sabato 25 ottobre 2008

L'orso russo si sveglia


Dopo vent’anni di pazienza coatta verso le troppe provocazioni della molto democratica America e dei suoi docili alleati, era prevedibile un risveglio ringhioso dell’orso umiliato, che nell’“era” delle risposte moderate era venuto silenziosamente rafforzandosi. Ma le anime candide dell’Intellighentsia occidentale gridano allo scandalo e invocano severe sanzioni per cotanto peccato. Ed è spettacolo euforizzante vedere e udire come vengono rimosse montagne di fatti, negate evidenze solari, distorte azioni e omissioni del non immacolato Occidente pieno di pustole democratiche ostentate come altrettante purezze.
I fatti, dunque, e le azioni, spalmate in un ventennio di iperattivismo geopolitico. All’indomani del famoso crollo del Muro par excellence, fine dell’89, gli Usa attivarono iniziative mirate a decomporre l’impero sovietico. Con la complicità dei Paesi Nato, si incoraggiarono tutti i soggetti antisovietici a disfare quel sistema, certamente indebolito dalla corruzione burocratica e dalle incaute concessioni liberali del benintenzionato quanto ingenuo Gorbaciov. Caddero così ad una ad una le repubbliche periferiche (Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Germania Orientale…) seguite, presto, da alcune di quelle che formavano la federazione russa, il cuore del sistema. Anche l’indipendente Iugoslavia comunista, venuto meno il collante della forte personalità titina, si sfascia. E l’Occidente americanisant coglie l’occasione per atteggiarsi a difensore dei diritti civili delle minoranze e custode monopolista del verbo democratico. In nome di questi valori mette a fuoco i Balcani, provocando inaudite sofferenze alle popolazioni civili. Capolavoro di tanto zelo, l’attacco alla Serbia di Milosevic, che cerca di salvare il salvabile della compagine socialista ereditata dal carismatico Tito: e l’Italietta, fedele suddita, più che fiera alleata, di quel santuario assiologico detto Usa, presta il suo territorio a quei bombardieri che massacrano le solite incolpevoli popolazioni civili, riducendo quel Paese a una condizione pre-industriale.
E siccome l’appetito vien mangiando, Bush, per fare meglio del “bombardiere” Clinton, non si limita ad aizzare e armare e foraggiare altri capi e capetti del mondo ex comunista in fregola di democrazia elettoralistica (in ineriore homine, condizione di abbuffate energetiche per rapaci gruppetti di capi e capetti) ma concepisce l’eroico disegno di “chiudere” la Russia in una corona di satelliti militari e di missili pronti all’uso. Come? Installandoli prima in territorio polacco e ceco e poi magari in altri avanposti “liberati”. La giustificazione? Non potrebbe essere più ridicola e derisoria: prevenire attacchi terroristici di provenienza islamica, e in particolare dall’Iran satanico. Insomma, Bush e corte, reduci dalle gloriose imprese dei macelli provocati nei Balcani, in Iraq e in Afghanistan, decidono di aggiungere quest’altro aureo monile al loro medagliere delle marronate sanguinarie: tanto, l’orso sonnecchia. E continuerà ad incassare.
Senonché l’orso era venuto svegliandosi, ed erano gli improbabili crociati della Democrazia taroccata a non essersene accorti. Malgrado la piaga della Cecenia in rivolta (altro regalo dell’Occidente liberale), malgrado i salassi inferti dal dissoluto ubriacone Eltsin e complici alle finanze statali, il suo erede, il “piccolo” Putin, ex Kgb, ha scosso la potenza russa assopita, ne ha risanato (parzialmente) l’economia con gli enormi giacimenti di gas e petrolio, ha ripulito le forze armate, ingaggiato fisici e ingegneri di alto livello per ripotenziare e ammodernare quell’immenso arsenale, ha punito alcuni grossi papaveri della casta oligarchica, e ha deciso che era ora di finirla con le umiliazioni e le provocazioni ingoiate senza adeguate risposte. Ed ecco che, quando il furbastro Saakashvili, presidente della Georgia, incoraggiato dalla Casa Bianca alleata, attacca l’Ossezia del Sud, regione non georgiana a netta prevalenza etnica russa, l’orso putiniano risponde per le rime. Rime micidiali, da far passare la voglia a eventuali futuri sognatori “democratici”, di praticare la via georgiana.
E qui scoppia il Caso: la risposta russa, benché prevedibile, ha sorpreso, allarmato e suscitato condanne e commenti di puro delirio nel soave Occidente senza macchia. Putin ha fatto un uso esagerato della forza, Putin ha invaso un Paese sovrano, Putin ha lanciato una sfida all’Euro-America. E via salendo con le imputazioni. Indi si passa alle ingiunzioni: Putin ritiri subito i carri armati, restituisca l’Ossezia, rispetti l’integrità territoriale della Georgia. E simile musica. Ad ogni bordata di castronerie e minacce spuntate, Putin e Medvedev rispondevano (a Sarkozy, presidente di turno della Ue) con impegni precisi, ma non accomodanti. Il parlamento russo ha poi riconosciuto l’indipendenza delle due regioni contese, Ossezia Sud e Abkhazia (proclamata dai relativi parlamenti). La nuova sfida ha suscitato altre reazioni nervose nelle teste eminenti del Patto Atlantico. Le più comiche delle quali stanno agli estremi di un arco: come dire, dalle intimazioni del potente Bush alle esalazioni del nano politico Pierferdi Casini. Grida il primo: la Russia deve ritirarsi subito. Miagola il secondo: è da ingenui fidarsi di Putin. Dentro l’“arco” c’è chi si avvicina di più al Cespuglio mammonico e chi al vociferante nanetto. Fra i primi, brillano di corrusco furore (impotente) i dioscuri della defunta stagione dei nouveaux philosophes, André Glucksman e Bernard-Henri Lévy, che ingombrano di fragorose panzane le incolpevoli pagine del Corsera mielato (dal direttore Paolo Mieli). La logica dei due ponzatori è coerente con l’era digitale, perfettamente dicotomica: 1- 0, positivo-negativo. Positivo è tutto ciò che si autoproclama democratico, negativo tutto ciò che contrasta quell’astratto schema teoretico. Per i due, dunque, Saakashvili è la ragione fatta carne, Putin il diavolo neo-sovietico o vetero-zarista. Il fatto che sia stato quel presidente “democratico” ad attaccare l’Ossezia filorussa, non conta. Quanto alla presunta democraticità del georgiano, bisogna leggere quello che ha detto in una intervista al Corsera Salomè Zurabishvili, ex ministra degli Esteri di Tbilisi tra il 2004 e il 2005, “espulsa dal governo di Saakashvili”, contrario all’accordo che la patriota realista aveva raggiunto con Mosca “per il ritiro russo dalle basi militari ancora presenti in Georgia.” Salomè torna in Francia (sua “patria” dell’esilio), e parla con verità di quel finto martire. Eccone qualche pensierino: “dialogo e conciliazione non fanno parte dell’armamentario politico del presidente.” Il cane fedele di Bush è “ancorato ai vecchi sistemi della cooptazione politica sovietica.” La democrazia georgiana? “Direi piuttosto un abbozzo di società neo-comunista tale e quale a quella russa”. Questo è l’agnello azzannato dall’orso russo in risposta al suo azzardo.
Al ridicolo, in quanto inevitabile secrezione del fanatismo ideologico, non c’è limite. Un chiaro esempio è nel netto capovolgimento dei fatti operato da quel Mosè della democrazia verbale che è il citato Lévy: siccome Putin aveva raccolto forze presso il confine ossetico per prevenire o contrastare l’azzardo di cui sopra, secondo questo genio gallo-ebraico, a cominciare la guerra è stato lui: non meditava, forse, da tempo la canagliesca impresa? Ma se tutti hanno visto che è stato il georgiano a invadere l’Ossezia! bazzecole! I fatti non contano quando il pregiudizio ideologico comanda. Il nervosismo indotto dall’odio cresce in ragione diretta del realismo che ispira la reazione europea. Da Washington prosegue un fuoco di moniti inviti minacce culminanti con l’invio del neocon Cheney, vice di Bush, a incoraggiare-ammonire gli alleati “mollicci”: si diano una mossa, si facciano sentire dal mostro Putin. A sostegno di questa politica del grosso abbaio, una flotta militare Usa entra in Mar Nero con la scusa degli aiuti umanitari: il rischio di “collisioni” fra le due flotte cresce con il risico. Ma queste passeggiate ai bordi del territorio russo non sono provocazioni, secondo la logica democratica.
Quanto sopra detto non include ancora il massimo vulnus del chicchirichì paralogico occidentale: non si è ricordato che l’Assazia e la Abkhazia, a sbugiardante scorno della retorica occidentale, sono da vent’anni non regioni di Paesi inclusivi, ma vere repubbliche indipendenti, promosse da fior di referendum. In Ossazia il 98% dei votanti sancì l’indipendenza. Ma allora perché questo cas(in)o? Semplice: quei referendum non sono riconosciuti dalla “comunità internazionale” (leggi, Euro-Usa). Con quale motivazione? Questa: in Ossezia erano stati ammessi al voto solo i cittadini con passaporto ossetico! Cioè, la cosa più naturale del mondo. “L’Abhkazia è sostanzialmente nella stessa situazione. Si autogoverna, ha il rublo come moneta e le residue forze georgiane” presenti nel suo meridione “si sono ritirate poco tempo fa”. La situazione storico-politica delle due repubbliche malamente rivendicate dalla Georgia è illustrata in un onesto servizio sulla Stampa da Boris Biancheri (che smaschera la “colossale ipocrisia” occidentale con dettagliate considerazioni).
La linea prevalente nella politica italiana è quella della cautela: condividere la verbale condanna “unanime” della Russia, che ritira con comodo le forze armate e riconosce l’indipendenza delle due repubbliche filorusse, ma ripetere che non si può isolare una tale potenza: ha il gas, ha il petrolio, ci serve il suo appoggio nelle grandi questioni internazionali. Un colpo al cerchio Putin uno alla botte Cheney. Mentre non si placa la gara degli esperti a chi le spara più grosse contro la nuova Russa arrogante e imperiale: l’ultima di queste “teste d’uovo” (o del Kappa) azzera ben “dieci miti”, dal presunto accerchiamento della Russia all’umilizaione di Putin, dal ritorno alla guerra fredda all’onnipotenza politico-economica delle risorse energetiche del territorio russo. Con quali picconate di argomenti? Semplice: negando l’evidenza intenzionale e scambiando la tattica pelosa per strategia. Si può accerchiare un continente? No. E non è tale la Russia? Putin umiliato? Al contrario: Bush lo ha trattato con estrema cortesia e delicatezza. L’energia? E che ci vuole a cercare nuove fonti, a disegnare nuovi percorsi per gas e petrolio lontani dal controllo territoriale russo! E così via.
La perla del fitto assalto è quel Putin trattato con dolcezza: una smaccata tattica di corteggiamento infido scambiata per amicale sincerità! Ma c’è qualche voce dissonante nel coro della politica italiana? Ce ne sono, e vengono da dove meno le aspetteresti. Cossiga pone ai retori del crucifige questa domandina: che direbbe Bush se alcuni stati sudamericani decidessero di associarsi con la Russia e se ne facessero “garantire” l’indipendenza? Perfino un Tremonti riconosce le ragioni di Putin e le provocazioni del dittatore georgiano. Con più distese e solide valutazioni geopolitiche Sergio Romano sviluppa una linea convergente con le posizioni appena segnalate: l’antico timore russo dell’accerchiamento, le umiliazioni subite negli anni Novanta, lo sfascio a gran pena risanato e così via.
Aggiungeremmo a tali argomenti un ricordo storico: quando Kruscëv, su richiesta del minacciatissimo Fidel Castro, tentò di impiantare rampe missilistiche a Cuba, l’allora presidente degli Usa, John Kennedy, rischiò un conflitto con l’Urss e impose al Russo di cassare il progetto in cambio di un formale impegno a non aggredire Cuba. Ma sono argomenti che non bucano la scorza dogmatica dei nostri politologi d’accademia: Panebianco si diletta a sezionare con lama unidirezionale il “nazionalismo autoritario” di Putin & co., a spiegare ai profani il neo-imperialismo russo, a confrontare “I profeti disarmati e la prepotenza di Putin”, e così sia: senza un brivido di dubbio sulle responsabilità vere (o almeno bipartisan).
Naturalmente, il blocco dei “Paesi Liberi” si mobilita per danneggiare l’economia russa: ritirando denaro da quelle banche, pretendendo un aumento di tassi contro i rischi, e simili “insulti”. Primeggia, in questa gara, la fedelisima Albione, più blairiana che mai nel motto dell’ubbidir tacendo: La business community è irritata dal piglio guerriero della nuova Russia. E decreta: “Mosca paghi il prezzo”. E non è che non lo stia pagando. Mentre i dioscuri continuano a latrare: il Lévy pungola la Ue perché “trovi il coraggio di ‘morire per Tbilisi’” (metafora per intendere durezza di sanzioni e fermezza di minacce), il gemello siamese dell’astrattezza democratica, Glucksmann, pur riconoscendo che “stavolta l’Europa ha saputo opporsi a Putin”, teme che la ritrovata concordia possa rivelarsi fragile e ammonisce. Magari insultando solo un po’ meno di Bernard-Henri (“ricatto,… Suicidio col gas… Coma petrolifero annunciato”.)
Ma preferiamo chiudere con le risposte colorite che Putin ha dato alle accuse dell’ipocrisia occidentale. La reazione russa all’agguato georgiano: “che dovevamo fare, pulirci il moccio sanguinolento ed inchinarci?” Risposta eccessiva, quella russa? “volevate che agitassimo un temperino, che rispondessimo brandendo una fionda, quando contro di noi venivano usati lanciatori multipli di razzi, carri armati e artiglieria pesante?”
Naturalmente, qualche lettore ci accuserà di “santificare” Putin. E pazienza.

Cinenostrum o res nostra?


Un nostro simil-reportage di due anni fa sulla benemerita manifestazione cinefila Cinenostrum, che ha luogo nell’area archeologica di Acicatena, chiudeva (dopo meritati elogi all’organizzatore tecnico Mario Patanè) con una punta di rammarico e l’auspicio che le cause del malumore sparissero nelle edizioni succesive. Ahimé, mai speranza fu così malriposta: quest’anno, quarto della rassegna, quelle macule sono diventate colossali magagne.
Veniamo al fatto. Nei pieghevoli del programma si dice e promette che lo spettacolo inizia alle 19.30: è naturale che gli spettatori, per garantirsi un posto a sedere, comincino a venire molti minuti prima, magari fino a un’ora di anticipo sul tempo previsto. E difatti si fanno avanti i primi fin dalle 18.30. Ma trovano chiuso l’ingresso. Dopo un’ora di arrivi, una folla di inquieti postulanti preme sull’ingresso sordamente sbarrato. Occorre precisare che fra loro ci sono tanti anziani, alcuni con qualche acciacco? Si suona, si batte sul ferrigno portone, ci si sfoga fra noi, volano parole di meravigliato disappunto. Niente da fare: da quella parodia di Castello kafkiano non giunge una voce, non fa capolino un volto, non si pronuncia una parola di scuse o chiarimento. L’ora del presunto inizio viene scavalcata, e non di poco, nel più blindato silenzio dei castellani senza volto.
Primo consuntivo. Basterebbe tanta sordità per cogliere l’insensibilità dei responsabili. Echeggiano frasi coerenti con il mirabile progetto: “Ci trattano come mandrie, è un’indecenza, sono modi da cafoni arroganti…” E via sbottando. Nessuno, tuttavia, sospettava che potesse aspettarci di peggio: e invece il peggio c’era: in attesa dietro il portone finalmente aperto. Dei signorini pieni di dignità inquisitoriale spiegano enigmatici fogliacci davanti agli occhi stressati dei primi ingredientes: sono elenchi di persone invitate. I “guardiani” pretendono che ciascuno di noi tiri fuori dalle tasche un misterioso invito, o almeno una carta di identità per controllare se il titolare sia o no incluso in quelle liste di privilegiati decise dall’organizzazione logistica. La sensazione di essere incappati in una atmosfera kafkiana si accentua. Quei pupazzi in abiti scuri con pretesa di filtrare la crema degli invitati diedero l’ultima carica al serbatoio di rabbia che mi era cresciuto dentro. Il piccolo mister Hyde che ciascuno di noi piccoli dottor Jekyll si porta dentro balzò fuori dalla sua tana giurassica ed esplose nelle incontenibili escandescenze della mia furia. E fu così convincente che i contegnosi “tutori del tempio” ammutolirono, imitati da inutili guardie comunali di muto presidio. Dissi che si era superato ogni limite dell’indecenza, che quel comportamento era stupida arroganza e barbarie disumana, che andassero a riferire ai loro capoccia maldestri il nostro sdegno. Dietro di me e dei miei scorreva una folta fila di gente che non si lasciò fermare da quelle cariatidi innocenti, ma pompose. Senonché, giunti alle sedie di plastica bene allineate, ci imbattiamo (incredibile!) in altre barriere: le vallette, simpatiche ragazzotte in divisa, anche loro con tanto di fogli in mano, pretendevano di riuscire dove erano falliti i signorini maschietti. E allora furono musica soave al mio orecchio offeso le sonore proteste delle signore sans papiers. Dal canto mio tornai a concentrare sguardi convincenti sulla nuova barriera, personificata (per fortuna della vista) dalle graziose guaglione, significando che dalle poltroncine bene allineate in molte file noi, io e i miei, non ci saremmo mossi. Le signore che ci seguivano a ruota, trascinate dal mio involontario esempio, cominciarono ad occupare le sedie riservate, seguite dai loro mariti, ormai liberati dal malriposto timore reverenziale verso così discutibili autorità. Risultato: guadagnammo cinque o sei file di quelle rispettabili sedie, per noi e per altri meno decisi, che s’inserirono nella nostra protesta. Una bella signora, alla fanciulla che domandava il famoso invito (“Lei, signora, ce l’ha?”) rispose che sì, l’invito ce l’aveva, di assoluta validità: “Sono cittadina italiana, catenota, pago le tasse, e chi vi manda a fare ‘ste figuracce organizza questi spettacoli con i soldi miei e degli altri contribuenti. Dunque ‘s’accomodi, e non insista perché hic manebimus optime.”
Riassumendo. Questi genî di politici avevano destinato l’intera distesa delle poltroncine in plastica agli invitati; cioè agli amici, ai porta-voti, a parenti degli amici e via abusando. Altro particolare: tanti di questi signori e signore e famiglie presenti degli elenchi erano di altri paesi, spesso lontanucci, rivelando così, in rebus, il comparaggio fra la piccola Acicatena e la grande Acireale (ricca di hinterland). Insomma, i nuovi eletti, a cominciare dal sindaco (nonché consigliere regionale, e quindi “onorevole”) per finire al meno votato, ma pur salvato, dei consiglieri comunali avevano deciso di riservare le sedie (ripetiamo: tutte) a una sorta di casta in là minore, e dunque di ammassare i fuori-casta, i paria, in quanto presenza ininfluente, sopra una specie di larga scala di micragnose tavole-gradini (in chiaro: strette al risparmio!). Le sedie, poi, erano suddivise in due settori e colori: una serie di file, bianche, sotto il palcoscenico, riservate ai politici (e familiari), il resto, molto più ricco di unità e file, agli invitati. Il popolo anonimo e alieno diventava l’oraziano spregevole volgo: Odi prophanus vulgus et arceo.
Ora, se è già un odioso discrimine riservare posti alle cosiddette autorità e familiari et ultra, quando la riserva si slarga fino alle dimensioni qui denunciate diventa un abuso di potere assolutamente incostituzionale e civicamente insopportabile. A tanto ha reagito la mia indignazione. E questa pubblica “confessione” valga come un contributo di chiarezza di un cittadino che vorrebbe contestualizzarvi un caloroso invito a lor signori perché evitino, in futuro, simili sgorghi di arroganza e le connesse figuracce. A qualcuno potrebbe saltare in testa di farne un caso giuridico-mediatico.
P. s. Dimenticavo di aggiungere che la stessa prepotenza si è rivelata nel riservare ai soliti privilegiati gli spazi stradali di possibile posteggio più vicini al sito, transennandoli con colorate fettuccine provocatorie e costringendo il vulgo di cui sopra a percorrere distanze lunghe fino al chilometro e mezzo e di più. Col solito menefreghismo verso le persone anziane. Io ero “portato”, e i familiari che mi ospitavano mi “depositavano” nelle vicinanze del posto, e da lì venivano a prelevarmi alla fine dello spettacolo. Di più: mi pregavano di non accendere un altro fuoco polemico. Così abbozzai. Ma non fino a sopportare l’intera serie di serate.
Per il resto, niente da dire. O quasi: il quasi ospita l’esorbitanza di certe esibizioni verbali dei soliti politicucci di incerta eloquenza, di qualche giornalista di bianco pelo stagionato (nel più cauto moderatume nazionale), di certi collaboratori del regista-attore. Quanto al festeggiato, il “Grande grande grande Verdone” (tale il titolo tematico della rassegna) non ha deluso davvero: sia quando narrava le sue avventure biografico-professionali, senza risparmiarsi nel confessare coram populo le sue debolezze e nevrosi (curate, elettivamente, con la sublimazione della trasposizione artistica), sia quando, sullo schermo, offriva un antipasto di famose sue “imitazioni”. I film, poi, tutti gradevoli, con punte di eccellenza, rappresentavano il meglio dell’instancabile operosità del cineasta prolifico (accettabile perfino qualche parziale e inevitabile, remake di ruoli e figure psicologiche).
Ma il presente sfogo non è nato come recensione alla piacevole rassegna: basti questo fugacissimo cenno finale.

Miss Italia delle Aci




Forse uno dei miei cinque lettori si stupirà di questo intervento: di solito, infatti, i miei scrittarelli si occupano dei mali del mondo: violenze ingiustizie fame arroganza-del-potere ipocrisie di vario conio; e via celebrando. Ma basta riflettere un minuto per convincersi che senza pause oasi luoghi e tempi di serenità (o, se si preferisce l’understatement, rimozioni auto-difensive), non si vivrebbe abbastanza per denunciare nemmeno un millesimo di quelle storture che avvelenano la vita sociale. Ovvio che un evento clamoroso come l’elezione di Miss Italia sia una di quelle pause e parentesi. Se poi l’eletta è una ragazza dei nostri paesi, le dimensioni del gioioso avvenimento si ampliano, per noi, fino al coinvolgimento popolare massivo e l’inclusione di studiosi solitari. Aggiungi che nel caso di Miriam Leone, miss Italia 2008 (nonché Miss Cinema), si tratta della figlia di un mio vecchio amico e collega, e si capirà l’origine di questa testimonianza.
La quale vuole essere un omaggio convinto e commosso, contesto di congratulazioni e auguri. Alla prescelta, in primis, che ha meritato l’ambitissimo onore, e ai genitori poi, che l’hanno sostenuta in quest’avventura. Il chi è di Miriam è presto detto: un temperamento forte, che ha tutti i numeri per vivere un futuro di affermazioni coerenti con l’immancabile impegno. A lei, poche parole dirette. Bellezza, intelligenza, determinazione e capacità di estroversa esposizione sociale garantiscono generose potenzialità, già realizzate, ma solo in parte; per realizzarle più compiutamente occorre consolidare ancora un elemento, già istintivamente sperimentato: Miriam ne può trovare conferma e rinforzo nel consiglio che ha chiesto e avuto da Silvana Pampanini: fai sempre e soltanto quello che senti di dover fare; senza paura e anche contro pareri altrui non compatibili con la tua vocazione. Ovvero, detto prendendo in prestito il titolo di un best-seller della tua infanzia, Va dove ti porta il cuore.
Il mondo in cui ti prepari ad entrare è irto di insidie, che spesso si nascondono dietro un sorriso accattivante o nello sfavillio di sfolgoranti suggestioni. Tuttavia, nessun timore di tentazioni devianti in te: la sana educazione che hai ricevuto ti sarà guida a un dignitoso equilibrio fra esercizio professionale e serietà di costumi. E scusami se, per una volta, ti do del tu: avendoti conosciuta bambina, rimbalzo a quel tempo non lontano, quando papà ti portava, qualche volta, al liceo del suo e mio lavoro.
Più difficile rivolgersi ai genitori. Sto scrivendo nell’... occhio del ciclone festaiolo: gli inviti di Miriam ai vari show televisivi fioccano, domenica 21 settembre s’è svolta la festa in suo onore ad Acireale, martedì 23, quella di Acicatena. Grandi folle nell’una e nell’altra. La gioia domina assoluta. Ma verranno i giorni di calma riflessiva e forse in quelle ore si avvertirà anche il peso di questo sogno calato nella realtà: onori e oneri, si sa, filano insieme. Dovrete scontare lontananze, assenze, nostalgie, paure. So che siete forti, ma ci saranno momenti di minore saldezza. Penso soprattutto al padre, all’amico Turi (il nome Ignazio va bene per l’anagrafe), a lui si chiede di stringere i denti più degli altri familiari. So che lo farà, e il mio augurio si mescola alle congratulazioni per un self control pieno. C’è anche un fratello di Miriam: lo so, non sarà perso di vista, la gioia per il successo della sorella non sarà turbata da ombre di negligenza..
Superfluo aggiungere che questo piccolo omaggio è condiviso da mia moglie e dal resto della famiglia.
Miss delle Aci, perché? Ecco. Miriam, sganciata dal paradiso gestazionale in una clinica di Catania, ha vissuto l’infanzia e la prima adolescenza in Acicatena; trasferita, la famiglia, ad Acireale, è qui che “la secchiona” (!) ha raggiunto i suoi laboriosi ventitré anni. Dunque, le due Aci hanno diritto ciascuna a metà della gloria. Il semi-nome Aci, comune a tanti altri paesi vicini, potrebbe, inoltre, comunicare un brivido di orgoglio ad altre genti del popoloso hinterland. E perché no del capoluogo liotriano, contenitore di tutte le Aci?