mercoledì 26 agosto 2009

Susanna, frammento 38


17 luglio,
sera tarda

Delizioso bagno tiepido stamane, mentre Rina e il piccolo stavano ancora a letto: lei, per legittima indolenza domenicale, lui in pieno sonno di fisiologica pertinenza. Poi al mare, tutti e tre, per la prima volta, ospiti dell’avvocato Carolui, e della sua millecento bianca. Il mare non era brutto (come a volte diceva Giampiero); anzi, invitante, appena mosso. E tuttavia non abbiamo fatto il bagno, nessuno di noi tre adulti. Giampiero, invece, mi ha regalato una gradita sorpresina. Dapprima non ha voluto bagnarsi neppure i piedini esitanti, poi, stimolato dall’esempio di un suo quasi compagno di giochi (il fratellino minore di Susy), si è tolto il costumino e si è bagnato tutto, da solo. Che c’è di così miracoloso, quaderno? Un piccolo particolare: la dimostrazione che, a volte, l’orgoglio può vincere la paura. Dunque, una speranzella per il futuro del bambino timido: un diavoletto di moti e parole (sensate, a volte sorprendenti) fra intimi, un monumento di silenzio con estranei. Fino a negare nome e cognome a quegli inquisitori, a volte.
Splendida spiaggia, stamattina. Per la sua natura inanimata, in primis; ma soprattutto per la popolazione animatissima che la vivificava. Sotto il fiato ardente di un nudo sole già pienamente estivo, sotto la stoffa colorata dei molti ombrelloni sparsi sulla sabbia bionda, immersi nell’acqua a giocherellare con amici e figliolini, o impegnati in esibizioni di bravura nuotante, una traboccante cornucopia di corpi femminili in bikini si offriva alla fame visiva (e sottostante) dei maschi, appena un poco meno numerosi. Ragazze e signore, madri giovani e meno giovani, alcune colleghe del nostro e degli altri istituti zefiresi: una varietà che si alzava verso la ghiotta eccellenza osteo-muscolare con una più che discreta percentuale morfologica (non approvi questo linguaggio tecnico, quaderno? Prova a immaginarne uno più spiccio e gergale qui sottinteso).
*
Il velo di impressioni fresche mi riporta al sogno già mezzo narrato. Vediamo di finirlo stasera. L’autorevolezza dell’ibrida visitatrice lo esige.
La mia bocca trepidò sopra il seno sbocciato, le mie labbra lo percorsero e serrarono delicatamente, deliziosamente mimando una suzione infantile. Sembrava svenire, fra sospiri e suoni di voce strozzata. E mi parve strano che, al suo primo contatto di sesso preliminare, questa creatura di sogno reagisse con tanta partecipazione. Ma poi sentii di non essere al primo, ma al secondo e terzo e quarto incontro, e chissà a quale numero ordinale: secondo la beffarda logica del sogno, che condensa mescola identifica e scalcia sui tre aurei assiomi della logica aristotelica. Ma sì, io l’avevo già iniziata, il suo primo impatto col maschio era stato il mio, il nostro. Ma tempo fa, e ora ne eravamo lontani. Quanto tempo fa? Non lo sapevo, forse alcuni mesi, forse un anno: no, non riuscivo a ricordarlo. E intanto che la memoria divagava, la mia mano si trovò fra le sue gambe, salì verso le cosce, ne misurò la morbidezza elastica e piena, la soda, levigata e cedevole forza muscolare. Depilata fin lassù? – pensai. Ma conclusi che no, le cosce non potevano esserlo: solo le gambe da sotto il ginocchio in giù.
Le mani avanzavano, non lasciandosi distrarre dalle evasioni del pensiero curioso. Le dita premettero contro il leggero tessuto cribrato. Indugiarono, vagolarono, nei dintorni, esitanti non per pudore mio o per riguardo al suo, ma per malizia di calcolo. E quando ritennero colma la misura della sua tensione, penetrarono oltre la cortina, e gli umidi sentieri se ne riempirono nel loro buio vorace. La sua incerta resistenza iniziale s’era infiammata ad impazienza collaborante: la palpebra trapunta scivolò via a rivelare uno strano occhio con strane ciglia. Ritornate, per l’occorrenza, unite, le scolpite gambe avevano facilitato lo scivolo liberatore. Il quasi-velo intriso di molle profumo d’acquisto combinato con gli odori di madre natura ruffiana, il mistico velo del sacro bosco, scivolò fino ai piedi, tirato da dita tremanti, di adorazione e concitazione. Ed eccomi, versione minuscola ma non dissacrata, del mitico “Re del bosco”: minima, sì, così poco frazeriana, e meno drammatica nell’eventuale successione. Ma, sentivo, non del tutto sdrammatizzata. Anche nei sogni, timori e tremori. E i piedi coprì per due secondi, quel sacro crivello, e scoprì in un secondo. Gli occhi si affrettarono a reclamare la loro parte di felicità, e il concerto dei sensi fu pieno intorno alla mistica mensa. Intanto l’Onirico mutava la logistica: era ancora la mia stanza solita che ci ospitava? Sì e no: lo era e non lo era più. Che cosa v’era cambiato? Un informe misto di colori declinati dall’imbrunire, di odori e sapori di ben noti dolciumi appena sfornati, un silenzio più fondo di solitudine innaturale, contro cui si stagliavano musicalmente sospiri e gemiti in metamorfosi d’usurpata infanzia. Un pasticcio senza capo né coda. E non mi chiedere dei tempi, quaderno: sai che il Crono onirico ha le sue non-regole, e non rispetta le nostre scansioni. Posso dire soltanto che la successione probabile delle sequenze mi presenta, nel poi dell’ultima, la simbiotica dea distesa sopra una mia sdraio rossa, che nella realtà del giorno non sta nel mio studio, sì nel soggiorno. E io le fui ai piedi, in ginocchio, la testa fra le divaricate colonne del tempio, a recitare preghiere di avide labbra e mobilissima lingua. Mentre gli occhi contavano senza riuscirci le varie qualità e gradazioni di rosso, dal rosa denso del santo dei santi al rosso cupo della tela ospitante, deliziosamente tesa dalla pressione del bel corpo disteso. E confrontavano i due tipi di nero, quello del tempietto folto di intricata flora e l’altro, liscio e freddo, del telaio metallico della sdraio. Chiusa la fase adorante, le fui sopra, quant’ero lungo, lei non più coperta nella parte già adorata. Né impedito da stoffe coibenti fui io, a mia volta, nella corrispondente latitudine del mio corpo allo spasimo. Lei gemeva, e respirava denso. Io sentivo, nello scivoloso ingresso tendersi e resistere l’alt elastico e problematico dell’adorata integrità. E l’estranea molteplice si faceva meno estranea, diventava sempre meno misteriosa. Di colpo fu lei, la regina di questo eone privatissimo. Seguono, nel ricordo spezzato e ricostruito, zone buie, larve di cose e di ambienti. Poi di nuovo luce, morbida e smorzata, un latte di crepuscolo dove il mio orgoglio tenace fu tra le sue dita guidate, palpitante e turgido come un desiderio che scoppia…Poi altre cose, altre delizie sul corpo bianco dentro l’oscurità appena diluita dai riflessi stradali filtrati da opache cortine. E mi svegliai: sussultando, bagnato, spremuto, e dicendo, come incalzato da incombente pericolo: “No, quello no! Quello no! Non ho il diritto di…, di…”. Non potei sapere di che cosa esattamente non avevo il diritto, nello strabiliante fiume del sogno. Destandomi, lei non era più lei ed era sempre lei.
Ecco lo strano viaggio onirico dell’altra notte. Chi era la misteriosa creatura sintetica che ora si identificava con questa ora con quella delle mie conoscenze senza fermarsi più che tanto in nessuna? Un condensato di desideri repressi propiziato dal caldo africano di queste notti estive? Certamente. Ma perché quelle modalità del sogno, e quella galoppante durata ricca di particolari? Avevo gridato, in quel no replicato: un grido strozzato, ma sufficiente a svegliare Rina. Che mi scosse e risvegliò del tutto: “Che stavi combinando, eh? Era la tua coscienza sporca che ti sbarrava la strada?” Così disse, chiese, sentenziò la legittima compagna dei miei sonni e non dei miei sogni. Stranamente polarizzata sulla logica logocinetica del finale onirico: come mai? M’era sfuggito qualche gemito, un soffio più denso del respiro, un segnale, insomma, che potesse spiegare quella strana allusività mirata? Sia come sia. Inventai, lì per lì, una risposta quasi credibile, di rissa che mi spingeva a colpire, non ricordavo bene come e con che cosa; solo che erano, sarebbero stati colpi eccessivi, a rischio di complicazioni fatali. Vedi ingegnosità della Colpa.

*

18 luglio,
tarda sera

Giornata convulsa. Di notizie contrastanti e di varia dislocazione. Una telefonata dal paesello sicanico mi informa che a mio fratello è arrivata la comunicazione ministeriale della sua inclusione nella graduatoria dei vincitori dell’ultimo concorso a cattedra. Entro cinque giorni dalla data di spedizione della lettera deve far conoscere a quei frettolosi signori le sedi preferite. Contento per lui, ma a me perché non è arrivata analoga comunicazione? Scatta la mia nevrotica “sospettosità” para-metafisica: che cosa sarà successo? Sarà la solita malasorte? Eccetera. Nella stessa telefonata, la brutta notizia: una zia di Rina è caduta e si è rotta l’osso sacro. Ricovero, ingessatura, e complicazioni: questa zia è vedova e con due figli ancora ragazzini. Senza lavoro, dunque, e col misero sostegno di una ridicola pensioncella. Sarà mio suocero a fornirle assistenza. Completa di presenza operativa, compatibilmente con i suoi impegni di lavoro; e di soccorso finanziario. Combattuto fra il dolore per la sorte della zia (e del suocero) e il disappunto per la mancata comunicazione (con qualche egoistica inevitabile prevalenza di questo secondo compressore) scrivo un’allarmatissima lettera a Gulizza: preghi lui il professor Volpelli, uomo di molte entrature ministeriali, e suo, molto più che mio, amico, di informarsi al Ministero trasteverino per scoprirne gli eventuali arcana Palatii a mio danno. Corro all’ufficio postale a spedire l’espresso.

Arriva Susy. Sono agitato, ma la lezione non si può saltare. Ne sono libero verso le 20,30, e proprio a quell’ora mi chiama la cognatina virtuale: c’è una telefonata per me dal paese. Corro, oscillando tra speranza e timore. Aveva ragione la speranza: è arrivata la comunicazione anche a me. Mi faccio dire il numero di protocollo, e raccomando a mio padre di spedire la informativa ministeriale domattina presto, per espresso.

Dunque, sono vincitore di concorso. Non più alle dipendenze dei triennali incarichi da abilitato, ma stabilmente collocato in sede di mia scelta. Stento a raccapezzarmi. Avevo desiderato tanto questa decisiva vittoria (un esame è sempre una cornuta incognita. Specie con certe teste di commissari) e avevo immaginato diverso lo stato d’animo che ne sarebbe derivato. Più euforico, meno “calibrato”. Ma forse è solo il primo effetto. C’è bisogno di tempo per misurare i vantaggi della nuova situazione. Ed è inutile, oggi, rimpiangere il gran tempo perduto, con rinunce improvvide e rinvii vigliacchetti. Sì, lasciamo cristallizzare l’evento dentro gli intricati meandri corporei del cosiddetto inconscio.

19 luglio

Le coglionate che sento in questa vendemmia di esami! Dovrei proprio farla, una piccola antologia umoristica. Oggi ha sostenuto le seconde prove Stella Cilurto: ha deluso un po’, in confronto all’ammissione (più che discreta), ma nessun dubbio sulla maturità. E pochi sulla misura valutativa, pari, o quasi, alla media di ammissione.
Pomeriggio libero. Salvo che per un funerale e relativo accompagnamento all’eufemismo tosto dell’ “ultima dimora”. Il fratello della moglie del fratello della promessa suocera di mio cognato, al capolinea di una interminabile e atrocissima sofferenza, rassegnato e consapevole, si spegneva, con sollievo, divorato da un cancro vanamente contrastato per mesi. Aveva 52 anni.
S’impenna la statistica empirica di questa strage specifica: troppi morti per cancro da queste parti. Già troppi i pochi che cadono nei quattro-cinque paesi marini di nostra immediata pertinenza sociale, fra amici e conoscenti. Di più se allarghiamo sguardi e conteggi ai paesi meno vicini, marini o di collina. Le rare menti riflessive e più informate parlano già di sospette discariche tossiche e di stoccaggi di sostanze ad alto rischio di potenziali incidenti catastrofici. Ma le autorità smentiscono se interpellate in camera charitatis e i media tacciono ligi ai comandi e agli interessi dei potenti paganti. Tra le sostanze nere, il bianco, lucente amianto, fra i nuovi untori sospetti dell’eldorato chimico. Dopo decenni di utilizzo brado, senza remore di ascolto per le rare voci che gridavano al lupo.
Come ogni volta che il mostro colpisce, per così dire, sotto i miei occhi, io mi sento strani malesseri. E mi si riaccende la paura di poterne ospitare uno anch’io. Magari nel cervello. L’organo, forse più usato dal mio modesto totale.
Narrano che la vittima appena sepolta pregava molto i vari abitanti e potentati dell’Olimpo cristiano-cattolico. E che sperò fino all’ultimo barlume di lampeggiante semi-coscienza. Speranza, ultima dea? O estrema umiliazione della carne sofferente, che “indietreggia davanti all’annientamento” (Camus)?

20 luglio, ore 23

Le finestre dello studio socchiuse filano un soffio angolare d’aria fresca che mi fruga e percorre come molle carezza dopo i furori apollinei del giorno temerario. Dal declino del quale fiotti di sensazioni ancora vibranti salgono a contendere la calma del mio corpo alla grazia stellata di questa brezza inattesa.
Nella solita chiave potrei ripetere solite formule. Qui, anzi hic et nunc, più indiavolato il ritmo del sangue nella presa dell’ansia per gli esami imminenti di Susanna. La quale, come sappiamo entrambi, quaderno, non è (non può essere) preparata a sufficienza. Perché poi me la piglio tanto, anche questo lo sai, complice muto: è un punto d’onore (dove va a ficcarsi l’onore!) per me, per tutta la famiglia, il successo di questi esami. Intendo, la pura e semplice conquista del diploma. Così insidiato, così propiziato. Anche con una sfilza di sei.
Un acre aculeo di velluto sensuale, esaltato da fantasie recenti mi spinge verso i dolci lidi del casto talamo in attesa. Buona notte.
Il resto, al silenzio, spero discreto, di questa pagina ruffiana. Mi avvio con una certa apprensione. Un nugolo di freccette taglienti confitte nel muscolo cardiaco: ecco la sensazione da qualche minuto dominante. Quanto durerò?
Anche questo lamento è un vecchio refrain? E che non lo so? Come il refoulement qui in atto, formicolante di sottintesi.

21 luglio, ore 16, 45

Ecco di nuovo le antiche distonie umorali. Mi sento come l’ubriaco che si sveglia nel vuoto del mattino seguente. Un vuoto di angosciata dispersione, di smarrimento, di sradicamento. La metaforica ebbrezza? Pare che sia fatta: Susy ha superato tutte le prove orali. Oggi ha “dato” il gruppo lettere. E’ qui il nido del micro-big bang interno.
Tutti i colleghi commissari sono stati gentili e di parola. Temevo qualche sorpresa da quello di italiano e da quella di latino; ma loro sono stati, poi, i più generosi e pronti al dono. Più dell’amico Tucano. Del quale, quaderno, siamo obbligati a occuparci con più lungo e divertito indugio (sempre che l’umore sopra accusato non riprenda il sopravvento su questo tacito tentativo di temporaneo superamento).
A Tucano, certamente, ha fatto noia la reazione sgusciante e vagamente beffarda di Susy alle sue sfacciate avances – come dire? – dialettiche. Le ha dato, comunque, la sufficienza, sia pure con un insignificante meno davanti: magra soddisfazione contro quella inafferrabilità irridente. Ma veniamo più in dettaglio al dunque di questo indugio, parlando un po’ di questi esami, con la stessa disposizione mentale di Oscar Wilde quando diceva: “Trovate un’espressione al dolore, e il dolore stesso vi diventerà caro”. Sì, voglio distrarmi da questa tensione dolorosa in via di scarico, ma bloccata dal coibente vuoto.
Tucano era rimasto abbagliato da Susanna fin dal primo giorno degli scritti. Le aveva rivolto la parola più volte. E sempre col solito urto pacchiano, fatto di insolenze giocose e di sguardi antropofagici. L’urto cominciò col disinvolto tu sparatole in faccia senza riguardi. E ora scattava un complimento galante, ora una provocazione avida di originali risposte. Tutte le volte incontrava la resistenza scivolosa della ragazza. Scivolosa, per un verso, ma anche spinosa, per l’altro: cioè, mista di insolenze complementari alle sortite di lui.
Il giorno delle prove orali del gruppo scienze Tucano portò la considerevole mole di robusto os-sesso nella nostra aula e aggredì Susanna con queste parole alla cocaina arsenicata: “Le donne si dividono in due categorie: le oche cretine e le oche intelligenti. Tu appartieni alla prima categoria”. Susy non mosse ciglio: gli chiese come si dividessero gli uomini. Tucano rispose semplicemente (ma poteva non sospettare l’arrivo di una risposta piccata?) che si dividono in cretini e intelligenti. Al che, Susanna, per nulla intimidita, replicò: “Voi siete della prima categoria”. Tucano masticò amaro, ma dovette stare al giuoco che egli stesso aveva iniziato. Non sentii bene che cosa blaterò (il dialogo, naturalmente, si svolgeva in sordina, e masticando le parole) dietro la reazione di Susy.
Altri scontri avevano già suggerito alla ribelle di svelta lingua pepati aggettivi, che stentava a sminuire nella sordina: “somaro”, “deficiente”, “dongiovanni da strapazzo”; e via cantando. Ora, quaderno, noi sappiamo che Tucano non è affatto un cretino, né un dongiovanni da strapazzo. Si può comportare da quello e da questo, e nella presente occasione lo ha fatto. Ma è intelligente, abbastanza colto, e capace di scrivere dignitosi articoli di critica letteraria e cinematografica. In fattispecie, per usare il linguaggio giudiziario, gli ha nuociuto l’estrema attrazione che gli ha acceso dentro i corbezzoli la “casta Susanna”. Mario è un intenditore di bellezze muliebri e gode una non usurpata fama di tombeur de femmes. C’era poco spazio per un’avventura con Susy, anzi nessuno: lui “forestiero”, lei sotto la mia protezione “amicale”, niente da fare. E questo niente lo ha “squilibrato”, muovendolo a comportamenti eccessivi e pendolari.
Susanna, forse, non lo trovava così indigesto, ma scaricava la sua possibile attrazione segreta nella più schietta aggressività verbale. Anche oggi non ha mancato di sibilarmi dentro l’orecchio destro, mentre Tucano parlottava con la collega di educazione fisica, certamente di lei: “Se questo imbecille non la smette, gliene canto quattro”. Conoscendola, ho temuto davvero qualche sua uscita dirompente. Stringendola al braccio, l’ho calmata, a stento: “Controllati e non rovinare il mio lavoro. A cose fatte, gliene dirai quante vorrai. Se ci terrai ancora”. Il fatto è che Tucano non mi aiutava. A un certo punto, le si è accostato e le ha detto: “Sei una follicolinica arrabbiata.”. Lei non capì, per fortuna: “Che cos’ha detto quel coso?” “Niente, ti ha fatto un complimento” “Che complimento?” “Ha detto che sei una ragazza di carattere”. Non sembrò convinta della mia “traduzione”. Non le ci voleva molto a sospettarvi una mascherata sedativa: pro bono pacis et rei. No, non era convinta: guardava accigliata.
Poi l’ha seguita quando lei è andata a fare la prova pratica di educazione fisica nell’apposita sala. Si è avvicinato alla commissaria di “ginnastica” e le ha sussurrato qualcosa all’orecchio. E la sguaiata signora Gentile ordina alle candidate, tutte in gonna e camicetta, di eseguire dei “piegamenti sulle ginocchia” con la faccia rivolta a loro due. Susanna si è rifiutata. Richiamata all’obbedienza, dalla commissaria stuzzicosa, ha risposto che avrebbe eseguito l’esercizio soltanto se a fare coppia per l’obbligatoria assistenza col testimone ci fosse una donna e non un uomo. Obbiezione che più centrata non si poteva. Quanto a me, non potevo che prendere le sue difese. L’esercizio di Susy rimase un virtuale non realizzato negli appetiti surriscaldati del mio collega e amico Mario, l’imprudente recidivo.. Che se ne stette a guardare, scornato e inferocito. Ma anche afasico temporaneo, per un probabile sussulto di coscienza autocritica. Si sarà reso conto, a questo punto, che ha esagerato fino a sfiorare (soltanto?) il ridicolo. Coboldo relativistico, il ridicolo: che però, in certe occasioni tese sa anche irrigidirsi in piccolo ma efficace assoluto. Era, forse, il caso “nostro”: di Tucano auto-esposto in una posizione falsa, senza uscite di sicurezza.
Basta, mi fermo qui. Non ce la faccio più. E poi: forse avrò bisogno di un’altra dose di droga narrativa per combattere la sempre incombente melancholia da “caduta tensionale”. Alla prossima seduta, quaderno asinello.


22 luglio, ore 23,30

Io dico seguitando. Tucano ebbe scorno dall’impertinenza di Susy (o, piuttosto, legittima difesa del suo pudore contro un’aggressione petulante). E se ne stava a guardare poco coinvolto l’esercizio dei non più evitabili piegamenti sulle ginocchia delle ragazze. E a mal digerire il rifiuto blindato di Susy. Le sue compagne, poverine, non avevano la sua presenza di spirito, e abbozzarono, piegandosi e sollevandosi. Alcune, con lieve e meno lieve rossore, altre con meno inceppata disponibilità. E non è che non ve ne fossero di carine e bellocce, fra loro, anche se nessuna con lo charme di Susy (ahimè, continuo a ripetermi). Insomma, Tucano dovette accontentarsi di ripieghi: non spregevoli, ma pur sempre ripieghi. Sicché lo scorno restava, e la sua rabbia tracimava da un broncio a stento controllato. Si sciolse, dopo l’esercizio ginnico delle fanciulle in fiore e in gonna, già corta per decreto di Moda (Mary Quant locuta erat). Si sciolse, si vuol dire, dal grugno muto, troppo ghiotto per la sua controparte, e per non dargliela vinta, riprese a circuirla con le ciarle, standole vicino mentre lei si rifugiava tra le compagne. Tentò di toccare argomenti seri, i progetti futuri, le ambizioni professionali (“sempre che tu sia promossa, del che non sono sicuro” Qui, smorfia incredula di Susy), l’amore, il matrimonio, e via salendo. Ma l’esito di siffatte avances non fu migliore delle precedenti provocazioni: Susy rispondeva con monosillabi e minifrasi: l’inevitabile per non apparire “scostumata” (come si usa dire da queste parti per significare impertinente, maleducata e simili). Capivano tutti, anche i più distratti fra gli osservatori occasionali, che Tucano cercava un contatto corporale, anche minimo e “innocente”, come le condizioni ambientali imponevano. Tentavo, e tento, di immaginare i commenti delle compagne di Susy, dei loro genitori o sorelle presenti alle prove (pochi, in verità). Era impossibile ignorare quel corteggiatore sfiatante e colloso. O goloso, che suona ancora meglio.
Alla fine Tucano mi si accostò, mi strinse il braccio sinistro e mi trascinò in più protetto spazio dis-occupato. Lo guardai con l’ovvia domanda dentro lo sguardo allegramente ironico: che vuoi? Me lo disse subito, ripetendomi la domanda che mi aveva già fatto durante le prove scritte, notando la mia “attenzione particolare per la candidata più bella e sexy dell’intero istituto”. “Dì la verità, tu con questa…” , strizza un occhio più incupito che divertito, e accenna il gesto manesco per dire te la scopi. “Su avanti, confessa”. Io giurai che no. E fin qui era pura verità. Ma Tucano non mollava, e ripiegava sul petting largo e copioso, e qui il mio “non c’è niente fra noi”, così poco credibile, iniettava la “fatale” dose di impurità al primo diniego. “Non ti credo” – sentenziò. Ed io a ripetere che non potevo “vantarmi di cose non fatte”. Eccetera. Non la bevve. Insistette: “Parola d’onore?” Una fittarella al fegato non mi fu risparmiata, e ne avrei fatto volentieri a meno, come si dice in questi casi. Detti, ahimé, la parola d’onore. “Parola d’onore”, biascicai. E per sciogliere nel liquido acido delle chiacchiere catalizzanti l’increscioso imbarazzo, temuto visibile all’occhio esperto del collega intrigante, aggiunsi parole a parole, non meno aliene dall’impegno chiuso nella stretta di mano. Certo, ammisi, “la ragazza mi attira, non sono mica un monaco di Iside già servito, ma non c’è nulla da fare, non è il tipo”. Lo sguardo di Tucano non si acquietava, anzi si aguzzava a penetrare segreti dietro quella barriera sonora stonata. E io sventolavo l’aria innocente e cupida che avrebbe dovuto, nel mio onesto intento, dissolvere i sospetti dell’amico inquirente. “Proprio niente da fare – aggiunsi – ed è cosa terribile per me, che la vedo quasi tutti i santi e i profani giorni, a casa mia. E resto ore solo con lei per le lezioni che l’amicizia fra le nostre famiglie mi obbliga a darle. Sarà, magari, perché al suo confronto, sono quasi il brutto anatroccolo, non saprei…”. Spero si sia convinto, dopo questa profusione di argomenti. Ah, le versioni possibili della “Dissimulazione onesta”!
“E’ una serpe”, digrignò sibilò soffiò. E nell’obbligata sordina intendeva farle un complimento. “Le farei…”. “Più o meno quanto le farei io, se fosse possibile” – replicai, pronto, ad evitare il prevedibile successivo esplicito. Non alitò né schioccò altre monche parole di risposta, Tucano. Ma, rivolto alla lubrichetta signora Gentile, non ebbe difficoltà a postillare: “In casi come questi, il cazzo si moltiplicherebbe”. Né lei, la disinibita collega esperta in corpi da ginnastica, ne trovò più di lui (difficoltà, dico) a farsi una larga e sonora risata condita di verbaglia in sordina: “Forse anche la lingua?”. E altre perle del genere lampeggiarono tra loro due, con qualche disappunto divertito da parte mia, che mi ero scostato di un modesto recul dal loro dialogo così poco istituzionale. L’aggettivo soffiato sul “disappunto”, poi subì un sottile prolungamento metamorfico, che sa di orgoglio refoulé.
Tucano non è stato il solo ad essere conquistato dalle grazie selvatiche e ninfesche (a suo dire) di Susanna. I suoi occhi dorati, il suo sguardo felino e saettante in quel viso perfetto hanno fatto breccia su tutti i commissari di sesso maschile. I quali, però, sono stati più composti o assai meno sbracati del massiccio “filosofo”. Tra loro, il meno impacciato, ma entro non ampi limiti, è stato il simpatico Brighelli, il commissario di matematica. Oggi è venuto nell’aula di lettere e s’è intrattenuto a parlare con Susy, mentre lei era in attesa della prossima interrogazione. Il modulo usato nell’approccio è stato lo stesso di Tucano, la provocazione; ma la misura molto meno pacchiana e sessual-aggressiva. Primo affondo: “Che brutta figura hai fatto in matematica. Ti faccio gli auguri per le prossime interrogazioni. Di fare la stessa figura”. Messaggio ricevuto, e pronta risposta: “Se invece di fermarsi su quelle porcherie lei m’avesse chiesto cose serie, la brutta figura non la facevo. Che poi tanto brutta non è stata”. “Come no!?” “Figuriamoci, per due sciocchezze!”. E fu la volta dei complimenti. Brighelli disse che aveva scherzato sulla brutta figura, e che lei era “tanto bellina”. E non so che altro venne fuori, di lusinghiero, da quest’altra bocca manifestamente in secrezione di acquolina. Lei ringraziò e regalò uno dei suoi sorrisi “irresistibili” (l’aggettivo zampillò nella breve conversazione brighellesca, ma non ricordo se Brighelli se ne sia attribuito il copy rights o lo dichiarò pertinente alla “pubblica voce” locale. E cioè alle molto concerned chiacchiere commissariali).
*
E venne l’ora della prova di italiano. Dove lei ha risposto meglio che altrove, favorendo l’impegno assunto dal commissario Arfusto del tutto sponte sua (e resistente a un mio sincero “non pretendo tanto”) di darle sette. Più o meno allo stesso modo è andata la prova di storia, e anche qui è scoccata la nota del sette. Arfusto, poverino, me li aveva promessi per ventitre giorni di seguito, i due sette. E come se fosse la cosa più naturale del mondo. Mi chiedo se avrebbe mantenuto l’azzardo in caso di prova fallimentare o comunque non sufficiente. Credo di sì: la mentalità corrente in questa geografia del cosmo scolastico prevede simili tributi all’amicizia. Magari, in presenza di un disastro si sarebbe limitato alla sufficienza con qualche ininfluente segno meno davanti, ma non avrebbe tradito il “patto”. Io avrei capito, e non avrei avuto nulla da recriminare. Ma, ne sono sicuro, avrei recriminato, e come! (viva la faccia) se, davanti a un flop marchiano, lui avesse insistito sul sette mostruoso. Arfusto, però, era tranquillo: in caso di difficoltà serie nelle risposte di Susy, io avrei potuto suggerire quelle giuste, con la benedizione di lui. Uomini di mondo siamo, da queste parti: quasi tutti i professori, nonché educatori delle novelle generazioni. E se uno s’attenta a muovere qualche obbiezione deontologica al sistema viene giudicato un fatuo snob poco apprezzabile. Se mi s’affaccia al viso un po’ di rossore? Ma sì. E che perciò? Siamo così lontani da ogni ipotesi o presunzione di riscatto che non sia l’evangelico beati monoculi...!
Intanto la (troppo) cordiale cortesia e disponibilità del collega letterato mi lega un po’le mani e mi tappa almeno mezza bocca. Voglio dire, dovrò muovermi con discrezione nel difendere le altre candidate “rappresentate” da me, non escluse le mie dirette alunne. Temo che a una mia eventuale insistenza difensiva “smarginante” mi verrebbero rinfacciate le concessioni per la “favorita”. Vedremo. Una cosa è certa: mi batterò comunque al meglio delle mie forze. Forse invocando il sacro valore (ahimé, giusto pro bono meo maculato nella sua verginità) dell’equità (magari di un’equità flessibile).
Altra noterella eminente: pare che la sguaiata e generosa signora Gentile (nomen omen?), insegnante e commissaria di educazione fisica (qui, al magistrale, comporta teoria e pratica) abbia dato addirittura otto a Susanna. Naturalmente, per farmi piacere. Ma a me questo voto non piace: la simpatica, appetitosa giovane signora allude sovente, e in maniera poco gradevole. Lei sarebbe pronta a giurare che tra me e Susanna ci sia ben più che del tenero platonico. E tu sai, quaderno, che sto usando una formula debole: il linguaggio della graziosa, formosa e sfacciata collega (lo abbiamo già annotato? E che perciò!?) non è così delicato. Né rifugge da certe esplicitezze gergali del lessico pertinente. Considerato, poi, che è “comare” del preside Timarco, e gli racconta tutto, le sue eventuali, anzi trasparenti convinzioni, mi allarmano. Ho un bel dire, in giro, da tre settimane, che l’amicizia tra me e Susy è schietta e priva di malizia; che si scioglie in quella più larga tra le nostre famiglie. E via suonando: all’arpa della sopra convitata dissimulazione onesta (versione magno-greca, si capisce!). Ma com’è difficile far credere alla purezza dei sentimenti (taci, quaderno). E andiamo a nanna, che s’è già fatto mattino, mentre l’altra Innocenza dorme ignara nel talamo mutilo.

domenica 16 agosto 2009

Susanna, frammento 37


14 luglio

Tarda sera. Il primo dei due giorni magni. Questo è andato bene. Insomma, Susanna “ha dato” gli esami del gruppo scientifico, e i colleghi mi hanno favorito tutti: piena sufficienza in matematica e fisica, scienze naturali, agraria, musica; un bel sette in disegno-storia dell’arte.
Mia moglie è contenta. Ha scaricato una prima, e cospicua, parte della tensione accumulata nei lunghi mesi trascorsi, dall’inizio dell’anno e, soprattutto, delle “stranezze” di Susy. Ora attendiamo, con ansia, certo, ma con più fondata speranza, il giorno 23, del “gruppo lettere”. Ho avvisato, naturalmente, i colleghi commissari che gli avrei chiesto “un favore speciale”, ma pur sempre “nei limiti della decenza”. Come avevo fatto con quelli del primo gruppo. Inutile precisare che si sono mostrati, anche loro, disponibilissimi. Certo, con gli inevitabili dislivelli anche nell’uso dei superlativi. Tant’è che mi rimane un residuo di sospetto e diffidenza. Più che generico e generale, particolare e mirato: sulla “signorina” di latino (che però, in caso di bisogno, potrei, volendo “ricattare” benissimo: a mali estremi…). Vedremo.
*
Intanto, oggi, finalmente un pomeriggio libero. Cioè, senza lezioni private. Sono venute, sì, alcune ragazze della classe in esami, ma solo per consigli e chiarimenti puntuali e limitati, ovviamente, funzionali ai prossimi orali di lettere. Poco disturbo e non molto tempo speso. Poi, dalle 19, 30 alle 21, 30 circa, sono stato al ricevimento organizzato dal Camune di Zefiria in omaggio di benvenuto alle varie commissioni di maturità operanti nella cittadina.
Una piccola fiera e parata delle vanità. Le prevedibili vanità interessate dei politici e notabili indigeni. Ha concionato, e sproloquiato, il Sindaco (concedimi le maiuscole, quaderno), irraggiando amore per la Cultura, rispetto per le Istituzioni, pensosa attenzione paterna per l’avvenire dei nostri Giovani, anzi Figli, e Nipoti, così insidiato (esso, l’avvenire) dalle difficoltà dei tempi non facili che si annunciano. E via, salendo, con la serena fiducia nell’operato e nella specchiata integrità e competenza dei signori commissari, e nell’equilibrata, saggia regia dei loro presidenti. E variamente sventolando, soffiando, gonfiando. Ha risposto, emozionato e tesissimo, il presidente della nostra commissione, prof. Dell’Acqua, vibrante di gratitudine per la calorosa accoglienza, non meno sicuro dell’eccellenza dei commissari e dell’onestà operativa delle commissioni tutte e della sua in particolare. Lo seguiva, ansiosa, la simpatica moglie, certo non ignara dell’impacciata timidezza del consorte. Poi mi sono dovuto sorbire l’interminabile tambureggiamento del corpulento dottor Scattò, specialista in otorinolaringoiatria (il caso comanda che si usi intera la parolaccia) e in millanterie più o meno simpatiche e umoristiche.
E qui, quaderno, ti confido un dettaglio incredibile: il dottor Scattò è padre legittimo di dieci figli dieci. Ma è poi un dettaglio, un particolare secondario? Uno che ha osato mettere al mondo dieci creature non è “un dettaglio”, è un evento. Cinquant’anni fa sarebbe stato un caso dei molti, un numero collocabile nella normalità popolare (contadina soprattutta); trent’anni fa, un vanto del regime e una festa di pubblica premiazione; oggi, a metà secolo largamente pregressa, e di più accorta demografia, è una rarità assoluta. Dunque, un evento. Del resto è l’unico che si conosca nel paese e nel suo territorio, pur largo di campagna (e di agresti ardori mono-uso). Un medico, poi: potrebbe essere un caso da “Guinness dei primati”. Come si fa a caricarsi della responsabilità di dieci destini? Sarà stato incoraggiato dal buon esito dei primi arrivi: un paio di maschi e una femmina sono già bravi studenti di liceo e ginnasio. Ma non c’era il tempo di valutare “l’esito” delle prime nascite, tanto erano vicine. Solo un’apertura di credito sul futuro poteva “incoraggiare”. Vale a dire, lasciare briglia sciolta all’incoscienza. E’ anche il nostro otorino, il cordialone, e ha curato varie volte il piccolo Gianpiero. Bravo, devo dire: azzecca le diagnosi e non sbava per i farmaci: quanto basta, senza corrività per gli antibiotici né riguardi per piazzisti e farmacisti. Ha curato anche me e Rina. Rispettandoci nei “prezzi”. Saluto il prolifico con un pensiero per la moglie: martire o complice? Niente niente ci sia un altro caso di fanatismo evangelico? Il più clamoroso che ricordi io è vanto del mio paesello sicanico; anzi, di un suo quartiere e relativa parrocchia. Un professore di matematica-fisica nei licei, ghiotto di ostie consacreate e dirigente diocesano dell’Azione cattolica, ha ingravidato la moglie, donna non proprio bella, ma di “anima nobile”, per sette-otto volte in pochi anni, né ha smesso quando il medico di famiglia ha ammonito i due sciagurati contro il rischio letale incombente sulla pia donna stregata dalla sacra dottrina, ma non salda di cuore. Ed è finita con la morte della santa prolifica, logorata da parti e aborti spontanei. Nel caso Scattò sembra che tutte le fecondazioni siano andate a...buon fine. E la frugifera è ancora via.
Ho bevuto un dry Martini, nel corso della vibrante serata, una Coca Cola e un bicchiere d’acqua minerale; ho sorbito un gelato e masticato con voluttuosa lentezza due paste da dessert. Conversando un po’ in giro, ho fatto il compìto galante con le signore presenti, soprattutto con la moglie del presidente Dell’Acqua: donna di spirito, non sgradevole, se non gran beltà da tachicardia. Ho perfino litigato col commissario di matematica. Mi accusa di parzialità (reale) verso le mie alunne, e di ingiusti sospetti per il collega di italiano. I sospetti ci sono, ma che siano ingiustificabili è tutto da dimostrare. L’ “italianista” è poco preparato e alquanto incline a scambiare lucciole per lanterne (come ho già notato in questi sfoghi serali). Per esempio, risposte corrette per errori più o meno gravi. Secondo il piccolo Vishinsky, poi, dovrei restare con la parte di commissione del “gruppo scienze” anche quando le mie alunne sosterranno le prove orali di lettere. Non si rende conto che sarei accusato di tradimento dalle ragazze e dalle retrostanti famiglie. Lo so, il sistema è balordo: ci vorrebbe un rappresentante per classe, e non uno per commissione (ognuna delle quali esamina più quarte classi). Ho cercato di spiegarlo al collega impiccione, ma con scarso esito. Comunque, io avevo già deciso di “dividermi” fra le due aule, e così farò. Starò di più nell’aula di lettere, con le mie alunne, ma non abbandonerò le altre. Non lo potrei fare, in ogni caso: non sarebbe “legale”.

Di ritorno a casa, trovo Rina in angustie: il fratello non è ancora rientrato. Data l’ora tarda, non mancano radici alle sue preoccupazioni. Ma io sospetto cause poco drammatiche. Infatti: non molto tempo dopo la sua “notifica”, il ritardatario rientra. E mi confida, mentre lo accompagno sulla soglia della neo-fidanzata, la giustificazione tutta erotica e libertina del suo ritardo. Che cosa inventerà per la sua ragazza ufficiale? Lui sostiene che gli crede, tanto è innamorata. A sentirlo, gli crede sempre, anche quando racconta panzane. La sottovaluta: ecco la mia impressione. Eppure, è stato il primo a vantarne l’intelligenza (“solida e meditativa”). Temo complicazioni. Ad ogni modo, siamo rilassati, io und meine Frau, dopo la tensione dell’attesa: lunga per Rina, e la famiglia Carolui; breve per me, che sono rientrato da poco più di mezz’ora, ma sgradevole per tutti (e sia pure in ovvia differente misura). Residua, nel mio lago umorale, un po’ di adrenalina da prolungata esposizione sociale. Stenterò a prendere sonno, forse, e rivedrò, nel film a spezzoni, scene della serata. Forse, anche, e con speciale curiosità, la prosperosa moglie dell’assessore Minnelli nell’atto di sollevarsi il seno ampiamente scoperto: l’angolo, nel rientro dal bagno, sembrava al riparo da sguardi indiscreti. Ma forse che i signori uomini non hanno i loro bisogni? Del resto, è problematica l’intenzione della appetitosa signora di celarsi alla malizia visiva dei tanti maschi presenti. Poco male. E buona notte a lei che ci ha allietatati con la sua carnale letizia.
E a me. Che però, come ho scritto sopra, temo mi sia di coatta veglia per un buon tratto. Magari arieggiata da piccati confronti tra le bellezze eleganti di questa serata speciale. E di loro con Quella che tutte le supera e ora, nella mia infantile immaginazione, mi augura sogni d’oro.


15 luglio, ore 23

Ultimo giorno di scienze per le mie alunne. La prosperosa Ilaria è stata aiutata in matematica e fisica; è caduta in scienze naturali.
Le balle che si sentono in questa giostra di intelligenze coltivate! Né vengono solo dalle candidate. Il commissario di matematica della 1a commissione chiedeva a una candidata l‘area della superficie laterale della sfera. Alla perplessa figliola ammutolita suggeriva, poi, di trovarla, l’area mistica, considerando la somma dei volumi (questo, magari, sarà stato un lapsus) di tanti piccolissimi coni col vertice nel centro della sfera e la base sulla superficie (e questo non è certamente un lapsus). Codesto simpaticone dalla mole strabocchevole, e dall’aria cretina, pronuncia Bual il nome illustrissimo del grande fisico inglese Boyle, Neumann quello del tedesco Neumann (pronuncia corretta: Noimann) e così di seguito per la gran parte dei nomi stranieri.
Anche il nostro prende qualche papera. Per esempio, ha “aiutato” una candidata suggerendole che le lenti dell’oculare di un microscopio sono più piccole di quelle dell’obiettivo: ha fatto confusione tra microscopio e telescopio. In altra occasione (e qui la bufala è più grossa) ha considerato esatta la risoluzione algebrica di un determinante come somma dei due prodotti incrociati, invece che come differenza. La signora di scienze naturali credeva che la temperatura del nucleo solare oscillasse tra i seimila e i ventimila gradi. Scambiava la fotosfera con la massa “nucleare”. S’è meravigliata assai quando le è stato comunicato che la temperatura del nucleo è dell’ordine di decine di milioni di gradi. Né aveva la minima idea di quel che fosse il plasma solare, questa agitatissima marmellata di nuclei e particelle non “ancora” organizzate in atomi. E il ciclo di Bethe? Che roba è, professore? Soltanto la fornace nucleare che, nel nucleo stellare sui 20 milioni di gradi, “lega” insieme quattro nuclei di idrogeno, cioè quattro protoni, per formare un atomo di elio: due protoni e due neutroni nel nucleo, due elettroni orbitanti. Gli altri due elettroni dell’idrogeno, catturati da due protoni, ne azzerano la carica, cioè li trasformano in neutroni. Il nostro commissario di italiano (e, ahimé, storia) corregge una ragazza che ha risposto “Acitrezza” per dire il paese dei Malavoglia, e Rosso Malpelo per indicare il titolo di una qualsiasi novella del Verga. Ha “corretto” in Aci la prima risposta e con La roba la seconda. Ha operato, insomma, una specie di riduzione: ha dimezzato Acitrezza ed espunto l’infelice Rosso Malpelo dal capitale novellistico del nostro grande Conterraneo.
Ci sarebbe materia sufficiente per una buona antologia delle sciocchezze “commissariali” in un qualsiasi esame di Stato magistrale. Hanno cominciato subito i “matematici”, dichiarando sbagliate risoluzioni del problema correttissime ma poco praticate dalla media studentesca. Come t’ho già raccontato, quaderno, mi ci è voluta una sudata mezz’ora per convincere il mio commissario della legittimità, e perfino eleganza, di certi itinerari risolutivi. Tra l’altro, non si erano accorti, i frettolosi, che due facce della piramide irregolare proposta da questa estrosa (e un po’ sadica) prova scritta sono triangoli isosceli col vertice sulla base piramidale e le basi sugli spigoli laterali.
Sì, una spassosa antologia di castronerie e negligenze non sarebbe una cattiva idea. Potrebbe riuscire noiosa? Certo, se ci si limitasse a un arido elenco degli errori-orrori, ma con una alternanza di papere crude e di noticine-postille al peperoncino, il prodotto non fallirebbe un discreto mercato. Ma dove prendere il tempo? E la pazienza? Per la stesura, e per la defatigante corsa all’editore che paghi e non voglia essere pagato. Cioè, per un vero editore di mercato. Ci faremo un pensierino.
Inutile, poi, dire che non mi è possibile abbozzare una conversazione scientifica di medio livello su questioni di fisica, massime se “di frontiera”. Il commissario della mia commissione, che pure è il più preparato del terzetto (e dovrebb’essere anche “specializzato” in fisica), al sentir nominare dalle mie labbra profane il nome Lòrenzen si è affrettato a correggermi, convinto che io intendessi dire Lorentz. Né tanto specialista conosce la collezione scientifica dell’editore Boringhieri. In compenso, siccome ha un fratello “filosofo”, cioè insegnante di storia della filosofia nei licei e magistrali, crede di poter guardare dall’alto i filosofi e i fisici che s’impicciano di filosofia, come Bohr, Heisemberg, Born e simili perditempo. Tali, infatti, sembrano a lui, i fisici che riflettono sui metodi della loro scienza e le relative implicazioni di ordine cosmologico e gnoseologico della fisica più recente. Insomma, per lui l’epistemologia pare che sia proprio un perdere tempo dietro a elucubrazioni non pertinenti. E lascerebbe volentieri ai filosofi il vanto e il rischio di sentenziare sulla metodologie scientifiche, e fisiche in particolare. Tanto, si sa che i professionisti del logos ne sparano, di belle balle. Il che, magari, è in buona parte vero, ma non per sentenza di un esperto così poco esperto. Ma satis. Anzi, un’ultima nota: non ha mai sentito parlare di Pascual Jordan. E chissà di quanti altri fisici (magari, premi Nobel).

16 luglio,
sabato mezzanotte

Era bellissima. Gli occhi grandi e luminosi saettavano sguardi di rusalca. Il naso, né piccolo né grande, era la perfezione fatta linee e volumi in chiave francese (naso moderatamente all’insù). La bocca, un’armonia di labbra e taglio che esclude il minimo dubbio estetico. Una sensualità discreta vi riposava con intervalli di lampi. I denti, un doppio arco di avorio polito privo di accidenti aggettanti o rientranti. Il suo sorriso mi raggiungeva dispnoico sul veicolo di sguardi rapiti. Il mento, con la sua fossetta centrale, compiva in congruenza impeccabile l’ovale largo del volto (largo, ma dentro la misura che suggella il totale). I capelli neri e abbondanti, flottavano, ondulati, ad ogni suo movimento di testa, vessillo trionfale di una carnagione lievemente bruna. Lievemente, cioè soavemente. Il corpo non era grande, ma vagamente efebico, e ben pronunciato nei siti giusti: seno, cosce, fianchi. Somigliava a qualcuna che mi è vicina. Il volto, il corpo, lo sguardo, il gestire e l’ancheggiare (sobrio ma incisivo), tutte le sue componenti, riaccendevano nella memoria una persona troppo nota, forse intima, forse solo buona amica. E tuttavia, sentivo che era il primo incontro. Troppa grazia perché fosse parte importante della mia vita. Questo il pensiero monco che lampeggiava nella mente stordita. La sentivo, più che riconoscerla, misteriosa. Donde veniva? Come si trovava qui, con me, in questa stanzetta di campagna piena di libri? Il mistero mi intrigava e mi negava la sua chiave. Di colpo fui impegnato a spiegarle una poesia. Era Dante, poi Foscolo, poi Baudelaire, infine tutti e tre insieme, uno strambo coktail. Che balordo miscuglio, mi dicevo, ma pure così ovvio, così naturale. Ora stavamo seduti al tavolo della stanza-studio. Di tanto in tanto lei alzava gli occhi dal libro e li fissava nei miei. Un fiotto di sangue in fuga accelerata mi inondava a sbalzi casuali. Mi parve di capire che sollecitava le mie attenzioni. Finii di spiegare la poesia-ircocervo e la guardai. Mi sorrise un chiaro invito. Le presi la mano. Una mano nervosa e più magra che piena; lunghe le dita, rosse e ben curate le unghie. Gliela strinsi, restituì la stretta, gli sguardi in reciproca penetrazione. Mi accostai, i visi infiammati si vennero incontro come per magnetismo spontaneo, libero da ogni decisione volontaria. E le labbra furono sulle labbra: un bacio lieve come un soffio. Sorrise ancora, con gli occhi più che con moto di labbra. Mi levai dalla sedia e la strinsi al petto, io in piedi e lei seduta. Continuai a baciarla e lei rispondeva. Ansimando: leggera, poi via via più intensa. Ancora uno stimolo, quel respiro denso e rotto, per la tempesta dentro il mio corpo. La sollevai dalla sedia e la strinsi ancora più forte: al petto, dapprima, poi in un’avida espansione del contatto, premetti il suo grembo contro il mio. La stretta ci costringeva in uno spasimo di deliziata impotenza: perché non potersi fondere realmente, ben oltre l’una caro convenzionale? Nella turbolenza umorale dei corpi in tempesta si scioglieva qualcosa di simile a quel pensiero. Ora lei teneva gli occhi chiusi, e un’espressione estatica trasumanava il viso bellissimo. Mi risonarono versi spiegati a lei (ma quando?): Trasumanar signifcar per verba / non si porria, però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serbi. Presi a toccarla, variamente, delicatamente, in ogni parte della sua anatomia selettiva, ancora coperta dall’abito. Indossava una leggera tunica estiva: sotto si indovinava il nudo fresco della pelle. Una mano mi scivolò dentro la scollatura generosa: le coppe elastiche e ricolme del più bel seno della mia modesta collezione vagabonda mi accesero un lampo di memoria: non era il primo seno che io carezzassi nella mia lontana adolescenza? Il seno, così simile, di Elisa, la prima ragazza, il primo, e più lacerante, amore della mia non grassa esistenza erotica? La creatura-angelo che col fiore improvviso di un dolcissimo sorriso mi insegnò cosa fosse paradiso? Lo strappo mnestico disegnò quella scena lontana con limpida evidenza visiva, in un sussulto di fiamma al viso. Una specie di reviviscenza e intermittenza proustiana. Era la prima vera intimità sessuale, avevo poco più di sedici anni. Il primo amore non si scorda mai? Ancora meno la prima esperienza di sensualità corrisposta, il primo contatto con il nudo femminile adorato. Spenti i brevi attimi del ricordo, continuavo a spandere la mia fame frenata sopra l’offerta del suo corpo proteso, e così sintonizzato al mio disordine cinetico. Poi avvertii, non so per quale misteriosa rivelazione, estranea alla sua voce, anzi emanante da un’occulta sorgente interna, che lei era al suo primo contatto con l’uomo. Questa muta certezza di viscere moltiplicava il mio desiderio, che s’inteneriva di morbida dedizione, intrisa di una delicatezza mistica.
Frammenti di concetti sforzavano il pensiero a una spiegazione di tanto scompiglio ormonale. Aprivo gli occhi a una giovane ignara, distruggevo l’innocenza di una adolescente, mutavo una vergine in pace in una ragazza inquieta, curiosa di farsi donna. Quale responsabilità! Che mi incuteva paura. Ma anche eccitazione supplementare, una specie di esaltazione eroica.
T’ho raccontato l’ennesimo sogno, quaderno fraterno (ah, i miei sogni!). Cioè, una parte, la sua prima fase (confusa). Il seguito? Ad altro giorno, forse.

martedì 4 agosto 2009

Susanna, frammento 36


5 luglio

Oggi, compito di matematica. Un problema (di geometria, secondo norma), che dà del filo da torcere a tutti gli interessati, alunni, commissari e professori interni della disciplina. Lo risolvo, tuttavia, superando superabili inciampi. Così riesco ad aiutare un po’ tutte le mie alunne, in proporzione al bisogno. E anche qualcuna dell’altra sezione (pur se alloggiata in altra aula).
Pomeriggio-sera: correzione degli “elaborati”. Quel cervellone del commissario di matematica aveva un suo schema di risoluzione e aveva tagliato con lunghe croci di spessa matita blu gran parte dei compiti delle mie ragazze. Tagliati per intero, dico: secondo sentenza di sballo totale. Ma siccome nel mazzo c’erano alcune delle più brave, la cosa mi insospettì subito. Lasciai che tagliasse e mi appartai a studiare il procedimento della più sicura delle brave. Non mi ci volle molto a cogliere la correttezza impeccabile della sua scelta procedurale. E non solo la correttezza sostanziale, anche l’eleganza formale. La via seguita da Laura Strangio è più lunga e complessa della più diretta e facile. La quale è la più ovvia, una volta interpretato il senso delle domande nel testo. Mentre l’iter scelto dalla mia allieva, nella sua linea più tortuosa, è anche una sfida alle sue intrinseche difficoltà, vinta brillantemente. Dunque, con un di più di smalto logico. Ma quanta pazienza (e sudore dialettico), per convincere il prevenuto collega sbrigativo! Alla fine, tra sudori metaforici e fisici, riesco a illuminarlo. “Cacchio!”, mi fa, “Hai ragione. Ma come le è venuto in mente una simile risoluzione? Ed è vero: è la più elegante”. Alla buonora. Guardo anche i fogli delle altre: tutte scelte giuste. Qualche lavoro, però, non è finito. La maggior parte delle candidate hanno seguito il procedimento della Strangio. Per intuizione personale, o in forza di collaborazione e solidarietà interpupillare? Ne saprò qualcosa fra qualche giorno, dalle interessate. Intanto il commissario ha avuto un bel da fare a cancellare tutte quelle pugnalate di matita blu dagli innocenti fogli ingiustamente condannati al martirio. E a sostituire i numeri magri della condanna con rotondi numeroni pasciuti.
Tutto è bene… Una bella battaglia. Onore al merito, il collega capoccione si è rivelato, in fondo, più ragionevole e reattivo della sua iniziale ostinazione. Se al suo posto ci fosse stato una vera testa dura, anche caratteriale? La battaglia sarebbe stata più difficile, io l’avrei vinta comunque, ma il clima si sarebbe guastato. Con quali conseguenze per il resto delle prove? E per la salute, mia e di tante altre persone? Altra considerazione. Se al posto mio, come commissario d’istituto, ci fosse stato un “umanista” del kappa, digiuno, come regola vuole, di matematica (e di scienze fisiche e naturali)? Le povere candidate avrebbero subìto l’affronto, il voto negativo avrebbe pesato sull’esito finale dell’esame, i risultati sarebbero stati falsati e deludenti anche per le migliori. Qualcuna, forse, avrebbe reagito, magari legalmente. O in forme meno ortodosse. L’insieme del quadro non è prevedibile compiutamente, ma una cosa è certa: si sarebbe determinato un bel casino. Vedi importanza anche pratica di una informazione larga e interdisciplinare. Esco contento da quest’avventura: per una volta, la mia curiosità multilaterale morde nella realtà, per così dire. Cioè, non confina i suoi effetti nel godimento personale tutto chiuso in interiore homine, né limita quelli sociali alla vanitosa soddisfazione puramente platonico-narcisistica dell’esibizione occasionale (lezioni private e simile casistica). Insomma, è stata utile, praticamente operativa, socialmente estroversa. Evviva.
Il chiarimento tra noi due ha esteso i suoi effetti sul resto della correzione: della mia classe e dell’altra. E anche questo va conteggiato come sopra.



7 luglio

Cominciano le prove orali. Mi piazzo accanto alle mie alunne, di volta in volta interrogate, e non mi allontano un momento. Mi sento emozionato come se stessi affrontando io l’esame. Ci si immedesima con le personcine affidate al nostro impegno protettivo; se ne respira l’agitazione, quasi si trema in sintonia col loro tremore. E quei colori sulle guance! Massime delle più graziose – come Stella C., Adelaide T., Adele Z., Carla B., Lella L.…– Oggi è andata bene: tutti esiti superiori alla sufficienza, con un paio di otto e tre sette.
Pomeriggio. Dopo due giorni di “silenzio” Susy ritorna per la lezione di matematica. Riesce a fare qualche cosina: non nuova né difficile, ma meglio di niente. E non solo in geometria e algebra, anche in aritmetica razionale.
Lezione ortodossa: ohne geschlechtlich Zerstreuungen und nicht Abschweifungen (scusami, quaderno, ma mi trovavo sul tavolo quel vocabolario e ho ceduto alla suggestione della mascherata arcigna). Quasi quasi mi congratulo con il mio alter ego cedevole per questa prova di fermezza astinente.


8 luglio, mezzanotte

Continua il supplizio quotidiano degli “orali” (recte, prove orali). Oggi è andata meno bene. Cinzia è caduta nelle tre materie più importanti: potrò aiutarla in Consiglio di scrutinio? So soltanto che tenterò con ogni mezzo, ma l’argomento emozione riesce poco convincente alle orecchie dei commissari. Anche quando è reale e determinante. Non è proprio il caso di Cinzia, ma devo farlo credere. S’intende, nei limiti concessi dalla presentazione della scuola, che sta appena sulla sufficienza globale.
Al commissario di matematica comincia a pesare la mia vicinanza. Si sente controllato, lo rendo nervoso, mi teme. Me ne infischio. Ma fino a che punto? Sono in gioco le sorti delle alunne: prudenza e flessibilità, insomma.
Doppia lezione di matematica stasera: alla cognata virtuale e a Susy. Sveglia, la prima, come sempre e dovunque; meno alacre la seconda. Ma anche lei fa dei progressini (come abbiamo già notato in queste pagine sbadiglianti). Ce ne fosse il tempo, in qualche mese arriverebbe a risolvere da sola anche problemi un po’ complessi (ma non fino al sadismo della relativa prova scritta). Manca il tempo, però, e dovremo surrogarlo come sai, quaderno.
E’ forse quel surrogato a propiziare, contro ogni deontologia pedagogica, le ripetute piccole chutes di questi giorni promessi al rigore? Il poter contare su quello, si vuole dire. Leggi: segnalazione rinforzata, protezione assoluta. Ma c’è qualche altra spinta. A parte la disponibilità del secondo gentile termine del rapporto pedagogico, agisce anche un fumo di timori, di presentimenti vaghi e tenaci sul futuro del rapporto: ci sarà, in questo futuro prossimo, Susy vicino a noi, nel nostro piccolo mondo di affetti e contatti? Quell’oscuro timore stride dissonante con la speranza e le sue solide ragioni: come è stata trattata da noi (c’è bisogno di esplicitare questo noi, quaderno?) dovrebbe essere garanzia di presenza costante e inattaccabile. Ma si sa com’è la natura umana: raggiunto lo scopo, le difese dei buoni propositi languiscono, e quello che pareva, e si dichiarava, impossibile, finisce con l’apparire possibile e praticabile.
 Magari perfino opportuno e moralmente giusto. E questo è l’aspetto più triste dell’affaire.
                                            *
Spero tanto di sbagliarmi. E intanto registro l’emergenza filosofica del presente testé trascorso. Di nuovo in chute. E così, mea culpa, ci-gît l’eroico impegno, insieme all’euforia congratulante di ieri. Descrivo, dunque (cenere ai poco folti capelli). In krypta Maske. Ci soccorre Talete: l’acqua come arché, la materia allo stato liquido, principio delle cose tutte. Liquidi pensieri, e profondi, sui vertici digitali e glossici. Diamine, se la congiunzione del Caso umorale e delle domestiche Erinni concede spazio di chances per intervalli didattici, s’ha un bell’invocare l’Etica e la Bewusstsein: come pronunciare il vade retro? E a che mi serve recitarmi, dopo (e magari prima) l’ich bin mir meines Fehlers bewusst? Conscio pentito o bacchettone? Consapevole del mio errore o semplice impostore? Accidenti a me e a tutte le circostanze che mi hanno messo in questa situazione. Mi sento come un cero acceso che nessun vento spegne. Lui, il cero, gradirebbe essere spento, ché da sé non ce la fa. Ma non tira vento, né soffia brezza di fiati soccorritori. Il cero, tra l’altro, si consuma: troppi sgorghi, e troppo ricchi di umori arcaici, negli ultimi scompigliati tempi supplementari. Fortuna, ancora, che la legittima destinataria di quell’arché goda di un trofismo geschlechtlich naturalmente sobrio. E magari con qualche merito del clima   morale domestico e correlata educazione della figlia. In caso contrario, povero cero.
                                             *  
Cambiamo registro. Einaudi mi ha mandato in omaggio per recensione due ghiotti libri: Horkheimer–Adorno, Lezioni di sociologia, e Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo. Ho cominciato a leggere quest’ultimo, che recensirò per primo.

9 luglio, tarda sera

In un ombroso bosco della Lòcride,
a riva delle loro acque, lavarono
le Ninfe il corpo di Esiodo, e là
alzarono il suo tumulo [...]
(ALCEO DI MESSENE, trad. Quasimodo)
                                             *
D’altra parte bisognerebbe (bisognerà?) educarsi all’idea di un’improvvisa esplosione tragica. Non si deve, prima o poi, chiudere la partita? Morire d’infarto o di pistola, marcire di cancro o di epatite virale, quale differenza ontologica segna sul registro dell’estrema inutilità? Queste chances di fuoco doppio (luglio è caldo, e in questi paesi di mare sembra Africa), questi giorni di turgore fisiologico velato di metafisica, tra sigarette incalzanti, lezioni di fisica, e… fisica applicata, non recano in coda l’innesco di una possibile deflagrazione?
E che altro scotto, dietro quella polarità tragica di rango possibile, dovrà pagare questa breve curva sussultante di punte bombé e di vischiose valli, questo diagramma estivo affocato nel sole marino e nell’emozione inguaribilmente sull’attenti? Lo scacco agli esami, la bocciatura di alcune mie alunne? Di quella, soprattutto? Prospettiva tremenda. Mi sfuggono anni di vita al solo pensarlo. E il resto, il domani, la responsabilità grande di tutto? Come si fa esoso l’edoné!
                                              
Riprendo dopo una pausa. E una boccata d’aria notturna, finalmente fresca: la brezza marina, invitata a inondare il cinereo scenario del para-kierkegaardiano possibile negativo, entra giuliva a lenire dolori e bruciori.
                                           *
Ho finito di leggere A ciascuno il suo. Mi ha appassionato e impressionato. Per motivi vari, non tutti letterari. Sciascia non sarà, forse, un nuovo Tolstoi e un diverso Cechov; non un Flaubert o un Thomas Mann meno ironico e più sobrio; ma ha ingegno talento intuito; buona memoria di ottime letture e sensibilità selettivo-costruttiva, un sicuro gusto dell’intreccio. La sua prosa, lucida e razionale quanto basta a modulare, senza sterilmente comprimere, umori ed emozioni, usa un limitato set di espedienti stilistici di collaudata efficacia: scelte lessicali poco frequentate o di personale invenzione, inversioni strutturali “arcaizzanti” o di sapore straniero, incidentali di sicuro effetto nella scansione attentiva. E quant’altro. Non è, forse, per motivi propriamente letterari che quel professor Laurana mi è rimasto dentro “come una spina nella carne”. Una spina alla cui punta s’è attaccata la goccia di veleno della liquidatoria definizione cripto-mafiosa: “Era un cretino.” La micidiale frasetta mi pare anche il culmine di una “valutazione d’autore” sommersa: “Il professore giaceva sotto greve mora di rovi…”. La simpatia umana e letteraria di Sciascia per il suo Laurana è fuori discussione, ma la sua purezza potrebbe essere solo la vernice del livello esposto (offerto alla “luce della ragione”) di un giudizio più complesso, meno lineare, anzi “imbrogliato”. Dove un livello nascosto, da sottosuolo dostoevskijano concimato di fatale pirandellismo, potrebbe fregiarsi di quel triste predicativo: “un cretino”. Lessico, sintassi, ellissi e allure generale del testo spingono a far sospettare una parte segreta (del tutto inconscia?) di don Leonardo che solidarizzi con la forma mentis realistica dell’uomo medio, che non respinga del tutto quel predicato. Il quale, a un primo contatto, appare banalmente cinico, di quel cinismo di massa che coincide con la vocazione al quieto vivere. Ma non davanti all’esito tragico: in quella foschia lucente la parola si fa truce e sinistra. Nessun intellettuale potrebbe accoglierla nel salotto bene illuminato della coscienza sveglia: ma nel buio dell’inconscio, nel “cuore di tenebra” che ciascuno di noi bipedi bisapienti si porta dentro? Infine, non occorre un Dostoevskij (o un Conrad) per intuire che qualche damigella di madama la Ragione sarebbe lieta di argomentare in favore del sottosuolo inquinato. e della “linea d’ombra”. Non è da fessi immischiarsi in faccende più grandi di noi? La passione intellettuale della ricerca, il gusto anfetaminico della verità, foce del dubbio canalizzato, e quant’altro di nobile si voglia tirare in ballo: tutto bene. Ma soltanto finché rimane puro gioco intellettuale. Se e quando il gioco ci espone al rischio fisico non controllabile diventa incauto eccesso: cretineria. Di eziologia passionale magari, e qui c’è l’attenuante: la bella donna che insidia l’introverso homme aux papiers con la sua prospera carnalità sodamente ben distribuita. Insomma, il siciliano Sciascia potrebbe, in quella penombra privata, convenire con la folla scaltra che è da stupidi andarsi a cacciare in quel ginepraio politico-galante e mafioso per finire cadavere bucato in un fosso sotto grave mora di spine. E risuona un’altra frasetta tossica, madre o sorella dell’altra: “Chi gliel’ha fatto fare?”. O, forse, meglio: “Chi te l’ha fatto fare?” Discorso tortuoso, capzioso, e perfino azzardato, cotesto? Forse gli faremo guadagnare un po’ più di credibilità precisando che quel cretino, nell’intellettuale Sciascia, si presenta pur sempre intriso di compassione morale e di affettuosa rabbia per quell’incauto candore che uccide. Né questa lettura contrasta con l’ampiamente segnalata attitudine dello scrittore alla scepsi radicale (pirandelliana, appunto. Ma non solo): quella che cerca anche la verità dell’antagonista e, scoprendo gli altarini delle “migliori intenzioni”, di quella verità, parziale e contorta quanto si voglia, contagia le proprie certezze, attenuandone rigore e dogmatica rigidezza (sempre, più o meno, ideologica). Intanto, per concludere questo fugace assaggio (forse troppo ellittico) di critica in progress, bisogna riconoscere che le aspettative dischiuse sull’autore dalle Parrocche di Regalpetra  e dal fortunatissimo Giorno della civetta sono state tutte premiate. Finora. E auguri per il futuro (che comincia a inquinarsi di polemiche  e incomprensioni ideologiche).

Ancora una sigaretta / alla cenere s’affretta. Simbolo anch’essa, ma pure realtà funzionale e lentamente funzionane, di questo molteplice logorarsi della mia carcassa scombinata. Intanto in Vietnam le prodezze americane “difendono la libertà di tutti”. A suon di bombe al napalm e al fosforo giallo. Col plauso di tutti i buoni democratici del civile Occidente cristiano, felici di delegare ai paladini supernutriti d’oltroceano la protezione della Dulcinea socio-politica insidiata dai diavoli rossi in versione “musi gialli”. Quale Norimbrga giudicherà mai i crimini di questi salvatori che bombardano a tappeto le città nordvietnamite, di questi bruciatori di innocenti disarmati costretti a bucare le loro strade per scampare alle delizie della Libertà? Questo schifo di mondo, non sarebbe male se finisse tutto (senza grande sofferenza, almeno per i bambini) in una bella fiammata cosmica, o, in mancanza, soltanto nucleare.
Con quali atroci torture “liberatorie” avrà coinciso il mio sussultare di questa sera particolarmente elaborata da circostanze impreviste? Con quante malemorti gli attimi di stordimento paradisiaco? Anima mia, che delitti queste audacie rosse di concetti incarnati. Che lusso di visioni e di fatti in queste chances minacciate. Quale sera, dopo tante di relativo riposo! Sono stanco da morire, e trafitto al cuore da aculei ferrigni: nervi che strappano il muscolo volenteroso al suo equilibrio biochimico per triplice aggressione: fatica fisica da spaesamento sussultorio, paura mentale e sociale, ricordi brucianti, di vicinanza e qualità. Da quali trafitture è attraversato lo spirito del mio corpo, follemente aleggiante sopra la verità disorpellata e messa a nudo. Che piacere e sgomento, la verità senza veli, mentre il mondo scivola verso l’abisso. Forse un doppio sparo concluderà la parabola di questa Weltanschauung estiva in versione strettamente personale, troppo personale.

Probabile un eccesso di tensione in queste pur legittime paure. Bah. Intanto, a volersi ripetere, nuoto nella solita broda: misture ostinate di opposti, dove il negativo finisce col prevalere e avvelenare il positivo. In fattispecie, questi scampoli di crono gonfi di miele adrenalinico, vengono infiltrati e intossicati dal curaro della ricorrente “inversione” ormonale. C’è un’adrenalina buona e una cattiva. L’inversione è la paura. La vaga angoscia che si restringe in timore orientato. Timeo Danaos et dona ferentes? In qualche modo, è così. Ma i doni! chi può resistergli? Ah, peli dei miei corbezzoli, quali intrecci di pensieri s’impigliano nei vostri inghippi in contatto stretto con l’altra tricologia.
E la festa dell’olfatto? Vogliamo snobbarla? Sottovalutarla? E’ forse seconda al resto? Forse. Ma ha una sua pregnanza di autonomia così insinuante nella sua invisibile leggerezza! Al diavolo le paure e le angosce, ora: che almeno nella godurie del rimemorare globale siano escluse. Balzano umori dai fondi microspaziali al rivivere la forza del linguaggio che succhia il nettare della aletheia dalle labbra dell’alterità convinta. Labbra di luce e di buio, aeree e ipogeiche. Porte del vertice e porte del piccolo abisso: imboscato, schiuso frugato. E non violato. Aperto e non invaso. Ah, dolce filosofia del linguaggio che lambisce e succhia la verità di Dio.
Tempo canaglia che tutto divori, salute dimezzata che invidi le mie chances, coscienza ciarliera che strappi i miei visceri: potessi seppellirvi nel sonno definitivo. Un lene trascorrere dall’uno all’altro sonno: che si può desiderare di più e di meglio? Eppure, il solo pensiero già sgomenta: non baciarla più, non averla più, non avere la mia famiglia, i miei studi infedeli, il mio bambino, l’ingenua ammirazione delle mie alunne, il mio lavoro di educatore con buchi, di intellettuale disperso e rapsodico…? Orrore, intollerabile orrore.
E forse nient’altro che masochistico auto-inganno. Quando “non ci saremo più”, non è che saremo altrove, in qualche nuovo sito da cui rimpiangere il “bene perduto”: non saremo più, senza il ci. Il Dasein perderà il da e il sein tutt’insieme. Non ci sarà spazio e modo di rimpiangere e piangere. Le sofferenze per lo “stato di morti” appartengono ai vivi, sono un disturbo mentale della fisiologia vivente. Inutile quanto inevitabile. Ma i morti! I morti sono tutti in paradiso: il sicuro, certissimo paradiso del grande Nulla. Ossia, dell’invulnerabilità. Chi e che cosa può fare del male a un morto? Ecco il nulla, ecco il paradiso.
Ma basta. Questi grovigli di inconciliabili sono troppo laceranti per le mie viscere, troppo erosivi per questa capacità di resistenza compensata. Mi nevrotizzano. Fino alla somatizzazione dispeptica. Queste oscillazioni, questi bruschi cambiamenti di umore, da ciclotimico, non ne sono una sindrome chiara?
                                                    *
 Dolce e chiara è la notte, e senza vento/ e quieta sopra i tetti e in mezzo agli orti/ posa la luna e di lontan rivela/ serena ogni montagna. O donna mia[…]. Sì, la notte è come dice il Poeta; lo “stato d’animo” non osa paragonarsi al suo, ma ha pure un suo venticello interno, che lascia la serenità sopra le montagne, lontano dal nostro cuore e dalla nostra carne tentata e scossa. O donna mia, se tu potessi leggere il criptato di queste pagine, sapresti come bruciano certe scottature lungo l’infinito molecolare del corpo travagliato. Ma ora buona notte: siamo già ai primi minuti del mattino seguente.

Domenica, 10 luglio,
ore 7, 15

Nel mio studio. Dalla finestra semiaperta entra la discreta animazione della strada. Dai vetri velati delle due finestre, una ferma inondazione di luce già vibrante dei prossimi ardori meridiani. Lo strillone grida: “La gazzetta, La tribuna, giornali”. E si ripete a cadenza, curvo verso l’incerto asfalto, per il doppio peso degli anni e della carta sotto l’ascella, a folti fasci. Forse anche del vino precoce. L’azzurro del cielo orientale già sbianca sotto la prevalenza crescente del sole. L’ente astratto domenica pulsa verso la concretezza corporea del pieno balneare: fra qualche ora le interminabili spiagge di questi paesi sdraiati labbra a labbra col mare, in lunghe e larghe spiagge di miniciottoli e sabbia si tingeranno di carni e di ombrelloni. Quest’anno non sono andato ancora al mare in assetto estivo: troppo mi impegnano e stancano i mortiferi esami di stato (be’, qualche iperbole bisogna perdonarcela, di tanto in tanto). Può
 darsi che oggi si vada. Ma non farò il bagno: mi sento troppo “svuotato” dopo questi tre giorni incalzanti di prove orali.
Veramente non sempre le prove orali tormentano: l’allusione obliqua che vi si può allogare, no di certo. Però svuotano anch’esse, le alluse. Anzi, più direttamente e copiosamente delle scolastiche. Ma sono love’s labours lost. Dunque pene di gioia. Come no? Tuttavia, a voler essere meno incompleti, bisogna aggiungere l’ovvio: di gioia faticosa e inquinata da allotrìe varie.
*
Trilli di campanellini di biciclette che macinano ghiaia sulle strade qua intorno; rombi di motori e motorini dall’altra, più giù. Questi paesi sono, per lo più, costruiti a scacchiera: non c’è strada che non si apra, ad angolo retto, ad una traversa ogni cinquanta-cento metri. Situazione a rischio per il mio bambino, che attraversa la nostra per recarsi dagli amici neoparenti qua di fronte, e venirne. La nostra proletaria casetta (d’affitto) s'affaccia, ad angolo retto anch’essa, su due vie: la finestra che mi sta davanti guarda su una parallela ai corsi principali (“della Repubblica” e “Gramsci”) e ai minori, tutti regolarmente paralleli tra loro e, grosso modo, al lungomare che borda la sottostante spiaggia. La finestra alla mia sinistra guarda sulla perpendicolare più spaziosa, che culmina slargandosi in piazza, davanti al lussuoso seminario nuovo. A pochi metri da casa mia, una di queste strade incontra la nostra, su, verso lo spiazzo seminarile; e questa, a sua volta, dal lato opposto, dà sul Corso della Repubblica. Il bambino rimane esposto alle macchine e motociclette che dagli incroci s’immettono sulla nostra strada (via Massaua). Due giorni fa, a pochi metri da casa mia, c’è stato uno scontro fra un camion e una “850 Fiat”, che ne è rimasta schiacciata e lacerata sul lato sinistro. Per strano caso, nessun ferito ha appagato la crudele curiosità naturale della gente, subito assiepata intorno ai due mezzi.
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Ecco come si fa quando non si può riempire le pagine di cose importanti: vi si scrivono stuffs, sciocchezze. Ma lo sono, poi? Per questo diario alquanto onanistico, non lo sono. Non del tutto. Se di vecchiezza la detestata soglia evitar non impetro, un giorno mi aiuteranno, queste note, queste stuffs, a ripennellare il quadro emotivo-ambientale di questo tempo. Che allora sarà remoto e (vanamente) un po’ mitico. Vanamente? Ma tutto lo è: vanitas vanitatum, et omnia vanitas. O niente lo è. Dipende, e da molte cose: l’umore del giudicante, la sua “impostazione genetica”, la sua cultura. Eccetera. Vano, non vano, valori oscillanti, pendolo irregolare del tempo e nel tempo:  più o meno popolato di gioie e dolori. In questo momento, e in prevalenza, dico e ripeto con l’antico Poeta tragico (e con l’onnipresente Recanatese): il non essere (nati) è molto meglio dell’essere (nati). Ma lo dico e scrivo in questa condizione di inattività rapsodica in memorie e meditazioni veloci. Fossi impegnato in prove orali o scritte, non lo direi. In quelle prove. Probabilmente, avrei dato, e darei dello sciocco esibizionista a chi mi dicesse queste verità brucianti nei minuti della pur fugace gioia qui sottintesa. Anche ora, ricordandole, potrei dire sciocco a me stesso o ad altri che le dicesse. Eppure, nel fondo più segreto della percezione ontologica, vedo e sento tutta l’inconfutabilità di quella evidenza.

Torna la voce dello strillone: Gazzetta, Tribuna, giornali! Dovrei scrivere quelle voci in tutte maiuscole. Le ore più belle in questi paesi e in questa stagione sono queste del primo mattino, dalle sei in poi, e anche un po’ prima. L’aria è fresca, l’afa a distanza di ore, le polveri e i veleni dei motori ancora assenti, le persone in giro rare, le strade vuote, o maculate di rade presenze non moleste.
Ricordi, recenti e non troppo, si sciolgono, ridesti, nel flusso morbido delle sensazioni agitate dal sole e dagli oggetti della stanza-studio. I libri, allineati sulle mensole delle “librerie”, parlano con i colori delle copertine: lodano e rimbrottano. Ho letto, nei giorni precedenti gli esami, libri di fisica, divulgativi e non (questi ultimi, irti di formule alto-matematiche, con maggiore fatica e minore costrutto). Ecco alcuni titoli: Pascual Jordan, L’immagine della fisica moderna, Werner Heisenberg, Natura e fisica moderna; L. De Broglie, Onde, corpuscoli, meccanica ondulatoria; Niels Bohr, I quanti e la vita. Più alcuni saggi su argomenti uguali e contigui, dalle rivista Cultura e Scuola, Sapere, eccetera. La  mia testa ronza di onde corpuscoli protoni neutroni elettroni; principio di indeterminazione, causalità e casualità, continuità e discontinuità, abolizione microfisica della causalità deterministica; e via saltando ed esaltandomi. Fino alle celebrazioni ridicole della libertà dell’atomo o del protone da parte dei soliti zelatori strabici dello Spirito ch’è sostanza-azione di libertà pura, e dell’uomo superdotato di libero arbitrio. Ma l’atomo e il protone che c’entrano con lo spirito? Come no! A leggere quei cerebroni, preparano il suo avvento, sono la Natura complice e matrice dello Spirito più spiritoso. Cristo, quante forme può assumere la bêtise! San Flaubert, aiutaci tu: i tuoi Bouvard et Pecuchet sono campioni di razionalità rispetto a certe zucche accademiche inutilemente gremite.
Mon dieu, che guazzabuglio. Ma perché tanto “movimento” su quei testi? Perché ho in cantiere un saggio su Possibilità e necessità, in cui tento una conciliazione, chissà se possibile, fra quelle opposte evidenze, peraltro sbilanciate a favore della seconda nella scienza classica, con la fisica in testa (e nel buonsenso popolare, sempre intriso di religio e dintorni: non si muove foglia che dio non voglia); e riequilibrate, o invertite nel loro rapporto, dalla “nuova fisica”. Ma non ho avuto tempo, naturalmente, di travasare, sobriamente filtrate, queste recenti letture nelle spire ancora provvisorie e già pingui del saggio in fieri.
                                                                             
Il collega di matematica e fisica della mia Commissione ha fatto la tesi di laurea in fisica, per giunta dopo un corso di approfondimento. Dunque, ne sa. Anche se non a livello di rinfrescanti aggiornamenti bibliografici. Né, tantomeno, di prurigini filosofiche e scrupoli epistemologici: possibilità e necessità, indeterminismo e determinismo, problematicismo e causalismo ottocentesco sono, in lui, rimasugli mnestici (dei cenni appresi nel corso), tracce confuse, non temi vivacemente attuali del dibattito epistemologico contemporaneo. Né Abbagnano né Popper turbano la quiete delle sue nozioni sui modelli atomici in progress dal semplicistico Rutherford al quantistico Bohr e seguenti, fino agli orbitali-palloncino e alla struttura atomica.
Insomma, ne sa quanto occorre al suo lavoro di insegnante, e tanto basta. Non basta, però, a dargli una visuale corretta sulla preparazione media delle nostre allieve, né sul massimo richiesto dal nostro tipo di scuola. Io intervengo continuamente in loro aiuto (con la discrezione dovuta alla suscettibilità professionale altrui). Ieri ho aiutato molto la cara Lella “dell’anno scorso”, l’astro tramontato sotto la bufera che ha travolto l’amicizia di tre famiglie. Non ne ero, non ne sarei, obbligato. Ma l’ho fatto. Senza nessuno sforzo. Anzi, con vero slancio e piacere. Sarà perché non riesco a portare odio (è così ingombrante!); sarà perché il ritorno dell’estate scalda memorie e nostalgie. Addirittura sono arrivato, ieri, a fare per lei quello che non avevo fatto per nessuna delle compagne: scrivevo le risposte più difficili (di matematica e fisica) su un mio foglietto, come per uno sfizio personale, ma lasciando bene in vista la
 scrittura. E lei, in rapidissimi lampi di ben diretti sguardi, coglieva e usava. A compenso, in strada non saluta né me né i miei. Neanche, ed è la cosa meno perdonabile, mio figlio. Il mio ignaro innocente bambino frastornato: che novità è questa? Lella non saluta più: che strano mondo! A suo modo, lui intuisce il guasto, ma non sa interpretarlo. Né capisce le nostre mezze spiegazioni. Piccola ingrata, che c’entra lui con le nostre beghe? Quasi rimpiango il mio slancio, e la scempia gioia “missionaria” con cui mi sono prodigato per l’ingrata
Magari gioia e slancio e disponibilità meriterebbero una sosta analitica meno compiaciuta e sbrigativa. Facciamola. Un alito di narcisismo era, forse, presente nel mio “slanciato” altruismo? Mi pare ovvio, e non criminale. Uno sniffo di malizia, pure? Perché no! Nel senso di: vedi bellina? hai bisogno di me, ti trovi in difficoltà, ed ecco qua il tuo professore pronto al soccorso. E nel professore, l’amico, che stenta a sentirsi ex; quell’ex che è colpa vostra, delle tue sorelle, e tua. Una soddisfazione tipo rivincita, insomma. Ma sono altrettanto sicuro che non erano il narcisismo esibizionistico e il modico sadismo revanchista i soli ingredienti della spinta soccorrevole. Il più attivo era la speranzella che lei modificasse il suo atteggiamento almeno nei miei confronti. E verso il bambino.  Senza contare che “la spinta” non fu preceduta da nessun calcolo, fu un lampo di spontaneità assoluta. Giudica tu, diario.
Pensiero-lampo: forse Lella teme che la terribile sorella maggiore lo venga a sapere se lei ci salutasse, anche solo me e il bambino. E perciò evita il rischio di una scenata biblica. Forse.
Bah, vado a fare un buon bagno caldo. O meglio, tiepido. In attesa di poterne fare qualcuno freddo nelle invitanti acque dello Jonio, ancora inutilmente vicino.