sabato 18 settembre 2010

Le belle frasi


Sì, il senso di quel belle è ironico. Tuttavia, se c’è un bello del cattivo, quel complimento potrebbe anche andare: l’estetica prevale sull’etica? Non sarebbe la prima volta. Ma, in tutta umiltà, qui non sono in gioco le grandi categorie del giudizio umano: più banalmente, lo sono i vizi dei signori politici. Vizi che possono arrivare al malaffare, alle complicità nel delitto, all’insensibilità umana, prima che etica. Senza contare che spesso le belle frasi sono di pura spumeggiante leggerezza cialtrona, di esibizionismo spavaldo quanto fantasioso. La “compagnia” che ci sgoverna da tre lustri, recitando vari e coerenti copioni di filantropismo personale, è eccezionalmente fertile nel prodotto alluso dal titolo. Ma non è la sola: chi rimpiange l’era democristiana dovrebbe fare uno sforzo per richiamarne le brutture, gonfie, spesso, fino alle atrocità criminali. E’ giusto quanto suggerisce la prima delle storiche frasi “dal sen fuggite”.
E’ un autore di grande (e bivalente) rilievo storico a pronunciarla: se state pensando a Giulio Andreotti, avete fatto centro. Intervistato da un giornalista sul perché Giorgio Ambrosoli sia stato assassinato, il senatore a vita non ha resistito alla tentazione di aggiungere, a una cauta perplessità (“non lo so”), questa coda da scorpione: “certo è una persona che, in termini romaneschi, se l’andava cercando”. Una bomba a palazzo Madama non avrebbe fatto più clamore. D’indignazione, si capisce. Dal sensibile moralista Claudio Magris all’americanisant Massimo Teodori, dal più implume cronista al più canuto (o velloso) è stato tutto un fuoco di fiammeggianti critiche. A Corrado Stajano (autore del libro su Ambrosoli, Un eroe borghese, base del noto film) spetta il merito di una sintesi incisiva di quella sporca vicenda (Corsera, 9 settembre). Ambrosoli è l’avvocato che fu nominato da Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, “unico commissario liquidatore della “Banca Privata Italiana” dell’avventuriero Michele Sindona, legato alla celebre quanto eversiva P2 di Licio Gelli, sodale di mafiosi italo-americani, e amico di spregiudicate potenze vaticane. Minacciato, Ambrosoli non rinunciò alla sua onestà contabile. E pagò con la vita: era l’11 luglio del 1979 quando i quattro proiettili del sicario ingaggiato da Sindona (al non modico costo di 50 mila dollari) ne troncarono l’opera pulita e la nobile vita. Rievocata dal figlio, con dettagli di etica pubblica e rivendicazione della salda onestà paterna. Il Gobbo nazionale riceve dal clamore mediatico la rivelazione della sua gaffe e tenta gli improbabili ripari, soffiando un’altra “bella frase”: “sono stato frainteso”. Nessun malinteso, osserva Teodori, ma pura coerenza di un soggetto impuro. Andreotti protesse sempre Sindona, come persona geniale e generosa, salvatore della lira: “et altro non ci appulcro” (Dante). Lo rovinarono Cuccia, Baffi, Sarcinelli e altri, che gli negarono fiducia mentre cercava una soluzione indolore per l’imbroglio bancario. Invano si avvertiva l’allora premier che Sindona odorava di azzardi e mafia. L’ostinazione del divo Giulio ha una chiave immutabile: la tutela vaticana. Il diabolico Marcinkus, presidente dello Ior, la nera “banca bianca” (Istituto Opere di Religione !), garantiva i suoi faccendieri: era il burattinaio che muoveva i pupi sulla ribalta. Non pagando l’ingente debito contratto a furia di succhiare denaro “ambrosiano”, la buonanima del prelatone (presente in altre vicende fosche ancora velate) provocò la tragedia che, oltre ai cadaveri di Calvi, Ambrosoli e lo stesso Sindona, produsse amarezze per gli onesti di quel mondo bancario, come il presidente Baffi e il vice Sarcinelli. Quando dietro Andreotti stavano le tristi figure della protezione vaticana l’uomo era capace di qualunque scorrettezza (per usare un eufemismo). Non negò sempre la connivenza mafiosa del suo delfino siciliano, Salvo Lima? Non continuò a negare anche quando quel proconsole acchiappa-voti diventò un ingombrante cadavere eccellente di produzione “Cosa nostra”? Nonché un ostacolo insuperabile per il “divo Giulio”sul sentiero in salita che portava al Quirinale.

Dopo la A viene la B: l’ordine alfabetico fa seguire al senatore gobbo lo psiconano rialzato: Silvio Berlusconi, l’impareggiabile frasista. Da tre lustri e passa il premier primatista non fa che sparare frasi memorabili: vuoi per carico di facezie, vuoi per bagaglio d’impudenza catafratta. Ce ne siamo occupati così spesso che una certa nausea si insinua tra la tentazione di rifarlo e la coscienza della sua inutilità testimoniale. Alla fine vince la tentazione. Berlusconi, ospite dell’amico Putin, partecipa al Forum sulla Democrazia. Esile spunto, forse, questa pregnanza tematica, ma non per il disinvolto ciarlone, al quale ogni occasione sta bene per sproloquiare. Ed eccolo sparare questa esplosiva rivelazione vecchia di tre lustri: “Nel mio Paese c’è oppressione giudiziaria. La magistratura in questo modo mina la governabilità”. Questa magistratura testarda non ha ancora capito che i nostri piccoli James Bond della politica hanno licenza di sparare: se non direttamente sulle persone moleste (alla cui eliminazione politica si provvede meno rumorosamente), sulle regole della “civile convivenza” (leggi, o regolamenti o Costituzione che siano). Né le rivelazioni dei pentiti sul vecchio feeling Dell’Utri-Cosa nostra, né l’implicazione berlusconica in quel feeling, né le condanne giudiziarie del senatore possono indurre i pm a disturbare l’indaffarato premier. Serviti i magistrati, don Silvio si dedica a Fini, squalificato come un professionista della politica personalizzata (da quale pulpito!). Notizie a Putin sui rapporti difficili fra il premier e il cofondatore: “Tranquillo, non succede niente” E dal palco: “Sono piccole questioni di professionisti della politica che vogliono avere la loro aziendina politica. Ma sono cose che non toccano la governabilità.” Sicuro: questo “toccare” tocca alla magistratura. Lui, l’invulnerabile, rassicura e garantisce: “Il mio governo va avanti per altri tre anni di legislatura.” Fino a ieri parlava di elezioni entro l’anno? Vero, ma che importa? Naturalmente, le belle frasi del Berlù hanno acceso un incendio di contraccolpi polemici. D’Alema, presente a quel meeting, in platea, attacca: “Io trovo vergognoso che il capo del governo venga qui per lanciare frecciate a Fini, non c’è nessun paese civile dove accadono queste cose e devo dire che era palpabile l’imbarazzo della platea!” Non resta che augurare all’Italia che “un capo del governo di questo genere se ne vada al più presto”. Non chiede di meno “il prestigio del Paese”. Dal Canada Fini risponde, pacato: “Quando si è all’estero non si parla di questioni nazionali, se non in termini positivi”. Meno self-controlled i finiani in patria. Fabio Granata: “Fini fa politica ed è un leader politico, quindi non si occupa di aziende né di affari, a differenza di molti nel Pdl, ad iniziare da Berlusconi”. Carmelo Briguglio scatta, decisamente sardonico: “Dalla Russia con amore ci provengono dichiarazioni che, stento a credere, sono attribuite al presidente del Consiglio, a riprova che Mosca segue con interesse le vicende politiche interne del nostro Paese, suscitando ovviamente entusiasmi paralleli alla Casa Bianca.” Roberto Menia, “colomba” quanto si voglia, difende il suo leader Fini con pacata violenza (se mi si passa l’ossimoro): “un giudizio sbagliato e ingeneroso”, “una discussione di tipo muscolare che non serve.” E prosegue ricordando che a cacciare “il socio di minoranza” è stato il premier. Il quale, così facendo, vanifica gli sforzi delle colombe, Menia in testa, che “si spendono per una soluzione positiva”. Sui commenti dell’opposizione stendiamo un velo di pietoso silenzio.

La movimentazione politica ci costringe a ritornare al premier, uomo di provvidenziali risorse. E valga il vero: un titolo del Corsera (14. 09) non potrebbe essere più “clamant”: “Venti deputati pronti a sostenere il governo”. Chi sono gli eroici salvatori? La verità effettuale machiavelliana dice che sono merce a buon mercato: un tale Ciccio Nucara, segretario del residuale “Partito repubblicano”, dichiara, fiducioso: “I numeri ci sono, mi pare che raggiungiamo la ventina senza iniezioni dal Pdl” (carina l’immagine dell’iniezione). Da soli, questi fieri mazziniani révenants hanno formato il gruppo battezzato “responsabilità nazionale”, ma per scalare il numero venti hanno bisogno di altra linfa. La fornisce l’Udc siciliano con una bella scissione in itinere che coinvolge il due volte condannato Cuffaro e altri campioni di lealtà-serietà etico-politica, capeggiati dal segretario regionale dell’Udc, Saverio Romano, al grido di battaglia “Dobbiamo allearci con il Pdl”. Mentre Berlusconi gongola, il putiferio avvolge l’Ucd. Casini qualifica “Giuda” chi lo tradisce, Buttiglione spera nella divina provvidenza: “Non dubito che avranno comportamenti così limpidi da confermare che il termine [giuda] non era diretto a loro”, Ah, la fede! Se la Sicilia si dà una mossa, la Campania non vuol essere da meno: tal Pisacane (Michele, deputato, incolpevole per il cognome onorato, ma non per il pugnale sulla schiena del Casini) non ha dubbi: “Il dissenso di Romano è quello di gran parte dell’Udc e dell’elettorato nazionale”. Un altro onorevole (che abuso certe qualifiche!), tale Giuseppe Ruvolo, sta decidendo, con altri udcini “se entrare nel gruppo di Responsabilità” (la maiuscola è nostra).
E dopo la B viene la C. Che richiama un altro specialista di frasi storiche. A parte le favole sul “governo cel fare” (specialità, codesta, diffusa nel circo berlusconico, e particolarmente praticata dai Bondi, Buonaiuti, Lupi e via latrando, nonché dalle “gallinelle del premier” (Giorgio Bocca), cioè le ministre, e simile zoologia, l’onorevole Cicchitto teorizza una originale superiorità della “costituzione materiale” (un po’ fantomatica e, nel tanto di effettualità, alquanto elastica) su quella formale. Il tutto per legittimare la balorda pensata di chiedere al presidente Napolitano di imporre a Fini le dimissioni da presidente della Camera. E lo fa con una lettera al Corsera gremita di riferimenti culti, di consistenza più speciosa che speciale.

Quanto precede, fino a ieri, 14 settembre: oggi i giornali hanno titoli divergenti: Eccone qualcuno del Corsera: Non decolla il gruppo dei venti “responsabili” pro governo. Che succede? Niente di speciale: i soliti giochetti della politica (italiota): incontri, telefonate notturne, preghiere, minacce felpate, offerte divergenti, ricatti, e altra materia di coerente pertinenza. Col risultato che i venti son diventati sette. E i titoli scampanano: I “responsabili” vacillano: gruppo più lontano. I finiani: noi determinanti. E il fiero Nucara spara: “Non credo che il gruppo si sia dissolto, come non ho mai creduto che si sia formato. Berlusconi è nella sua natura ottimista, io per mia natura sono pessimista”. Viva la faccia. Raffaele Lombardo voterà la fiducia, ma niente gruppi e gruppetti: siamo persone serie. Saverio Romano, dell’Udc siciliano, “smentisce di avere in mente un passaggio di campo assieme a Mannino, Ruvolo, Drago, e Pisacane, però conferma indirettamente che la linea di una possibile frattura (pro o contro il governo) attraversa proprio il partito di Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa”. Casini, intanto, si abbandona al suo sport preferito: calunniare Di Pietro con accuse fantasiose. E, quel che è peggio, trova ascolto nel giovane Letta del Pd confuso.
Ma per chiudere con un sorriso spostiamoci su altro genere di frasi storiche. Quelle, in fattispecie, del deputato Pdl, nonché fondatore della rivista online Il predellino, il quale, sviluppando un lamento della finiana Angela Napoli (“La donna spesso è costretta, per entrare in lista, anche a prostituirsi”), ha sentenziato, con sublime sprezzo del pericolo, per la liceità di quel “prostituirsi”. S’intende, un po’ modificato. Così: “è assolutamente legittimo usare il proprio corpo per fare carriera”. (e non si riferiva solo alle donne). Apriti cielo! E il cielo s’è aperto: un uragano, un nubifragio di interventi s’è scatenato contro l’eroe incompreso dal nome nobile (Giorgio) ma dal cognome beffardo: Stracquadanio. Ecco alcune belle frasi-grandine: “Stracquadanio teorizza il diritto alla prostituzione? Mi auguro parli per sentito dire e non per esperienza diretta” (senatore Andrea Augello). Alessandra Mussolini è più diretta: pensa che “per fare un commento alle brutte parole di Angela Napoli” l’impulsivo Giorgio “abbia ottenuto un risultato assai peggiore [...] le sue parole sono state un vero disastro”. Dopo la prima grandine lo Stracqua “cerca di fare marcia indietro. Ma senza troppo successo”: così Alessandra Arachi (“Con il corpo si fa carriera”. Caso nel Pdl, Corsera, 14 sett.). Ecco la sua patetica “ermeneutica”: “Volevo soltanto dire che in Parlamento, come in qualsiasi altro lavoro, l’aspetto fisico è importante.” Un buco nell’acqua: la tempesta continua. La Napoli scatta: “Voglio vedere come reagiranno le colleghe a quello che ha detto. Mi aspetto fuoco e fiamme.” “Accontentata”, commenta l’Arachi. Infatti. Ma qui dobbiamo chiudere. Per farlo, riportiamo un altro solo commento, ma al peperoncino: “Le affermazioni di Stracquadanio sono lo specchio perfetto che caratterizza il Pdl, il cui capo non ha esitato a candidare le sue avvenenti amiche”: è il parere, anzi la constatazione, dell’ex magistrato de Magistris, eurodeputato dell’Idv.