martedì 4 agosto 2009

Susanna, frammento 36


5 luglio

Oggi, compito di matematica. Un problema (di geometria, secondo norma), che dà del filo da torcere a tutti gli interessati, alunni, commissari e professori interni della disciplina. Lo risolvo, tuttavia, superando superabili inciampi. Così riesco ad aiutare un po’ tutte le mie alunne, in proporzione al bisogno. E anche qualcuna dell’altra sezione (pur se alloggiata in altra aula).
Pomeriggio-sera: correzione degli “elaborati”. Quel cervellone del commissario di matematica aveva un suo schema di risoluzione e aveva tagliato con lunghe croci di spessa matita blu gran parte dei compiti delle mie ragazze. Tagliati per intero, dico: secondo sentenza di sballo totale. Ma siccome nel mazzo c’erano alcune delle più brave, la cosa mi insospettì subito. Lasciai che tagliasse e mi appartai a studiare il procedimento della più sicura delle brave. Non mi ci volle molto a cogliere la correttezza impeccabile della sua scelta procedurale. E non solo la correttezza sostanziale, anche l’eleganza formale. La via seguita da Laura Strangio è più lunga e complessa della più diretta e facile. La quale è la più ovvia, una volta interpretato il senso delle domande nel testo. Mentre l’iter scelto dalla mia allieva, nella sua linea più tortuosa, è anche una sfida alle sue intrinseche difficoltà, vinta brillantemente. Dunque, con un di più di smalto logico. Ma quanta pazienza (e sudore dialettico), per convincere il prevenuto collega sbrigativo! Alla fine, tra sudori metaforici e fisici, riesco a illuminarlo. “Cacchio!”, mi fa, “Hai ragione. Ma come le è venuto in mente una simile risoluzione? Ed è vero: è la più elegante”. Alla buonora. Guardo anche i fogli delle altre: tutte scelte giuste. Qualche lavoro, però, non è finito. La maggior parte delle candidate hanno seguito il procedimento della Strangio. Per intuizione personale, o in forza di collaborazione e solidarietà interpupillare? Ne saprò qualcosa fra qualche giorno, dalle interessate. Intanto il commissario ha avuto un bel da fare a cancellare tutte quelle pugnalate di matita blu dagli innocenti fogli ingiustamente condannati al martirio. E a sostituire i numeri magri della condanna con rotondi numeroni pasciuti.
Tutto è bene… Una bella battaglia. Onore al merito, il collega capoccione si è rivelato, in fondo, più ragionevole e reattivo della sua iniziale ostinazione. Se al suo posto ci fosse stato una vera testa dura, anche caratteriale? La battaglia sarebbe stata più difficile, io l’avrei vinta comunque, ma il clima si sarebbe guastato. Con quali conseguenze per il resto delle prove? E per la salute, mia e di tante altre persone? Altra considerazione. Se al posto mio, come commissario d’istituto, ci fosse stato un “umanista” del kappa, digiuno, come regola vuole, di matematica (e di scienze fisiche e naturali)? Le povere candidate avrebbero subìto l’affronto, il voto negativo avrebbe pesato sull’esito finale dell’esame, i risultati sarebbero stati falsati e deludenti anche per le migliori. Qualcuna, forse, avrebbe reagito, magari legalmente. O in forme meno ortodosse. L’insieme del quadro non è prevedibile compiutamente, ma una cosa è certa: si sarebbe determinato un bel casino. Vedi importanza anche pratica di una informazione larga e interdisciplinare. Esco contento da quest’avventura: per una volta, la mia curiosità multilaterale morde nella realtà, per così dire. Cioè, non confina i suoi effetti nel godimento personale tutto chiuso in interiore homine, né limita quelli sociali alla vanitosa soddisfazione puramente platonico-narcisistica dell’esibizione occasionale (lezioni private e simile casistica). Insomma, è stata utile, praticamente operativa, socialmente estroversa. Evviva.
Il chiarimento tra noi due ha esteso i suoi effetti sul resto della correzione: della mia classe e dell’altra. E anche questo va conteggiato come sopra.



7 luglio

Cominciano le prove orali. Mi piazzo accanto alle mie alunne, di volta in volta interrogate, e non mi allontano un momento. Mi sento emozionato come se stessi affrontando io l’esame. Ci si immedesima con le personcine affidate al nostro impegno protettivo; se ne respira l’agitazione, quasi si trema in sintonia col loro tremore. E quei colori sulle guance! Massime delle più graziose – come Stella C., Adelaide T., Adele Z., Carla B., Lella L.…– Oggi è andata bene: tutti esiti superiori alla sufficienza, con un paio di otto e tre sette.
Pomeriggio. Dopo due giorni di “silenzio” Susy ritorna per la lezione di matematica. Riesce a fare qualche cosina: non nuova né difficile, ma meglio di niente. E non solo in geometria e algebra, anche in aritmetica razionale.
Lezione ortodossa: ohne geschlechtlich Zerstreuungen und nicht Abschweifungen (scusami, quaderno, ma mi trovavo sul tavolo quel vocabolario e ho ceduto alla suggestione della mascherata arcigna). Quasi quasi mi congratulo con il mio alter ego cedevole per questa prova di fermezza astinente.


8 luglio, mezzanotte

Continua il supplizio quotidiano degli “orali” (recte, prove orali). Oggi è andata meno bene. Cinzia è caduta nelle tre materie più importanti: potrò aiutarla in Consiglio di scrutinio? So soltanto che tenterò con ogni mezzo, ma l’argomento emozione riesce poco convincente alle orecchie dei commissari. Anche quando è reale e determinante. Non è proprio il caso di Cinzia, ma devo farlo credere. S’intende, nei limiti concessi dalla presentazione della scuola, che sta appena sulla sufficienza globale.
Al commissario di matematica comincia a pesare la mia vicinanza. Si sente controllato, lo rendo nervoso, mi teme. Me ne infischio. Ma fino a che punto? Sono in gioco le sorti delle alunne: prudenza e flessibilità, insomma.
Doppia lezione di matematica stasera: alla cognata virtuale e a Susy. Sveglia, la prima, come sempre e dovunque; meno alacre la seconda. Ma anche lei fa dei progressini (come abbiamo già notato in queste pagine sbadiglianti). Ce ne fosse il tempo, in qualche mese arriverebbe a risolvere da sola anche problemi un po’ complessi (ma non fino al sadismo della relativa prova scritta). Manca il tempo, però, e dovremo surrogarlo come sai, quaderno.
E’ forse quel surrogato a propiziare, contro ogni deontologia pedagogica, le ripetute piccole chutes di questi giorni promessi al rigore? Il poter contare su quello, si vuole dire. Leggi: segnalazione rinforzata, protezione assoluta. Ma c’è qualche altra spinta. A parte la disponibilità del secondo gentile termine del rapporto pedagogico, agisce anche un fumo di timori, di presentimenti vaghi e tenaci sul futuro del rapporto: ci sarà, in questo futuro prossimo, Susy vicino a noi, nel nostro piccolo mondo di affetti e contatti? Quell’oscuro timore stride dissonante con la speranza e le sue solide ragioni: come è stata trattata da noi (c’è bisogno di esplicitare questo noi, quaderno?) dovrebbe essere garanzia di presenza costante e inattaccabile. Ma si sa com’è la natura umana: raggiunto lo scopo, le difese dei buoni propositi languiscono, e quello che pareva, e si dichiarava, impossibile, finisce con l’apparire possibile e praticabile.
 Magari perfino opportuno e moralmente giusto. E questo è l’aspetto più triste dell’affaire.
                                            *
Spero tanto di sbagliarmi. E intanto registro l’emergenza filosofica del presente testé trascorso. Di nuovo in chute. E così, mea culpa, ci-gît l’eroico impegno, insieme all’euforia congratulante di ieri. Descrivo, dunque (cenere ai poco folti capelli). In krypta Maske. Ci soccorre Talete: l’acqua come arché, la materia allo stato liquido, principio delle cose tutte. Liquidi pensieri, e profondi, sui vertici digitali e glossici. Diamine, se la congiunzione del Caso umorale e delle domestiche Erinni concede spazio di chances per intervalli didattici, s’ha un bell’invocare l’Etica e la Bewusstsein: come pronunciare il vade retro? E a che mi serve recitarmi, dopo (e magari prima) l’ich bin mir meines Fehlers bewusst? Conscio pentito o bacchettone? Consapevole del mio errore o semplice impostore? Accidenti a me e a tutte le circostanze che mi hanno messo in questa situazione. Mi sento come un cero acceso che nessun vento spegne. Lui, il cero, gradirebbe essere spento, ché da sé non ce la fa. Ma non tira vento, né soffia brezza di fiati soccorritori. Il cero, tra l’altro, si consuma: troppi sgorghi, e troppo ricchi di umori arcaici, negli ultimi scompigliati tempi supplementari. Fortuna, ancora, che la legittima destinataria di quell’arché goda di un trofismo geschlechtlich naturalmente sobrio. E magari con qualche merito del clima   morale domestico e correlata educazione della figlia. In caso contrario, povero cero.
                                             *  
Cambiamo registro. Einaudi mi ha mandato in omaggio per recensione due ghiotti libri: Horkheimer–Adorno, Lezioni di sociologia, e Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo. Ho cominciato a leggere quest’ultimo, che recensirò per primo.

9 luglio, tarda sera

In un ombroso bosco della Lòcride,
a riva delle loro acque, lavarono
le Ninfe il corpo di Esiodo, e là
alzarono il suo tumulo [...]
(ALCEO DI MESSENE, trad. Quasimodo)
                                             *
D’altra parte bisognerebbe (bisognerà?) educarsi all’idea di un’improvvisa esplosione tragica. Non si deve, prima o poi, chiudere la partita? Morire d’infarto o di pistola, marcire di cancro o di epatite virale, quale differenza ontologica segna sul registro dell’estrema inutilità? Queste chances di fuoco doppio (luglio è caldo, e in questi paesi di mare sembra Africa), questi giorni di turgore fisiologico velato di metafisica, tra sigarette incalzanti, lezioni di fisica, e… fisica applicata, non recano in coda l’innesco di una possibile deflagrazione?
E che altro scotto, dietro quella polarità tragica di rango possibile, dovrà pagare questa breve curva sussultante di punte bombé e di vischiose valli, questo diagramma estivo affocato nel sole marino e nell’emozione inguaribilmente sull’attenti? Lo scacco agli esami, la bocciatura di alcune mie alunne? Di quella, soprattutto? Prospettiva tremenda. Mi sfuggono anni di vita al solo pensarlo. E il resto, il domani, la responsabilità grande di tutto? Come si fa esoso l’edoné!
                                              
Riprendo dopo una pausa. E una boccata d’aria notturna, finalmente fresca: la brezza marina, invitata a inondare il cinereo scenario del para-kierkegaardiano possibile negativo, entra giuliva a lenire dolori e bruciori.
                                           *
Ho finito di leggere A ciascuno il suo. Mi ha appassionato e impressionato. Per motivi vari, non tutti letterari. Sciascia non sarà, forse, un nuovo Tolstoi e un diverso Cechov; non un Flaubert o un Thomas Mann meno ironico e più sobrio; ma ha ingegno talento intuito; buona memoria di ottime letture e sensibilità selettivo-costruttiva, un sicuro gusto dell’intreccio. La sua prosa, lucida e razionale quanto basta a modulare, senza sterilmente comprimere, umori ed emozioni, usa un limitato set di espedienti stilistici di collaudata efficacia: scelte lessicali poco frequentate o di personale invenzione, inversioni strutturali “arcaizzanti” o di sapore straniero, incidentali di sicuro effetto nella scansione attentiva. E quant’altro. Non è, forse, per motivi propriamente letterari che quel professor Laurana mi è rimasto dentro “come una spina nella carne”. Una spina alla cui punta s’è attaccata la goccia di veleno della liquidatoria definizione cripto-mafiosa: “Era un cretino.” La micidiale frasetta mi pare anche il culmine di una “valutazione d’autore” sommersa: “Il professore giaceva sotto greve mora di rovi…”. La simpatia umana e letteraria di Sciascia per il suo Laurana è fuori discussione, ma la sua purezza potrebbe essere solo la vernice del livello esposto (offerto alla “luce della ragione”) di un giudizio più complesso, meno lineare, anzi “imbrogliato”. Dove un livello nascosto, da sottosuolo dostoevskijano concimato di fatale pirandellismo, potrebbe fregiarsi di quel triste predicativo: “un cretino”. Lessico, sintassi, ellissi e allure generale del testo spingono a far sospettare una parte segreta (del tutto inconscia?) di don Leonardo che solidarizzi con la forma mentis realistica dell’uomo medio, che non respinga del tutto quel predicato. Il quale, a un primo contatto, appare banalmente cinico, di quel cinismo di massa che coincide con la vocazione al quieto vivere. Ma non davanti all’esito tragico: in quella foschia lucente la parola si fa truce e sinistra. Nessun intellettuale potrebbe accoglierla nel salotto bene illuminato della coscienza sveglia: ma nel buio dell’inconscio, nel “cuore di tenebra” che ciascuno di noi bipedi bisapienti si porta dentro? Infine, non occorre un Dostoevskij (o un Conrad) per intuire che qualche damigella di madama la Ragione sarebbe lieta di argomentare in favore del sottosuolo inquinato. e della “linea d’ombra”. Non è da fessi immischiarsi in faccende più grandi di noi? La passione intellettuale della ricerca, il gusto anfetaminico della verità, foce del dubbio canalizzato, e quant’altro di nobile si voglia tirare in ballo: tutto bene. Ma soltanto finché rimane puro gioco intellettuale. Se e quando il gioco ci espone al rischio fisico non controllabile diventa incauto eccesso: cretineria. Di eziologia passionale magari, e qui c’è l’attenuante: la bella donna che insidia l’introverso homme aux papiers con la sua prospera carnalità sodamente ben distribuita. Insomma, il siciliano Sciascia potrebbe, in quella penombra privata, convenire con la folla scaltra che è da stupidi andarsi a cacciare in quel ginepraio politico-galante e mafioso per finire cadavere bucato in un fosso sotto grave mora di spine. E risuona un’altra frasetta tossica, madre o sorella dell’altra: “Chi gliel’ha fatto fare?”. O, forse, meglio: “Chi te l’ha fatto fare?” Discorso tortuoso, capzioso, e perfino azzardato, cotesto? Forse gli faremo guadagnare un po’ più di credibilità precisando che quel cretino, nell’intellettuale Sciascia, si presenta pur sempre intriso di compassione morale e di affettuosa rabbia per quell’incauto candore che uccide. Né questa lettura contrasta con l’ampiamente segnalata attitudine dello scrittore alla scepsi radicale (pirandelliana, appunto. Ma non solo): quella che cerca anche la verità dell’antagonista e, scoprendo gli altarini delle “migliori intenzioni”, di quella verità, parziale e contorta quanto si voglia, contagia le proprie certezze, attenuandone rigore e dogmatica rigidezza (sempre, più o meno, ideologica). Intanto, per concludere questo fugace assaggio (forse troppo ellittico) di critica in progress, bisogna riconoscere che le aspettative dischiuse sull’autore dalle Parrocche di Regalpetra  e dal fortunatissimo Giorno della civetta sono state tutte premiate. Finora. E auguri per il futuro (che comincia a inquinarsi di polemiche  e incomprensioni ideologiche).

Ancora una sigaretta / alla cenere s’affretta. Simbolo anch’essa, ma pure realtà funzionale e lentamente funzionane, di questo molteplice logorarsi della mia carcassa scombinata. Intanto in Vietnam le prodezze americane “difendono la libertà di tutti”. A suon di bombe al napalm e al fosforo giallo. Col plauso di tutti i buoni democratici del civile Occidente cristiano, felici di delegare ai paladini supernutriti d’oltroceano la protezione della Dulcinea socio-politica insidiata dai diavoli rossi in versione “musi gialli”. Quale Norimbrga giudicherà mai i crimini di questi salvatori che bombardano a tappeto le città nordvietnamite, di questi bruciatori di innocenti disarmati costretti a bucare le loro strade per scampare alle delizie della Libertà? Questo schifo di mondo, non sarebbe male se finisse tutto (senza grande sofferenza, almeno per i bambini) in una bella fiammata cosmica, o, in mancanza, soltanto nucleare.
Con quali atroci torture “liberatorie” avrà coinciso il mio sussultare di questa sera particolarmente elaborata da circostanze impreviste? Con quante malemorti gli attimi di stordimento paradisiaco? Anima mia, che delitti queste audacie rosse di concetti incarnati. Che lusso di visioni e di fatti in queste chances minacciate. Quale sera, dopo tante di relativo riposo! Sono stanco da morire, e trafitto al cuore da aculei ferrigni: nervi che strappano il muscolo volenteroso al suo equilibrio biochimico per triplice aggressione: fatica fisica da spaesamento sussultorio, paura mentale e sociale, ricordi brucianti, di vicinanza e qualità. Da quali trafitture è attraversato lo spirito del mio corpo, follemente aleggiante sopra la verità disorpellata e messa a nudo. Che piacere e sgomento, la verità senza veli, mentre il mondo scivola verso l’abisso. Forse un doppio sparo concluderà la parabola di questa Weltanschauung estiva in versione strettamente personale, troppo personale.

Probabile un eccesso di tensione in queste pur legittime paure. Bah. Intanto, a volersi ripetere, nuoto nella solita broda: misture ostinate di opposti, dove il negativo finisce col prevalere e avvelenare il positivo. In fattispecie, questi scampoli di crono gonfi di miele adrenalinico, vengono infiltrati e intossicati dal curaro della ricorrente “inversione” ormonale. C’è un’adrenalina buona e una cattiva. L’inversione è la paura. La vaga angoscia che si restringe in timore orientato. Timeo Danaos et dona ferentes? In qualche modo, è così. Ma i doni! chi può resistergli? Ah, peli dei miei corbezzoli, quali intrecci di pensieri s’impigliano nei vostri inghippi in contatto stretto con l’altra tricologia.
E la festa dell’olfatto? Vogliamo snobbarla? Sottovalutarla? E’ forse seconda al resto? Forse. Ma ha una sua pregnanza di autonomia così insinuante nella sua invisibile leggerezza! Al diavolo le paure e le angosce, ora: che almeno nella godurie del rimemorare globale siano escluse. Balzano umori dai fondi microspaziali al rivivere la forza del linguaggio che succhia il nettare della aletheia dalle labbra dell’alterità convinta. Labbra di luce e di buio, aeree e ipogeiche. Porte del vertice e porte del piccolo abisso: imboscato, schiuso frugato. E non violato. Aperto e non invaso. Ah, dolce filosofia del linguaggio che lambisce e succhia la verità di Dio.
Tempo canaglia che tutto divori, salute dimezzata che invidi le mie chances, coscienza ciarliera che strappi i miei visceri: potessi seppellirvi nel sonno definitivo. Un lene trascorrere dall’uno all’altro sonno: che si può desiderare di più e di meglio? Eppure, il solo pensiero già sgomenta: non baciarla più, non averla più, non avere la mia famiglia, i miei studi infedeli, il mio bambino, l’ingenua ammirazione delle mie alunne, il mio lavoro di educatore con buchi, di intellettuale disperso e rapsodico…? Orrore, intollerabile orrore.
E forse nient’altro che masochistico auto-inganno. Quando “non ci saremo più”, non è che saremo altrove, in qualche nuovo sito da cui rimpiangere il “bene perduto”: non saremo più, senza il ci. Il Dasein perderà il da e il sein tutt’insieme. Non ci sarà spazio e modo di rimpiangere e piangere. Le sofferenze per lo “stato di morti” appartengono ai vivi, sono un disturbo mentale della fisiologia vivente. Inutile quanto inevitabile. Ma i morti! I morti sono tutti in paradiso: il sicuro, certissimo paradiso del grande Nulla. Ossia, dell’invulnerabilità. Chi e che cosa può fare del male a un morto? Ecco il nulla, ecco il paradiso.
Ma basta. Questi grovigli di inconciliabili sono troppo laceranti per le mie viscere, troppo erosivi per questa capacità di resistenza compensata. Mi nevrotizzano. Fino alla somatizzazione dispeptica. Queste oscillazioni, questi bruschi cambiamenti di umore, da ciclotimico, non ne sono una sindrome chiara?
                                                    *
 Dolce e chiara è la notte, e senza vento/ e quieta sopra i tetti e in mezzo agli orti/ posa la luna e di lontan rivela/ serena ogni montagna. O donna mia[…]. Sì, la notte è come dice il Poeta; lo “stato d’animo” non osa paragonarsi al suo, ma ha pure un suo venticello interno, che lascia la serenità sopra le montagne, lontano dal nostro cuore e dalla nostra carne tentata e scossa. O donna mia, se tu potessi leggere il criptato di queste pagine, sapresti come bruciano certe scottature lungo l’infinito molecolare del corpo travagliato. Ma ora buona notte: siamo già ai primi minuti del mattino seguente.

Domenica, 10 luglio,
ore 7, 15

Nel mio studio. Dalla finestra semiaperta entra la discreta animazione della strada. Dai vetri velati delle due finestre, una ferma inondazione di luce già vibrante dei prossimi ardori meridiani. Lo strillone grida: “La gazzetta, La tribuna, giornali”. E si ripete a cadenza, curvo verso l’incerto asfalto, per il doppio peso degli anni e della carta sotto l’ascella, a folti fasci. Forse anche del vino precoce. L’azzurro del cielo orientale già sbianca sotto la prevalenza crescente del sole. L’ente astratto domenica pulsa verso la concretezza corporea del pieno balneare: fra qualche ora le interminabili spiagge di questi paesi sdraiati labbra a labbra col mare, in lunghe e larghe spiagge di miniciottoli e sabbia si tingeranno di carni e di ombrelloni. Quest’anno non sono andato ancora al mare in assetto estivo: troppo mi impegnano e stancano i mortiferi esami di stato (be’, qualche iperbole bisogna perdonarcela, di tanto in tanto). Può
 darsi che oggi si vada. Ma non farò il bagno: mi sento troppo “svuotato” dopo questi tre giorni incalzanti di prove orali.
Veramente non sempre le prove orali tormentano: l’allusione obliqua che vi si può allogare, no di certo. Però svuotano anch’esse, le alluse. Anzi, più direttamente e copiosamente delle scolastiche. Ma sono love’s labours lost. Dunque pene di gioia. Come no? Tuttavia, a voler essere meno incompleti, bisogna aggiungere l’ovvio: di gioia faticosa e inquinata da allotrìe varie.
*
Trilli di campanellini di biciclette che macinano ghiaia sulle strade qua intorno; rombi di motori e motorini dall’altra, più giù. Questi paesi sono, per lo più, costruiti a scacchiera: non c’è strada che non si apra, ad angolo retto, ad una traversa ogni cinquanta-cento metri. Situazione a rischio per il mio bambino, che attraversa la nostra per recarsi dagli amici neoparenti qua di fronte, e venirne. La nostra proletaria casetta (d’affitto) s'affaccia, ad angolo retto anch’essa, su due vie: la finestra che mi sta davanti guarda su una parallela ai corsi principali (“della Repubblica” e “Gramsci”) e ai minori, tutti regolarmente paralleli tra loro e, grosso modo, al lungomare che borda la sottostante spiaggia. La finestra alla mia sinistra guarda sulla perpendicolare più spaziosa, che culmina slargandosi in piazza, davanti al lussuoso seminario nuovo. A pochi metri da casa mia, una di queste strade incontra la nostra, su, verso lo spiazzo seminarile; e questa, a sua volta, dal lato opposto, dà sul Corso della Repubblica. Il bambino rimane esposto alle macchine e motociclette che dagli incroci s’immettono sulla nostra strada (via Massaua). Due giorni fa, a pochi metri da casa mia, c’è stato uno scontro fra un camion e una “850 Fiat”, che ne è rimasta schiacciata e lacerata sul lato sinistro. Per strano caso, nessun ferito ha appagato la crudele curiosità naturale della gente, subito assiepata intorno ai due mezzi.
*
Ecco come si fa quando non si può riempire le pagine di cose importanti: vi si scrivono stuffs, sciocchezze. Ma lo sono, poi? Per questo diario alquanto onanistico, non lo sono. Non del tutto. Se di vecchiezza la detestata soglia evitar non impetro, un giorno mi aiuteranno, queste note, queste stuffs, a ripennellare il quadro emotivo-ambientale di questo tempo. Che allora sarà remoto e (vanamente) un po’ mitico. Vanamente? Ma tutto lo è: vanitas vanitatum, et omnia vanitas. O niente lo è. Dipende, e da molte cose: l’umore del giudicante, la sua “impostazione genetica”, la sua cultura. Eccetera. Vano, non vano, valori oscillanti, pendolo irregolare del tempo e nel tempo:  più o meno popolato di gioie e dolori. In questo momento, e in prevalenza, dico e ripeto con l’antico Poeta tragico (e con l’onnipresente Recanatese): il non essere (nati) è molto meglio dell’essere (nati). Ma lo dico e scrivo in questa condizione di inattività rapsodica in memorie e meditazioni veloci. Fossi impegnato in prove orali o scritte, non lo direi. In quelle prove. Probabilmente, avrei dato, e darei dello sciocco esibizionista a chi mi dicesse queste verità brucianti nei minuti della pur fugace gioia qui sottintesa. Anche ora, ricordandole, potrei dire sciocco a me stesso o ad altri che le dicesse. Eppure, nel fondo più segreto della percezione ontologica, vedo e sento tutta l’inconfutabilità di quella evidenza.

Torna la voce dello strillone: Gazzetta, Tribuna, giornali! Dovrei scrivere quelle voci in tutte maiuscole. Le ore più belle in questi paesi e in questa stagione sono queste del primo mattino, dalle sei in poi, e anche un po’ prima. L’aria è fresca, l’afa a distanza di ore, le polveri e i veleni dei motori ancora assenti, le persone in giro rare, le strade vuote, o maculate di rade presenze non moleste.
Ricordi, recenti e non troppo, si sciolgono, ridesti, nel flusso morbido delle sensazioni agitate dal sole e dagli oggetti della stanza-studio. I libri, allineati sulle mensole delle “librerie”, parlano con i colori delle copertine: lodano e rimbrottano. Ho letto, nei giorni precedenti gli esami, libri di fisica, divulgativi e non (questi ultimi, irti di formule alto-matematiche, con maggiore fatica e minore costrutto). Ecco alcuni titoli: Pascual Jordan, L’immagine della fisica moderna, Werner Heisenberg, Natura e fisica moderna; L. De Broglie, Onde, corpuscoli, meccanica ondulatoria; Niels Bohr, I quanti e la vita. Più alcuni saggi su argomenti uguali e contigui, dalle rivista Cultura e Scuola, Sapere, eccetera. La  mia testa ronza di onde corpuscoli protoni neutroni elettroni; principio di indeterminazione, causalità e casualità, continuità e discontinuità, abolizione microfisica della causalità deterministica; e via saltando ed esaltandomi. Fino alle celebrazioni ridicole della libertà dell’atomo o del protone da parte dei soliti zelatori strabici dello Spirito ch’è sostanza-azione di libertà pura, e dell’uomo superdotato di libero arbitrio. Ma l’atomo e il protone che c’entrano con lo spirito? Come no! A leggere quei cerebroni, preparano il suo avvento, sono la Natura complice e matrice dello Spirito più spiritoso. Cristo, quante forme può assumere la bêtise! San Flaubert, aiutaci tu: i tuoi Bouvard et Pecuchet sono campioni di razionalità rispetto a certe zucche accademiche inutilemente gremite.
Mon dieu, che guazzabuglio. Ma perché tanto “movimento” su quei testi? Perché ho in cantiere un saggio su Possibilità e necessità, in cui tento una conciliazione, chissà se possibile, fra quelle opposte evidenze, peraltro sbilanciate a favore della seconda nella scienza classica, con la fisica in testa (e nel buonsenso popolare, sempre intriso di religio e dintorni: non si muove foglia che dio non voglia); e riequilibrate, o invertite nel loro rapporto, dalla “nuova fisica”. Ma non ho avuto tempo, naturalmente, di travasare, sobriamente filtrate, queste recenti letture nelle spire ancora provvisorie e già pingui del saggio in fieri.
                                                                             
Il collega di matematica e fisica della mia Commissione ha fatto la tesi di laurea in fisica, per giunta dopo un corso di approfondimento. Dunque, ne sa. Anche se non a livello di rinfrescanti aggiornamenti bibliografici. Né, tantomeno, di prurigini filosofiche e scrupoli epistemologici: possibilità e necessità, indeterminismo e determinismo, problematicismo e causalismo ottocentesco sono, in lui, rimasugli mnestici (dei cenni appresi nel corso), tracce confuse, non temi vivacemente attuali del dibattito epistemologico contemporaneo. Né Abbagnano né Popper turbano la quiete delle sue nozioni sui modelli atomici in progress dal semplicistico Rutherford al quantistico Bohr e seguenti, fino agli orbitali-palloncino e alla struttura atomica.
Insomma, ne sa quanto occorre al suo lavoro di insegnante, e tanto basta. Non basta, però, a dargli una visuale corretta sulla preparazione media delle nostre allieve, né sul massimo richiesto dal nostro tipo di scuola. Io intervengo continuamente in loro aiuto (con la discrezione dovuta alla suscettibilità professionale altrui). Ieri ho aiutato molto la cara Lella “dell’anno scorso”, l’astro tramontato sotto la bufera che ha travolto l’amicizia di tre famiglie. Non ne ero, non ne sarei, obbligato. Ma l’ho fatto. Senza nessuno sforzo. Anzi, con vero slancio e piacere. Sarà perché non riesco a portare odio (è così ingombrante!); sarà perché il ritorno dell’estate scalda memorie e nostalgie. Addirittura sono arrivato, ieri, a fare per lei quello che non avevo fatto per nessuna delle compagne: scrivevo le risposte più difficili (di matematica e fisica) su un mio foglietto, come per uno sfizio personale, ma lasciando bene in vista la
 scrittura. E lei, in rapidissimi lampi di ben diretti sguardi, coglieva e usava. A compenso, in strada non saluta né me né i miei. Neanche, ed è la cosa meno perdonabile, mio figlio. Il mio ignaro innocente bambino frastornato: che novità è questa? Lella non saluta più: che strano mondo! A suo modo, lui intuisce il guasto, ma non sa interpretarlo. Né capisce le nostre mezze spiegazioni. Piccola ingrata, che c’entra lui con le nostre beghe? Quasi rimpiango il mio slancio, e la scempia gioia “missionaria” con cui mi sono prodigato per l’ingrata
Magari gioia e slancio e disponibilità meriterebbero una sosta analitica meno compiaciuta e sbrigativa. Facciamola. Un alito di narcisismo era, forse, presente nel mio “slanciato” altruismo? Mi pare ovvio, e non criminale. Uno sniffo di malizia, pure? Perché no! Nel senso di: vedi bellina? hai bisogno di me, ti trovi in difficoltà, ed ecco qua il tuo professore pronto al soccorso. E nel professore, l’amico, che stenta a sentirsi ex; quell’ex che è colpa vostra, delle tue sorelle, e tua. Una soddisfazione tipo rivincita, insomma. Ma sono altrettanto sicuro che non erano il narcisismo esibizionistico e il modico sadismo revanchista i soli ingredienti della spinta soccorrevole. Il più attivo era la speranzella che lei modificasse il suo atteggiamento almeno nei miei confronti. E verso il bambino.  Senza contare che “la spinta” non fu preceduta da nessun calcolo, fu un lampo di spontaneità assoluta. Giudica tu, diario.
Pensiero-lampo: forse Lella teme che la terribile sorella maggiore lo venga a sapere se lei ci salutasse, anche solo me e il bambino. E perciò evita il rischio di una scenata biblica. Forse.
Bah, vado a fare un buon bagno caldo. O meglio, tiepido. In attesa di poterne fare qualcuno freddo nelle invitanti acque dello Jonio, ancora inutilmente vicino.

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