino al bar Nettuno?” “Come suggerisci tu, cara”. Esaurita l’esplorazione visiva del viso ravvicinato, aggiunsi l’ovvia curiosità: “E ora dimmi: quale nipote sei, tu, tra quelle che conobbi tanti anni fa in casa di Susanna o di una sua sorella?“ La dolce creatura: “Sono Nuccia, la figlia maggiore di Rosina, si ricorda di me?” Flash memoriale. “Se mi ricordo, carissima! Ti ho perfino presa in braccio qualche volta quando eri una graziosa bambinella, di un paio d’anni. Ma ora sei una splendida signorina, come avrei potuto riconoscerti?”
E via con le confidenze, per pochi minuti ancora, ritardando il successivo esame con la candidata di turno già davanti alla commissione. Disse che si ricordava di me, che non ero cambiato molto. Ringraziando, ascoltai la sua dichiarata convinzione di ricordare anche mia moglie, e in particolare il suo bel viso. Forse s’ingannava, pensai sul momento. Ma, ripensandoci, non vedo difficoltà in un simile amarcord: i pochi anni per ricordare li aveva, Nuccia. E d’improvviso mi si svegliarono le piccole zuffe fra cuginetti, lei e il fratellino di Susy. Il quale finiva spesso per ricavare qualche schiaffo dalla sua mascolina prepotenza, poco gradita dalla remotissima Nuccia, perciò pronta a provocare la difesa materna.
La giornata si svolse come prevedibile routine per gli altri commissari, mentre nel mio cervello eccitato non fu facile rimettere ordine e serietà professionale. Sensazioni presenti e ricordi stagionati mescolavano le loro carte in bizzarrie di innesti e composti. Il turbinio decelerava verso la metà della giornata e la fine delle prove, sopraffatto dalla stanchezza crescente tra colloqui e giudizi, incertezze ed eccesso di pretese di qualche collega troppo sensibile alle segnalazioni ambientali. A casa (del cognato), dopo il pranzo leggero, la siesta si frantumò su scogli di interferenze con il bisogno di riposo: l’attesa dell’incontro lasciò poco spazio al sonno. Come avrei ri-trovato Sa (quella Sa ancora, saltuariamente e tenacemente, presente nei miei diari, appunto con questa ulteriore strozzatura nominale)? Invecchiata, troppo rimodellata al peggio? Oppure ancora in condizioni di apprezzabilità, totale o di dettaglio? Più probabile l’ipotesi migliore, conclusi.
Fu mio cognato a portarmi a Zefiria con la sua macchina nuova. Mi lasciò sul lungomare verso le sette meno un quarto; sarebbe tornato a prendermi verso le otto. Quei pochi minuti di attesa solitaria su quel lungomare pieno di ricordi di ogni età (dai venti anni ai nove) furono di trepidazione speranzosa. Ma speranza di che? Niente di preciso, niente di meno, o di più, che vago e nebuloso ondeggiare fra labili fantasmi del passato reale e larve incertissime di un futuro senza avalli né direzioni. Nell’arsura quasi decennale dell’ultimo black out, ogni più piccola occasione di contatto, anche il più casto e magari convenzionale, sarebbe stato sorgiva acqua fresca nell’afa di quell’estate ionica. Contatti di sguardi, di voci, di mani strette nel saluto, di baci sulle guance. Immaginavo soltanto queste inezie, che per me, però, erano, in quel lungo digiuno, chicche di preziosa dolcezza. Andavo su e giù nell’affollato lungomare con la contenuta baldanza di un amante in attesa della sua donna, e non avevo che briciole nel piatto dell’attesa. Ma briciole ghiotte, nullaggini sacre, attualità vibranti di imprecisabili virtualità. Intanto a me s’era aggiunto, imprevedibilmente, il cognato di mio cognato, anche lui del mestiere: insegnava italiano e latino al liceo classico zefirese. Credendo di farmi un gradito regalo con la sua compagnia, s’era staccato da un suo collega e mi si era messo al fianco. “Come mai da queste parti?”– “Aspetto una mia vecchia alunna e amica di famiglia, che non vedo da molto tempo”– “Ti faccio compagnia finché non sarà arrivata”. Mai offerta di compagnia fu meno gradita. Ma che potevo dire? Abbozzai. Tanto, al momento giusto l’avrei congedato senza cerimonie, se non avesse capito da solo.
Susy mi giunse alle spalle e ci scosse con la troppo nota voce, soltanto un po’ più roca: “Possiamo salutare gli illustri professori?” – Mi voltai di scatto, porgendo la mano e un sorriso sbiancato di malfrenata emozione. Lei si protese, un po’ esitante, per la convenzionale finta di baci sulle guance, e io mi sporsi a dare e ricevere veri baci come una spruzzata di acqua benedetta per un credente perdonato di una sua colpa. Presentai il cognato del cognato, che indugiò qualche minuto più del necessario (da quell’imbranato che era), e finalmente fummo in tre a conversare (lei era venuta con la nipote messaggera). Sorrisi complimenti parole. E parole parole parole: ansiose di sapere, sfibrate dalla sofferta inedia di lungo corso, speranzose, perplesse, dolenti per le notizie veicolate, e contente per le stesse, che mi ammettevano, comunque, nella popolosa vicenda della sua vita sconosciuta. Nel buio di quell’esistenza drammatica e a me estranea, da me distante come luna e mare, si faceva luce di pazienza narrante e calore di un’emotività agitata di sincero slancio.
Oggi, il percorso memoriale è difficoltato dalle severe erosioni del tempo eccessivo, certi segmenti oscillano tra l’orma mnestica reale e le ricostruzioni congetturali. Molta nebbia bara con l’immaginazione per darsi colore e calore: particolari certi sfumano nelle nebulose indeterminatezze dei residui logorati. E fa rabbia, a tanti anni di lontananza, non potere catturare la palpitante attualità della reviviscenza proustiana. Fa rabbia il non avere avuto forza e costanza per un recupero meno tardivo di tanta vita dispersa. Les intérmittences du coeur sono così capricciose, così indipendenti da concertati programmi.
Ad ogni modo, dovrò contentarmi di riassunti e ricostruzioni supportate da lettere e appunti, sia pure avari. Passeggiando fianco a fianco, come due compagni di vita, quella sera Susy offrì larga messe di notizie sulla propria esistenza estrosamente travagliata “da un destino cinico e baro”. Intanto, la separazione dal marito era ormai definitiva (e la notizia non mi trafisse il cuore). Dopo una breve esperienza di riconciliazione e convivenza (breve quanto? Non ricordo se di un anno o due o poco meno) la situazione domestica era precipitata nel disordine progressivo delle liti frequenti e dunque nel terrore delle bambine per quel padre furioso. Occasioni e cause dei litigi, la solita gelosia, lo smaccato attaccamento di lui alla madre e alla sorella, certo un poco anche (aggiungerei, di mio) l’insofferenza di Susy per autorità e autoritarismi, invasioni di campo e interferenze indiscrete. Il fattore decisivo, mi disse, fu la salute della figlia maggiore, Sonia, ora tredicenne e alle sue prime piume: si è ammalata di anoressia. Era arrivata al punto che tremava in tutto il corpo quando sentiva arrivare il padre in casa. Anzi, a detta di Susy, cominciava a tremare man mano che si avvicinava l’ora del suo rientro. Durante le liti, era letteralmente squassata da crisi para-epilettiche. Che, perciò, mettevano fine allo scontro, ma lasciando dense code di rancori e premesse per nuovi duelli. Ci furono anche, diciamo, contatti di mani non carezzevoli, e Susy non è tipo da accettare schiaffi, fossero pure quelli presunti sacri del papa (diceva nel remoto “allora” e ripeteva nel putativo “ora”). Non ne aveva accettato mai dal padre, figuriamoci da “un marito qualsiasi”. “Rischiavo di perdere la bambina”, diceva, incalzando, Susy. “Non potevo andare avanti”, ripeteva. E dentro le segrete stanze della memoria fantasticante le sue confessioni accorate mi disegnavano scene-lampo d’irreale convivenza tra noi due, dove non si sarebbero coltivati simili fiori di tossica linfa. “A qualunque costo, dovevo allontanare le mie figlie da quella testa malata di padre degenerato.” E separazione fu. Prima di fatto e fisica lontananza, presto legale, con tanto di tribunale, spese, privazioni, sofferenze, tentativi vani di trovare, pulitamente, un lavoro. Pur di tenere con sé le bambine, aveva rinunciato a un assegno di alimenti più sostanzioso delle magre 400.000 lire accettate. Sonia, dopo la separazione, è andata migliorando; ha ripreso ad alimentarsi quasi normalmente e riguadagnato una parte del peso perduto. Insomma, l’“uomo meraviglioso” che Susy aveva creduto di scoprire nel marito nove anni prima, s’era rivelato un abbaglio totale. Quasi incredibile, data la precedente esperienza con lo stesso soggetto. Era bastata la scoperta sofferenza (peraltro, tutta egocentrica e tarata da barbari pregiudizi) per le immaginate immoralità della moglie col suo professore di filosofia a trarla in inganno.
Ma era solo verità di “rivelazione” quella lettera? O Susy aveva caricato la cosa in vista di un tentativo di pacificazione già in fieri, o soltanto iniziale (è più probabile) magari per pressioni dei genitori di lei? Né solo dei genitori: tutta la famiglia premeva per una soluzione pacificatrice. E si capisce: quanto avrebbe pesato su fratelli e sorelle e genitori una Susy divorziata, con due bambine e quel modesto aiuto economico? Senza escludere neanche qualche più o meno indiretta intrusione del marito. Difficile saperlo. Ma inevitabile chiederselo. Forse non è neppure corretto il verbo usato: sono io che mi chiedo, in piena coscienza, se e quanto Susanna abbia sentito quel po’ po’ di conversione affettiva verso l’“uomo meraviglioso” già esperito e provato a usura come soggetto guasta-pace e a perenne rischio del peggio? Sono io, (quale io? quale livello di lucidità? in quanto rotolare di Crono maturata?), che formulo le domande o non pollano, piuttosto, queste sospensioni delle certezze, motu proprio e inevitabilmente, dal magma sotterraneo delle emozioni accese da così folto e arruffato accumularsi di eventi e notizie?
Esaurite le informazioni personali di Giusy (qui più condensate che nel racconto di lei), si passò alle mie, su di me e famiglia. Il “suo” Giampiero (“Come sta il mio Giampiero?” – chiedeva così di mio figlio. Anche nove anni prima lo aveva preceduto dello stesso possessivo) aveva ormai vent’anni, era diplomato (maturità classica), studiava medicina all’università di Liotria. La femminuccia, Manuela, aveva finito il primo anno di ginnasio e avrebbe continuato col liceo. Mia moglie, Rina, “al solito”: zelante mammina apprensiva, risparmiava la figlia nelle faccende di casa per lasciarle libero tutto il tempo richiesto dalle sue non esorbitanti capacità di studiosa applicazione. E dalle ovvie necessità di riposi e qualche svago. Se è un bel giovane, Giampiero? Ma certo. E’ alto (un metro e ottantacinque), snello, spalle larghe, ben fatto. La piccola ha i suoi quattordici anni. Anche lei è una bella ragazza, alta (un po’ più del metro e settanta), ben costruita anche lei. Ma è timida e introversa: un bel guaio. “Come la mia Sonia” – sovrappone Susy. I suoi occhi verdi, mi chiedi? Anzi, i suoi “stupendi occhi verdi”? Sempre più verdi e luminosi: due oblò di fascino sull’anima docile. Se è brava a scuola? Non proprio, a scuola – come alludevo – non eccelle: troppo ritrosa, e poco portata alle astrazioni concettuali. Forse sarebbe dovuta andare al magistrale anziché al ginnaio-liceo classico. Ma lei ha insistito su questo. E non è difficile coglierne le segrete molle: insegnando, io, in quel liceo, si sarebbe sentita più protetta. Insomma, ha scelto il suo genoma di timida e insicura. Ma se la cava, con la media del quasi discreto. La nostra vita coniugale? Va, fra alti e bassi. Nessuna vera tempesta, nessun tornado da rotture e separazioni (finora!) ma non troppo radi spruzzi di malcontento, piccole ma tenaci incomprensioni, l’impulsività di Rina, la sua totale estraneità ai miei interessi culturali. E le mie periodiche risposte nervose alle sue provocazioni: compro troppi libri e giornali, sono piuttosto assente dalle cose di famiglia (ma non è vero), scrivo per i giornali, ma con scarso profitto economico; e questo e quello. Sottinteso nel discorso di Rina, ma anche replicata traduzione in esplicito: invece di fare lezioni private e rinforzare lo stipendio gracile con guadagni extra, ti logori in attività sterili di effetti pratici, pur tanto necessari alla famiglia. Che cresce in esigenze con la crescita dei figli. Come fanno tanti miei colleghi. E suo fratello, vero primatista di lezioni private. Poi con quel buco nero al centro, che tu ben conosci. “Buco nero?”– “Ma sì, il nostro passato colpevole verso di lei: di tanto in tanto riaffiora a complicare le frizioni occasionali: non mi sono rivelato un marito inaffidabile? non l’ho tradita con la sua migliore amica?” Omissis sui dettagli. E conosce solo la panna della torta, figuriamoci se…
Se crede sempre alle tue versioni dei lontani “misfatti”? anzi, alle nostre? Io non giurerei che le abbia prese per oro colato già nei due tempi delle progressive rivelazioni (l’orale, nel culmine del settennio, e la successiva epistolare, di un anno e mezzo dopo – se non sbaglio). Tuttavia, la serietà accigliata con la quale io insisto nell’esclusione di ogni contatto intimo sgonfia ogni eventuale ritorno di sospetti e sospettosità.
I miei genitori, sono stati crudelmente spaiati: mio padre è morto tre anni fa. Un ictus senza scampo. Aveva settantun anni appena. La morte è stata preceduta da un attacco di coliche renali che lo avevano costretto a un abuso di analgesici tre mesi prima. Forse la causa prossima del proditorio colpo mortale. La mamma sopravvive penosamente, ospite, a turno, dei figli. I genitori di Susanna erano ancora vivi, con qualche problema di salute, non tutti lievi. Il fratello Giacomino, era già laureando in medicina. Anche lui, un bel giovanotto; soltanto, meno alto e robusto dei due maggiori. Le sorelle sposate, Rosina e Marina, continuavano la loro vita di sempre, senza fulgori né eccessivi dolori. I loro figli lavoravano. Tranne l’ambasciatrice di zia Susy, che studiava, e sarebbe stata di maturità classica l’anno dopo. Il particolare mi chiarì il plurale di Susy nel saluto dell’incontro sul lungomare (“possiamo salutare gli illustri professori?”): Nuccia, frequentava quel liceo, conosceva il cognato professore di mio cognato, e ne aveva informato la zia Susy. La minore delle sorelle, Tina, diplomata maestra elementare, non insegnava, ma faceva la hostess negli aerei della compagnia di bandiera, e risiedeva nella capitale. No, non era sposata. Come mai? Amore di libertà. E scelta da single. A ciascuna la sua sorte. Con lei, un professore non era stato scrupoloso come il sottoscritto. E lei, Susy, oggi, a distanza di tanti anni, mi era grata di tanto sacrificio. Ora, diceva, lo capiva meglio. Anche se allora l’aveva fatta soffrire come una sottile tortura. Ed esaltava il suo professore scrupoloso contro il professore fellone (di educazione fisica, poi!) della sorella, che aveva abusato di una minorenne. L’avesse saputo suo padre, qui sì, sarebbe esplosa una tragedia. Ma non lo seppe neppure la madre. E Tina lo ha rivelato a Susy solo di recente. E in me il segreto si fermerà. Credo.
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La mia “beghina” forzata, il catarismo spurio del “pregiudizio ponderato” come “spada” tra nudus cum nuda in uno lecto, l’asag poco mistico, ma altrettanto esigente nella rinuncia a quel totale che, mancando, lascia vivo il desiderio. Il mio joy “meritorio” e mutilato, l’amor imperfectus e il fin’amors: ma che c’entra la castità? Infatti, non c’entra: i giochi erotici erano quasi tutti permessi in quella tortuosa malizia. Bastava evitare l’atto carnale, il solo proibito, il solo a rischio di complicazioni amare. E gli atti violenti, l’esercizio dell’infame sadismo. Ah, l’ingegnosità umana! Quanta fertilità nell’acconciarsi le cose al migliore...riscontro. L’immaginazione si accende a esplorare tanto “mistero”. Fra beghine vogliose e monaci priapici; eroi di teoria e realtà di florido petting. Si sveglia e si accende, la fantasia. Fino alle dure impennate dolenti, vedove di bersagli appetibili in extra.
Quanti stimoli culturali e plurali confronti da quella avvincente lettura (una rivelazione) in questo decennio di nuovo black out! E quante letture-rivelazioni, nella mia carriera di lettore onnivoro.

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Questo primo incontro dopo (quasi) nove anni dall’ultimo fu, in superficie e apparenza, un vario sondaggio sul nostro passato personale e di famiglia; nel fondo, un ritrovarsi complicato e inconfessato. Fluivano sotto il cielo lontano e propizio domande e risposte di pura informativa; ma lo sfondo era di palpiti e tenero amarcord. Né credo solo in me: tra le spire delle sue sillabe la curiosità emozionale insinuava tremori di impazienza: ero ancora innamorato di lei? Non si poteva saperlo. Non en plain air, non all’esplicito: bisognava stanare la risposta sotto quell’anagrafe neutra; coglierla nell’accento tonale di qualche frase, di talune risposte, di un casuale lieve, o improvvisamente energico, contatto propiziato dalla folla passeggiante in quel lungomare spensierato immerso nell’imbrunire rinfrescante, a riscatto dell’afa diurna.
In alto, il cielo stingeva delicatamente dal tramonto troppo acceso a sfumature tenere dei soliti cromatismi compositi. E si parlava ancora quando spuntarono le prime stelle sopra il mare, a levante, e sopra le ondulate colline opposte, a nord-ovest. E Venere, lo bel pianeta ch’ ad amar conforta/ faceva tutto rider l’oriente / velando i Pesci ch’erano in sua scorta”. No, niente Pesci e niente oriente: ma anche l’occidente rideva quella sera davanti a quel mare crepitante di memorie: latamente culturali, storiche, mitologiche. E strettamente, euforicamente, irresistibilmente personali. E Venere pianeta, l’infuocato grumo di inospitalità sterile, cresceva nel suo luccicore reale e metaforico, avanzando nelle due ore che la separano dal tramonto solare.
Come nelle nostre contrade sicaniche, anche in quella plaga della Calamagna il sole tramonta dietro monti e non “dentro” il mare, come accade in certe zone del profondo Sud: nella punta del frastagliato stivale, per esempio, o nella zona della petrosa Tropea, dal fascinoso paesaggismo marino-montano. Queste pennellate intimiste riuscivano a bucare la scorza prosaica di quel mediocre edonismo cinetico di massa: la mia cornice non doveva annegarsi in quella frastagliata flottiglia di anonime presenze in cerca di rinfresco serotino dopo le calure del giorno lungo. Anche noi due eravamo nel mito. Un mito piccino, blindato, un po’ risibile. E sbilenco: quanto vi aderiva lei? Non ignoravo che certa fisiologia femminile tende, in prevalenza, al concreto percezionale, a volte fino alla prosa impoetica. Ma speravo in una qualche sintonia stimolata dal ricco “contenzioso” bipersonale. Ma sì, via, anche lei doveva vibrare, di qualche personale misura, sia pure, in concordanza di fase con la mia elettricità neuronale polarizzata su quel nostro mitico passé.