venerdì 30 gennaio 2009

Susanna frammento 10


Akischene, 17 aprile, vigilia di Pasqua

Viviamo, in famiglia e nella comunità parrocchiale, i fermenti delle grandi occasioni religiose. Auto-escluso da tanto bene, vagolo fra letture di giornali e riviste, lettura-meditazione di buoni libri (da centellinare sul lungo termine), ripassi di nozioni storiche. E scrittura serale di appunti e minimalia correnti. Eccone un saggio, del genere “pro eventuali sviluppi futuri” sul Gazzettino d. g.” (non per la destreggiante Gazzetta d. S.).
Alla peggio, sarà stato un modo di allontanare la nostalgia magno-greca. Dalla quale balenano, a volte, visioni euforizzanti. Specialmente la sera, in prossimità della soglia morfeica. Che di tanto in tanto, in imprevedibile casualità, varcano per occupare spazi onirici di realistico incanto variamente visivo e saporitamente tattile.
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Augusto Guerriero (Ricciardetto) è un critico acerbo della dottrina del “neo–isolazionismo”, difesa, in America, dalla prestigiosa penna di Walter Lippmann. In due lunghe “Memorie dell’Epoca” (Epoca del 4 aprile e dell’11 aprile) il Guerriero (di nome e di penna) esamina la presenza storica e l’evoluzione ideologica dell’isolazionismo, ne distingue “tre fasi” e le condanna tutte e tre per i loro “delitti”. I “delitti dell’isolazionismo” sarebbero le due guerre mondiali e il pericolo di una terza. Senza l’isolazionismo, inglese e americano, “non si sarebbe neanche parlato di guerra” nel ’14, e, nel ’39, “Hitler, nonostante tutta la sua follia (…) non avrebbe fatto la guerra”. Così opina Guerriero. Oggi, l’isolazionismo americano, ove fosse attuato, porterebbe all’ingigantirsi dell’imperialismo comunista, e al “suicidio” degli Stati Uniti. Lippmann e gli isolazionisti nuovi “sostengono che gli interessi dell’America in Asia e in Africa, pure essendo ‘sostanziali’, non siano ‘vitali’, e che, quindi, sia ingiustificato che l’America si impegni unilateralmente a difenderli con le sue forze militari”. In luogo del quale intervento, sarebbe opportuno, secondo questa visione, “operare attraverso le Nazioni Unite e altre organizzazioni collettive”.
Ricciardetto contesta il presupposto neo-isolazionista, che gli interessi americani in Asia e Africa non siano vitali: lo sarebbero invece, a suo convinto parere, perché “coinvolgono la sua sicurezza e il suo benessere”. Va bene, dunque, non il neoisolazionismo rinunciatario, ma il globalismo illustrato e difeso da Joseph Alsop (“Il globalismo ha perfettamente ragione”), secondo il quale gli interessi americani vanno difesi, in tutte le posizioni, “con tutti i mezzi”. Per rafforzare la sua tesi il giurista-giornalista fa un quadro eccitato del fermento antiamericano in Asia: la Tailandia somiglia al Vietnam meridionale all’inizio della guerriglia, nelle Filippine gli Hukbalohah hanno riacceso la guerriglia, a Manila e a Formosa si fanno dimostrazioni antiamericane (che vengono “soffocate con la forza”), il Giappone tende “verso una posizione di neutralismo”; e così via, per altri casi forse meno “eclatanti”.
Ne scaturisce il monito a non cedere nessuna posizione, pena la perdita progressiva di tutte le altre. E la proposta del “precetto” staliniano: “Spegni il serpente nell’uovo, uccidi il leone appena nato”. Con questa esplicazione finale: “la potenza non può essere statica, non può fermarsi. Deve diventare sempre più potente. Se no, decade”. Si può essere più chiari? Ricciardetto consiglia agli Stati uniti una politica di potenza assoluta. Cioè una strategia di aggressione non stop. Duttile e variegata. E, soprattutto, alonata di minacce pronte a scendere ai fatti: aggressività a tutto tondo, in atto e in potenza; in progress e virtuale. Illuminato da tanta dottrina, non trova difficoltà a deplorare che in Vietnam non si sia fatta una politica più energica e tempestiva. Ma godiamoci ancora l’ispirato testo: “Se appena cominciò la guerriglia, gli americani avessero fatto il decimo dello sforzo che stanno facendo adesso, la guerriglia sarebbe finita sul nascere”.
Che peccato, non aver seguito il geniale suggeritore. Ma forse il Guerriero (con le armi altrui) non s’è mobilitato in tempo? Sonnecchiava? Vai a saperlo. Certo è che quei pretoriani globali della democrazia hanno fatto (ancora parole degne dello scalpellino storico): “tutto troppo tardi e troppo poco”. A suggello di così sublime teoresi, un sospiro di amarezza sottilmente democratica: “E’ la fatalità delle democrazie”.


Zefiria, 20 aprile

Eccoci di nuovo in Magna Grecia, di nuovo a Zefiria, il paese marino dai venti odorosi di zagare e gelsomini. Consumata, fra i parenti più intimi, la santa Pasqua in Sicania, esaurite le sante vacanze operose (di varie letture e passeggiate, con e senza famiglia, nei luoghi della Memoria), siamo rientrati ieri sera, anzi notte, nella seconda condizione spazio-temporale: quella del lavoro e delle sue dipendenze sociali (colleghi, nuovi amici, diverse conoscenze occasionali…).
Oggi, a scuola, le inventive fanciulle di tutte le classi erano “impreparate”. Come da copione. La stranezza dell’en plein non ha coperture misteriose, ma di veli trasparentissimi: le impreparate hanno costretto le preparate (tacitamente, o in chiare lettere, catalogate come secchione) a fare comunella. Le poche afflitte dal sentimento del dovere (e forse, almeno in parte, favorite da domicili isolati, collinari e di montagna, poveri di svaghi e tentazioni) non hanno scelta: o “abbozzano” o vengono ghettizzate, e variamente afflitte di piccole violenze e dispettucci. Se “indagate” fuori dalle aule, rispondono: “cosa vuole, per solidarietà”. Così noi professori facciamo lezione divagando. Io ho fatto leggere le due memorie del Ricciardetto e “condotto” una valutazione guidata. Constatando, ancora una volta, la refrattarietà alla politica prevalente fra le non pesanti testoline del gentil sesso. Fortuna che alcune si lasciano (entro certi limiti) coinvolgere, le altre si sforzano, magari tentando di bloccare riflessi di sbadiglio. Tra le coinvolte, le “preferite”: quattro o cinque bellezze solari dagli occhi fiammeggianti della classe terza (sezione E). Che il povero sottoscritto è costretto a tormentare un poco per verificarne il grado d’attenzione polarizzata scolasticamente e il residuo divagatorio. Residuo vagolante su quali sentieri e oggetti visivi? Magari sul volto i gesti la voce gli occhi del conducator disarmato. Compreso il suo spostarsi dalla cattedra ai banchi, il suo guardare furtivo verso questa o quella delle privilegiate. Tra le quali (inutile ripeterlo qui, vero quaderno?) primeggiava il massimo target dell’attenzione estetica tracimante. Ora cercherò di adagiare su questo rigato volto di carta innocente il contenuto, riveduto e corretto, qua mutilato e là ampliato, delle nostre conversazioni “epocali”. Insomma, agghindato per una ormai decisa destinazione pubblica.
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Ci prendiamo la libertà di opporre qualche argomento alle energiche opinioni del Guerriero. Primo. L’isolazionismo (temporaneo) delle due prime “edizioni” può essere stato un errore, ma non è dimostrato che il suo contrario avrebbe impedito le due guerre mondiali. Tutt’al più, forse, le avrebbe allontanate un po’ nel tempo. Hitler, in particolare, avrebbe potuto decidere di attendere che la sua Germania diventasse ancora più potente. E chi può escludere che, costringendolo a una temporanea rinuncia nel ’39, non gli si sarebbe dato il tempo di costruirsi, magari, la sua bomba atomica? Che non avrebbe avuto certo scrupoli a usare contro nemici che ne fossero privi. Perché, poi, chiamare isolazionismo, doverosi, e magari interessati, tentativi di evitare una guerra per via di compromessi accettabili (certo, in se stessi, meno dolorosi di una guerra)? I tentativi inglesi e americani di salvare la pace in entrambi i casi furono vero isolazionismo? Dipende dai compromessi, si dirà. Fino a una certa soglia di tolleranza, può darsi. Non a caso abbiamo detto “compromessi accettabili”: un compromesso offre sempre meno di quanto il potenziale aggressore pretende. E dunque, se evita una guerra di conquista, risparmia vite umane. Non solo vite, ma, anche, e soprattutto, sofferenze più o meno atroci, e mutilazioni, spesso peggiori della morte. Né soltanto fra i militari, ma altresì, e soprattutto, fra i civili, una parte dei quali sono bambini. Cioè, una materia sulla quale dovrebbe stendersi un rispetto empatetico elevabile a criterio discriminante sulIa qualità spirituale di questa pletora umana così discutibile e così corriva nell’autopromozione.
Si obietta: ma sacrifica gli interessi di un Paese. Solo parzialmente: qualcuno deve soffrire nella logica del compromesso. Qual è il criterio, o piuttosto, quale deve, o dovrebbe, essere, per giudicare la preferibilità di un compromesso? Il meno invasivo è quello (appena richiamato) del risparmio di vite e sofferenze umane. In prima istanza; e, in seconda, distruzioni diseconomiche. Ma nessun criterio potrebbe evitare il prezzo condizionante: e il meno caro resta quello che garantisce la salvaguardia delle vite umane e dell’integrità corporale. Chi non tiene conto di questo, e si appella ai grandi valori invocandone la difesa con ogni mezzo, se ne sbatte delle vite umane da bruciare nel molteplice inferno di una gara di distruzioni. Più o meno lo stesso si può dire, mi sembra, per gli Stati Uniti: sforzi e tentativi di evitare diseconomie umane e materiali.
Come fa Ricciardetto a essere così sicuro che le due guerre sarebbero state impedite da un deciso globalismo 1914 e 1939? Bisogna immaginare l’esaltato Guglielmo II -1914 incapace di pensare che l’Inghilterra sarebbe intervenuta contro la Germania a conflitto iniziato. E altrettanto si dovrebbe pensare di Hitler, la cui follia, secondo Ricciardetto, non sarebbe bastata a fargli scatenare una guerra dall’esito incerto, nel caso Usa e Gran Bretagna avessero dichiarato per tempo che sarebbero entrati nel conflitto. A noi, si parva licet, pare più credibile l’ipotesi che il “Folle” la guerra, che aveva preparato per sei intensi anni di mobilitazione industriale e militare, l’avrebbe scatenata ugualmente. Magari dopo aver tentato invano di garantire alla Gran Bretagna l’immunità, se non addirittura vantaggi coloniali in Africa e Medio Oriente. O, al massimo, come si diceva sopra: l’avrebbe spostata in avanti, non evitata. In ambedue i casi chi ha cominciato la guerra sapeva che l’Inghilterra sarebbe intervenuta. E non si faceva troppe illusioni che la sorella-madre di Albione, l’America dei wasp, potesse rimanere lontana dal conflitto per tutta la sua (prevedibilmente non breve) durata. Per ragioni soltanto ideali? Certamente no, ma certi condizionamenti contano nelle decisioni pragmatiche: anche perché è impossibile separarli dai corposi interessi materiali, sempre, in modo o nell’altro, connessi con i “valori”. In fattispecie, trattasi degl’impegni finanziari Usa in Europa.
Il politologo del Corriere approva l’interventismo globalista di Alsop anche quando sostiene che gli Usa devono difendere i loro interessi sempre, dovunque e con tutti i mezzi. Dunque, anche con guerre, sostegni a governi dispotici e sanguinari contro popolazioni affamate ed eventuali loro rappresentanti in rivolta. Ed è quello che accade, di fatto, a dispetto delle solenni professioni di fede ultra-democratica globale. Ma perfino (se dev’essere con tutti i mezzi...) con una guerra atomica? Ricciardetto come Goldwater? Forse no, forse quel rotondo tutti è un’iperbole bucata. Nessun dubbio, invece, sul rifiuto del Lippmann che consiglia di difendere pace e interessi americani attraverso l’Onu: sarebbe robetta da fifoni. L’Onore si difende con le armi. Anche a costo di far morire Sansone con tutti filistei. E che diamine!

22 Aprile
Vediamo di concludere questo benedetto tentativo di articolo (belle ragazzine e ragazzotte, del mio corso, lasciatemi lavorare, non lampeggiate in improvvise visioni maliziose e conturbanti. Tu soprattutto, Ninfa dal nome di dea, riuscito tentativo della Natura schellinghiana di toccare la perfezione in un volto umano).
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A prescindere dagli esiti estremi, chi, Stato o coalizione di Stati, tentasse di attaccare gli Usa, oggi, ne sarebbe in breve tempo annientato, data la sproporzione delle contrapposte forze. Dov’è, allora, l’interesse vitale minacciato di cui discetta l’opinionista scettico? In realtà, gli Stati Uniti potrebbero chiudersi nei loro confini, riservandosi di reagire in casi eclatanti quanto improbabili di pericoli bellici e di evidenti minacce dirette. Reagire, ma sempre al di qua della soglia atomica. Hanno le risorse per l’autosufficienza primaria e i dollari per l’integrazione secondaria, mediante acquisti ben pagati (petrolio e quant’altro). E così badare ai loro problemi interni. Che non sono pochi. Eccone alcuni: malavita arrogante, segregazionismo negrofobo, (che prima o poi porterà a una sollevazione massiva dei negri); isole di miseria a fronte di paesaggi sociali miliardari (in dollari); produzione industriale bellica incontrollata (con esiti indotti di funesta necessità: sbocchi mercantili, indi focolai di guerre nelle disponibili plaghe del terzo e quarto mondo); corruzione endemica fra le forze dell’ordine a vari livelli (con emersione di scandali a ritmo ventennale circa, come si legge su giornali americani e come testimonia buona parte del loro cinema, una delle poche cose buone dell’America). E ci fermiamo qui, quanto a problemi interni, che il breve elenco non esaurisce certo.
Curiosa, non meno del restante argomentare, la pretesa che la politica imperialistica degli Stati Uniti, con le sue molte basi sparse ai quattro punti cardinali, il controllo economico-militare di decine di paesi e nuovi “trattati ineguali”, possa offrire al mondo “il solo modo di salvare la pace” (testuale del Guerriero taroccato). Curiosa, perché tutti i focolai di resistenza all’invadente presenza americana segnalati dal giornalista dicono giusto il contrario: gli Stati Uniti alimentano continui e sempre più numerosi pericoli e minacce alla pace planetaria. Capi improvvisati e leader non comprati (dagli Usa) scuotono e guidano le masse che dimostrano contro l’odiata presenza straniera: senza la quale, perché dovrebbero nutrire sentimenti antiamericani? A volte si legge e si sente dire in televisione che la tanto deprecata presenza statunitense porta ricchezza e benessere ai popoli del mondo svantaggiato. Che è una bellissima panzana. E stupisce che l’acuto Ricciardetto sia un campione di questa logica zoppa: lamenta, ancora, infatti, che “gli americani hanno profuso miliardi di dollari per aiuti e non hanno raccolto che frutti di cenere e tosco”, ossia antipatia e ingratitudine. Al punto che oggi, in molti paesi (horribile dictu) si arriva ad incendiare le ambasciate americane. Ricciardetto cataloga i danni, ma non si chiede come mai si sia diffuso nel mondo questo “sentimento di antiamericanismo” che tanto lo turba: gli basta accusare la “natura umana”. Della quale saremo gli ultimi, bensì, a farci paladini, ma non prima di averne recensito “cause seconde” e attenuanti contingenti. Gli aiuti non sono stati sufficienti a debellare la fame dei paesi sottosviluppati. Il perché lo dice chiaro Lippmann, del quale Ricciardetto così parafrasa e riassume il pensiero: “Abbiamo disperso la nostra assistenza a tal punto che abbiamo finito per aiutare un poco tutti e nessuno a sufficienza”. Al che aggiungeremmo: gli aiuti non arrivano direttamente nelle bocche affamate, bensì nelle mani artigliate di governanti e cricche dirigenti di contorno complice, monopolizzatori del potere, a proprio esclusivo o comunque prevalente vantaggio; i quali solo una parte di quegli aiuti lasciano scorrere fino a quei corpi denutriti e malati. In compenso, spesso, ammanniscono, in surrogato del welfare carente, la droga del risentimento verso il capro espiatorio esterno. Il resto del malloppo si curano di amministrarlo ad uso e consumo proprio e dei loro amici e complici: per utilizzi civili e militari, di arricchimento personale e di autodifesa politica in scontri tribali e di contrapposte fazioni. Se così non fosse, perché gli americani dovrebbero essere tanto odiati nel mondo sottosviluppato? Capita anche questo: che qualche esponente della locale ’aristocrazia gentilesca e dei petrodollari, con lauti conti bancari nel mammonico Occidente, si riempia di odio religioso e ideologico contro lo Straniero invadente, e organizzi o soltanto finanzi questo o quel terrorismo con i miliardi del “petrolio di Allah”. Per tacere della corruzione dei controllori Onu di origine e nazionalità terzomondista, veri predoni dei soccorsi.

23 aprile
Seguitando. Se sono tanto malvisti perché non lasciano (in pace) i paesi che non li vogliono? Renderebbero meno incredibile, così, il carattere disinteressato dei loro “interventi umanitari”, su cui oggi nessuno dei beneficati potrebbe giurare. Ci mancherebbe, obbietta il Guerriero (in groppa al cavallo alato di Astolfo): al contrario, devono restare e fare la voce grossa, e agitare il “grosso bastone” vetero-rooseveltiano. Se no, perderebbero la faccia, iattura inaccettabile per una grande potenza. E forse la faccia non la perdono davanti ai loro amici e alleati servilmente docili ai cenni imperiali dell’Alleato-padrone, ma tradiscono pur sempre il sottofondo del loro presunto amore di pace, lasciando intravedere sotto le bucate maschere ideali la corposa consistenza dei loro reali interessi: gli stessi delle lobby che dietro le quinte dettano la politica interna ed estera della superpotenza, non arretrando neppure di fronte al delitto di Stato (malamente camuffato) a protezione del loro mammonismo bulimico (chi sarà, dopo l’audace John F. Kennedy della “Nuova frontiera”, il prossimo ostacolo da rimuovere sul sentiero di quella protezione?). Questi interessi titanici provocano i maggiori guasti della vita planetaria e così faranno ancora per decenni. Magari fino all’irreparabile. Ma i signori del super dollaro e della guerra sempre pronta non sono disposti a cedere uno solo dei privilegi che ne alimentano l’orgoglio ipocrita e l’azzardo criminale.
Si obietta ancora che il disimpegno americano aprirebbe le porte all’imperialismo cinese. E anche se fosse? Se i popoli affamati vogliono Mao, nessuno ha il diritto di impedirgli la scelta. Si dice che quei popoli farebbero la fame peggio di ora: previsione a coda di paglia, tutta da verificare. Se i popoli d’Africa e Asia potessero disporre delle loro ricchezze naturali (oggi in gran parte nelle mani di epigoni del vecchio colonialismo e di pionieri del nuovo) potrebbero debellare o ridurre significativamente la piaga della fame. Da quale cielo birbone ci scende il diritto di imporre ad altri i nostri interessi e le nostre idee? Tutto questo, si sa, è teoria ed etica più o meno astratta: ma come rispondere alle menzogne democratico-liberali bevute pari pari dai nostri docili governanti cattolici (e assimilati) con le sottostanti porzioni della società civile viziate di boom economico selettivo e di edonismo televisivo, mentre la metà delle nostre popolazioni, o giù di lì, langue nel malessere, invece che tripudiare nel baccanale del festoso benessere? Vedere la grande inchiesta del settimanale L’Espresso sul Meridione d’Italia, immutato a oltre un secolo della puntuale denuncia di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. E anche solo la prima puntata, intitolata, con fedele analogismo, L’Africa in casa (aprile 1959 )1 Ma l’occupatissimo Guerriero non sciuperà tempo e vista per simili quisquilie.
Quando Lippmann dice, con le parole di Ricciardetto: “Non possiamo mettere ordine in Africa e in Asia secondo i nostri ideali di ordine”, dice bene. E altrettanto nel sostenere che la dottrina di Truman, “con la quale gli Stati Uniti dichiararono di impegnarsi in una lotta ideologica globale contro il comunismo rivoluzionario [...] si trova alla radice delle ‘difficoltà attuali’ dell’America”. Ma per il mentore di Epoca, Lippmann è un codardo capace solo di errori: e, per schivare il vago, gliene enumera un nutrito gruzzolotto nel primo dei due articoli. Naturalmente, con la sicumera di chi partecipa elitariamente al monopolio della verità, anzi Verità. Errore sarebbe anche l’opinione di Lippmann, che gli Stati Uniti si difenderebbero meglio se abbandonassero le loro basi terrestri all’estero: che è, invece, opinione sensatissima. Come chiarisce questo pensiero dell’americano: “La potenza degli Stati Uniti nel Pacifico è indiscussa e senza eguali, e gli Stati Uniti devono evitare di lasciarsi intrappolare in guerre terrestri”. Se avessero seguito questo consiglio, quante sventure e sofferenze avrebbero risparmiato, quei governanti malati di hybris globale, agli altri popoli e al proprio! Sofferenze e lutti che, nella loro patologica ostinazione, continuano, invece, a provocare variamente e soprattutto con la sciagurata, sbagliatissima e (credo) invincibile guerra di aggressione al Vietnam popolare.
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Eccomi qua, alle solite: ancora una volta, contro tutti i miei sensati propositi e seriosi voti da persona adulta, mi vedo trascinato nelle sabbie mobili della completezza: questa chimera armata di sirene cannibali. Dovrò tagliare, alla fine dell’eccesso. E questo sarà un compito più difficiler del frenare in corso d’opera. Ahimè! Avanti, tentiamo.

Quanto, infine, al rammarico di Ricciardetto sulla “fatalità delle democrazie” di agire troppo tardi e non abbastanza energicamente, cosa vuol dire? Forse che ci vorrebbe un “polso di ferro” anche in America? Capita, ai soloni della democrazia secundum quid, di scivolare, di argomento in argomento, in qualche accorato sospiro dittatoriale. In fattispecie, è tutto il ragionamento dell’Infallibile a scorrere in quel senso. Che, naturalmente, i soloni riconoscono e rinfacciano solo alle sinistre più o meno comuniste. Magari infiorando il loro penchant segreto di formule culte e molto tecniche, quali Realpolitik, “culto dell’energia” (finto-stendhaliano), e simili maschere del machiavellismo polarizzato (anche questo rimproverato solo alle sinistre ostili al capitalismo liberale, questa cornucopia di ogni benessere per pochi privilegiati, e sempre vulnerabile ai crolli tipo 1929; quanti, anche se meno catastrofici, nel nostro sapiente secolo di scienza economica e premi Nobel per l’Economia!).
Impagabile, infine, la sintesi del Ricciardetto-pensiero raccolta in una sonante parola: benessere. Gli Usa debbono difendere il loro benessere. Che in verità nessuno minaccia. E che più parziale selettivo ingiusto non potrebbe essere, col suo quarto di popolazione in affanno. Ma Ricciardetto li sprona a difenderlo con ogni mezzo: in nome dell’etica capovolta del machiavellismo plebeo. Amen.

24 aprile.

Aspettando il pranzo. Un notiziario sul Congo mi ispira un post scriptum alla diatriba col Guerriero. Chissà se l’Augusto di ferro si è dichiarato soddisfatto, a suo tempo, della tempestività con la quale la beniamina America è intervenuta, di concerto con Belgio, Union Minière e altra crema del sacro capitalismo sulla neonata Repubblica dell’appena “emancipato” Congo ex belga a calibrarne l’indipendenza, accendere la rivolta secessionista del Katanga, aiutare il criminale Mobutu a eliminare l’onesto patriota Patrice Lumumba e garantirsi il godimento dei preziosi minerali della Regione secessionista (oro, argento, manganese e soprattutto uranio). Lumumba e due suoi seguaci furono arrestati da Mobutu e fucilati il 17 gennaio 1961, a Elisabethville, in Katanga, alla presenza del cinico fantoccio della Cia e dell’Union Minière, Mosè Tschombe, guida della secessione kantaghese. Il tutto, mentre l’Onu era presente, ma con scarsi mezzi e forze militari buone soltanto a qualche missione pacifica. Durante una delle quali, l’11 novembre del ’61, furono attaccati e uccisi tredici uomini dell’Aeronautica militare italiana. I giornali scrissero che furono mangiati da quei cannibali. Sarei curioso di conoscere il pensiero di Ricciardetto su questi dettagli: farò una ricerca?

Stesso giorno. Mezzanotte

Ho appena finito di rivedere in televisione il vecchio film Paramaunt Nel segno della Croce: ne ho ricevuto una vasta e moltiplicata emozione. Dal contenuto, naturalmente, non dal valore estetico (che è scarso). Tanti pensieri consueti si sono ripresentati come nuovi, filtrati, ora, dalle esperienze di letture e di vita degli ultimi anni. Pensieri amari, che tessono insieme il drappo crudele della verità. La verità della storia, innanzitutto: una sequela interminabile di stragi, un’orgia di sangue sempre sconfessata e continuamente rinnovata, lo strazio della carne in nome dello spirito, variamente agghindato di orpelli retorici. La verità della vita, poi, nella sua universalità ante e post-umana: una tremenda realtà di uccisioni inevitabili, la fatalità della sua legge strutturale, originaria, non trascendibile: la fame. Sopra la quale nessuna Presenza superiore vigila e dispone. La verità della fede: che è quella di crearsi la propria verità intessendo menzogne effettuali. Ed è, perciò, la sua forza di illusioni proclamate Verità, e mentre onorano la verità fatale della vita nuda, pretendono trascenderla in sopramondi impensabili. Affascina e sgomenta il coraggio barbaro che ne promana, la ferma accettazione della morte in nome della vita, di una vita superiore sperata e mai confortata altro che dal plagio del cervello rapito in vortici allucinatori. Ma com’è difficile capire questo coraggio del grande Inganno, che rinuncia all’unica realtà corporale e ne sopporta lo scempio. Com’è difficile, anche, nel nostro abituale stato di lucida indifferenza, accogliere lo scandalo degli effetti endorfinici (ma pur sempre limitati) della fede sullo strazio del corpo. E ancora più arduo accettare che il tempo delle stragi è un eterno presente; che oggi come ieri gli uomini uccidono, distruggono, torturano in nome di qualche idolo, di qualche maiuscola. I cristiani dei tempi di Roma come gli ebrei dei nostri; i negri americani, un po’ come quei cristiani. Il razzismo ideologico, a base religiosa o falsamente biologica, vigente oggi come ieri, in diverse parti del mondo. I comunisti, in certi paesi, sono perseguitati come quegli antichi martiri.
Forse è plausibile un’interpretazione ideo-trofica, secondo le teorie del mio amico Gulizza: l’individuo o il popolo degradati a realtà inferiore, in funzione difensiva-preventiva, vengono resi, in qualche modo, cibo, oggettivati e percepiti come possibile preda, materia traspositivamente commestibile, e come tale trattati. Cioè, cannibalicamente, ma, di solito, come cannibalismo interruptus, nel quale si compie solo la parte decisiva, l’uccisione. Uccidere, dice il teorico, è un mangiare metaforico e insieme un pasto fisico sospeso a metà percorso. L’operazione, ahimè così diffusa nel “bel pianeta che a odiar conforta”, può essere vista anche (si accennava sopra) come un “prender prima”: prima che sia l’altro a farmi sua preda e cibo. In fondo, il rapporto originario fra due carnivori (e onnivori) è quello fagico: l’evoluzione filogenetica ha promosso il differimento, la trasposizione, la parziale rinuncia e altre attenuazioni della diretta crudezza originale, debitamente mascherata e pluralizzata in varie emozioni e sensazioni.

Quant’è facile l’operazione metamorfica, basta un’etichetta a compierla: cristiano, ebreo, negro, eretico, comunista, deviazionista, troskista, fascista, borghese... Potenza delle parole. Sono pietre? Lo sono, a volte; spesso sono dardi avvelenati, proiettili, bombe chimiche. In principio era il Verbo, recita la rivelazione, ignara di mistificare la verità che ambisce servire. E il verbo si fece carne: per mangiare altra carne (di animali uomini e piante). La storia si presenta, allora, come un infinito pasto dell’Idea: l’Idea cavalca e danza, divorando corpi viventi. E usa mille avatar, mille maschere: Impero, Patria, Nazione, Popolo, Chiesa, Razza, Libertà, Democrazia, Uguaglianza, Fraternità, Civiltà, Progresso, Partito... Le maschere si moltiplicano come via via variano i pasti dell’Idea che si fa corpo per fagocitare gli altri corpi. La grande operazione dell’universale rimescolio continua una corsa uguale nell’alveo del tempo immemorabile, che media gli accidenti, cioè le differenze. Cosa mai ci sarà all’inizio e alla fine? Il Big Bang, ab ovo. E alla fine? C’è un (vero) inizio e una (vera) fine? Le antiche domande cambiano indirizzo, ma non cessano di picchiare alla porta del cervello tracimante che ha scoperto la maledizione della vita-morte. Oggi (in ambito ancora così stretto, ma domani chissà...) domandano alla fame, cioè alla struttura basale del vivere, che cosa nasconde dietro di sé, come ieri lo domandavano al Pensiero, all’Idea, allo Spirito, all’Atto Puro, alla Ragione eterna hegeliana (fin troppo astuta per coprire i suoi vuoti di forza esplicante). L’Idea che si fa corpo: suggestivo. Ma la terra dice: il corpo che si fa Idea, e prolifera di velli e drappi astutamente promozionali. Il sangue lamenta: a qual prezzo, tanta astuzia! I civilissimi Romani davano in pasto alle bestie quegli strani sotto-uomini che erano i cristiani. O alle non meno divoratrici fiamme, promuovendoli a torce umane. E crocifiggevano criminali e schiavi ribelli: seimila lungo la via Appia ne produsse il moralizzatore corrottisimo Crasso. I mongoli facevano bollire vivi i prigionieri di guerra. Spasso che si è riprodotto migliaia di volte, e rimesso in auge nel 1927 quando Chiang Kai-Shek, rompendo il patto di collaborazione con Mao, ordina il massacro dei comunisti a Shangai, Canton e Nanchino. Leggere, per inorridire, La condizione umana di André Malraux.
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I giornali hanno diffuso in questi giorni la notizia di certe radio-onde provenienti dall’Oggetto celeste cta 102, distante, chi dice 5 milioni, chi qualche miliardo di anni-luce. Queste radio-onde sarebbero modulate in maniera da far pensare a una emissione artificiale di straordinaria potenza, dunque dovuta a creature intelligenti. E’ bensì vero che l’ipotesi di altri abitanti intelligenti nel cosmo è più che plausibile, date le quantità sconvolgenti di astri galassie e pianeti nello spazio sconfinato. Escludere questa “compagnia” cosmica non sarebbe un analogo dei vari idio-centrismi antropo-terrigeni: etnocentrismo, eurocentrismo, geocentrismo, antropocentrismo...? Un’altra versione dell’idiozia malefica del Popolo eletto? E tuttavia la prudenza è d’obbligo in questa materia. E ogni trionfalistica fretta va bandita. Anche nel dire intelligente quella modulazione. Se esistono, questi nostri simili (di cervello, se non di morfologia globale), si faranno forse le nostre stesse domande. A migliaia, a milioni di anni-luce lontani dalla Terra, le rivolgeranno anche loro come noi alle galassie, agli astri, al loro sole. E magari ai loro dèi. O anche, perché no? agli animali, alle piante, ad altri esseri conspecifici, che forse si divorano tra loro come i felici abitatori di questo “atomo opaco del male”, per rimescolare le tragiche carte dell’eterno, mostruoso gioco senza costrutto e privo di senso. La parola mistero tenta sempre, ma quel poco di verità che affiora dal suo nero seno è tale che mi fa desiderare spesso, pieno di disgusto, la distruzione totale dell’universo intero. O almeno, del nostro globo, o di tutti i pianeti popolati di vita. Un pensiero che mi sgomenta e mi seduce, alternativamente. Dopo tutto, una conflagrazione, o una serie di conflagrazioni, che ci disintegrassero in una frazione di secondo che male ci farebbe? Sarebbe una conclusione fin troppo bella: senza dolori, senza agonie oscene, senza... Ma poi mi accade di pensare che forse, malgrado tutto, si possa accettare che la vita continui, che l’uomo abbia modi di conquistare altri frammenti di verità, e forse di migliorare realmente un poco la condizione umana... Ma com’è debole questo forse…

lunedì 26 gennaio 2009

Susanna frammento nove


3 febbraio

Venerdì 29 gennaio è uscito sulla Gazzetta la mia recensione agli Epigrammi di Marziale (Einaudi, trad. di Guido Ceronetti, con testo a fronte), un grosso volume della collezione “I Millenni”, mandatomi dal consulente Ernesto Ferrero (quasi involontario dono di Natale). L’articolo, col titolo (redazionale) Marziale offeso, indugia un bel po’ sul “tema Marziale” (vita fisiologia opera) prima di affrontare la traduzione di Guido Ceronetti. In questa parte “introduttiva” mi sollazzo, con la guida del grande Concetto Marchesi, citandone congruamente il brillante saggio sul poeta. Nella seconda striglio parecchio l’estroso e spregiudicato traduttore. Il coltissimo e flessibile Ceronetti si presenta troppo infatuato del mito “attualizzante” e finisce col pasticciare fino a un discutibile esito estetico e comunicativo. Avevo annunciato la recensione polemica a Ernesto Ferrero, che mi ha risposto con la seguente letterina:

Caro Assaggi, grazie della Sua lettera e dei promessi interventi ...polemici: utilissimi ad alimentare il dibattito e quindi benvenuti.
Le mando volentieri due novità: Cinque romanzi brevi della Ginzburg e il Miele di Levi: due libri che non hanno bisogno di presentazioni e le raccomando vivamente.
Molti cordiali saluti
ErnestoFerrero

Oggi ho spedito al Ferrero un ritaglio della piccata recensione. Non ho ancora ricevuto i libri che mi annunciava. Ma non ho ragione di dubitare: più volte Einaudi-Ferrero ha mantenuto le promesse di invio.
Ho mandato un ritaglio anche a Enrico Falqui, che aveva recensito il libro sul Tempo e che cito nel mio articolo.
Paci non ha risposto (ancora) alla mia lettera col ritaglio del Galileo. Se non risponderà, la molla del diniego è chiara: gli ho suggerito di leggere la Trofologia universale del Gulizza. Ohibò! Oggi gli ho riscritto, mandandogli un altro ritaglio: l’articolo sulle due culture, uscito nella pagina letteraria della Gazzetta. Ciaccò l’ha sistemato con una prosopopea di gran richiamo, coronando il titolo di sottotitoli. Ecco il mastello seduttivo: La battaglia per l’eliminazione delle interferenze metafisiche (occhiello). Contributi della scienza (titolo). Sull’argomento un libro di Herbert Meschkovski, “Mutamenti nel pensiero matematico” e un saggio di Enzo Paci, “Fenomenologia e cibernetica”– Le due culture (catenaccio-sommario). Una pirotecnica. L’insolito spreco denuncia l’alto gradimento del malloppino. Ad maiora. L’articolo finisce con questo capoverso: “Gioverà ricordare che quel movimento ha anche in Italia i suoi
validi esponenti, dal Paci all’Abbagnano, dal Cantoni al Preti, da Luigi Volpicelli a Ugo Spirito, Genco Gulizza, Giovanni Maria Bertin, Galvano della Volpe, Ludovico Geymonat, e altri ancora. I quali, da direzioni diverse e magari polemicamente contrapposte, portano tuttavia ciascuno il proprio contributo in quest’opera di ‘liberazione dell’uomo’”. Ruffianesco e provocatorio. Ma tant’è.
Rientrando a Siderato da Akiskene, lunedì sera, ho trovato le bozze dei miei due scritti che Volpicelli ospiterà sul prossimo numero dei suoi Problemi della Pedagogia. Le ho spedite oggi stesso, doppiamente corrette.. Attendo con ansia il primo numero del nuovo anno.
Ieri è arrivata anche una cartolina postale del Gulizza, che mi dice di avere letto con vero godimento il mio articolo su Marziale e mi sprona a scrivere i due saggi da tempo propostimi: Dalla danza all’arte e Itinerari della Ragione. Dovrebbero essere due agili volumetti, del genere che piace a lui. E che a me riescono tanto difficili da realizzare, data, e non ben controllata, la mia tendenza ad abbondare ingozzare strafare; a dire e dire e documentare. Bulimia paralizzante.
Intanto è certo che in tutto questo mese non scriverò una parola, dovendo affrontare, il 20 prossimo, la prova scritta del concorso a cattedre di filosofia e contorno. Non ho studiato per niente in vista di questo concorso: conto, bensì, sulla mia preparazione remota e rinnovata nell’insegnamento, ma dovrò dilatare alcune competenze poco utilizzate a scuola. E leggere almeno qualche classico.

Lunedì sera sono stato a trovare Ciaccò. E’ piuttosto depresso: ha saputo di avere una stenosi mitralica, invece della tanto e così a lungo diagnosticata asma. Mi ha rattristato profondamente. Ho fatto del mio meglio per confortarlo. Impresa quasi disperata: anche le parole e la sintassi più accorte, cioè accorate, puzzano del logorio abusivo. Ma lui sa che non v’è finzione nelle mie parole. Ieri sera avevo cominciato a scrivergli una lettera, ma ho dovuto interromperla per un violento attacco di nausea di origine tossica. Vedrò domani.


16 aprile

Troppo tempo è trascorso dall’ultimo appuntamento con questo quaderno: troppi giorni senza una nota, senza un segno-gancio per qualche evento da recuperare alla memoria. Forse niente di importante ha stimolato la mia pazienza cronachistica, forse la ricorrente pigrizia corporale ha avuto il sopravvento sull’appello della memoria tradita, che non vive senza supporti d’inchiostro. Starò a vedere, nei prossimi giorni, se sarò capace di recuperare qualche brandello del vissuto domestico e scolastico.
Di quest’ultimo, soprattutto, potrei fissare qualche momento evolutivo di gradito sapore intimo: alludo alla Sfinge dagli occhi di risacca, cui si deve il riconoscimento di sviluppi lusinghieri per la metafisica. Specialmente per l’eros platonico come slancio dell’anima verso la bellezza e la sua eterna idea, fonte e fondamento esemplare di ogni corporale bellezza terrena. Ma non è questo il momento di poterne trattare senza il rischio di una profanazione: attenderò tempi meno distratti dalla cronaca pubblica e dalla rabbia.
*
Il Corriere della sera di ieri ospita un “fondo” di Panfilo Gentile dal titolo assai perspicuo: Un ricatto allo Stato. Il ricatto di cui discorre l’illustre giornalista sarebbe lo sciopero dei ferrovieri di due giorni fa; ma, più in generale, ogni sciopero degli addetti ai pubblici servizi. L’insigne autore dal nome glorioso detesta questo genere di scioperi, e ci ricorda che anche Filippo Turati la pensava come lui. Che più?
Forte di così autorevole sostegno (ma perché i grandi uomini dovrebbero pensarle tutte giuste?), Gentile si chiede: “Dovremo dunque considerare gli scioperi nei servizi di interesse pubblico come un male irrimediabile, che bisogna subire con rassegnazione come si subiscono i nubifragi, le alluvioni ed altre sciagure naturali?” E risponde, deciso: “Nossignore”. Infatti, “il rimedio c’è ed è semplicissimo”. Il rimedio proposto dallo zelante difensore dello Stato, davvero semplicissimo, è questo: “Lasciar scioperare senza muovere un dito”. Ed ecco la giustificazione, sottile e veramente “superiore” (come gli interessi difesi) del rimedio: “Uno sciopero fallito (…) significa il ritorno, almeno per qualche tempo, alla tranquillità e alla docilità. Lo sciopero si punisce da sé quando non è premiato”. Capite? Agli uomini di Stato seguire tanto consiglio. Per parte nostra, suggeriremmo al Maestro editorialista di estendere il
suo rimedio a tutti gli altri tipi di sciopero: si capirebbe meglio la originale vocazione democratica che vi è sottesa. Perché democratico, don Panfilo, lo è; soltanto, non vuole che i bassi interessi di categoria passino “sopra ai superiori interessi della comunità”. Probabilmente, i superiori interessi della comunità sono stati lesi anche nella persona superiore di Panfilo Gentile. E dei suoi colleghi, che hanno, non meno di lui, riempito di magnanimo sdegno le colonne patriottiche di altri onorevoli fogli della nazione.
Quanta di questa brava gente, olezzante di sacro rispetto per lo Stato, sarà rimasta a piedi il giorno dello sciopero? Per forza si sdegna. Sarebbe capitato anche a noi, che abbiamo aspettato la nave traghetto dalle cinque del pomeriggio alle due e mezzo della notte, in quel di Villa San Giovanni, se fossimo persone di prestigio. E patriottiche, come i Gentile di varia taglia. Non c’è accaduto di sdegnarci soltanto perché non lo siamo. O non abbastanza.
Forse non si sente tale neppure Enzo Forcella, che sul Giorno di oggi critica, con arguzia, “i catoni della stampa benpensante”, e il Gentile in particolare. Del quale Forcella non fa, bensì, il nome, ma ne riprende i giudizi con le sue espressioni (“inammissibile”, “ricatto”, ecc.) e cita questa frase sintomatica – “non vogliamo entrare nel merito delle agitazioni in corso” – per ribattere al “catone” del Corrierone che proprio il merito, in questi casi-limite, “condiziona ogni giudizio e ragionamento, non solo sullo sciopero dei ferrovieri, ma sul comportamento della classe dirigente, sulla concezione dello Stato, sulla programmazione, la politica dei redditi, le divisioni castali all’interno della burocrazia, ecc.”.
Come non consentire? Quello di Forcella dovrebbe essere anche il giudizio di ogni uomo sensibile e veramente democratico. Inammissibile non è questo sciopero, ma il suo movente: cioè il premio “fuori busta” di lire 250.000 percepito dai duemila dirigenti delle ferrovie, “all’insaputa” dei restanti 178.000 dipendenti, rimasti all’asciutto. Quale logica democratica, o quale deontologia, potrebbe ammettere simili discriminazioni, davvero “castali”?
*
Sviluppare questi appunti in un articolo per Il Gazzettino: ce la farò, nei prossimi due giorni? Siamo nel pieno delle vacanze pasquali, e la famiglia vuole il suo tempo. A me, intanto, manca dispneicamente la Magna Grecia. Ma in fondo potrei proporlo anche così, con questa conclusione un po’ brusca: non sarebbe priva di una sua efficacia. Forse.
Ah, la Magna Grecia! Come continua penetrare nel mio spirito ridesto al tocco del grande Platone erotico. Con la piccola correzione, che il mio Fedro si ferma alla condensazione citologica e ctonia della suprema bellezza iperuranica. Pensi, quaderno, che un occhio profano potrebbe bucare questa cortina filosofica fino al nocciolo reale del discorso allusivo? Dipende dalla qualità perforante dell’occhio profano: quello che riguarda il presente dubbio non è occhio da simili imprese.

martedì 20 gennaio 2009

Susanna frammento otto


quaderno n. 2

10 gennaio

Trascrivo la lettera di Enzo Paci pervenuta giorno 2.
Milano, 28 dicembre 1964
Caro Assaggi, infinite grazie per il suo articolo. Apprezzo il suo tentativo, ma credo difficile che riesca. Abbagnano ha una sua opinione sulla fenomenologia – che io ritengo per lo meno dubbia – e non penso sia disposto a cambiarla. Del resto, la fenomenologia, come altre cose hanno [sic] bisogno di tempo, di molto tempo e di molto lavoro.
Quest’anno ho dedicato il mio corso a Whitehead e a Russell.
E lavoriamo ad altre cose.
Con rinnovati ringraziamenti, la prego di gradire i migliori auguri e i più affettuosi saluti.
Enzo Paci

L’articolo di cui Paci mi ringrazia è Polemiche sulla scienza. La sua lettera, come tutte le altre illustri, qui trasferite o no, è scritta a mano. Purtroppo, la grafia è sempre più “ardua”. Con questa sono otto le lettere che Paci mi ha scritto.
Commentino all’ottava. Che potrei intitolare “ho stanato la preda”. Dunque, quel che immaginavo è vero: tra i due campioni di Sophia c’è stata rottura (o vogliamo dire “presa di distanza”?). La delicata diplomazia del linguaggio non riesce a nascondere la profondità del solco divisorio apertosi fra i due campioni. E potrei dire senz’altro (o forzando un po’ le cose) fra maestro e discepolo. Abbagnano, in effetti, considera la fenomenologia husserliana l’ultima e più lambiccata filosofia intimistica: una versione del soggettivismo estremo, questa versione nobile del narcisismo, che s’illude di procedere rigorosamente e macina fantasmi al posto di solidi corpi di pertinenza sensibile e controllabile conoscenza scientifica. E non ha tutti i torti. Come dimostrano, ad abundatiam, gli eccessi ridicoli di epigoni e pappagalli impegnati a descrivere l’eidetica (essenza) non solo delle “ontologie regionali” (religione, etica, economia, politica...) ma anche e perfino della “leoninità” (e perché no dell’asinità? Ma forse lo hanno già fatto). E’ vero: purus philosophus, purus asinus. Il pur criticabile e para-teologale don Benedetto di via Trinità Maggiore aveva i suoi lampi di ironica lucidità e buonsenso.
*
Siamo dunque ritornati a scuola e nella Magna Grecia. Festosa accoglienza delle alunne. E di alcune in particolare. Difficile ripresa dopo la lunga parentesi, ma siamo già in linea di ricomposta normalità. L’Innominata lampeggia, furtiva e interrogativa. La filosofia, si sa, è poco adatta al troppo emotivo cervello femminile, vocato più alla corporale empeiria che alle volatili astrazioni dell’estremo pensiero. Ma, con tenacia paziente e ostinata costanza, riusciremo a capirci: almeno una discreta porzione di sostanza filosofica dovrà entrare in quelle delicate menti. E, in una versione speciale, si spera, in quella dell’enigmatico bocciòlo in progress (verso un auspicato schiudersi di petali rossi). Metaforeggiare allusivo? Ma certo, mio confidente muto.



12 gennaio

L’anno vecchio, rotolando sugli ultimi concitati giorni di un denso dicembre, è finito, dunque, da dodici giorni. Si snoda il nastro imbronciato del nuovo. Bilanci e progetti mi sfuggono di mano, pestati dalla fretta e dal disappunto. Poche realizzazioni nel vecchio, pochissime in questi primi giorni del nuovo: ecco il disappunto. Scusanti e attenuanti. Le ore di lavoro, scarse, vengono strappate a una situazione domestica difficile, vischiosa, soffocante. E coincidono, spesso, con alcuni prelievi dal sonno sacrificato. La gioia, peraltro grande, della paternità ha il suo prezzo: il bambino assorbe molto tempo, e limita fortemente, con la sua fragorosa ipercinetica solare presenza, le mie possibilità applicative. Mi lamento, ma vorrei, d’altra parte, un dio da ringraziare per la felicità di sentirmi vivere meglio assai che in un pur gratificante articolo (pubblicato e travolto dai giorni), nella carne fresca e piena di grazie di un bambino che molti mi invidiano. Del resto, per la mia ridotta attività dovrei accusare piuttosto la mia scarsa resistenza fisica che qualsiasi altro ostacolo. Potrei lavorare di notte, ma non ce la faccio. Che lezione farei la mattina a scuola dopo una notte di insufficiente sonno e riposo? Ecco che rispunta l’arcaica verità del piccolo immenso bios: un corpo forte, cioè resistente alla fatica, è condizione primaria di ogni buon successo. Ma Leopardi, Kafka, Kierkegaard, Poe,…? Non sono l’eccezione, ma la conferma: quale successo hanno avuto in vita? E quanta vita hanno dovuto sacrificare per la postuma vendetta? Mi chiedo, profanamente: ne valeva la pena? Il risarcimento post mortem compensa le gravi sofferenze e il furto di tanta esistenza? Bisognerebbe credere all’animuccia immortalina per rispondersi con un rotondo sì. Lo so, il discorso si potrebbe rigirare verso altri approdi, ma piantamolo lì, per ora. Magari “consolandomi” con un altro elenco di martiri della vocazione letteraria, dell’eccesso di cervello, della passione culturale: Lucrezio, Virgilio, Dante, Pascal, Flaubert, Maupassant, Flaubert, Čecov, Baudelaire, Proust…
*
Oggi è uscito un altro mio articolo sulla Gazzetta d. S.: un confronto ideologico-letterario fra Vittorini e Cassola (titolo del pezzo). Ancora un appunto sul lavoro extrascolastico: nel numero di dicembre della rivista trimestrale reggina Il gabbiano è apparso il mio articolo su Gulizza, chiestomi da lui stesso: titolo “lampante”, Un maestro proibito. Il direttore Sciumara mi ha mandato un pacco con i 100 estratti richiesti (per lire 1500) e due copie della rivista, una per me e una per Gulizza. Nel pacchetto c’era pure una cartolina con su stampata una poesia del direttore: una bagatelle, dalla quale chissà che incanto del lettore si attende l’autore. Ha scritto anche il nuovo amico Pino Pioppo, sollecitandomi una recensione al suo volumetto Tre profili. Ma ha avuto già due recensioni sulla Gazzetta, grazie all’amico comune Ciaccò; come potrebbero ospitarne una terza? Né io saprei mandarla altrove. Ma forse si tratta soltanto della mia solita pigrizia. Vedremo.
Il confronto fra i due narratori rivali mi inclina verso Cassola: meno ideologico (anzi, per nulla, direbbe lui), ma più poeta; attento a schivare le tentazioni di certo manierismo, che, invece, impiglia il baffuto don Elio, con le sue iterazioni da rosario nei dialoghi insensati e nelle lungaggini descrittive con pretese liriche non sempre calibrate sugli esiti e le risorse narrative. Il maestro Gulizza è davvero proibito: una bella congiura del silenzio circonda la sua opera, troppo schietta e mordace per la sensibilità del mondo accademico e giornalistico dominante nella serva Italia, di dolore ostello. E serva di almeno tre padroni: Casa Bianca, Bianco Padre e Narciso egolatrico dell’intellettualità delle due sponde politiche.

23 gennaio

Un’altra settimana è precipitata nel forno di Crono: non riesco a “coprire” in queste noterelle affrettate la corsa dei giorni, che mi sembra troppo e vieppiù veloce. Fatti ed emozioni di dieci e più anni fa mi si accendono nel ricordo come fossero di uno o due anni addietro. E l’ultimo dei miei giorni futuri mi viene incontro, spaventoso e inesorabile, sotto forma di incubi notturni. Di giorno, poi, nella fragile luce del sole invernale, a rincalzo, fitte improvvise e piccole trafitture alla regione mediastinica fanno eco al monito “disordinante” delle notti storte. E allora si capisce il valore eugenico del prezioso sonno.
Cambiando argomento, vi ritrovo altre convergenze spinose: il lincèo Abbagnano non ha risposto alla mia seconda lettera. Non ha gradito l’articolo che gli ho mandato insieme alla lettera? E’ quello in cui tento una limatura delle differenze tra la sua interpretazione di Husserl e quella di Paci a proposito della scienza. Non deve averlo apprezzato tanto. Forse perché io, stringi stringi, davo più consenso a Paci che a lui. Vallo a sapere. Nella lettera, assai “audacemente” io gli esprimevo il desiderio di sviluppare la parte (il grosso della trattazione) della mia tesi sull’esistenzialismo italiano che lo riguarda in una monografia generale sul suo pensiero. E gli chiedevo, per tanto fine, suggerimenti e indicazioni per procurarmi i suoi primi libri.
Ritorna a scampanare la domanda pudenda: perché non ha risposto? E si avvia il motore fumigante delle supposizioni amarognole. Ne sgorgano due probabili cause, sul momento: l’articolo, troppo benevolo col suo “avversario”, un sostenuto senso del suo prestigio (di maestro e di accademico lincèo), che non può scendere dal suo “altare” per dare indicazioni a uno sbarbatello di provincia sulla propria bibliografia. Magari avrà avuto paura di lasciarsi intrappolare in una corrispondenza poco gratificante e nociva al suo tempo operoso. E’ già tanto che abbia risposto una volta – forse – si sarà detto. Bah! Certo che le mie supposte ipotesi tendono coerentemente al nero di seppia. Sempre, in casi del genere.
Quattro giorni fa è uscito un altro mio articolo sulla “Gazzetta letteraria”, la pagina di Ciaccò: si tratta di una recensione al romanzo di Elio Bartolini, La donna al punto, inviatomi, in “omaggio per recensione”, appunto, dall’editore. E’ una recensione severa, per una buona metà quasi stroncatoria. E va bene così.

25 gennaio

La settimana scorsa ho speso alcune ore in una fitta corrispondenza letteraria, spedita quello stesso giorno. Una letterina a Carlo Cassola con un ritaglio del mio articolo Vittorini e Cassola, una letteruccia a Vittorini con un altro ritaglio dello stesso articolo (questa, indirizzata presso l’editore Bompiani); una letteretta a Volpicelli. Quest’ultima, con il dattiloscritto di una lunga “chiacchierata” sulle sartriane Parole, umoroso fluiloquio autobiografico del versatile guru della sinistra movimentista, perfettamente godibile (per virtù di scrittura e coraggio demistificante). Punto. Ancora una lettera ad Abbagnano, per scusarmi, ma senza sdilinquimenti, della precedente, qualificandola, tra sincero mea culpa e ammiccante ironia, una “gaffe da provinciale” (nella busta ho infilato pure un ritaglio del mio Galileo super, dove il pensiero del Maestro lincèo ha una sua parte). Ancora: una mini-lettera al consulente della Einaudi con un ritaglio dell’articolo cassoliano; un’altra al poeta e “studioso serio” (definizione di Gulizza, derisa da Ciaccò) Sciumara, chiedendogli se gradirebbe pubblicare sulla sua rivista il mio Galileo un po’ ingrassato da aggiunte significative, ma non compatibili con gli spazi di un quotidiano. Infine una breve ad Arrigo Benedetti con un ritaglio cassoliano.
Oggi ho raccolto parte della messe seminata. Hanno risposto: Abbagnano (che consideravo “perduto per sempre”), Cassola, Sciumara, Volpicelli. La lettera che più mi ha choccato (di emozione soddisfazione paura...) è, naturalmente, quella di don Nicola salernitano. E’ scritta su un foglio “intestato” così: Università degli Studi di Torino / Seminario di storia della Filosofia Trascrivo la lettera:

Prof. Paolo Assaggi / Siderato Marina / (RC)/
Caro Professor Assaggi,
spetta a me scusarmi e lo faccio con la speranza che vorrà essere indulgente. Il fatto è che dalla data della Sua lettera sono stato quasi sempre fuori sede (a Roma per due concorsi universitari e altre faccende) e mi ha raggiunto solo la posta che esigeva risposta immediata.
La ringrazio dell’attenzione che porta ai miei scritti, di quelli da Lei richiesti posso mandarLe soltanto Le sorgenti irrazionali e Il problema dell’arte. Gli altri sono introvabili e l’unica copia di mia proprietà non è quasi mai presso di me perché mi viene continuamente richiesta. L’introduzione all’esistenzialismo dalla prima edizione in poi non ha avuto molte varianti, solo qualche correzione.
Leggo sempre volentieri i Suoi articoli perché mi sembrano bene informati, criticamente validi e chiari e precisi nell’esposizione: La prego di continuare a mandarmeli. A proposito delle “Polemiche sulla scienza”, Lei ha forse ragione di dire che Paci ed io siamo sostanzialmente d’accordo: l’articolo cui Lei accennava riguardava strettamente Husserl, non Paci.
La ringrazio degli auguri, che Le ricambio cordialmente, per Lei personalmente e per il Suo lavoro.
Mi creda
Suo
Nicola Abbagnano
P.s. A parte le vengono inviati i 2 libri
Via Valeggio, 26 Torino

*

Le sorgenti irrazionali è solo un mezzo titolo: il libro giovanile (22 anni!) di Nicola Abbagnano (n. 1901), mostro di precocità intellettuale e di tenacia, aggiunge e completa con del pensiero. Un genitivo fondamentale, e ricco di avvenire. Il forse incuneato fra don Nicola e don Enzo è una gentile attenuazione diplomatica: nella lettera di Paci lo stridore della pas petite différence si avverte meglio. E’ vero, comunque, che l’attacco di Abbagnano punta direttamente e “strettamente” su Husserl, e solo indirettamente su Paci (più altri interpreti, italiani e non, del nuovo idolo seduttore dell’accademia europea. La dea Moda non risparmia neppure l’austera Sophia.)

Il mio lavoro potrebbe dunque sentirsi incoraggiato da tanta considerazione e sollecitazione. Peccato che non accada lo stesso alla mia salute.
Alla quale non giova neppure l’ospitalità che Volpicelli concede ai miei scritti. Riporto l’ultima sua letterina.

Caro Assaggi,
grazie della recensione a Sartre, che andrà nel numero della rivista che sto preparando.
Tanti cordiali saluti.
Suo Luigi Volpicelli

Ma la firma, scarabocchio illeggibile in verità, è solo una volenterosa virtualità. Il foglio su cui riposa la striminzita para-letterina, reca la solita “intestazione”: “I Problemi della Pedagogia Rivista bimestrale diretta dal prof. Luigi Volpicelli. Ordinario di Pedagogia nell’Università di Roma Direzione e Amministrazione: Roma, Via Corsini, 12; Telefono 656.708”

Dunque, il mio Sartre va bene? Stento a crederci. Tre lunghe serate e molte ore di lavoro non sarebbero perdute (almeno, nel senso che si faranno vedere in giro nel loro faticoso parto).

P.s. Non sfottere, quaderno delle mie narcisistiche confidenze (e connesso masochismo penitenziale). Chi ti dà il diritto di farlo? Non atteggiarti ad alter ego con pretese di Super Ego. E nemmeno devi montarti la testa per i miei piccoli successi. Carlo Cassola mi regala due paroline di ringraziamento. Soltanto due paroline di buona educazione. Troppo indaffarato? Più di Don Nicola salernitano?

Caro Assaggi,
grazie di avermi mandato il ritaglio dell’articolo, che altrimenti mi sarebbe sfuggito. / Con molti cordiali saluti, mi creda, /Carlo Cassola

La lettera, battuta a macchina, è indirizzata così: Prof. Paolo Assaggi, /Siderato M. (Reggio Calabria). Ma chi ha detto a Cassola che io sono professore? Non ricordo di averlo mai scritto, nel mittente, sulla busta, o dentro. La firma e l’indirizzo mostrano la calligrafia minuta e pulitina dello scrittore.
Nell’articolo Vittorini e Cassola io dico ai “duellanti”: hai ragione tu, ed ha ragione lui: intendo, quanto a posizione teorica. Ma quel che conta sono i risultati operativi. E’ lì che vi dovete misurare e giudicarvi. Detto fra noi, quaderno, io preferisco Cassola. Con tutti i suoi limiti. E con buona pace della spocchia avanguardistica, che lo incasella nella categoria “fuori casta” delle Liale. Forse lascio intravedere questa preferenza nell’articolo. Ma non ho già scritto in queste pagine qualcosa di simile? E quand’anche? Vittorini, invece, silet. Né posso contare a occhi chiusi sulla lealtà delle redazioni e degli uffici stampa editoriali: la mia lettera con ritaglio era puntata sul recapito dell’editore (Bompiani).

Siderato, 28 gennaio

Appunti in promemoria. Chiedere a Paci il fascicolo speciale di Aut – Aut 1958 dedicato ad Antonio Banfi (nn. 43-44). Chiedere, in omaggio per recensione: a Einaudi il famoso macro-saggio di Lukàcs, La distruzione della ragione (2a edizione, 1964); a Sugar, il non meno famoso e discusso, ma assai meno ingombrante, saggio Eclissi della ragione, di Max Horkheimer (indirizzo: Galleria del corso, 4, Milano). E giacché ci siamo, anche i seguenti autori e testi: Galvano Della Volpe, Umanesimo positivo ed emancipazione marxista; G. Lukàcs, Teoria del romanzo; G. Lukàcs, L’anima e le forme; Francis Jeanson, La fenomenologia. Li leggerò tutti? Improbabile. Ma non impossibile. Nei tempi lunghi. La domanda iniziale doveva, però, essere: li manderanno? Stiamo a vedere. Se l’editore lo manda, leggerò per primo La distruzione. Povera ragione, quanti nemici: chi la distrugge, chi l’affossa in eclissi, chi la tradisce fornicando piamente con la Fede. E quanti cultori e devoti, specialmente a sinistra. Gulizza ridacchia: uccidono un uomo, anzi una donna morta: la divina ragione per lui è solo una vuota maiuscola. Vuota, si capisce, in quanto presunta e millantata “categoria spirituale”. Ma le maiuscole non sarebbero che amplificazione e trasposizione promozionale di realtà fisiologiche. In fattispecie, la razionalità sarebbe solo tecnica di autogestione dell’uomo-corpo col suo originario (e versatile) motore fagico, prima e ultima sostanza, secondo il trofologista, dell’intero cosmo biologico: dall’ameba a Leonardo, come ama dire e scrivere questo enfant terrible della senilità offesa.

Akiskene, 31 gennaio

Appunti per l’articolo Le due culture (ovvero, Umanesimo e scienza), da rifare, in versione doppia, breve e lunga. Vedere: Ugo Spirito, Inizio di una nuova epoca. Specialmente i capitoli “L’avvenire della scienza”, “Critica dell’umanesimo”, “Responsabilità della cultura”. E poi: Giovanni Maria Bertin, Esistenzialismo, Marxismo, Problematicismo: pagine, 96-100, 91...
Altri progetti e relativi appunti. Per Dove va la ragione, vedere: U. Spirito, Il problematicismo, La vita come ricerca, Inizio di una nuova epoca. Ludovico Geymonat: Saggi di filosofia neorazionalistica (1953). L’esigenza di una storia integrale della ragione, nell’opera collettiva a cura di G. Giannini, I presupposti della trascendenza (sic!), G. M. Bertin, Op. cit.; Giuseppe Semerari, Scienza nuova e ragione; N. Abbagnano, Filosofia Religione Scienza; Possibilità e libertà (pp. 83-106).
*
Ieri, a scuola, durante la ricreazione, si venne a parlare, fra colleghi, del decennale della televisione italiana e dei programmi dell’anno appena trascorso. Anzi, degli ultimi due o tre anni. Si formarono due “partiti”: uno con tendenza laudatoria e l’altro con l’opposta. Nel primo, prevalevano le donne, entusiaste, o comunque soddisfatte di programmi come Il mulino del Po (regia Sandro Bolchi, interpreti principali, Raf Vallone e Giulia Lazzarini), I giacobini (con Serge Reggiani, Warner Bentivegna, Alberto Lupo e Sylva Koscina), le commedie di Eduardo De Filippo (Filumena Marturano, Natale in casa Cupiello, Napoli milionaria); fra gli spettacoli comici, primeggia Il signore di mezza età, di Marcello Marchesi, con Lina Volonghi e Sandra Mondaini; un po’ meno luminoso il successo, pur notevole, di Paolo Panelli, con la sua Piccola Enciclopedia Panelli, estrosa galleria di personaggi comici incisivi. L’altro fronte, con maggioranza maschile, tendeva a evidenziare più i limiti che i pregi degli spettacoli seguiti. Smarrito fra cotanto senno, io dovetti confessare che seguo poco la televisione, ma che avevo potuto apprezzare I giacobini, la buona resa di Vallone nel Mulino, le ottime forme della Koscina (vedi pertinenza di certi cognomi!) e qualche suo momento di recita felice, le trovate di Marchesi, eccetera. Con qualche preferenza per il Dadaumpa di gamba lunga (ah, le Kessler!), la Mina di Studio Uno, il teatro di Eduardo, il Gian Maria Volontè della Vita di Michelangelo. E qualche altra cosetta e cosuccia. Le colleghe, tutte innamorate, nubili e sposate, di Alberto Lupo e Raf Vallone

GAZA 2009. LICENZA DI UCCIDERE E COMPLICITA’ TRASVERSALE


La storia non si ripete? Al contrario. E spesso al peggio. Nel caso Palestina, certamente: un copione che si reìtera in termini tragicamente peggiorativi, da sessant’anni. Mentre scriviamo è in corso l’ennesima strage di civili palestinesi ad opera del ferrigno Israele supermarziale. Come tutte le altre volte, l’opinione cosiddetta liberal-moderata si mobilita a difesa dell’improbabile Dulcinea offesa. Il softwere di tanto zelo non si aggiorna: Israele è sempre l’aggredito che “ha il diritto di difendersi”. Innocente, cavaliere senza macchia, ignaro di tracotanza impunita. Anche stavolta: Hamas ha rotto la tregua e tira missili sulle città israeliane, dunque Israele può massacrare impunemente. Beninteso, si deplora (visto che le parole sono gratis) la morte “accidentale” di quei civili, e soprattutto dei bambini, ma si fa presto a transitare dal cordoglio di poco spessore al trasferimento della colpa al solito nemico fellone, qui Hamas. Come ieri (Libano, 2006) Hezbollah, ieri l’altro Al Fatah. Ed ecco sfilare sui teleschermi e le colorate pagine del Corsera i soliti nomi dei devoti di sant’Israele: dal filosofo franco-ebreo Bernard-Henri Lévy al rotondo Ostellino, dal Panebianco rincagnato al sinfonico Battista; in commossa fila tutta l’intelligentsia italo-ebraica. E pazienza quando si tratta di fanatici blindati, ma fa male vedere un Fassino accorrere a impinguare del suo scheletro credente le masse filo-ebraiche catramate. Idem per il “buon Veltroni” bipartisan e altri reduci stanchi del fu Pci. Compreso il Presidente Napolitano, che, bontà sua, ha scoperto l’ equivalenza tra antisionismo e antisemitismo. Un brutto segnale per i critici della dirigenza israeliana, sempre esposti all’alibi sconcio di quell’infame equazione. Si preparano sanzioni penali (almeno 4 anni di carcere) per il reato di razzismo: certe sparate spianano la strada agli zelatori del bavaglio.
Certamente, qualche distinzione va fatta. Per esempio il primato assoluto delle castronerie non potremmo negarlo all’apollineo Gasparri, quando spara questa esclusiva verità-minaccia: “Hamas deve finire di massacrare il popolo d’Israele con i suoi missili”. Tanto massacro non aveva fatto nessuna vittima prima dell’attacco israeliano, e ne ha prodotto una (solo una) dopo i primi macelli ebraici. Gasparri è la gonfiatura grottesca del fenomeno, ma questo dilaga fra tutte le teste politiche di uguale (dis)orientamento: s’ignorano precedenti, si rimuovono evidenze, si obliterano fatti e misfatti pluri-decennali. Insomma, si mistifica la storia d’Israele. Di cui rivediamo, qui di seguito, alcune tappe e glorie.
La tregua violata. Hamas l’unica colpevole? Durante la tregua Israele ha continuato a braccare e uccidere esponenti di Hamas: il 4 novembre un missile ebreo uccise uno di quei capi. Non basta: chi ha onorato la verità brutale delle restrizioni cui la popolazione di Gaza è stata sottoposta da anni? Restrizioni d’ogni genere: di mobilità, cibo e acqua, lavoro, assistenza sanitaria. Nella Striscia si vive assediati: la verità sulla tregua violata s’accende d’indignazione nelle parole di Mussa Abu Marzuk, numero due di Hamas a Damasco: “Non è assolutamente vero. Nei sei mesi di cosiddetta tregua Israele ha compiuto più volte operazioni militari contro di noi. Molti blitz unilaterali che nessuno ha mai denunciato e che hanno causato una quarantina di morti palestinesi. A ciò si aggiunga il blocco economico e il totale isolamento per la popolazione di Gaza. Gli accordi della tregua stipulavano confini aperti. Israele non li ha rispettati ben prima che noi rifiutassimo di rinnovarla, perché nei fatti inutile e vacua” (Corsera 7 gennaio)
Hamas come male assoluto. I raids aerei (60 in una sola notte!) e le bordate dei carri armati fanno macerie di case rifugi scuole e relativo contenuto umano, donne e bambini doviziosamente compresi. A tutto commento, i soliti noti di cui sopra ripetono: la colpa è di Hamas. Quei diavoli, infatti, piazzano cannoni in abitazioni civili con la luciferina intenzione di provocare vittime da sbandierare a disdoro dell’odiato nemico. Come se non fosse possibile scartare un bersaglio di sicuro impatto criminale. E l’esiguo spazio sovrappopolato della Striscia (circa 1.500.000 di residenti) non rendesse impossibile evitare bersagli civili quando si spara nel mucchio. Hamas è uno dei gruppi della Resistenza palestinese sviluppatisi nel corso del lungo viaggio d’Israele attraverso la prepotenza fulminante e la spiccia violenza. Hamas ha vinto regolari elezioni contro le forze moderate con referente il “realista” Abu Mazen: aveva diritto di governare, secondo logica democratica. Non le è stato permesso da una variegata combutta ostile: inevitabile la scelta radicale e l’arroccamento a Gaza. La valutazione d’Israele è in queste parole di Netaniau: “Con i terroristi non si tratta: si eliminano”. Cui fa eco il capo della comunità ebraica italiana, il poco irenico Pacifici: “Accettiamo come interlocutori solo chi non parla con Hamas.” Target dichiarato del governo ebreo: “distruggere Hamas”. Due anni fa l’attuale premier Olmert (in poco onorevole uscita) aveva detto. “Riporteremo il Libano indietro di vent’anni” Sogno svanito. Come sarà l’attuale: la storia si ripete.
Israele l’intoccabile. La più lampante verità e realtà di fatti diventa calunnia se la si invoca a carico di quello Stato così democratico: quando il cardinale Martino si permise di affermare che Gaza è “un campo di concentramento”, un coro d’indignate reprimende strombettò su tutti i media. Sintesi delle quali, quest’olezzante sospiro con stella di David: “Ha parlato come Hamas”. Se qualche voce onesta (dall’Onu in giù) accusa Israele di risposta eccessiva ai qassam palestinesi (che demoliscono solo qualche casa) e invoca lo ius in bello (che comanda ai belligeranti “la proporzionalità al danno subito” e l’assoluta salvaguardia degli “obiettivi civili”), Israele risponde picche e corregge a suo uso e consumo quel Diritto: “Un ospedale o una chiesa, se difesi da truppe nemiche diventano obiettivi militari”. E gli italici lecchini, pronti al cenno di tanto Giure, applaudono. Mentre Human Rights Watch rintuzza invano: “il fatto che i miliziani si mescolino ai civili non esime Israele dal rispetto delle norme”. E’ da prendere con le pinze, poi, l’accusa ebraica che gli uomini di Hamas usino donne e bambini come scudi umani. Nessuna pinza, ma gola aperta nei fan italiani.
Le armi del casto Israele. Un bel campionario di barbarie Hi Tech: bombe al fosforo bianco, proiettili al Du, ordigni, cluster bomb; e soprattutto le sofisticate bombette che esplodono solo quando hanno raggiunto i tunnel a 15 metri di profondità. Tutte squisitezze (regalate da quell’icona planetaria delle democrazie infette che sono gli Usa) destinate più ai civili che ai militari. Questa robetta era stata usata anche nella recente guerra del Libano (2006), dove ancor oggi si lavora a nettare il terreno dagli osceni ordigni. Qualcuno degli autorevoli claqueurs del coro filo-ebraico ha avvertito qualche prurito di dissenso da tanta civiltà democratica? Non ci risulta. Anzi: Pannellone recita sempre il suo “Europa vigliacca” perché non apre le braccia a sì nobile modello di umanità. Furio Colombo conferma la sua fede guercia: “Niente processi a Israele”. Frattini assicura che “Hamas è il problema”.
Nessuno del coro ricorda che lo Stato d’Israele è nato dal terrorismo: per anni, bande ebraiche (Stern, Irgun, ecc.) insanguinarono la Palestina sotto mandato britannico. Il più clamoroso degli attentati (1946, condotto dal gruppo Irgun, guidato dal futuro premier Begin) all’Hotel King David, sede del Governatorato britannico, fece un centinaio di morti e molti feriti (Netaniau, da premier, celebrò quell’azione come una gloria nazionale). La prepotenza arrogante verso nazioni e agenzie internazionali è stata la musa ispiratrice della storia israeliana. Si parla tanto del diritto d’Israele all’esistenza, ma si oblitera il fatto che quello Stato nasce da un’auto-proclamazione del maggio 1948, che fu il primo sberleffo all’Onu, dove si discuteva una ridistribuzione (meno ostile agli arabi) delle terre fra le due comunità. Anche allora la colpa fu data agli Stati arabi attaccanti in risposta alla tracotanza israeliana. Da quel primo scontro bellico, la storia medio-orientale si snoda come sequenza di guerre vinte da Israele. Al centro, la folgorante campagna “dei sei giorni” contro la coalizione araba, nel giugno del ’67: una vittoria clamorosa e un punto di svolta: nasce la questione del territori occupati: Golan, Striscia di Gaza, Cisgiordania, Sinai, Gerusalemme est. Con i territori, subito colonizzati, germogliò un altro futuro di guerre e scontri con i palestinesi, presto organizzati in formazioni politico-militari di resistenza. Il format del contrasto prevede un rapporto invariabile da uno scontro all’altro: Israele riceve un graffio e risponde con una coltellata. I raid aerei uccidono anche quando le punture palestinesi non fanno vittime. La prima volta che Israele paga il giusto prezzo della sua arroganza coincide con la guerra del Kippur (1973) un attacco egiziano a sorpresa, coordinato con la Siria, che atterra gli aerei ebraici sul Golan con i missili sovietici Sam 6. Ma la fedele America accorre a salvare l’alleato protetto dalle lobby ebraiche americane. Seguono gli orrori di Tall el Zatar (1976) e di Sabra e Chatila (1982): massacri d’inermi civili consumati da cristiani maroniti al servizio d’Israele. Quando Clinton tentò di mediare per una pace accettabile (incontro di Oslo, ‘93; “summit dei pacieri” a Sharm el Sheik. ’96, e altri incontri) il tentativo fallì per la doppiezza d’Israele. L’ala biblica di quella società ibrida organizzò un attentato mortale contro il premier Rabin, l’uomo di Oslo e della stretta di mano con Arafat. Nel ’99 Ehud Barak, premier israeliano, offre un ritiro dai Territori in apparenza allettante, ma in realtà truccato. Si blaterò, nella solita stampa filo-ebraica, d’un’incomprensibile cecità di Arafat, presidente dell’Autorità palestinese: ha rifiutato il 97% dei territori! E dàgli all’ingrato. Nel luglio del 2000 si consuma un altro tentativo: Barak offre lo stesso piatto respinto nel ’99. Arafat si sente beffato. Nuova ripresa nel settembre: “Riuscirò a mettermi d’accordo con quest’uomo” annuncia Barak a Clinton, by phone. Ma ci pensa il massiccio Ariel Sharon a minare l’incontro con la passeggiata fra e moschee. Nasce la seconda Intifada. Fioccano i morti da ambo le parti, ma con la solita prevalenza palestinese. Primavera 2002: Sharon, nemico personale di Arafat, fa strage di palestinesi, demolisce i loro ministeri, assedia Arafat nell’ultimo frammento della sua residenza bombardata: manca acqua cibo luce... Uno sfregio in pieno viso, davanti a un mondo impotente, dominato dagli Usa complici. Arafat perde autorità: deve accettare Abu Mazen come primo ministro. Si spera in questo moderato. Sharon, parzialmente rinsavito, sgombra Gaza, cacciandone i coloni ebrei. Cominciano gli attacchi suicidi di Hamas, e la comunità ebrea conosce il dramma della morte violenta dentro la sicurezza tarlata. Muore Arafat (veleno?). Correva l’anno 2004. Poco tempo dopo, un ictus paralizza Sharon: ricominciano gli insediamenti interrotti da lui, le divisioni fra palestinesi volgono al peggio e sboccano nello scontro armato.
Perché Arafat rifiutò quell’offerta truccata? Perché, come spiegò Mubarak in un’intervista alla Stampa, quell’apparente 97% era bucherellato da tante postazaioni ed enclaves israeliane da ridurlo al 45%. Noam Chomsky lo paragonò alle riserve indiane. In più, Israele pretendeva l’intera Gerusalemme.
Terrorismo, frutto avvelenato di troppi errori e orrori. L’evidente inutilità della via pacifica (road map, e quant’altro) verso la pace, ha generato la non-soluzione terroristica di Hamas, Hezbollah, Jihad islamica. Niente di più tetro di ciò che colpisce nel mucchio. Ma che si voglia definire terrorismo solo quello del kamikaze e non anche la ben più terribile risposta militare di uno Stato che spara altrettanto nel mucchio, che assassina oltre 300 bambini e massacra un migliaio e mezzo di civili, (contro una perdita quasi nulla dei suoi killer in divisa), be’ è un piatto che lasciamo volentieri al gusto drogato dei fanatici pro-Israele .
Ci s’indigna per le deliranti frasi contro gli ebrei del mondo, ma non ho sentito un solo scatto di vero sdegno per i bambini palestinesi massacrati. Quegli slogans evocanti camere a gas e svastiche ci disgustano, ma sono parole, vento, mentre le bombe che distruggono intere famiglie sono crimini orrendi e chi non li condanna con empatico raccapriccio e anzi ne “razionalizza” l’inevitabilità non merita rispetto. Si tratti di ministri o di giornalisti, si chiamino Pannella o Frattini, Casini, Follini, Fini e simili paladini... O Lucia Annunziata, massiccio esemplare dell’equidistanza “razionale”, sabotatrice dell’ultimo Annozero accusando Santoro di stare al 99,9% dalla parte dei palestinesi perché ha voluto onorare la cruda verità mostrando bambini colpiti dalle armi ebree. Intanto Tsaal continua a sparare su scuole ospedali e altri insediamenti Onu, mentre in Italia si dà addosso a D’Alema, perché ritiene, correttamente, necessario trattare con Hamas e con le altre potenze interessate a una vera pace. Che, temo, non sarà la nostra generazione a vedere.
Congediamo questo sfogo mentre si annuncia una tregua unilaterale d’Israele, convinto di avere raggiunto “tutti gli obiettivi”. Sulla pagina accanto, un titolo di differente sapore: Fuoco dei tank sulla scuola Onu. E’ il quarto istituto dell’Unrwa colpito. Dentro s’erano rifugiati i soliti civili con i soliti bambini fiduciosi nell’Onu.

venerdì 9 gennaio 2009

Susanna frammento sette


20 dicembre

Sulla Gazzetta d.S. dell’8 dicembre è uscito un mio articolo su Abbagnano “interprete” della scienza. L’occhiello è Scienza e filosofia in Nicola Abbagnano, il titolo Alla ricerca di un dialogo. L’articolo approva l’atteggiamento di Abbagnano nei confronti della scienza, valuta come lecite le sue “deduzioni” epistemologiche dal “Principio d’indeterminazione” di Heisemberg (a sua volta indotto dalla “fisica dei quanti”), e concorda sull’uso “largo” della categoria di possibilità. Me lo ha ispirato un saggio dello stesso filosofo salernitano, Il problema dell’osservazione nelle scienze, apparso su Cultura e Scuola. Il saggio di Abbagnano riassume (con la consueta chiarezza) e discute il bel libro di Niels Bohr, Fisica atomica e conoscenza umana (traduzione francese, 1961). Il nocciolo di questi scritti è il ripudio del principio di causalità nella sua forma classica (perfezionata nel secolo scorso) di determinismo rigido.
Ho mandato un ritaglio del giornale con l’articolo al prof. Abbagnano, pregandolo di “gradirlo malgrado i suoi limiti giornalistici”. Mi ha risposto con la seguente letterina:

Torino, 12 dicembre 1964
Al Prof. Assaggi, Siderato M. (RC)
Caro professore,
La ringrazio molto del ritaglio e della Sua cortese lettera. Le sono molto grato di prestare un’attenzione così intelligente e simpatetica ai miei scritti, e colgo l’occasione per mandarle il mo cordiale saluto e il mio augurio.
Suo Nicola Abbagnano

La letterina è scritta su un candido foglio in testa al quale sta, impressa in lucente rilievo, una lince circondata da una ghirlanda d’alloro che finisce, in alto, con una regale corona. Sotto il disegno brilla una scritta con lettere tutte maiuscole: ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI,
Identico “apparato” sta sul retro della busta. Non sapevo che Abbagnano fosse anche lincèo. La lettera, inutile negarlo, mi ha dato soddisfazione e commozione. Non credevo, o appena osavo sperare, che un uomo della statura cultural-sociale di Abbagnano potesse “scendere” fino alla mia imbranata modestia.

Il 15 dicembre, sempre sulla Gazzetta d. S., è apparso un mio articolo filosofico che tenta un confronto para-conciliativo tra l’Husserl di Paci e quello di Abbagnano a proposito della scienza (soprattutto, fisico-matematica. Che poi è la “forma”cui tutte le altre tendono). Abbagnano considera Husserl l’ultimo avversario intimista della scienza; Paci, al contrario, un difensore della scienza autentica contro la scienza alienata (e alienante), feticizzata: insomma, dimentica della Lebenswelt (o “mondo della vita”) e di altre cosette rimarchevoli di vago (ma poi tanto?) sapore cripto-idealistico.
Ho mandato un ritaglio a entrambi. Ad Abbagnano ho scritto anche una lunga lettera, nella quale gli faccio sapere di avere scelto come argomento della mia tesi di laurea l’esistenzialismo italiano, puntando prevalentemente sul suo pensiero; gli chiedo indicazioni su alcuni suoi libri giovanili, gli manifesto il desiderio di pubblicare la parte della tesi che lo riguarda tematicamente, previe integrazioni e aggiornamenti sugli ultimi sviluppi della sua attenta ricerca e relativi scritti. Che cosa ne verrà fuori? Attendo (non senza un certo batticuore).
A Paci chiedo grazia per il tentativo di conciliazione. L’articolo mio si intitola Polemiche sulla scienza, e prende lo spunto da un articolo di Abbagnano apparso sulla torinese Stampa (che da anni si onora della sua ghiotta collaborazione culturale).
*

Akiskene, 28 dicembre, ore 11, 45

Davanti al televisore, per la ventesima replica di un identico spettacolo: lo scrutinio della votazione per l’elezione del presidente della Repubblica. In questo momento i due maggiori concorrenti hanno questa quotazione: Nenni, 322 voti; Saragat, 275.
Saragat accelera: ha guadagnato terreno in pochi giorni. Ma forse non la spunterà neppure stavolta. Ambizioni e rivalità personali, camuffate da interessi ideali e culto dei supremi valori, hanno ridotto la Camera dei rappresentanti del Popolo sovrano a una malinconica arena di scontri infantili. Le “nobili eccezioni” si contano sulle dita di una mano. Ancora 100 schede bianche! Ancora i soliti caldarrostai mascherati da onorevoli, che votano Pastore, Leone, Fanfani, Paolo Rossi. O Pella, addirittura.

Lo spoglio è finito: nessuno dei votati ha raggiunto la maggioranza costituzionale dei 482 voti. Le mandrie mescolate dei rappresentanti del Popolo brontolano e rumoreggiano: pretendono di essere indignati. Lo speaker non ha saputo impedirsi una mezza epifania di sorriso tra l’amaro e l’ironico. Il presidente della nobile Assemblea, Bucciarelli Ducci, scampanella. L’atmosfera sarebbe più aperta all’ottimismo: si spera nel pomeriggio. Speriamo pure.
Votanti 932. Nenni, 385. Saragat, 323. Martino, 59. De Marsanich, 40. Fanfani, 7. Paolo Rossi, 7. Dispersi, 11. Schede bianche, 100. E, in fondo allo spoglio, la solita formula: “non essendo stata raggiunta da nessun candidato la maggioranza richiesta, occorre procedere a una nuova votazione, che avrà luogo nel pomeriggio alle ore 17.”
Nenni è votato ancora dai socialisti e dai comunisti; Saragat dai socialdemocratici e da una larga fetta della Dc, che si è ostinata a non votare Nenni. Naturalmente, per una questione di ferma coerenza e austera coscienza. Eppure alcuni di questi signori coscienziosi sono più a sinistra dei “saragattini”. La coscienza coerente, si vede, non glielo consente: votare un non credente? Vade retro. E così la componente confessionale snatura l’ispirazione politica di tanti “socialisti cristiani”. Aggiungi che molti ci tengono a testimoniare una sterile fedeltà oltranzista al candidato “retrocesso” Amintore Fanfani.
Ripensandoci: Saragat ha, forse, mai detto di essersi convertito al Cristo? Al momento, non mi pare. No, non può essere questione di fede religiosa, sì di fede politica. Che è poi la sola che conti in questa matter.
La situazione è questa. I socialdemocratici hanno chiesto i voti ai comunisti, ma questi pongono la condizione di una formale richiesta del partito, o di una “autorizzazione” della Dc. La Dc li vorrebbe pure, ma senza esporre la candida faccia immacolata. Ossia, li vorrebbe come offerti al candidato socialdemocratico, che non essendo del loro partito, le permetterebbe di onorare (sono onorevoli per nulla?) la pregiudiziale discriminatoria verso gli scomunicati della falce e martello. E sia pure attenuata. In queste torpide e torbide acque i comunisti fanno bene a non voler navigare. Prima o poi, è logico, l’impasse sarà sciolta, ma bisogna pur fare un po’ di melina e di teatrale gioco delle parti.
La sinistra moderata italiana, confessionale e no, ostenta ancora troppa diffidenza verso il Pci. Ed è inutile obbiettarle che, così facendo, non si accelera l’auspicata “evoluzione democratica” di quel partito. Evoluzione che loro stessi, i “sublimi maestri perfetti” della democrazia laica o della Madonna, riconoscono come già in movimento, salvo definirla, di volta in volta, insufficiente, incompleta, incompiuta, incerta, e via sottraendo. Con logica naturaliter candida. Anzi, bicandida: cioè ispirata alla diffidente aritmetica di Casa Bianca e Bianco Padre, suggeritori coscienziosi. Ma che si vuole di più? Mica questi campioni di Libertà con la maiuscola possono spiattellarvi in faccia, chiaro e tondo, che il Campidoglio transatlantico, questo sacrario incontaminato della radiosa dea, non vuole riconoscimenti pericolosi! Al massimo, qualche flirt occasionale, qualche proverbiale giro di valzer, e tutto finalizzato alla gloria della Minerva alata.
Peccato che le fila della presente situazione elettorale le tengano quei fuori casta. Tutti lo sanno, ma nessuno lo dice. Cioè, nessuno vuole ammetterlo coram populo: non sarebbe come riconoscere ufficialmente che il Pci rappresenta una grande forza dello schieramento politico italiano? Ohibò! Più facile mentire che lo siano i liberali. E’ l’ora del Pci: speriamo che le sue “teste d’uovo” sappiano sfruttare la sua “forza contrattuale” (e non tralignino in teste di c…). La Dc, invece, dovrebbe scadere ancora nella considerazione “popolare”: dopo le figuracce che ha fatto, vorrei vedere che non perdesse parte dell’ultimo elettorato. Ma è probabile che “lo vedrò”: il Popolo con la maiuscola è un mito ideologico, un’astrazione maiuscolara (direbbe il prof. Gulizza). La realtà sono le varie parti di una mobile massa in maggioranza colonizzata dalle paure religiose (leggi, fede) catalizzate dal convergente particulare guicciardiniano. Le speranze di un’evoluzione vantaggiosa per una possibile democrazia solidaristica riposano in quelle “varie parti”, in quanto suscettibili, alcune di esse, di influenze socio-politiche ed economiche contingenti e non solo nazionali.

Stesso giorno, sera. L’ha spuntata Saragat. Certamente, una “capitolazione” soddisfacente per il Pci ci sarà stata. Anzi, c’è stata senz’altro: non potrebbe essere altrimenti. Don Peppino “pane e vino” (meno pane con più vino) non mi è tanto simpatico: troppo americanisant, troppo allineato (e ben foraggiato). E soprattutto, credulone sulla perfetta (o quasi) democrazia statunitense. O troppo cinicamente realpolitiker? In un caso o nell’altro, l’odore di frode che lo circonda, mi intralcia un po’ la peristalsi. Ma, in mancanza di meglio, vada per Saragat. E’ pur sempre un candidato laico, un antifascista militante e convinto: se socialista lo è con modestia di attese e pretese, non è però un “sognante liberale”. E poi, forse ci ha aiutati a liberarci di Segni, l’aristocratico ultrà demo-liberal-cristiano. Anzi, cattolico.
Auguri al neo-presidente. E all’Italia parzialmente laicizzata.
*
Con l’elezione di Saragat si chiude un periodo piuttosto agitato della nostra vita nazionale e istituzionale. Agitato, con particolare coerenza codina, dal quarto presidente della giovane Repubblica, Antonio Segni. L’ex consigliere nazionale del Partito popolare (nato nel febbraio 1891), in sonno durante il Ventennio, nella rinata democrazia parlamentare, come capo della corrente dorotea, era stato tre volte ministro e due presidente del Consiglio. L’elezione a capo dello Stato (il 6 maggio del ’62) lo coglie in carica come ministro degli Esteri. Ne accetta l’onore e l’onere con spirito missionario: la missione indossata è l’intralcio, con ogni mezzo, dei peccaminosi sponsali fra demo-cattolici e socialisti. A buon diritto, dunque, si sente, e lo si definisce, l’anti-Gronchi. Se ne compiace, un paio d’anni prima, con sua eminenza il cardinale Siri, arcivescovo di Genova: “Spero – aveva scritto all’eminente – che la mia rinuncia all’incarico di formare il ministero impedisca la formazione di un governo con l’appoggio dei socialisti”. Durante la crisi di governo, dopo le elezioni del maggio ‘63, il suo interventismo polarizzato batte colpi innovativi di chiara ispirazione missionaria: non riceve soltanto leader politici, ma anche personaggi “laterali” come il governatore della Banca d’Italia Guido Carli e il generale e capo dei carabinieri Giovanni De Lorenzo. Ma se il primo, uomo di sicura fede democratica, non meraviglia più di tanto, il secondo accende fondati timori e vibranti sospetti. Alimentati, a torbida ragion veduta (chissà quanto spruzzata di acqua benedetta) dalla diffusione mediatica (giornali e televisione) della notizia. Non stupisce, pertanto, la corrispondenza romana del Figaro che scrive papale papale: “Roma è pervasa da una strana psicosi da colpo di Stato”. E nemmeno il fatto che Botteghe Oscure, nel luglio, ordina ai suoi dirigenti di non dormire in casa. Il pericolo di un “colpo di forza” viene segnalato da Nenni ai suoi compagni più restii al contentino democristiano: o accettare quella minestra (e chiudere le trattative con la Dc per l’ingresso nel governo) o aspettarsi che il “tintinnìo di sciabole” maturi in tempesta golpista.
Particolari convergenti di uniforme color fumo di Londra: alla sfilata delle forze armate il 2 giugno ’64 il Presidente viene colto da un raptus di intenirimento lacrimoso mentre sfila la nuova brigata corazzata dei reali Carabinieri repubblicanizzati. Così ne riferì Vittorio Gorresio. E meglio ne ventilò il possibile utilizzo fuori dai campi di battaglia il solito Tempo (che per l’occasione sfida il ridicolo parlando di ladri e non di eventualità bellica): “I carri armati pesanti non sono utilizzabili per la cattura dei ladri; possono servire, potrebbero servire anche ad altri impieghi, ove ve ne fosse bisogno.” Ove ve ne fosse...: cacofonia stridula dal sen fuggita? Ma no: lampante minaccia allusiva al satana rosso. Non prevalebunt.
Con questi begli argomenti, il 22 luglio si chiude la crisi e nasce il nuovo governo di centro-sinistra annacquato. Che è sempre meglio dell’ennesimo budino di centro. E tanto più di un golpe dagli sviluppi imprevedbili (o assai prevedibili). Due settimane dopo, il 7 agosto, il capo del governo, Aldo Moro, e il ministro degli Esteri, Saragat, sono in formale visita al Quirinale. Non può essere, e non sarà, un colloquio tranquillo: anzi, il climax sale fino al “tempestoso” usato perfino dai media meno sguinzagliati. Durante la tempesta, che ha ventilato fulmini da Alta Corte, il segaligno Segni (cacofonia voluta) è colpito da un collasso cardiocircolatorio: ne viene paralizzata la parte destra del corpo e spenta l’abusata parola. Inutile il soccorso dei due visitatori-inquisitori, nonché (a parere diffuso) causa scatenante del colpaccio. Cesare Merzagora, presidente del Senato, assume i poteri presidenziali. E quattro mesi dopo, il 6 dicembre, il malato rassegna formali dimissioni. Il resto è attualità in corso. Facile pensare che la vicenda e i suoi intrecci-intrighi avranno un seguito nei prossimi, se non mesi, anni.
*
Qui, in basso, nel privato e in casa (terrana), continuiamo a goderci le vacanze natalizie. Alla meno peggio: tra intoppi influenzali, passeggiate col sole (quando c’è), e con la famigliola (che c’è quasi sempre). Molte letture personali, qualche articolo, già pubblicato o in attesa (come testimonia questo quaderno). E un po’ di televisione, quando più quando meno, a seconda delle sollecitazioni occasionali. Le elezioni presidenziali, per esempio, mi hanno sottratto diverse ore di lettura a vantaggio del tubo catodico.

29 dicembre, ore 23 circa

Grossi titoli, oggi, su tutti i giornali, per il neo-presidente appena eletto. Cerco di immaginare la bile rabbiosa di certi figuri e ambienti. Quella degli scelbiani della Sicania è esplosa in un velenoso articolo di Enrico Mattei, propugnacolo granitico di tutte le libertà anticomuniste (non escluse, dicono, quelle mafiose). Il Corriere della sera è più “diplomatico”: sfuma, smussa, snoda con serpentina flessibilità il suo argomentare, ma non si lascia sfuggire la “vittoria comunista”: deplorevole vulnus (in quel côté) della democrazia imperfetta.
La vicenda s’è svolta come previsto (era facile, la previsione): ogni discriminazione verso i comunisti è saltata. Lo stesso Saragat ha chiesto i voti a Longo, segretario del Pci, con un appello formale a “tutte le forze democratiche e antifasciste”. Ci si potrebbe chiedere: la “diade” democratiche e antifasciste è soltanto una distratta ridondanza o si trova lì a salvare una minimale distinzione? Come sottintendere: i normalmente discriminati comunisti si dicono democratici, e ne prendiamo atto; ma logiche di schieramento e prese di posizione socio–politiche contingenti denunciano la non maturità piena di quella conversione. Nessun dubbio, invece, sull’ispirazione antifascista, che è, pur essa, componente non secondaria della democraticità compiuta. E della nostra Costituzione. Al servizio di un padrone, anche i politici, non brillanti, in generale, per finezze ermeneutiche, diventano altrettanti doctor subtilis. Se, poi, il padrone è doppio, come in fattispecie (Vaticano e Casa Bianca), quei “dottori” diventano sottili fino al sofisma (esplicito o pudìco-implicito che sia).
Elezione sudata quant’altre mai prima d’ora: fieri contrasti, di ovvia e meno ovvia giustificazione (e mistificazione) hanno sballottato il neo-presidente per ben ventuno votazioni (contro le nove del predecessore). Fra i contendenti più coriacei spicca il giurista napoletano Giovanni Leone, ex capo del governo. Che però non piace né al tignoso Fanfani né a Giulio Pastore (ministro della Cassa per il Mezzogiorno): indi, dispetti e sgambetti. Le prime sette votazioni registrano l’impasse: Leone bloccato sui 300 voti, Saragat intorno ai 140. S’incavola l’inventore del partito socialdemocratico, e si eclissa. Né la “fuga” sblocca Leone. Anzi, l’antipatia di cospicue parti della Dc ne complica la scalata fino al grottesco, opponendogli nuovi improbabili concorrenti: perfino il non sommo ma stimato poeta Ungaretti e l’antropologo Giuseppe Tucci. Filano i giorni nella scarsa serietà delle contrapposizioni da cortile, finché il Pastore s’illumina, non di immenso, come il poeta, ma di burlesca evidenza: non può spuntarla. Con rammarico, raccoglie le pecore e ritorna all’ovile; non senza un sospiro di delusa mestizia: “Peccato, credevo che la mia candidatura incontrasse le aspirazioni dei ceti popolari”. O qualcosa di simile. Santa madre Chiesa s’innervosisce e striglia il cavallo di razza n.1: don Amintore raccoglie la paterna sollecitudine e dichiara di attenersi, da allora in poi, “alle decisioni degli organi responsabili del suo partito”. Lo segue, nella ritirata, il Leone burlato: con piccata delusione del suo sponsor, il segretario diccì Mariano Rumor. Tanto piccata, da fargli punire, con sospensione dal partito, due non secondari campioni della sinistra interna, Ciriaco De Mita e Carlo Donat Cattin. L’accusa? I due capetti si sono resi colpevoli di scarsa coerenza con l’immagine del partito osando “atti di rilevante indisciplina politica”. Terreno sgombro per don Peppino? Mai fidarsi di certi mangia-ostie, ma come escludere una futura combinazione favorevole? E’ la vigilia di Natale quando Saragat riappare nei corridoi nella Camera, disponibile a cercare le condizioni di un rilancio personale. Paradosso poco paradossale, stavolta se la deve vedere con un candidato “interno” all’ideologia quasi comune: Pietro nenni, vice presidente del Consiglio, gia in possesso dei voti sinistri. Ma anche leale competitore e politico realista. Ritenti, Saragat, ma si rassegni a chiedere i voti degli odiati comunisti. Saragat riflette, accetta il consiglio del compagno separato, lancia il fido Tanassi, segretario del Pdsi, sul tavolo riservato della trattativa con i senza dio para-stalinisti e attende. Esito positivo, e se “Parigi vale bene una messa”, il Quirinale non può essere da meno di fronte a un’altra santa recita. Via all’appello fatidico: “Mi auguro che sul mio nome via sia la confluenza dei voti di tutti i gruppi democratici e antifascisti”. Ai colli-torti democristi non rimane che far buon viso a cattivo gioco (pena un isolamento poco appetibile), e, obtorto collo (appunto), versano le lacrime dei loro voti coatti sul candidato laico. Anche la Madre Chiesa abbozza. Festa presso i laici. Quasi lutto per liberali missini monarchici e contestarori diccì irrecuperabili. Dall’inizio delle votazioni erano trascorsi 12 giorni, a cavallo del santo Natale: un’elezione circonfusa di tanta santità si porta dentro un buon augurio.
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Nel privato, felice coincidenza (albo signanda lapillo): sulla Gazzetta d. S. nella pagina settimanale di Ciaccò, “Gazzetta letteraria”, è apparso il mio lungo articolo commemorativo di Galileo (4000 centenario della nascita), inframezzato da una riuscita foto di un suo celebre ritratto. Domanda d’obbligo: piacerà a Gulizza, che me lo aveva chiesto con convinta insistenza? C’è qualche refuso, ma niente di catastrofico. Sì, possiamo dircelo, quaderno: è un buon lavoro; è lecito esserne contenti (alla faccia della modestia). E ci puoi scommettere che sarà letto da parecchia gente alto-locata nei cieli della cultura: vi cito, infatti, molti nomi di pertinenza magna. Eccone alcuni: Abbagnano, Antonioli, Banfi, Battaglia, Bo, De Santillana, Geymonat, Paci,... Perno del mini-saggio (ché tale si potrebbe definirlo) il confronto fra Abbagnano e Gulizza, e più largamente, tra gli specialisti del Galileo scienziato-filosofo (a cominciare dal Geymonat, storico della scienza e autore di una celebre monografia galileiana) e il modesto (accademicamente deplorando) ma acuto Gulizza.
Piccola confessione inter nos, quaderno dei miei sospiri: lo scritto, così ricco di riferimenti, è anche un piccolo bluff. In che senso? Nel senso che dimostra e ostenta più letture dirette e cultura specialistica di quanto il mio troppo disperso cervello possegga realmente. Ma per un articolo di giornale va bene anche così. Doppiamente bene, anzi, perché quella sfilza di illustri personaggi saranno costretti a leggermi dal buon servizio della famosa o famigerata Eco della stampa. L’evento (!) mi sa di regalo natalizio (viva la faccia).
E’ il terzo articolo che esce sulla Gazzetta in questo mese. Per procurarmi quante più copie potessi del giornale (spedirò vari “ritagli”) ho percorso mezza via Etnea e tante vie secondarie della nostra bella Liotria. Sono contento.