giovedì 22 aprile 2010

SUSANNA, Frammento 64


“Quando ci prende la paura, nonostante lo stupore in cui viviamo, i gazzettieri si adoperano per dissipare i nostri timori, e con le loro promesse si potrebbe fare l’Antologia dell’Impostura. Un giorno berremo l’acqua dei poli, dove le banchise provvederanno alle nostre necessità; un giorno trasformeremo qualsiasi cosa in cibo succulento; un giorno i cumuli di rifiuti sprofonderanno nelle viscere della terra dopo essere stati ammassati lungo le faglie, in fondo agli oceani; un giorno non dovremo più lavorare per vivere, e passeremo il tempo a distrarci; un giorno colonizzeremo, uno dopo l’altro, tutti i pianeti. Queste scempiaggini vengono pubblicate nel momento in cui tre quarti dell’umanità vivono peggio dei nostri cani o dei nostri gatti, senza alcuna speranza di uscire dall’abiezione, nel momento in cui l’ultimo quarto, al quale si promette l’abbondanza illimitata, ha non poche ragioni di dubitare dell’autenticità di queste meraviglie. Giacché basterebbe una guerra per diffondere la fine con la velocità del lampo, a ondate successive, sulla superficie del globo, e far languire i superstiti dell’orrore assoluto sotto il giogo dell’antica indigenza.
Albert Caraco, Breviario del caos, trad. it. Adelphi, 1998

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Il decennale del Caso Moro, la convocazione del Pertini presidente che tuona contro gli speculatori del sisma irpinico, la dimensione dei due eventi tragici addensano un groppo che ci risveglia il ricordo di un ventennale non meno drammatico, anche se diversamente tragico: il mitico ’68, così gonfio di umori e clamori, aveva avuto un inizio copiosamente funesto nella Sicilia, col terremoto del Belice, nella notte tra il 14 e il 15 gennaio: Gibellina, Salaparuta, Santa Margherita Belice e altri paesini e villaggi furono polverizzati nelle povere case senza difesa e centinaia di abitanti rimasero sotto le macerie. Un incipit buono a titillare la sensibilità superstiziosa della troppa gente disponibile alla transumanza metafisica. Chi superstizioso non è si limita a ricordare che anche quest’ennesimo capriccio delle cieche forze di Gaia divenne presto occasione di imbrogli contabili ruberie falsi ideologici: insomma, affari loschi di pura speculazione sulle sventure altrui. Mentre molti dei sopravvissuti aspettano ancora case e restituzione di dignità: purtroppo, chi la dignità l’ha sequestrata, cioè i politici in grado di agire, sono lenti in queste operazioni. Ma svelti nell’altro genere, sopra accennato. Naturalmente, in contesto-combutta con la malavita organica. E il tutto sia detto senza piallare le piccole differenze né misconoscere le minoranze sensibili tentate dall’onestà solidaristica. Anche se condannate alla sconfitta o al silenzio coercitivo. Che poi è la stessa cosa. Quando la sconfitta non si tinge addirittura di rosso sangue risolutivo.
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Poiché si tratta della Sicilia, la Regione per eccellenza a statuto speciale, non sarebbe facile rinunciare a un cenno di doveroso ossequio per tanto mirabile realtà pluridimensionata: sociale, politica, antropologica, etica, e via strombettando. Il cenno attraversa un libro di rara schiettezza e completezza di analisi-denuncia: Saverio Lodato, “Potenti. Sicilia, anni Novanta”. Un saggio ormai vecchio (Garzanti, 1992) scritto e pubblicato poco prima della strage di Capaci, quando il peggio di quel male in queste schiette pagine ampiamente recensito non sembrava nemmeno prevedibile, a mortificazione dell’immenso carniere già riempito di morti ammazzati dalla polimafia. Già la Prefazione, tra sobria commozione e pungente ironia, restituisce l’odore acre di un tempo tragico, anticipando nel presentimento l’enfasi tenebrosa di quel tale “peggio”, davanti al quale non si prevedono barriere insuperabili. Neppure in questo inizio del terzo millennio. Ci piace, quel preludio, anche per la sfilata di vittime cui, nel nostro piccolo, rendiamo omaggio citandone i nomi (purtroppo vanamente) gloriosi.
“Troverete quattro storie dalla Sicilia, quelle che sui giornali è sempre più difficile leggere perché, come si sa, i giornali hanno poco spazio, vanno sempre di fretta e traboccano ormai di ‘picconate’.” L’allusione al Grande Sardo, picconatore autopromozionale, suona come il “la” dell’intera partitura. Ma torniamo a leggere. “Di mafia si è parlato e scritto molto. E dopo trent’anni di silenzio sull’argomento, questo è un primo grande risultato. Abbiamo capito cosa accadde in Sicilia fra l’l’80 e il ’90, quando l’intera rappresentanza delle istituzioni venne spazzata via a colpi d’arma da fuoco. Conosciamo i nomi di Boris Giuliano, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuele Basile, Mario D’Aleo, Giuliano Guazzelli, poliziotti e carabinieri assassinati per aver fatto il proprio dovere. Conosciamo le limpide storie dei magistrati Terranova, Costa, Chinnici, Ciaccio Montalto e Rosario Livatino, degli uomini politici Mattarella e La Torre. O le storie, altrettanto belle, di grandi professionisti che non si vollero piegare: mi viene in mente, fra i tanti, il medico Paolo Giaccone, che non si prestò alla richiesta di perizie addomesticate da parte delle Cosche.” Pentiti e investigatori ci hanno informato sulla struttura e le logiche terroristiche di Cosa nostra, del grande business della droga e così via. Ma sappiamo ancora “troppo poco sui mandanti e sugli esecutori” – scriveva l’autore quando i pentiti non facevano ancora nomi di politici collusi (salvo un caso, finito tragicamente). Allorchè, dopo la morte di Falcone e Borsellino, cominciarono le passerelle dei nomi, la Grande Complicità scattò a protezione dei grossi Compromessi, e quei signori, nel convergente intreccio di cavilli prescrizioni escamotage vari, si sono salvati (tranne qualche testa meno eminente). E se un Salvo Lima ha pagato con la vita la coatta inadempienza agli obblighi “contrattuali” verso Cosa Nostra, il suo referente nazionale ha superato la novantina tra gli applausi di suore e monsignori. E con la benedizione papale.
Mentre l’impegno del giornalismo onesto puntava sui misteri dolorosi della Sicilia mafioso-collusa le trasmissioni televisive di denuncia, come “Samarcanda”, venivano chiuse: a far capire che era giunta l’ora del ‘serrate le file’ contro i disturbatori del Grande gioco. “Con la chiusura di ‘Samarcanda’ in campagna elettorale, il Palazzo ha indicato le sue ‘leggi’ con brutale evidenza. Ha voluto ribadire che la biografia politica di Salvo Lima doveva restare nascosta [...] ‘Samarcanda’, invece, si era permessa di disturbare i ‘manovratori’ (Andreotti e Forlani) nel momento in cui osavano l’impossibile: presentare Lima come un politico ‘svedese’, paragonarlo persino a tutte le altre vittime di mafia. C’è di più: la trasmissione di Santoro richiamava l’attenzione sull’intreccio mafia e politica, mentre la nuova linea ministeriale si concentra esclusivamente contro i boss che sparano. Era troppo e ‘Samarcanda’ ne ha fatto le spese.”
Le quattro storie promesse dalla prefazione brulicano di nomi, fatti e misfatti, già largamente “censiti” dalla cronaca di quegli anni e dei successivi. Ma la prosa dell’autore le rivitalizza con palpitante rilievo. Che viene a dire, tra le altre cose, con coraggio civile e nessun pelo sulla lingua. La prima storia è lo svolgimento del caso Libero Grassi, dagli inizi della sua resistenza al racket all’esito tragico, e da questo alle sue conseguenze positive nel senso di un risveglio di attenzione sul tragico problema della mafia estortiva: una specie di vittoria postuma emergente da quella tomba eroica, preparata anche dall’omertà tetragona dei colleghi di quel “giapponese”. Della lunga intervista a Pina Grassi, la vedova di Libero, è difficile non trovare un passaggio avvincente. Come quando parla della coesione familiare intorno al capo, deciso a non mollare. O della viltà dei “colleghi” che, negando l’evidenza, accusavano Grassi di offrire un’immagine deformante della magnifica Isola lavoratrice e casta. O ancora quando interpreta l’assassinio del marito: “Perché Libero è stato ucciso? Forse perché, dopo la sua lettera aperta al ‘geometra Lanzalone’ [il finto nome del “messo” mafioso del pizzo] pubblicata dal ‘Giornale di Sicilia’ [...] e intitolata ‘Cari estorsori non vi pago’, qualcuno si deve esser detto: qui perdiamo la faccia e perdiamo anche la piazza...perdiamo tutto. Quella denuncia, Libero mi disse di averla scritta anche nell’interesse degli altri imprenditori siciliani e palermitani. Quindi si aspettava da loro un segno di incoraggiamento. Ci rimase molto male quando gli dissero che quella denuncia li danneggiava e che i panni sporchi non bisognava lavarli in pubblico. Bisogna tener presente che era già uscito il primo libro mastro dei Madonia con l’elenco delle persone che pagavano. E quando Libero invitava tutti a denunciare i soprusi subiti diceva: se in cento ci comportiamo allo stesso modo non possono ucciderci. Ma da parte delle associazioni di categoria l’appoggio non c’è stato. E’ strano. Ma tutti quanti ritenevano che pagare in silenzio fosse molto più logico e più tranquillo. E si lamentavano del discredito che Libero gettava sull’imprenditoria, nella convinzione che il discredito non è che il fatto avvenga, ma che si sappia. Un altro episodio clamoroso fu la sentenza del giudice catanese Luigi Russo, secondo cui pagare tangenti alla mafia non è reato. Per Libero fu un altro colpo, diceva che quella sentenza avrebbe assolto reati passati, presenti e futuri.” Unico conforto, l’accennata solida coesione familiare. Scrive Lodato: “L’incredibile avventura di quest’imprenditore che aveva spezzato le regole del gioco durò otto mesi. Mesi, dice Pina Grassi, di ‘alti e bassi’. Fra gli alti, la soddisfazione di un riconoscimento solenne, di dimensioni nazionali e risonanza internazionale: nel giugno del 1991 “la Confesercenti nazionale lo invitò a Roma per una manifestazione organizzata tutta per lui, che si concluse con l’assegnazione di una targa ancora oggi conservata in fabbrica”. Un’iniziativa, rimemora Pina, “che lo gratificò molto, e che considerò un riconoscimento finalmente importante da parte del mondo imprenditoriale. Cresceva in qui giorni anche il movimento antiracket di Capo d’Orlando. Erano altri segnali di controtendenza”. Ma non tali da scuotere le “mummie imbalsamate ottime per tutte le stagioni e abilissime nel giocare con le parole. Libero Grassi, allora, ridiventava facilmente il ‘giapponese’, l’‘alieno’, il ‘protagonista, che aveva gonfiato a dismisura fatti episodici e marginali, come per esempio un’estorsione”. Il bersagliamento vessatorio (furto del cane, furto di ben 60 milioni, cioè la paga dei suoi operai, ecc, ) si faceva sempre più stringente. Ma continuava ad infrangersi contro la corazza caratteriale del renitente impavido. Che costrinse le “mummie” a prendere la parola, denunciando un fatto notorio, ma sepolto sotto una coltre di solidale omertà silenziosa (“Perché dovete sapere che in Sicilia si è tanto più potenti quanto meno si ricorre alla parola”): “tutti gli imprenditori palermitani” pagano il pizzo, “in silenzio”, ma pagano”: “Le mummie dunque si tolsero le bende e furono costrette a prendere la parola. Un diluvio di imbarazzati luoghi comuni. Sociologismi d’accatto per replicare a verità brucianti. Statistiche dialettali per zittire il ‘giapponese [...]. C’era l’associazione degli industriali chiamata direttamente in causa da Libero Grassi. La dirigeva... Salvatore Cozzo, limiano di ferro. L’uomo che non perdeva occasione di ripetere pubblicamente che Grassi sbagliava. Che danneggiava l’immagine della Sicilia. E lo accusava di creare tempeste in un bicchiere” . Ancora parole di Pina Grassi, parole di cruda verità: “Ricordo bene che Libero, quando si eleggevano gli organi dell’associazione degli industriali, poneva provocatoriamente la propria candidatura. Quando si faceva lo spoglio dei voti si trovava solo il voto che aveva dato a se stesso”. L’Osservatorio Libero Grassi, sorto subito dopo la sua “immolazione”, pubblicò “il suo primo quaderno raccogliendo i documenti-chiave di una brutta polemica che contribuì all’operazione terra bruciata. C’è il testo dell’intervista telefonica che [...] Cozzo rilasciò al ‘Giornale di Sicilia’ undici giorni dopo la lettera aperta del ‘giapponese’ al ‘geometra Anzalone’. Domanda: le risulta che altri industriali subiscano intimidazioni e paghino il pizzo? La mummia non si scompone: ‘Abbiamo 550 aziende associate. Noi non abbiamo mai avute segnalazioni’. Il giornalista ricorda che nella borgata di Brancaccio, ad alta densità mafiosa, ci sono fabbriche che sono state più volte ridotte in cenere dal racket. La mummia tira dritto per la sua strada: ‘Lo so, ed è vergognoso. Ma non dobbiamo fare più drammi di quelli che realmente esistono. Se no la Sicilia apparirà sempre come terra di criminalità. Cosa crede? In altre regioni, la Lombardia in testa, la delinquenza non scherza. Ma lì si minimizza. Le ‘buone famiglie’ tendono a tacere”. Commentino di Lodato: “Bravo Cozzo. Davvero ben detto. Da che mondo è mondo le ‘buone famiglie’ tacciono. Non come quei perdigiorno dei Grassi che non facevano altro che strillare... E perché non rimangano dubbi sul ‘cozzopensiero’”, ecco altre “due ‘meravigliose’ risposte” a ‘L’Ora’: “Io, per esempio, non ho mai ricevuto alcuna richiesta di pizzo. Ma ho già dichiarato che non sono il confessore dei seicento imprenditori che aderiscono all’associazione industriali. Ci sono quelli che subiscono il pizzo e quelli che non lo subiscono, e questo dipende spesso dal territorio in cui operano e dalle realtà che incontrano. Non si può generalizzare. Grassi sta demolendo l’imagine dell’imprenditoria palermitana”. E la seconda: “Ma cosa dovremmo fare secondo Libero Grassi? Dovremmo dire ai nostri associati: rifiutatevi di pagare il pizzo? Dovremmo fare campagne continue in questo senso? Allora noi spogliamo la nostra associazione dei suoi compiti istituzionali e cambiamo mestiere. La nostra azione è diretta verso altri obiettivi: primo fra tutti, la promozione dello sviluppo produttivo. Non possiamo farci solo vessilliferi della lotta alla mafia. Abbiamo altri compiti, altri doveri”. Il campionario dei “cozzo-pensanti” non era magro: ricordandone un altro di peso, il socialista Giuseppe Albanese, presidente dell’Associazione piccoli industriali, apprendiamo che il campione soffriva “di una strana forma di strabismo teorico: dove c’era mafia lui sospettava terrorismo”. Ad un convegno, su “Tranquillità ambientale e sviluppo economico” alle “provocazioni” di Libero Grassi l’ineffabile aveva replicato con questa meraviglia di parole-fantasma: “La risposta che diamo noi imprenditori è di tipo occupazionale, di impegno di pulizia, di trasparenza. Non ci possiamo sostituire agli organi dello Stato. Ciascuno di noi deve fare il proprio dovere, nel ruolo che la società ci ha dato o che ci siamo presi, perciò la mia dichiarazione è in linea con questo principio; e debbo dire che ancora oggi la risposta non è stata data, perché non ci sono condanne di reati di tipo mafioso. E’ grave. C’è una condanna, ci sono condanne, c’è un colpevole di cui si possa affermare che era mafioso o era terrorista? Questo è il problema. Allora io dico che se ci fossimo preoccupati di fare ciascuno il nostro dovere forse oggi sarebbe più facile anche per la giustizia arrivare a dirmi chi è stato un mafioso o un terrorista, perché stiamo ancora a discutere su ipotesi, dato che non c’è niente di certo...”. Commentino di Lodato: “Pensiero raffinatissimo, quello di Albanese. Chi ha mai detto che è stata ‘sicuramente’ la mafia a mettere a ferro e fuoco la Sicilia? Le sentenze di Cassazione a quella data, infatti, cancellavano puntualmente i verdetti di primo e secondo grado. Aguzzando l’ingegno, Albanese sottintendeva: come fa Libero Grassi a dire che le richieste estorsive provengono dalla mafia?” Un altro nome dentro un’altra vicenda significativa. “Perché la galleria delle mummie sia completa bisogna ricordare la Confcommercio regionale”, diretta da Alfredo Spatafora, “consigliere d’amministrazione del Banco di Sicilia, del quale dicendo che è una superpotenza siciliana non c’è altro da aggiungere. Insofferente quando in associazione si affrontava il tema mafia, preferiva spostare il discorso sulle rapine e si è sempre lamentato di averne subite tante nei suoi negozi di scarpe sparsi per tutt’Italia. Ma quando nel dicembre ’89 venne scoperto il primo ‘libro mastro’ di Madonia, il suo nome figurava fra quelli degli 84 imprenditori, commercianti e gestori di locali pubblici che pagavano i mafiosi. Tuttavia, secondo gli investigatori, Spatafora godeva di uno straordinario trattamento di favore, visto che sborsava molto meno di quanto avrebbe dovuto, in proporzione alla sua ricchezza. Lui tagliò la testa al toro negando con decisione di aver mai pagato. E tutto finì lì”.
Naturalmente, Pina Grassi e figli vivono sotto scorta, e la signora, raro esempio di dignitoso equilibrio, non inveisce e non recrimina, lasciando a chi ne ha il compito, o, da buon giornalista se lo assume, l’onere delle analisi severe e doverose. Lei apprezza il ritrovato affetto delle persone. I clienti, uomini e donne, non evitano più il suo negozio. “Sono tutti meravigliosi”, dice al giornalista, “deliziosi, affettuosi. Nella gente ho ritrovato il calore umano, i clienti che vengono in negozio non sono marziani, non fanno finta che nulla sia accaduto, mi sono vicini, mi dicono: signora l’abbiamo seguita e la seguiamo sempre...”.
“Si è fatto davvero tardi adesso”, si avvia a concludere l’intervista Lodato. “E’ già sera su questa Palermo dai mille e mille delitti impuniti. Nell’Alfetta ci sono altri uomini, segno che le pattuglie si sono date il cambio. Pina Maesano Grassi si prepara a tirare giù la saracinesca. Guardo quelle tende che mi sembrano incredibile metafora di quanto è accaduto. Libero aveva squarciato i sipari e tante mummie erano state costrette a fare capolino”.
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La quarta storia del volume traccia un sommario dell’era del pool, dei suoi successi, della sua liquidazione ad opera di giudici felloni, ministri “distratti”, politici e procuratori a rischio di “scopertura”: un convergere di istanze convocate alla protezione della politica collusa. Cassazione, Csm, singole procure operarono di concerto per frenare, fermare, disperdere il lavoro compiuto da Falcone e collaboratori con l’ascolto dei pentiti (Buscetta, Calderone, Contorno...), l’interpretazione del monolite Cosa nostra; e tante tessere di un mosaico che consentì il Maxi processo. Nomi onorati e nomi discutibili (per usare un eufemismo) si intrecciano e scontrano in un vortice di eventi concepiti come estrema ratio per bloccare l’esito di quella impresa storica. Il giudice “ Di Lello fu ad esempio uno dei pochi che non condivisero la strategia di frantumazione dei processi sostenuta dal consigliere Antonino Meli e fatta tempestivamente propria dalla Cassazione. Di che si trattava? Pietra dello scandalo furono le rivelazioni del pentito catanese Antonino Calderone. Un fiume di confessioni che avrebbe consentito un altro aggiornato processone. Ma dopo Buscetta e Contorno la misura ormai era colma, e molti vollero correre ai ripari soffocando sul nascere questo nuovo immenso filone investigativo. Falcone masticò amaro. Si rendeva conto che la sua filosofia giudiziaria, incentrata sulla monoliticità e unicità di Cosa Nostra, ne sarebbe uscita irrimediabilmente compromessa”. Sappiamo come andò a finire, malgrado gli sforzi che Falcone fece per “salvare il salvabile”, mentre imperversava in Cassazione il cavaliere dalla trista figura Corrado Carnevale, il distruttore delle sacrosante condanne dei boss, il pretoriano del cavillo, l’ammazza-sentenze. Poi condannato a sei anni per favoreggiamento di mafiosi. E con un “poi” al quadrato, anni dopo, restituito alla cosiddetta società civile con il rovesciamento della sentenza di primo grado.
Falcone fece il possibile: ecco un’affermazione che sollecita una riflessione su un buco nero della sua onorata carriera. Quando il pentito Giuseppe Pellegriti “tirò in ballo l’eurodeputato dc Salvo Lima, definendolo in qualche modo mandante dell’uccisione di Piersanti Mattarella [...] Falcone non gli risparmiò un mandato di cattura per calunnia [...] Non mancarono le critiche a Falcone per l’eccessiva tempestività di quel provvedimento, quasi che il magistrato avesse fretta di fare uscire da quella brutta inchiesta Salvo Lima. Un atto di pronto ossequio al gruppo andreottiano che, naturalmente, insorse di fronte alla chiamata in causa del suo big?”. Lodato si schermisce: “Non abbiamo elementi per decifrare quella tempestività”. E osserva che, se Pellegriti non era un pezzo grosso dell’Onorata Società, Marino Mannoia lo era: “Ma Salvo Lima venne chiamato in causa anche da un pentito doc, quel Marino Mannoia al quale Falcone ha sempre creduto. /Mannoia non era un pentito qualunque. Fu il primo appartenente al clan dei corleonesi che collaborò con la giustizia [...] Cosa disse il pentito”. Che Salvo Lima era, fra gli uomini politici, il più amico di Stefano Bontade, il grande capo mafia palermitano assassinato nell’81 all’inizio della guerra fra i clan rivali”. E indicava perfino il bar dove i due s’incontravano “quando era giorno di chiusura”. Quale fu la reazione del giudice? “Falcone registrò tutto fedelmente, ma non rivelò alcuna particolare curiosità sull’argomento”. E forse c’è di più strano: un altro libro sui misteri dolorosi d’Italia ricorda una lettera di Falcone su Salvo Lima piena di notizie positive e priva di qualsiasi appunto. Al momento non ricordo la data di quelle credenziali richieste e senza difficoltà concesse.
Siccome è difficile sospettare di un uomo che ha dato la vita per la sua missione, s’impone un tentativo di dare senso a tanti riguardi. E’ troppo ipotizzare che quel timoniere instancabile del vascello antimafia temesse, bruciando i tempi, di essere fermato? E che perciò non esitò a rischiare la reputazione, pur di evitare lo stop al suo lavoro? Stop che poi, purtroppo, gli fu dato ugualmente, fra il Meli promosso dal csm per rovinare l’indagine e il Giammanco che dà incarichi ridicoli all’uomo del Pool. E il ministro Martelli che lo chiama al suo ministero, per compensarlo delle amarezze siciliane. Né si pensava, allora, a quel peggio così largamente tragico. E troppo grosso per essere opera di sola mafia.
A conclusione del suo saggio Lodato afferma che la via giudiziaria non basta più per combattere la mafia: che nel frattenpo è cresciuta e dilaga per il mondo. Occorre, dice, “un nuovo modo di fare politica. Un nuovo modo di raccogliere il consenso elettorale. Un nuovo modo di distribu8zione delle risorse pubbliche, non più all’insegna dell’infinita discrezionalità ma valorizzando il momento del controllo democratico della spesa. Sono progetti ambiziosi. Passano tutti da una profonda riforma dei partiti”. Che ancora stiamo aspettando.
Intanto ci godiamo almeno un resumé di un tagliente profilo della favolosa Regione, degno di essere incorniciato (e che nel libro è molto più espanso e articolato). “I primi Potenti siciliani li incontriamo nei palazzi della cuccagna della Regione, in questa ‘macchina meravigliosa’ modellata su misura per inghiottire migliaia di miliardi, per elargire ricche prebende e distribuire a piene mani posti di lavoro, dove ai bisogni collettivi è stato sostituito il bisogno di caste inamovibili, in questo autentico circo equestre che chiamano il Palazzo dell’Autonomia. E proprio come nei circhi veri incontreremo i giocolieri del disegno di legge, i prestigiatori dei regolamenti interni, i saltinbanchi del dibattito d’aula, i fantasisti del bilancio di spesa e i domatori di clientele”. Insomma, un vero “labirinto della discrezionalità, del fortuito e dell’interesse particolare innalzato a principio di spesa.” Al tempo in cui scriveva Lodato la regione aveva ben 25.000 dipendenti! Ogni confronto con altre realtà omologhe del Centro-Nord ne mostra(va) la mostruosità. Per di più, tutti pagati con stipendi e pensioni favolosi. Negli anni successivi, poi, quella cifra si è gonfiata ancora, e oggi non so quanti siano quei fortunati. Senza contare i consulenti, gli avvocati e altre categorie a contratti occasionali. E le migliaia di progetti di opere pubbliche realizzate solo in parte, o mai trasferiti allo scavo delle fondamenta.
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A merito del Disordine burlone che gioca con gli eventi umani non sembra fuori tema il ricordo del Presidente della Repubblica in carica nel tempo della “tragedia Moro”: il più pittoresco, il meno confidente della gravitas istituzionale, il più compatibile con la comicità da Bagaglino. Insomma, Giovanni Leone. Avvocato, docente di diritto, piccolo di corpo, sbilenco nei tratti del volto, goffo e, soprattutto, assai “napoletano”. L’uomo che fece le corna ai suoi pubblici contestatori e fu coinvolto nello scandalo Lockeed, il bersaglio di Camilla Cederna, che ne determinò la sorte col suo pamphlet micidiale, non viene nemmeno nominato in tanto vario dibattito sul Caso Moro: quasi uno sfondo muto, senza spessore, senza volto, senza voce (che non fossero ciacole insignificanti).
Nel suo libro, La carriera di un presidente, la Cederna espone tutte le magagne di quel patetico personaggio. A cominciare dal ritrattino pepato che ne fa la moglie, Vittoria Michitto, di bell’aspetto, fidanzata, 17 anni lei, 36 lui, descrivendolo, da corteggiatore, come peggio non si potrebbe: “Saputo che facevo la terza liceo ‘mi farò nominare presidente della commissione’ fu la sua reazione immediata, ‘così la promuovo’[…] quel pozzo di scienza, quel professore, quel pedante: mi pesava soltanto l’idea di rivederlo, mi affliggerà l’anima mia, sospiravo” (naturalmente, resta il mistero del perché lo abbia sposato). Non meno memorabile l’irruzione nella sala dove l’attendeva la Cederna: un cagnolino fra le gambe, e poi le gambe larghe stravaccato sulla poltrona, e il fotografo paralizzato da una visione choccante: sblocca la situazione la moglie che si accorge dell’apertura e sussurra a quell’orecchio prominente: “Senza il benché minimo imbarazzo, seguitando a parlare di calcio (una sua passione), del mestiere d’avvocato […] con una mano rapidissima, come se giocasse, si chiude la fenditura”. Questo Topo Gigio, questo tapiro, questo gufo, ama le cause “difficili”: difende Felice Riva, un industriale che porta all’estero la cassa mammonica dell’azienda; difende il mafioso Antonio Mangiafridda, accusato dell’assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale; difende la Sade, la società responsabile del disastro del Vajont, “contro gli eredi delle vittime di quella tragedia, dopo aver promesso loro, pochi mesi prima e con apparente groppo di emozione in gola, che giustizia sarebbe stata assicurata. E averglielo promesso da presidente del Consiglio”. Tra il ’63 e il ’64 Leone è presidente della Camera e poi premier di un “governo balneare”. Disinvolto nella disponibilità verso la destra, ne accetta più volte il soccorso. In competizione con Saragat, nel 64, dal magnanimo ex concorrente riceve la nomina a senatore a vita tre anni dopo. Tra giugno e novembre del ’68 torna a guidare un balneare “coatto”. Nello stesso anno stringe rapporti di affari con i fratelli Lefebvre, foraggiati dalla società americana Lockheed che vuole piazzare i suoi aerei. Planano mazzette su almeno due grossi politici, un ministro e un capo del governo. Il processo davanti alla Corte Costituzionale scopre il ministro, Mario Tanassi, socialdemocratico. Più difficile individuare il premier nascosto sotto un nomignolo in codice, Antelope Cobbler. La rosa dei presidenti del Consiglio tra cui cercare comprende soltanto tre nomi: Mariano Rumor, Aldo Moro e Giovanni Leone.” Escludendo (per inattaccabili motivi) i primi due, non resta che il terzo: ma non si riuscirà a “provarlo”. Si inclina a credere in un errore di ortografia del dirigente Lockheed: invece di scrivere Gobbler avrebbe scritto Cobbler, che toglie ogni senso accessibile all’espressione, laddove Antelope Gobbler suonerebbe trasparente: il Divoratore di Antilopi, cioè il leone. Il Leone.
Altri controlli sul patrimonio rivelano acquisizioni inspiegabili, anche se, neppure esse, “penalizzabili”, e mentre l’istruttoria Lockheed procede, altre “stranezze” caricano le spallucce del Leone sì poco ruggente. Che, però, la vigilia di Natale del 1971, diventa presidente della Repubblica “con i voti sottobanco, ma non tanto, del Movimento sociale”. All’inizio del mandato ispira simpatia a un certo pubblico. Ma anche a una giornalista poco incline alla compiacenza. E così Oriana Fallaci prende uno dei suoi primi granchi: “A un tratto pensai: mi piace perché è un brav’uomo. Almeno con lui ci è andata bene: è un brav’uomo. Ed è intelligente”. Mai cantonata fu così bislacca. (1)
L’uomo è coriaceo, e resiste a tutte le spinte verso le dimissioni. Poi si scatena la campagna dell’Espresso: “una serie di articoli minuziosamente documentati sui soldi, le tasse, gli affari, le amicizie, i maneggi del presidente” lo inchiodano. Il senatore socialista Guido Campopiano e i quattro deputati radicali “lo denunciano ufficialmente in Parlamento”. La “questione morale” mette radici (anche se non riuscirà a lussureggiare in un salutare avvenire boschivo). Il referendum sul finanziamento pubblico dei partiti (2 giugno 1978) mostra che quello spreco non è gradito al 43% dell’elettorato. Si stringe il cerchio intorno a Leone: Dc e Pci lo invitano a dimettersi. La pressione bipartisan “convince” il Napoletano doc: che smonta il 15 giugno, poco più di un mese dopo l’assassinio di Moro. Sembra che la maledizione lanciata da quell’ostia ingombrante cominci a dare i suoi frutti. Ma chi scrive non è superstizioso, e si limita a constatare che mancavano ancora sei mesi alla fine del mandato. Uno dei peggiori dal ’46.(2)

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(1)Ne prenderà altri, la terribile lingua, fino alla corrida anti-islam e contro l’aborto, tutta scintillante di Valori assoluti, che manco un Pera marcio sermoneggiante dal podio senatoriale, o un Giuliano Ferrara debordante anche nelle ruffiane scempiaggini valoriali. Ma è un’eroina, un’icona del democratismo di parata, dell’ateismo devoto. Un’Intoccabile. Che pure da morta continua a ingombrare la scena mediatica e la mercanzia bibliografica con ristampe e volumoni autobiografici [Nota del curatore di Paolo Assaggi.

(2)Paolo Assaggi non previde quel che, pure, era sospettabile in un Paese come la cattolica Italia molto democratica (secundum quid): la riabilitazione del Leone ferito nell’anno del centenario natalizio. Hanno cominciato due suoi collaboratori con lettere a Sergio Romano. Il quale, a richiesta di un commento, non fa nulla di più che ripercorrere la vicenta Lockeed con l’aria di accusare i due giornalisti come responsabili delle sfortune leonine. L’anticomplottista vocazionale Romano nell’occasione fa il Pilato. Il perno di tanta beatificazione? Un viaggetto a Washington del Leone presidente per tentare di scongiurare l’ostilità americana all’idea “moresca” di coinvolgere il Pci nel governo del Paese satellite. Visti gli esiti di medio termine... [Nota del curatore di Paolo Assaggi.]

martedì 6 aprile 2010

SUSANNA, Frammento 63


Altro momento cuspidale nella ricca vicenda del fascino papale si ha quando dalla tribuna millenaria dell’Agrigento coronata di storia e arte, ma sfregiata (come tutte le città e bellezze siciliane) dall’affarismo malavitoso marziale e politico, condanna e minaccia del castigo divino la malagente della mafia: “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio” (o qualcosa del genere): quel metallico grido di una gola virile regalò qualche brivido di consentanea emozione anche ai non credenti d’Italia, in sofferenza per quell’osceno connubbio insanguinato che un giornalista fantasioso definì polimafia (lo stesso che aveva marchiato la diccì come “Balena bianca”). E quel lieve graffio alla corretta grammatica aggiunse un pimento di simpatia al quasi urlo profetico. Riportandoci, fra l’altro, alla sera della sua elezione, quando il suo primo errore (“Se sbaglio, mi corriggerete!”) sollevò l’immensa folla berniniana in un’onda d’immediata simpatia plaudente e speranzosa.
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L’avvento di un papato come quello wojtylano è più importante, o no, della pur tragica epopea del brigatismo rosso e contorni? Il primo fenomeno ha eroso le fondamenta di un sistema internazionale durato quasi mezzo secolo, il secondo ha falciato vittime disarmate solo in Italia: basta questo dislivello comparativo a giustificare quel primato?
Rivedo volti in memoria e riascolto voci di pianto, mogli figli madri di bersagli delle Brigate illuse apparsi nel tritacarne del tubo catodico in occasione del decennale e ventennale: loro non troverebbero seria quella distinzione “maggioritaria”. Forse conviene soprassedere ai teoremi e limitarsi a registrare eventi e fatti. Beninteso, per generalia. Tra gli anni Settanta e Ottanta lo Stivale logorato da immoralità diffusa e svariata si insanguinò del terrorismo politico, con diversa intensità nei distinti segmenti del tempo.
Fra i molti nomi rispettabili delle vittime assassinate o gambizzate quello di Aldo Moro gode (soffre?) di un rilievo eccezionale garantito da molti parametri e aureolato di un copioso (starei per dire “fastoso”) futuro: le dimensioni dell’impresa brigatista (e non soltanto per l’oscena strage della scorta), il ruolo politico del bersaglio, le implicazioni nel riassetto delle alleanze intorno all’esecutivo, il gioco dei sospetti non risolto né pacificato da scoperte certezze e documentate rivelazioni. Quel 16 marzo del ’78 aprì una partita etico-politica che conobbe omissioni rimozioni rigidezze teleguidate: e ingenuità incredibili nelle scelte di uomini navigati della sinistra istituzionale. E il successivo 9 maggio, il cadavere di Moro nel bagagliaio della storica Renault 4 rossa diede suggello a un delitto che ebbe molti complici inerti tra le file democristiane e quelle comuniste. Un’epidemia statolatrica prese alla gola quei valentuomini: i colleghi di partito di colpo dimenticarono la tiepidezza verso quello Stato da sempre sofferente sotto allotria tutela, che ne aveva profumato le lunghe carriere di incenso vaticano, e dollari americani (nonché delitti misteriosi). E furono improvvisati pretoriani dello Stato über alles; i comunisti, vittime dell’altra religione e chiesa (il piramidamismo ateo), s’impuntarono sul non possumus pretesco davanti a un idolo mai riconosciuto nella sua astrattezza formale e sempre contestato nella sostanza capitalistico-borghese, discriminatoria e vocazionalmente ostile alla classe operaia in nome della quale le Brigate uccidevano. Illusi, quei giustizieri in truce buona fede e rabbia sociale, di un possibile risveglio insurrezionale per il quale mancavano le condizioni scatenanti di esplosivo impatto immediato: non s’era raggiunta la “massa critica” necessaria all’innesco, la giusta quota percentuale di poveri sfruttati e disoccupati disperati; mancava la quantità-limite di rabbia reattiva in quell’Italia dell’ex boom dalle lunghe propaggini. S’irrigidirono, dall’una parte e dall’altra, su quel punto d’onore mal riposto: non si tratta con l’eversione, non si regalano riconoscimenti alle Brigate fuorilegge. E via strombettando, alla salute dell’anima dell’infelice mediatore delle “convergenze parallele”, che invano reiterava nelle sue lettere vieppiù toccanti la memoria di precedenti salva-vita, di trattative dell’identico tipo e dosaggio ora negato a lui. Che avevano salvato persone in carne e sangue (il caso, per esempio, dei terroristi palestinesi nell’attentato romano della stazione Termini) e non idoli ambigui, come la mal sacralizzata icona di uno Stato fin troppo ferito da fellonie mammoniche e sozzerie variamente compromissorie, e ora, per la sciagurata occasione, diventato un Leviathan hobbesiano innestato a un etico vampiro hegeliano (Hegel definisce lo Stato: der Gang Göttes in der Welt, “l’ingresso di Dio nel mondo”!). Tradito e umiliato da sempre, quello Stato ora costretto al rigore inattendibile: a cominciare dalla doppia limitazione della sua sovranità, quella cattolico-vaticanesca e quella americana, che s’era ritagliata pezzi di territorio nazionale di controllo assoluto disseminandolo di basi militari (non prive di ordigni nucleari). Per non parlare del sistemico (ancorché oscuro e negato coram populo) intreccio mafia-politica-servizi segreti. E perché no della “riserva mentale”, così poco fit con la repubblicana democrazia, da poterne sospendere le garanzie civili in caso di “minacce comuniste”. Non solo da improbabili sommosse popolari, ma altresì da eventuale e malaugurata sconfitta elettorale del blocco moderato a vantaggio della sinistra estrema: vedi la segretissima organizzazione stand-by, con le sue Gladio et similia, incardinate nel sistema difensivo del “libero Occidente”.
La famiglia Moro giustamente non perdonò ai mediocri furbastri della capetteria democristiana quella coriacea insensibilità verso l’“uomo buono” disperatamente esaltato dal papa Paolo VI, nel suo accorato appello agli “uomini delle Brigate rosse”. Evidentemente, per gli intemerati campioni del biancofiore quei giovani erranti al kalashnikov non erano più nemmeno uomini. Non perdonarono, la moglie, i figli, il fratello, che non nascosero trasparenti sospetti verso il Grande patrigno-padrone transatlantico, disturbato dai “maneggi” di Aldo intorno alle Botteghe Oscure. Né quelli, collegati ai primi, verso tutti i notabili Dc, troppo cedevoli alle pretese di quel Padrone cinicamente spregiudicato, e insieme troppo esposti, taluni, all’attrazione del supremo Colle. Il “tempo galantuomo” forse non esiste, ma una sua vocazione a sciogliere lingue legate e aprire spiragli ad aspre verità non si può negare. Corrado Guerzoni ha riferito una confessione di Sereno Freato: il montanaro capelluto Flaminio Piccoli aveva detto a Freato, riferendosi a Moro: “Se questo torna sono dolori”. E Freato, assicura Guerzoni “ce lo riferì subito”. E’ un dettaglio non da poco, anzi “che spiega tutto”. Tutto, o quasi: l’immobilismo ipocrita, personificato, si disse, nel segretario Dc, l’“onesto Zaccagnini”; l’arroccamento sull’inedita fermezza in complicità plurali, che sarebbero comiche se non si fossero rivelate tragiche (con gli Usa, già in rush di orticaria al solo accenno di legittimazione del Pci); col Pci, che, poco genialmente, si lasciò intrappolare in quella ipocrisia idolatrico-statalista; con altre cattedre di frontale orizzonte (poco entusiaste di un Pci annacquato in acquasantiera democriastina); il capovolgimento di identità del maggior partito sub iudice a stelle e strisce: “Il partito della mediazione per antonomasia – disse Guerzoni – divenne all’improvviso tutt’uno col ‘partito della fermezza’, che per la Dc è quasi un ossimoro”. Mirabile, poi, come abbaglio ideologico dai riflessi disumani, la sparata di Berlinguer, che, in visita alla famiglia Moro, dice papale papale alla moglie: “Sappia che non faremo nulla”. Un’esplicitezza crudele, che riverbera fino alle parole mutile di Paolo VI, quando chiede agli Uomini delle Brigate rosse di liberare Moro, “semplicemente, senza condizioni”. Pressioni del governo tanto persuasive da piegare sua santità alla decisiva pretesa funebre. Senza condizioni. Le pressioni vennero alla luce in occasione del funerale senza salma, celebrato dal papa per bocca del cardinale Poletti. Altra debolezza, dunque: quella del pontefice che si fa condizionare dal governo, anteponendo un’astrazione pomposa a quella vita incarnata che la Santa Sede “difende sempre” (in realtà, solo quando si tratta di aborto, eutanasia, accanimento terapeutico… ). E si pretendeva che la vedova partecipasse ai funerali celebrati dai complici degli assassini. Fermezza contro fermezza, quella della signora Moro nel diniego odora di sentimenti offesi, di umanità ferita, e dignità dolente. Sì, Moro dalla prigione, la famiglia da casa, capirono che anche il papa aveva fatto “pochino”. Peccato.
Ma ecco il retroscena che salda le diverse spinte. In vaticano s’erano formati due “partiti” contrapposti: uno dava fiducia a Moro e ne apprezzava le intenzioni aperturiste verso il Pci; l’altro giudicava il flirt col “partito ateo” (di fatto, se non nelle dichiarazioni ufficiali) un insopportabile azzardo. Il primo valutava positivamente la maggiore attenzione alle fasce deboli della società italiana, ignorate o solo sfiorate dal boom economico appena trascorso; il secondo le affidava alla divina provvidenza. E non prevedeva fiumi di lacrime per la minacciata morte di Moro. Quest’ultimo gruppo finì col prevalere, spalleggiato dai boss democristiani e dall’ambasciata americana. E così sua santità non potè fare che “pochino” per l’ “uomo buono”. Sulla linea del non possumus spiccò (e non poteva essere altrimenti) la gobba più carica di segreti pudendi della storia italiana. Non poco né pochino, al contrario, venne giudicato, pertanto, il patto fra Dc e Pci per l’appoggio “esterno” al quarto governo Andreotti, già siglato prima della tragedia. In quell’aggettivo sta il bandolo, segreto ma trasparente, della pessima matassa. Quale brutta strega in sembiante di seducente fatina aveva ispirato lo statista-ostia per spianare la strada al Pci verso il proibito “interno” della acciaccata maggioranza Usa-Vaticano?
Le mie parole non intendono “santificare” un Uomo cui non avevo, nel mio piccolo, risparmiato critiche di vario genere quando, vivo e instancabile, coerente e flessibile, egli urtava la mia sensibilità sociale e politica. Sensibilità, e quasi malattia, contratta anni fa (tanti, ormai) che oggi spinge questo sfogo: la brutta malattia della verità. In fattispecie, a quel virus instancabile si aggiunge la pietà umana: una convergenza, ben poco “parallela”, che rafforza l’esito testimoniale. Se soffro della sua inutilità? Certo. Anche della sua pericolosità personale. Ma fa parte del gioco (o giogo che sia). E’ il pedaggio per transitare, di tanto in tanto, sul sentiero stretto dell’autostima. Non posso negare, però, che l’ultimo Moro, della prudente e progressiva apertura ai comunisti, mi aveva convinto della sincerità di quella svolta già prima dell’agguato. Pur non ignorando le condizioni di oggettiva difficoltà, e quindi necessità, in cui annaspava la Dc dopo le elezioni del ’75-’76 che ne avevano segnato un pesante arretramento a vantaggio dei comunisti.
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Mentre lo scrittore che aveva dichiarato coram populo “né con lo Stato né con le Brigate rosse” (ma la frase della vulgata è monca: lui aveva detto, o fatto intendere, “con questo Stato”) scriveva il suo ben documentato pamphlet senza riguardi per gli “amici di Moro”, Francesco Cossiga preparava la sua ascesa ai vertici del Leviatano appena sfamato col ghiotto boccone: rassegnando tempestive dimissioni da ministro dell’Interno. “L’affaire Moro” non turbò più di tanto i sonni, né incupì in incubi i sogni ai devoti mangia-ostie in missione di alta politica. Non raccolse, la requisitoria di Sciascia, neppure il plauso del Partito Comunista berlingueriano, ché anzi (a parte singoli casi in libera randomness) volle leggere, in quella severa inchiesta, l’ostinazione di una coscienza morale troppo incline alle battaglie solitarie: non si era dimenticata né perdonata, nelle oscure Botteghe, la sorniona insinuazione del “Contesto”: il Partito “rinculante” verso una complicità di fatto con la tabe irredimibile del corrotto potere democristiano. La requisitoria di Sciascia, questo cavaliere offeso della verità nuda, percorre le lettere dalla “prigione del popolo” con un sagace quanto appassionato scrupolo ermeneutico, coprendo di evidenza corrosiva la “teoria dei due Moro”. Sopra questa comoda, gesuitica panzana lo scrittore di Racalmuto spruzza il suo disgusto, mostrando che il Moro della Prigione è uno e identico, lo stesso delle battaglie politiche, anche quando lancia le sue sacrosante accuse ai suoi felloni amici dal fiore bianco e dall’anima nera. Né Sciascia era stato meno severo verso l’uomo politico finito nel pozzo: ma ora prevaleva la miscela anfetaminica dell’umana pietà con la fobia per le grandi menzogne strumentali. Era, in quel tempo, l’autore del “Giorno della civetta”, deputato al Parlamento nazionale nel gruppo radicale. Quando fu istituita la Commissione d’inchiesta sulla strage di via Fani e seguito, fu proposto come rappresentante del suo gruppo: o che quei valentuomini della Balena Bianca non si opposero a sì vile nomina? No, tu no! A motivazione di questo non prevalebis assai democristiano quei catoni improbabili andavano dicendo che il pamphlet di don Leonardo aveva offeso la memoria di Moro (e tutti i capoccia dc) con la sua “tesi precostituita”. Fieramente pacata la risposta di Sciascia a quelle accuse tanto irritate quanto fantasiose: “Il mio giudizio su Moro politicante e non statista è quanto di più ovvio si possa dare in sede storica: al di là delle retoriche di parte e commemorative. E in quanto alla tesi precostituita, sfido gli anonimi portavoce della DC a riassumerla chiaramente e brevemente agli italiani. A dimostrazione che il mio punto di vista rappresenti, come si vuol far credere, una fuorviazione, un allontanamento dalla verità. Il mio libro su l’affaire Moro è stato un tentativo di avvicinamento alla verità, una valutazione attenta e pietosa di fatti e documenti. Ed è appunto questo che non si vuole, che si teme, di cui si ha paura”.
Sciascia sarà imposto dal suo gruppo, e farà parte di quella Commissione, ma con l’unico esito di dover constatare le prevedibili complicità trasversali dei diversi poteri istituzionali nel tacere deformare coprire errori di coordinazione, rivalità, retropensieri inconfessabili nella gestione dell’affaire: fin dalla “svogliata” ricerca dei covi brigatisti, pur rivelati perfino nella farsa delle sedute spiritiche. Insomma una tragica replica in rebus (dettagli a parte) delle previsioni fantasticate nel tanto contestato Contesto. E obliteriamo un complementare esito doloroso per lo scrittore. Uno scontro tra menzogna politica e verità di fatto nel terzetto Sciascia-Berlinguer-Guttuso. Lo si legge nella biografia di Sciascia scritta da un discepolo devoto (fino all’autoidentificazione risentita): “Il maestro di Regalpetra”.
Ancora mi chiedo come sia potuto accadere che il Pci, con tante teste lucide nei suoi gruppi dirigenti, cadesse in quella trappola gesuiticamente bianca (o, se si preferisce, “nera”, ma sotto lenzuolo bianco). L’enfatizzata paura di offrire il fianco ai calunniatori che tentavano di piantare nella tradizione rivoluzionaria del Partito le radici del terrorismo rosso: è questa la strada scivolosa della fermezza comunista? Non soltanto, forse: come il sentiero del malaccorto “compromesso storico” si apriva nell’infida foresta delle “paure sudamericane” (l’affaire Cile-Usa-Cia, con l’eroico sacrificio di Salvador Allende, aveva spento le ultime fiammelle di speranza in una rivoluzione sociale pacifica), così la stolida politica della fermezza sentiva ancora di quel cattivo odore. Realismo politico, lo chiamano: un piatto che il moralista don Leonardo non poteva gustare. Il suo palato ne aveva sentito il forte agrume nella menzogna “realistica” del binomio Berlinguer-Guttuso, questo flash inatteso di Realpolitik, finito davanti al giudice, per svampare in una replica di “giustizia ingiusta”. Forse, a questo punto, conviene darne un mini-sunto: il segretario comunista aveva accennato, presenti Sciascia e Guttuso, a sospetti di complicità balcaniche (forse ceche) con le Br. Sciascia ne riferì nelle sue “deposizioni”; Berlinguer lo denunziò per calunnia; lo scrittore chiamò testimone Guttuso, ma anche il caro amico e antico sodale negò. Il giudice investito dell’affaire sull’Affaire recitò un ruolo di cinico Pilato: nessuna condanna, perché “la calunnia di Sciascia” non aveva rilievo penale. “La calunnia di Sciascia”!
Così lo scrittore aveva ricevuto abbastanza materiale per poter misurare, e in parte anticipare previsionalmente, ma soprattutto contestare, la svolta del Pci che scivolava verso la corrotta, mammonica e cratofila Dc, largamente collusa, tra l’altro, con la malavita organizzata siculo-calabro-campana. Nel “Contesto” (1971) il partito al governo (metafora della Dc), in difficoltà elettorali, si convince che avrebbe governato meglio, cioè con più garantita impunità, alleandosi col Partito Rivoluzionario Internazionale (maschera trasparente del Pci di Berlinguer). Più testualmente, nel romanzo è il “realista” ministro del partito inamovibile che sintetizza “in una battuta” lapidaria la situazione “della politica, per così dire, istituzionalizzata”: “il mio partito, che malgoverna da trent’anni, ha avuto ora la rivelazione che si malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale”. Ma poi la battuta viene sviluppata e pimentata al meglio: “specialmente se su quella poltrona – indicò la sua dietro la scrivania – venisse ad accomodarsi il signor Amar. Ora la visione del signor Amar che da quella poltrona fa sparare sugli operai in sciopero, sui contadini che chiedono acqua, sugli studenti che chiedono di non studiare, come il mio predecessore buonanima, e anzi meglio; questa visione, debbo confessarlo, seduce anche me. Ma oggi come oggi è un sogno. Il signor Amar non è un imbecille: sa benissimo che io su quella poltrona ci sto meglio di lui; e ci sto meglio nel senso che tutti stanno meglio mentre ci sto io, il signor Amar compreso.” Ce n’era abbastanza per incollare addosso all’Incauto la classica accusa di qualunquismo. La quale riverbera perfino in una intrusiva intervista dell’onesto Corrado Stajano. Né lo scrittore s’era fermato a quel primo quasi esplicito j’accuse: la sua contestazione incupisce, nel ’74, in “Toto modo”, letto e “tradotto” come una sorta di obliqua profezia del caso Moro; e prosegue, solitaria, con un po’ tutta la successiva produzione sino all’“Affaire” e oltre, con “Candido”, interviste, interventi sparsi su casi di giustizia tradita, polemiche spesso aspre contro il “comune sentire”; e via scrivendo. Era finito col diventare bersaglio di attacchi calunniosi (questi, sì) quanto ideologicamente frettolosi. Forse il più amaro gli venne da Scalfari, che poco accortamente degrada la difesa del Moro prigioniero a fatto personale. Eccone un brano tanto perfido quanto stridulo: “Il rapimento, la morte, le lettere di Moro non sono che un pretesto del quale lo scrittore si serve per parlare di sé, per difendere sé, per attaccare e vendicarsi di quanti a suo giudizio l’hanno offeso e non l’hanno sufficientemente apprezzato […] il suo pamphlet è al tempo stesso la difesa di Moro e la vendetta di Sciascia.” Quanto prezioso tempo del suo impegno di scrittore morale costò, al Racalmutese tosto, doversi difendere “colpo su colpo” dall’infittirsi di questi attacchi negli ultimi anni della sua declinante esistenza e vieppiù clinicamente sofferente resistenza! E purtroppo, non sempre senza qualche sua imprudente scivolata nella distrazione rimuovente: vedi il caso del famigerato exploit capovolto del 10 gennaio (un sabato) 1987: il provocatorio, sbagliato e autolesionistico articolo dall’altrettanto sbadato (o sbilanciato) direttore del Corsera intitolato “I professionisti dell’antimafia”. Una “sbadataggine” che profanava, corrivamente, anche se involontariamente, la lunga fila di galantuomini i quali alla versione attivo-investigativa e punitiva di quella professione avevano sacrificata la vita. Il tutto, per “punire” chi avrebbe fatto carriera con l’antimafia caciarona e di espansivo folklore! Quali carriere, poi! Ma ecco: quella scivolata può benissimo stare sul conto delle tante amarezze riversategli dentro dagli attacchi ingenerosi al suo anticonformismo militante: da quelle amarezze poteva bene scaturire una reattività permalosa (e, a volte, frettolosa). E n’è scaturita. Complice, magari, la dolorosa decadenza fisica, che raramente può essere una remora frenante della accumulata suscettibilità.
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Ho resistito, finora, alla tentazione di trascrivere su queste pagine privatissime qualche passo dell’ultima lettera di Moro, naturalmente diretta ai familiari adorati, dalla moglie ai figli, uno sgorgo di sincerità al cospetto della morte incalzante, nel quale la parte patetica si alterna a un ferito quanto fermo j’accuse contro i suoi amici (di partito, soprattutto), e altri soggetti dolorosamente deludenti:
“ Mia dolcissima Norina, dopo un momento di esilissimo ottimismo dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell’incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione […]Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC con il suo assurdo ed incredibile comportamento […] E’ poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall’idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati dalle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare. E questo è tutto per il passato. Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande, carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in un’unica casa, anche Emma, se è possibile, e fate ricorso ai buoni e cari amici. Che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore […] Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissmo. […] Tutto è inutile quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo. Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibile l’ordine di esecuzione. Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue. Prega per me, ricordami soavemente, carezza i piccoli dolcissimi, tutti. Che Iddio vi aiuti tutti….”
O che non c’è stato perfino chi ha scosso questa straziata commozione come prova lampante di un patetismo estraneo al “vero Moro”, e dunque da non lasciarsene “impressionare”? Ma è bene tacere certi nomi.
Niente patetismi ma fierezza inquisitiva e toni biblici in altre lettere. Come in quella diretta a Zaccagnini, del 24 aprile: “Non creda la DC di avere chiuso il suo problema liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa per impedire che della DC si faccia quello che se ne fa oggi […] Per questa ragione, per un’evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene…”
Nella telefonata del brigatista Valerio Moruci a Franco Tritto, fedelissimo assistente di Moro, affiora un sospiro di pietà, che Sciascia coglie e sottolinea: quella pietà che sembrava bandita dalla torva acredine di una tragedia ingessata nell’ideologia, e ora riemerge: nelle parole, nelle ripetizioni, nelle pause di quel parlare concitato, di necessità frettoloso e incalzante, eppure resistente alla salvifica necessaria fretta. Praticamente nella “pazienza” di quel terrorista che ripete più e più volte il messaggio da recare alla famiglia Moro: prima all’assistente Tritto, poi al padre di lui, correndo il rischio di essere catturato dalla polizia intercettante. Scrive Sciascia: “La voce è fredda, ma le parole, le pause, le esitazioni tradiscono la pietà. E il rispetto. Per quattro volte chiama Moro ‘l’onorevole’, e per due volte ‘il presidente’…”. Piccole verità senza bollo di Stato. Come quelle gridate dalla folla agli improbabili pretoriani di quello sputtanatissimo Stato: “l’avete ucciso voi”, “lo hanno abbandonato quando non serviva più”, e simili scaglie di evidenza greggia. Tra le quali, forse, anche la non frettolosa cattura di quei brigatisti così funzionali ai segreti voti o disegni dello Stato segreto.
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Il dispiacere più sofferto a chi scrive questi appunti sul “caso Moro” venne dal coinvolgimento, in quella tragica recita delle improbabili purezze, dell’amato Sandro Pertini, in quel tempo amaro Presidente della Camera. Come dubitare di quella coerenza fierezza buona fede? Ma altrettanto difficile era sottrarre il Caso alla saggia moralità popolare del proverbio sempre citato e spesso tradito: il troppo stroppia. L’eccesso: ecco l’idolo ruffiano del Moloch affamato di sacrifici umani, che si finisce con l’adorare quando ci si intestardisce sulle formule astratte. Un eccesso di fierezza ecco il troppo che armò la mano omicida contro Moro, inopinata avatar di uno Stato d’un tratto tumido di intransigente rigore. Fierezza di sorgiva scaturigine nel vecchio guerriero che da giovane aveva proibito alla madre di chiedere al Nemico fascista la grazia per lui, prigioniero di uno Stato allora non riconosciuto giusto perché sfigurato. Dov’era, ora, quello Stato che potesse vantare tanta purezza (o coerenza di democratica indipendenza) da doverla custodire negando a degli avversari militarmente “convincenti” lo status di controparte riconosciuta? Stava soltanto nella retorica da comizio, nella teoresi accademica di ponzatori professionali, nell’ipocrisia di chi se lo inventava a copertura di un malgoverno largamente corrotto e corruttore, che la stagione di Mani pulite avrebbe smascherato clamorosamente nella folta spasmodica liberatrice demolizione giudiziaria (ahimé, solo temporanea) di Tangentopoli e del correlato sistema partitico della cosiddetta Prima Repubblica. E, chissà, pure nella malafede di chi vi cercava una maschera decente al proprio servilismo di provinciale filo-americano. O non ci sarà stato anche qualche aspirante al sommo Colle che dal grande Idolo attendeva lo sgombero di quella strada in salita? Come che sia andata (e quali che siano le componenti del “maledetto imbroglio”), resta il fatto che in nome di un tale Moloch-Baal fenicio-cartaginese (ah, il delizioso “Salambò” di Flaubert! quante spigolose e ghiotte verità ci regala a migliore intelligenza delle humaae historiae a far corona intorno alla deliziosa, e tragica, sacerdotessa del titolo!) si sacrificarono vite umane. Per la prima volta mi trovai in convinto contrasto col futuro e prossimo “Presidente degli italiani onesti”. Convinto e, ripeto, doloroso contrasto. Non mi sarebbero mancate future occasioni di tornare ad ammirarlo: chi può dimenticare il Pertini accigliato che, la fedele pipa in mano, da milioni di teleschermi infiammati, sferzava una classe politica in gran parte ladra e complice di ladri, degna di stare in galera: Pertini “commentava” alla sua maniera, schietta e diretta, lo scialo predatorio consumato intorno al terremoto dell’Irpinia (novembre 1980), alla faccia dei suoi quasi tremila morti e della inclusa porzione di malamorte da sepolti vivi. Non che i volti petrigni di quegli avvoltoi e sciacalli e iene si colorassero di vergogna e fossero stati dalle fiere rampogne convinti a un sia pur futuro pentimento. Ma agli onesti vocazionali, e a quelli da incapacità manovriera, quel discorso (tutto a braccio, com’era il suo stile) piacque. E fu elisir di rivitalizzante frescura contro le torbide acque politiche inquinate da liquami morali molteplici e i loro deprimenti gorghi ripetitivi1. Meno che mai si può cancellare il ricordo del Pertini corporalmente presente, qualche anno dopo, alla lunga agonia del piccolo Alfredino nella morsa del pozzo assassino e dell’impotenza umana.
Posso confidarti, lettore senza volto del prossimo terzo millennio, che, dopo molti anni da quella assurda tragedia, ancora mi capita di sentirmi riempire gli occhi di lacrime al risvegliarsi dell’invocazione di quel bambino tradito che dal fondo di quel budello d’inferno privo di dèi pietosi implorava: “Mamma, mamma, basta, basta!” Sì, vi resiste ancora un paragrafo della mia teodicea capovolta. Non era stato ancora e sempre l’ingordo Baal-Moloch a inghiottire la solita ostia di tenera carne?
Pertini era fatto così: uomo di coerenze severe fino al masochismo virile e alla crudeltà, restava esposto a rigidezze spiazzanti anche verso amici e sodali, a suo giudizio non abbastanza saldi nella fedeltà ai valori fondanti. E fu ancora Sciascia a scontarne un episodio allorché, dopo cordialità incoraggianti dal Colle (l’esuberanza pertinica che propone il latino tu ai personaggi intenti al Lei, per il Signor Presidente!) dovette incassarne un silenzio di pietra al suo appello in difesa di un’altra illustre vittima della malagiustizia: Enzo Tortora. Male informato, Pertini seguì i disturbati consigli dei suggeritori in mala fede. Ma anche qui, zitti e avanti. Magari ricordando, in pectore, il Galileo di Brecht: “Non tutto ciò che fa un grand’uomo è grande”.
Un dettaglio dello scandalo Vermicino mi si sveglia ─ forse a beffardo memento che le cose del mondo non sono quasi mai semplici; e che le buone azioni umane non sempre hanno eredità di vita lunga. L’eroe di quella tragedia, Rosario Tarsia, l’uomo che s’era calato nel pozzo, testa in giù e salda imbracatura, fino a raggiungere la mano del piccolo Alfredino, a quasi 40 metri di profondità (e con la mano un momento di speranza presto stracciata dalla cieca inesorabilità del Fato gravitazionale), quell’eroe diventò un criminale: da generoso soccorritore col suo quarto d’ora di meritata celebrità, si trasformò in truce assassino della moglie, brutalmente accoltellata, e perciò condannato a 16 anni di carcere che sta ancora scontando.2 Come se un fato beffardo avesse escluso da quella biografia la possibilità di realizzare il bene, alla presa scivolosa del quarantenne soccorritore la manina dell’innocente era sfuggita come attratta da quell’Ananke spietato e Alfredino era precipitato nelle fauci del Mostro senza volto. Anzi, col volto occasionale della cieca gravità, la stessa che ci consente di abitare godere e saccheggiare questo pianeta dai mille volti crepitanti di insidie anche nelle sue bellezze più seduttive. “Piangeva, si lamentava, chiamava la mamma”, ripetè a lungo, anche dopo anni, il salvatore mancato.

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Vorrei scaricare in questa abbondanza già ridondante un’altra notizia che ho raccattato mentre rileggevo questi appunti: l’implicazione dell’Abbé Pierre nell’affaire Moro. Personaggio della magra categoria dei simpatici, l’Abbé è un miscuglio di spregiudicatezza e generosità, e soprattutto di reattività solitaria alle ipocrisie del mondo: specialmente dei Mida arroganti e insensibili, dei politici tarati dal Proteo tornacontista, dei preti tonanti dai pulpiti ma refrattari alla pratica del soccorso vivo e militante (per non parlare della spinosa castità). Uno spirito ribelle, di testimonianza operosa del migliore vangelo: che non teme di cantarle ai malavitosi e ai riciclatori del denaro mafioso. Un intreccio aspro e dolce di francescanesimo attivo, di spregiudicatezza giudicante, di convinzione profonda al servizio dei poveri dei deboli dei reietti. Premio Balzan “per essersi interamente dedicato al soccorso dei sofferenti nello spirito e nel corpo”, fu più volte candidato al Nobel. Ma troppo divergente rispetto alla sensibilità di quel mondo per vincerlo, quel premio da sempre moderatamente politicizzato. Il fondatore della comunità Emmaus disse di sé in un’intervista: “Sono stato marinaio, sono stato missionario e un po’ brigante, come quelli che erano sospettati durante la Resistenza e come qualcuno di quelli cui diamo asilo oggi”. Chi sono questi neo-resistenti sospettati e coperti dal santo prete-brigante? Giusto quei signori che hanno realizzato il capolavoro di eccessi capovoltisi nella loro rovina: i biechi, ma “spiegabili”, eroi di via Fani. Il marito di una nipote dell’Abbé fu tra i sospettati dell’agguato; la nipote era segretaria della famosa scuola di lingue Hyperion, a sua volta segnalata come possibile covo di intellettuali con penchant estremista e simpatie rosso-terrore: l’Abbé, com’era suo costume, si spese tutto a proteggerli: sospetti? infondati, tagliò corto. Addirittura, il caso era, a suo ardito giudizio, del tutto comparabile al famigerato Affaire Dreyfus. Resistente, fu arrestato dalla Gestapo. Si vantò di non avere ucciso nessuno, da combattente nel maquis. Sbagliò qualche amicizia: forse anche quella con l’irrequieto, contraddittorio, rinnegato filosofo Garaudy (da comunista finito codino antisemita). L’accusa di negazionismo (negare la realtà della Shoah) riverberò dal filosofo all’Abate l’immancabile implicazione di antisemitismo. Uno slittamento assasi facile: ancora oggi ti puoi permettere, forse, di criticare la politica palestinese di Israele e certi tratti barbari della cultura biblica senza suscitare un coro di crucifige sulla tua pelle?
Fu uomo “olistico” l’abate e non ignorò la carne e le sue “debolezze”: “Mi è capitato di cedere al desiderio sessuale”. E all’amore che lo giustifica – aggiungiamo. Ma non se ne fece travolgere – assicura –. Questo “mito vivente” incantò l’“Uomo dei segni”, Roland Barthes. Al punto da fargli dedicare un saggio, “L’iconografia dell’Abbé Pierre”, dove lo definii “una foresta di segni”, minutamente esplorando la “foresta” per sottoporla a un fantasioso strutturalismo. La Chiesa inquieta fu costretta alla pazienza dallo spessore socio-mediale del rompiscatole. Che all’Infallibile par excellence non lesinava rogne e malumori: difende perfino il matrimonio dei religiosi e le unioni gay. Bettino Craxi, alla ricerca del “Grande vecchio”, puntò lo sguardo di lince su Hyperion: forse si nascondeva in quella “cellula” sovversiva mascherata di intellighentzia al quadrato? Se lo trovò davanti come testimone il giudice Mastelloni, a ricevere dichiarazioni spontanee in difesa degli italiani operanti nella cerchia di Hyperion: erano stati colpiti da mandati di cattura del giudice per reati legati al terrorismo rosso. Fu un osso duro per il giovane Mastelloni. Che lo accosta a Caron dimonio, se gli attribuisce “Occhi di bragia”. L’abate indigesto fece otto giorni di “scenografico” sciopero-digiuno in difesa degli accusati: disse che erano rifugiati all’Hyperion in quanto perseguitati da una misteriosa centrale nazi-fascista, o giù di lì. Il giudice riferì anche di una visita dell’abate a Zaccagnini durante i 55 giorni del sequestro: di quel colloquio non trapelò nulla. Ma della sua inutilità per la salvezza di Moro dovette soffrire non poco, l’Abbè. Strappava ammirazione anche a coloro che disturbava, è il caso di Mastelloni: gli attribuisce una “visione globale” dei problemi e dei rapporti umani che gli consente atteggiamenti e scelte irritanti per politici in toga e giudici in abiti civili. Per non parlare dei militari. Gli dobbiamo il decreto di Mitterrand a protezione dei latitanti accolti in Francia. Simone de Beauvoir non gli negò collaborazione convinta (e forse non gli avrebbe negato più impegnative simpatie operative, la spregiudicata autrice dei “Mandarini” e del “Secondo sesso”). L’esprit jacobiniste è una latenza costante nella Francia democratica di ogni tempo: lo si vede da tanti, e anche da questi, fatti.
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Non mancò qualche plausibile argomento ai difensori della fermezza: che cosa avrebbero pensato i familiari dei cinque infelici massacrati, gli uomini della scorta, bersagli fulminati e sinistro vanto della “geometrica potenza di fuoco” terroristica? Certo, avrebbero pensato: Moro è un privilegiato, Moro andava salvato, anche cedendo agli assassini. Ma plausibile non vuol dire incontestabile: che cosa avrebbe fruttato, di giusto e di moralmente accettabile, la morte di Moro? Che dono ne ha ricevuto chi se l’augurava per un malinteso senso di equità e di giustizia-vendetta? Mica i terroristi avevano concesso tempo di trattative agli uomini della sventurata scorta. Ripensandoci: l’argomento, più che plausbile, è specioso. Ma è quello sul quale ha battuto e ribattuto in questi anni la gobba più intasata dell’Italia post-bellica, il sette volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Anche se per nulla convicendo la famiglia Moro (il figlio Giovanni soprattutto. A quando un libro di questo figlio? E un film sul Divo Giulio?)
Povero Moro. Mi salta sullo schermo mnestico un altro scampolo esemplare della sua vita pubblica: la volta che alla Camera, in pieno fermento multipolare per lo scandalo Lockheed, si drizzò, improbabile Farinata a segno invertito, in difesa della sua poco difendibile Dc e dei due notabili indiziati, il democristiano Luigi Gui e il socialdemocratico Mario Tanassi. Il 1977 era a un terzo del terzo mese e cominciava a riempirsi di traumatici eventi. “Non ci processerete sulle piazze” gridò Moro. Ma, quasi a “presentimento” del peggio in arrivo appena un anno dopo, il Parlamento dell’epoca, bypassando l’oratoria moresca, mandò i due notabili davanti alla Corte costituzionale “per corruzione aggravta ai danni dello Stato”. Gui ne uscì indenne (o appena sfiorato), Tanassi chiuse la carriera con sul petto cucita la “lettera scarlatta” della sentenza di colpevolezza: un adulterio della sua “coscienza socialista” sposata col Partito dei poveri, tradito col suo nemico Mammona. Povero Moro, sì: altro che processo sulle piazze, appena l’anno dopo. E per il partito, anzi i partiti alleati complici nel malaffare, bisognerà aspettare 14 anni di più: saranno processati nei tribunali e sulle piazze. Ma non impareranno nulla, quegli uomini di pietra.
Che, sull’affaire Moro verrà il tempo dei pentimenti a catena, è previsione facile, conoscendo i nostri polli: vedremo leaders e leaderini recitare il mea culpa da un capo all’altro della “banda larga” di una politica fantasiosa nell’auto-contraddizione e nei giri di valzer. Diranno: si poteva salvare Moro, abbiamo sbagliato. E i media, l’amplificatore ciarliero, strombetteranno da mille bocche catodiche, non tutte pulite, e per alcuni giorni o settimane (magari intervallati dai ritmi personali del contagio) si sentirà la musica dissonante del “caso di coscienza” collettivo. Chissà se il Sardo mordace reciterà anche lui il pentimento. E come reagirà a un eventuale (che direi inevitabile) libro-memoriale del figlio di Aldo, Giovanni Moro. Il maggior beneficiario del sacrifico di Moro, insomma Francesco Cossiga, non è tipo da ginocchi in penitenza: se lo accuseranno, reagirà, spietato. Dopo il ventennale discretamente mosso, sarà il trentennale, credo, l’occasione per una fiera commemorativa più folta varia densa di pentimenti e smemoratezze. E magari di nuove rivelazioni e supposizioni: chi, dei protagonisti mediatici, resisterà alla tentazione di correggere qualche ipotesi, cassarne altre, proporre nuove e sconvolgenti letture dell’affaire ? La fiera cominciò subito dopo il sacrificio, e segnò un “punto di svolta” già nel 1981, col film di Margarethe von Trotta, “Gli anni di piombo”, dove si accenna alle richieste dei brigatisti: liberazione di attivisti comunisti in cambio della vita di Moro. Il film ebbe successo, di critica e di pubblico, grazie a un felice intreccio fra vicende personali e familiari delle due sorelle protagoniste in polemica, una giornalista, l’altra terrorista in carcere, con eventi pubblici, socio-economici e politici. Ma grazie, non meno, alla buona, e a momenti ottima, prestazione degli interpreti: Barbara Sukowa, Jutta Lampe, Doris Schade, Rudiger Vogler. Lo spunto reale fu la morte in carcere della militante della Rote Armeé Fraktion Gudrun Esslin, interpretata, fondatamente, come spregiudicato omicidio politico. Nel film tale accusa viene dalle ricerche della sorella giornalista, che però cozza con l’indifferenza dell’opinione pubblica.
Film e libri ce ne sono già tanti e tutti, in un modo o nell’altro, ipotizzano verità nascoste che non sarà facile strappare alle occhiute tenebre di tenace custodia. No, non tutto si sa del caso Moro e forse questo tutto non sarà mai cumulato, per quanti sforzi si facciano nel tentare di raccogliere verità parziali e frammenti da cucire insieme per attingere quella totalità improbabile. Nemmeno il film di Giuseppe Ferrara, “Il caso Moro”, 1986, si spinge al di là di più o meno fondate ipotesi sollecitate da verosimiglianze contestuali sulle molteplici complicità estere e interne. Anche il libro di Sergio Zavoli, “La notte della Repubblica”, deve arrestarsi alle ricostruzioni verosimili, ai sospetti, alle dichiarazioni dei Br intervistati. Come Laura Braghetti e gli altri, che forniscono versioni differenti perfino sul come Moro venne ucciso. Sparò Mario Moretti, o Prospero Gallinari, uno solo dei due o entrambi? Gennaro Maccari o nessuno di loro? E, nel caso del nessuno, chi sparò a Moro? Quale esperta mano premette il grilletto della skorpion, la mitraglietta che in 8 /10 di secondo scarica l’intero caricatore, 750 colpi?
Quanto alle interferenze americane, è vero che esponenti di quella irritabile potenza “alleata” hanno negato sempre qualsiasi pressione, ma sta di fatto che Moro tornò “turbato” da un incontro con Kissinger (così la famiglia testimonia). Ci sono e ci saranno nel non lontano trentennale i politici convinti che si tratta di un delitto esclusivamente italiano, ma altri insisteranno sulla congiura a molte voci non tutte italiane. Né altrettanto esplicite. Certo il clima era quello. Le confusioni, gli abbagli, furono solo negligenza in buona fede o malizia di ponderate e mirate scelte? Vedi caso di via Gradoli, rivelata da una seduta spiritica (sic) come covo delle Br, ma, stranamente, ignorata e scambiata con un omonimo paesino improbabile ben lontano dalla capitale. Insomma, chi avesse voluto, avrebbe trovato Moro facilmente. Purtroppo, per lui, le volontà che contavano avevano ben altre priorità e mire da onorare.3

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3 Nota. Le titubanti previsioni di Paolo Assaggi si sono rivelate logicamente profetiche, e ne diamo un cenno integrativo in questa nota. Giovanni Moro ha veramente scritto il suo libro di testimonianza, e non vi risparmia i principali responsabili diretti o laterali di quella pluralissima impostura omicida. Fra i primi spicca proprio Cossiga e, come immaginato da Paolo, il Gran Sardo risponde per le previste rime all’attacco dell’autore, coprendolo di villanie impietose senza una stilla di tollerante comprensione per la sofferenza di quel figlio precocemente orfanizzato. Un altro libro, “Sia eseguita la sentenza”, rievoca lo sviluppo del dramma e le sue commessure. Il più significativo e tranchant ci pare il libro di Annachiara Valle, “Parole, opere e omissioni – La Chiesa nell’Italia degli anni di piombo” (Rizzoli) che prende di petto i retroscena vaticani confermando le peggiori ipotesi di coinvolgimento di quel mondo della perenne ambiguità. Tre cardinali avevano pensato di offrirsi ostaggi alle Br in cambio della vita di Moro. Occorreva l’autorizzazione delle autorità superiori, allora incarnate dal Sostituto di Stato della Santa Sede, monsignor Caprio. A lui si rivolge il vescovo di Ivrea, Luigi Bettazzi, illustrando le intenzioni del terzetto (gli altri due sono il vescovo di Livorno, Alberto Ablondi e Clemente Riva, ausiliario di Roma): “Ci muoveremo noi, in prima persona, ma vorremmo che il Vaticano ci desse via libera”. E questa è la serafica risposta del Caprio: “Ha già fatto troppo [sic!] il Papa, non occorre esporsi di più. Non c’è nulla da fare. E’ meglio che muoia un uomo solo piuttosto che tutta la nazione perisca”. Ferito nella sua coscienza umanitaria e cristiana, Bettazzi tenta un estremo gesto: informa che sono in corso contatti con le Br, che i loro capi attendono un segnale; e conclude: “Farò come non fossi venuto”. Ma il coriaceo sostituto replica, secco: “Poteva non venire…le proibiamo di offrirsi come ostaggio”. Inevitabile l’intepretazione corretta (cioè politica) di quella chiusura assassina da parte del Bettazzi: “Una lezione che si voleva dare a chi voleva inserire le sinistre nei gangli del potere”. In Vaticano, insomma, c’erano (e questo si sapeva da tempo) due posizioni, drasticamente contrapposte, e il partito contrario alle trattative “impose” a Paolo VI quella frasetta che sigillò mortalmente il destino di Moro: “senza condizioni”. Un insulto in faccia alle Br, una spinta verso quella soluzione tragica che gli “uomini delle Brigate Rosse” avrebbero evitato volentieri. Si legge nel libro: “Il partito ostile alla trattativa era in larga parte influenzato dal governo italiano e soprattutto da Andreotti che aveva un filo direto con il segretario di Stato, Agostino Casaroli. In più c’erano gli ambienti vaticani che non volevano l’apertura al Pci operata da Moro.” Controprove? Facili da opporre al cinico non possumus del sacro Covo: nel 1974 le trattative vaticane (tramite un autorevole cattolico come Corrado Corghi: “Mi mossi mettendo sempre al corrente il Vaticano di quanto facevo”) per salvare il giudice Mario Sossi non imposero la “clausola” “senza condizioni” e “Mario Sossi tornò a casa”. Disparità di trattamento poco evangelicamente motivate. Anche per i brigatisti in carcere la Chiesa si adoperò al meglio per evitare soluzioni tragiche (del genere capitato alla colonna torinese incappata nello sbrigativo generale Dalla Chiesa) favorendo resa e consegna delle armi. “Facendo leva su quei giovani (alcuni partiti dalle parrocche affascinati dagli spari e finiti nelle patrie galere. Da cui sono usciti anche grazie al sostegno di preti, suore e volontari. Portatori di opere, dopo le parole e le omissioni)” (Giovanni Bianconi, “Vaticano, il doppio binario della mediazione con le Br”, Corsera, 20. 04, 08) Et altro non ci appulcro, direbbe Assaggi.
[Nota del curatore, che ha usato anche l’onesto servizio di Enrico Mannucci, “Fumata nera per Moro”, “Magazine” del Corsera].

Nota ( ) bis. Rieccolo, il supermalato coriaceo, Cossiga senatore emerito, ex tutto: a pimentare di nuovo arzento la sua testimonianza serial inserendo l’innesto clamoroso nella festa mediatica dei suoi ottant’anni. Intervistato da Aldo Cazzullo per il Corsera dell’8 luglio 2008 non si fa pregare per spifferare altre ciniche ghiottonerie sull’affaire Moro. Domanda del giornalista. “A trent’anni dalla morte di Moro, il consulente che le inviò il Dipartimento di Stato, Steve Pieczenick, ha detto: ‘Con Cossiga e Andreotti decidemmo di lasciarlo morire’. Quell’uomo mente? Ricorda male? Ci fu un fraintendimento tra voi? O a un certo punto eravate rassegnati a non salvare Moro?” Risposta glamour del senatore a vita, parte prima: “Quando con il Pci di Berlinguer ho optato per la linea della fermezza, ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte.” Parte seconda, al doping tossico, marca Cossiga: “Altri si sono scoperti trattativisti in seguito; la famiglia Moro, poi, se l’è presa solo con me, mai con i comunisti”. Parte terza, una stilettata al cenere moresco, mascherata di neutrale passione etico-teorica: “Il punto è che, a differenza di molti cattolici sociali, convinti che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile, io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era così: la dignità dello Stato, come ha scritto, non valeva l’interesse del suo nipotino Luca”. E mosca sui buchi delle omissioni che la risposta cossighiana lascia aperti davanti alla precisa domanda sull’intervento diretto degli Stati Uniti.
L’intervista è lunga e tocca vari temi: un altro ancora ci tenta perché riverbera di nuovo sulla memoria di Moro. Bocciando la dietrologia e la tesi del complotto straniero contro il perduto Amico, Cossiga ritorna (ne aveva già parlato) sulla strage di Bologna 1980 per “prosciogliere” la Mambro e Fioravanti, soffiare ancora sulle ceneri dell’incauto Defunto, qualificare un incidente quella strage: “...di terrorismo me ne intendo. La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della ‘resistenza palestinese’”: i quali, autorizzati dal lodo Moro a fare in italia quel che volevano, purché non contro il nostro Paese, “si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo”. E, visto che siamo in ballo, perché non sferrare un bel calcio agli stinchi dei signori magistrati, brutta genia agli occhi del “massone” Cossiga (tra i suoi bersagli, il pur coriaceo procuratore Cordova, nemico giurato dei pasticci massonici)? Eccolo, il calcio: “Quanto agli innocenti condannati, in Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi. E nella rossa Bologna, la strage doveva essere fascista. In un primo tempo, gli imputati vennero assolti. Seguirono le manifestazioni politiche, e le sentenze politiche.”
Non meno coriaceo il venerando Andreotti, ex Belzebù, il quale, onorato ospite alla presentazione di un libro di Luigi Manconi, ripete le sue difese della famigerata fermezza, senza omettere la vecchia tiritera: “Eravamo in guerra. C’erano i morti di via Fani, le loro vedove che minacciavano di bruciarsi in piazza se avessimo trattato con le Br”. Commentino del cronista Giovanni Bianconi: “Questo è un dettaglio che Andreotti racconta da trent’anni, e da trent’anni smentito dalle due vedove degli uomini della scorta, nonché da un’intercettazione telefonica di quei giorni, quando la moglie del maresciallo Leonardi chiamò la signora Moro per negare la stessa notizia riportata da un quotidiano”. Il libro dell’ex senatore verde dell’Ulivo, nonché ex Lotta continua, Luigi Manconi, è l’ennesima rivisitazione degli anni di piombo, ma con una coda sul terzo millennio; titolo: “Terroristi italiani. Le Br e la guerra totale, 1970-2008”. Presente all’incontro anche l’ex Br Valerio Morucci: Andreotti e Morucci, due vecchie volpi in semi-feeling con quasi-inversione di ruoli. Andreotti: “E’ possibile che abbiamo sbagliato qualcosa, soprattutto nell’analisi globale.” Morucci: “Il discorso del presidente Andreotti mi pare molto indulgente verso le Brigate rosse. Forse troppo. Dubito che in quel momento lo Stato potesse reagire diversamente da come fece” (Corsera, 24. 11. 08, Giovanni Bianconi, “Andreotti, stretta di mano e dialogo con Morucci”. La pagina si apre con questa titolo in do di petto: “Volantino a La Spezia: torna la lotta armata”. Ma il testo ridimensiona quell’urlo seduttivo. Il che non toglie che al ministro della Giustizia Angelino Alfano arrivino buste con proiettili dentro siglate da stelle a cinque punte [nota del curatore degli Archivi di Paolo Assaggi]

giovedì 1 aprile 2010

SUSANNA, Frammento 62


Non erano mancate autorevoli voci a sconsigliare una guerra terrestre in Asia: l’idea, secondo il generale Ridgway, era “un piano scervellato”. Più colorito il generale Mac Arthur: “Chiunque impegni le forze terrestri degli Stati Uniti sul continente asiatico, dovrebbe far controllare le proprie condizioni mentali”. Sarebbe comico, se non fosse tragicamente serio sul terreno, l’incredibile giochetto dell’ottimismo imbecille che millantava progressi spostati di anno in anno. 1962, maggio: Mc Namara sbandiera “progressi e speranze per l’avvenire”. 1963, febbraio: Rusk annuncia: “Lo slancio della spinta comunista è stato bloccato”; maggio: dal Pentagono: “ci stiamo avviando alla vittoria”; agosto: il generale Harkins, “chiaro e tondo. ‘I vietcong stanno perdendo’”. 1964, maggio: “segni di progresso nei mesi a venire”. Ottobre 1965: lo stesso: “Abbiamo smesso di perdere la guerra”. 1966, agosto, il segretario Rusk, fatto modesto dagli eventi, si limità ad annunciare “alcuni indizi del successo”. 1967, Agosto: nientemeno che “il capo di stato maggiore dell’esercito” si giocò l’intero capitale di credibilità scampanando su questo ottimismo: “Finalmente stiamo procedendo verso il collasso dello sforzo nemico”. E per farsi più convincente, aspira a piene narici “l’odore del successo”. A quell’anno si ferma il libro. Facile immaginare quante altre autorevoli fanfaronate siano volate da quel 1967 al 1975, anno della disfatta, anno della spietata verità. Vien fatto di esclamare: quanti Berlusconi ha conosciuto la storia umana!
Tra quelle “farfantarie” (direbbe il commissario Montalbano), brilla di evidenza capovolta il mito ostinato, che fosse il terrore a tenere uniti e vincenti i vietcong. Scrive Spock: “La verità è di solito tutto l’opposto: i vietcong sono appoggiati dalla popolazione non perché diffondono il terrore, ma perché lo fanno cessare”. Là dove i funzionari dei governi fantoccio usavano carcere predazione assassinio torture, “i vietcong scacciarono questi funzionari o li giustiziarono”. Non erano da meno di quei funzionari corrotti i soldati del Sud foraggiati dagli Usa: “hanno atterrito la popolazione civile degli altopiani centrali, saccheggiando i villaggi” (1965). Ricorda Spock: “I vietcong hanno spesso protetto il popolo da quell’esercito per anni di seguito”. Max Clos, per “Le Figaro”, spiega, da Saigon: “I vietcong dicono alla popolazione: ‘Voi siete oppressi da uomini corrotti, i quali rappresentano un governo venduto a un paese straniero’. Udendo ciò, i contadini si guardano attorno. Il capo della provincia nominato dal governo di Saigon abita in una grande casa, viaggia su una Mercedes e copre la moglie di gioielli”, e se ne sta lontano e inaccostabile dalla piccola gente, nella sua blindata protezione poliziesca e militare. “Il suo equivalente vietcong è visibile ogni giorno. Si reca tra il popolo. Veste, come un contadino, di cotonina nera, e porta sandali le cui suole sono ricavate da un vecchio pneumatico. Si aggira a piedi per il suo distretto, percorrendo le strade. Di una cosa si può essere certi: non si sta arricchendo a spese del popolo”. Agli inizi della rivoluzione armata (1959-60) alcuni funzionari di Saigon, macchiati di provata corruzione, e qualche riccone non migliore, furono eliminati dai Vietcong, e Saigon provò a eccitare il popolo contro questi “terroristi”. Scrive Clos: “Ma fu un errore. Nella maggior parte dei casi, i contadini avevano contribuito a liquidare brutalmente quegli uomini. Anziché assassini, i terroristi erano considerati dispensatori di giustizia”. La famosa scrittrice americana, Mary McCarthy, testimoniò a lungo contro la barbarie dei connazionali. In uno dei suoi reportage descrive gli incendi provocati dai bombardamenti indiscriminati degli aerei Usa (questa sorta di “occhiuta onnipotenza”distruttiva): “Del tutto indipendentemente dai principali campi di battaglia...le campagne sono sempre costellate da incendi”, che “a prima vista sembrano falò”. Sul “New York Times” Tom Buckley scrisse: “il numero effettivo dei profughi”, provocati dall’incendio sistematico delle campagne, è probabilmente dell’ordine di quattro milioni” (già nel 1966-7!). Il prof. di Psicologia Ralph K. White interpreta l’anima del contadino sudvietnamita in questi termini. “i guerriglieri sono ‘i nostri’ ragazzi nati e cresciuti nel nostro villaggio, o in villaggi simili al nostro. I loro scopi sono buoni, in quanto si battono per ‘noi’ contro i nostri nemici naturali, la gente ricca delle città, i grandi proprietari terrieri che si prendono il nostro riso, sebbene non abbiano lavorato affatto per coltivarlo, i funzionari governativi che ci frodano, i soldati che ci torturano se cadiamo nelle loro mani, e ora anche gli americani dalla strana lingua, con i loro bombardamenti e le loro bombe al napalm”. Il quale può cadere anche addosso agli stessi spietati utilizzatori: è avvenuto più volte, grazie alla fretta di spegnere ogni sospetto di presenza vietcong, anche la più sballata. Ecco il racconto di un soldato Usa a un giornalista: un improvviso “calore bruciante sulla faccia. Un cacciabombardiere americano aveva mal calcolato le posizioni comuniste e aveva sganciato una bomba al napalm. /La benzina gelatinosa in fiamme, dalla quale è impossibile liberarsi quando arriva sulla pelle, sprizzò sul terreno come un enorme getto di fuoco, a meno di 25 metri di distanza. Urla vinsero il ruggito delle fiamme. Due americani uscirono incespicando dall’inferno. I loro capelli bruciarono in un attimo. Avevano le uniformi incenerite ... Trascorse un’ora prima che un elicottero dei servizi medici potesse arrivare. Un dottore mi chiede di aiutare a portare gli uomini sull’elicottero. Non c’erano barelle. Con precauzione sollevammo i soldati. Io sostenevo una gamba dell’uomo più gravemente ustionato. Non fui abbastanza attento: un grande lembo di pelle bruciata mi rimase in mano”. Ed ecco gli effetti della cosiddetta “ricognizione fumogena”. Resoconto di Franck Harvey, autore del libro “Air-War-Vietnam”, richiestogli dall’aviazione militare Usa. “Il colonnello Goldberry improvvisamente sganciò una granata fumogena rossa che cadde in una risaia accanto a una fila di case lungo un canale. Una fitta nube di fumo cremisi si riversò sul verde [...] Se nella risaia si nascondevano vietcong, il fumo avrebbe potuto spaventarli e indurli a tentare la fuga. In tal caso avremmo richiesto un attacco aereo”. Commento di Spock: “E’ logico però che ogni civile vietnamita si spaventerebbe se un aereo americano lo sorvolasse e sganciasse una bomba fumogena. Per noi la loro paura era punibile con la morte”.
Perfino un “falco”, come il deputato Clement Zablocki, reduce da una missione in Vietnam, dovette riferire alla Camera “che in certe missioni ‘cerca e distruggi’ perivano sei civili per ogni vietcong”. L’autodifesa dei massacratori al napalm è di una “ingenuità” lugubre: non siamo responsabili dei civili massacrati perché non era nostra intenzione ucciderli. Lo storico Theodore Draper commenta: “Chi apre il fuoco con una mitragliatrice contro una folla per uccidere una sola persona, difficilmente può sostenere di non avere avuto l’intenzione di uccidere altri individui ‘deliberatamente’. Né può aspettarsi che coloro i quali si trovano tra la folla lo considerino un difensore”. La sporca guerra travolge anche la semantica: “Vaste zone del Vietnam del Sud sono state dichiarate ‘zone aperte agli attacchi’”, dando per certo che vi si trovino vietcong o loro simpatizzanti. Ma i contadini che vivono della poca terra ancora salva da fuoco e veleni non la possono abbandonare per morire anche d’inedia: non importa, e peggio per loro. “Qualsiasi cosa si trovi in una zona aperta agli attacchi è considerata un bersaglio legittimo [...]: case, bestiame, campi, e, naturalmente, tutte le persone che vi abitano”. Detto più chiaramente: “la definizione di obiettivo militare è mutata rispetto alle guerre precedenti [...] Stando a un manuale dell’aviazione militare americana (1966): ‘Ogni cosa, persona o luogo costituiscono un obiettivo legittimo se contribuiscono a distruggere la volontà del nemico di opporre resistenza”. Non si sventolava come foglia di fico la conquista degli animi dei sudvietnamiti? Un generale chiarisce, perentorio: “Ci troviamo qui per insegnare loro a uccidere i comunisti”. Gli si ricorda che i francesi ne uccisero un milione, di nazionalisti, “perdendo ugualmente la guerra”. Il generale si accigliò, pensoso? Macché, replicò, marzialmente sprecone: “Non ne uccisero abbastanza. Insegneremo a questa gente a ucciderne di più”. Quei cervelloni non riuscivano a capire che le stragi indiscriminate di combattenti e civili (molti dei quali bambini) creavano, giorno dopo giorno, “la ragione per cui riesce impossibile agli Stati Uniti riportare la vittoria nel Vietnam”.
Una previsione chiara e facile: ma non per le menti drogate di fanatismo ideologico, per le quali la parola “comunismo” racchiude una sola semantica, rigida e fatale: tirannia terrore povertà imperialismo castrense e planetario e altro marciume morale. Com’era ricca, in quegli anni, la nostra “serva Italia di dolore ostello” (ma non per padroni e ladroni del boom!) di menti murate in quel dogma, di giornali ligi alla propaganda yankee, di giornalisti autorevoli quanto pomposi nell’accogliere come verità sacre le balle della propaganda “Usata”. Ironia delle cose, è nel Paese responsabile dei peggiori crimini che si può trovare qualche mente aperta all’evidenza quanto rigorosa nel testimoniarla, contro la dogmatica anticomunista: Joseph Alsop (una delle autorità mondiali del giornalismo d’inchiesta) già nel 1954 (l’anno della vittoria a Dien Bien Phu), dal Vietnam controllato dal Viet Minh, diede una testimonianza leale sulla realtà negata dalla propaganda franco-americana: “Era difficile per me, come lo è per ogni occidentale, concepire un governo comunista che servisse gli ‘autentici’ interessi del popolo. Stentavo a immaginare un governo comunista che fosse anche un governo popolare e quasi un governo democratico. Ma proprio questo era il genere di governo che lo Stato della capanna di fronde di palma [Viet Minh] effettivamente rappresentava, mentre andava svolgendosi la lotta contro i francesi. Il Viet Minh non avrebbe potuto assolutamente continuare la resistenza per un solo anno, e non parliamo di nove anni, senza l’energico e compatto appoggio della popolazione” (citato da Spock). Un pensiero congruente con questo espresse il ministro della Difesa cinese, Lin Piao: “Per fare una rivoluzione è imperativo aderire alla politica della fiducia in se stessi. Se non si agisce con i propri sforzi, ma si fa conto esclusivamente sull’aiuto straniero, non è possibile riportare alcuna vittoria”.
Magari quel “quasi” sarà la breccia per la prevedibile risposta scettica dei fanatici dei pio Occidente (e delle presunte “radici cristiane”); ma qui non si pretende onorare la perfezione assoluta, tantomeno generalizzare: che ci siano stati casi di regimi comunisti troppo dogmatici è un fatto, che altri siano stati crudelmente frettolosi nel generare “l’uomo nuovo”, è un’altra triste realtà (che si affaccia dalla Cambogia, sopra ricordata, dalla Cina immersa nei repulisti della troppo pretenziosa “rivoluzione culturale”, e quant’altro). Né si può ignorare il bagno di sangue del regime sovietico alle prese, negli anni Venti-Trenta, con la sorda resistenza dei Kulaki ai programmi collettivistici.
Il libro di Spock si chiude con una serie di suggerimenti pratici rivolti al movimento pacifista americano, e l’autore non esita a scrivere: “Chi crede che il proprio paese stia commettendo delitti contro l’umanità, ha l’obbligo di disubbidire al proprio governo”. Chissà quanto abbiano influito queste parole sulle decisioni di molti giovani che fuggivano in Messico o in Canada per evitare la vergogna di quel servizio militare disonorante. A queste parole finali bene si congiungono quelle che aprono il libro: “La morte di un bambino è l’incubo peggiore di noi madri e padri.” In Vietnam se n’è fatta imperdonabile vendemmia.
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Come annunzia il titolo, il libro di Burchett racconta la lunga frequentazione dei vietcong da parte del maggiore esperto di cose del sud-est asiatico: un testimone serio, che sa smuovere gli animi con la sua misura testimoniale e perfino con certe scintille di poesia che riesce a strappare alla vita impossibile dei patrioti combattenti tra mille pericoli e ad altissimi costi umani contro un nemico spietato e falso, capace di quei “crimini di guerra” che l’onesto quanto versatile e geniale Bertrand Russell (premio Nobel per la letteratura 1950) denuncia nel suo pamphlet: “violenza cinicamente orientale, stupri, gente bruciata viva, il classico supplizio della goccia d’acqua, donne incinte sventrate, bambini sepolti vivi, contadini vittime di aggressivi chimici sotto forma di defolianti, bombe al fosforo, bombe del tipo lazy dog, contenenti migliaia di affilatissimi frammenti di acciaio che penetrano nelle carni, infanticidio, genocidio.”
Anche questo libro fu recensito da me. Ecco alcuni titoli dei miei interventi sul Vietnam apparsi nel “Gazzettino d. g.” in quegli anni caldi di coinvolgimento appassionato: “Rapporto dal Vietnam di Mary Mc Carthy”. Un testo ampio, ricco di citazioni da quel “rapporto” (stampato in Italia, in esclusiva, dalla rivista “Tempo presente”) minuziosamente impegnato a svelare gli altarini della propaganda americana (l’articolo è illustrato da una grande foto di prigionieri vietcong ridotti a quasi scheletri tipo lager nazisti). “Marciume a Saigon”, basato sul Servizio di Robert Guillam ospitato dalla rivista “Sapere” (luglio 1967), dove si può leggere questa verità pudenda, di solito nascosta dalle coscienze “patriottiche”: “All’estero si immagina che Saigon viva in un clima di guerra. Guerra? Ma chi ci pensa qui, se non per detestarla e fuggirla, approfittarne con il giro vorticoso dei dollari, dileggiarla con i piaceri? [...] Saigon non pensa che a trafficcare e a divertirsi [...] Di tanto in tanto, è vero, il plastico distrugge e uccide. Ma, salvo la sfortuna, ciascuno si sente sicuro [...] Perché, poi, i vietcong dovrebbero seminarvi il terrore quando la città è rosa dal di dentro da un male ben più insidioso, la corruzione? Mi diceva un vietnamita: ‘In questa guerra il cervello è marcio’ E il cervello è Saigon”. Cioè, una Gomorra del nostro tempo, dove “l’industria più diffusa e redditizia è la prostituzione”. Altri miei titoli. “Gravi decisioni per il Vietnam”. E cioè “intensificare la guerra terrestre” e l’aggressione aerea, con “nuovi obiettivi a nord del 17. parallelo”: parola di Johnson. Che nello stesso tempo celebra “la pace, primo articolo all’ordine del giorno dell’umanità” (si preparava il nuovo tour della Commissione per il disarmo, un rituale ipocrita e di scarso valore pratico). “La crociata globale”: come dire, dall’America latina al Sud Est asiatico, la politica aggressiva non stop dei civilizzatori al napalm, devoti ferrigni al santo capitalismo di rapina. “Il sorriso di Johnson e la missione della speranza”: speranze illusorie, alle condizioni Usa (dove intanto si fanno più frequenti ed alte le voci autorevoli che invitano a usare le bombe atomiche contro il Vietnam del Nord. Voci che fanno da contraltare a quelle, non meno forti, del dissenso militante). “Uomini e sottouomini”: le millantate vittorie americane in Vietnam sparano cifre di perdite coerenti col titolo: pochi gli Usati, moltissimi i sottouomini “gialli” (anche se non si trovano i corpi spenti! Quando si dice la comicità nella tragedia”). Durante la famosa offensiva del Thet il mio impegno rasentò la follia: seguivo l’evento con un vero e proprio “Diario sul Vietnam” a puntate settimanali sul paziente e ospitale “Gazzettino d. g.”
Ma la soddisfazione più eccitante me l’ha regalata Ciaccò pubblicando sulla troppo moderata e destrorsa “Gazzetta dello Stretto” una recensione plurale, dai cui titoli si può misurarne l’estensione. ‘Opinioni sul Vietnam’ (occhiello). “Tutti discordi sulla guerra” (titolo) ‘Libri di Chomsky, Schlesinger, Limberti, Maccelli, Toccafondi, Venuti, Gurgo, Salysbury, Browne, Burchett, Russell e McCarthy’ (catenaccio). L’articolone riempie due colonne (misura larga) del supplemento settimanale “Gazzetta letteraria”, e viene aerato da ben quattro titoli-finestre nel corpo del testo: ‘I cattolici fiorentini’ (arruolati, sindaco La Pira in testa, contro la “sporca guerra” e i suoi sostenitori italiani), ‘Nazionalismo o comunismo? (in realtà, un originale mix ben funzionante)’, ‘Cervelli a confronto’ (in sostanza, i due contrapposti fronti polemici sul conflitto), ‘Un discorso spregiudicato’. Sotto quest’ultimo titolino si cita il pamphlet “Vietnam massacro” (S.E.A., 1967) seguito dal mio commento: “un atto d’accusa che emana dai fatti contro questo Occidente sedicente cristiano”. Il “Rapporto” della pluri-citata McCarthy, questa parata di “fatti pregiudizievoli agli interessi americani” (che l’autrice “candidamente” dichiara di essere andata a cercare in Vietnm), spruzza sdegno in queste sue parole, messe a chiusura dell’articolo: “La peggior cosa che potrebbe accadere al nostro paese sarebbe di vincere questa guerra”. Né mancano, nel corso dell’articolo, espressioni, mie o da citazioni, anche più energiche contro quella sequenza di crimini che ha segnato una generazione di giovani sensibili. Il breve elenco di titoli, com’è sottinteso, è solo uno specimen del totale, che si stende dai primi anni Sessanta al 1975, anno della fine ingloriosa dell’aggressione macellaia, ma non del ludibrio acquistatone da chi la volle e impose a un Paese riluttante a maggioranza ostile.
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Nell’Oriente vicino il fulgore sulfureo di Tell al Zaatar, la collina maledetta del Libano infelice, si offre a un confronto imbarazzante con l’orrore cambogiano: dove cè stata maggiore empietà distruttiva, in quello o in questo massacro? Lì la frettolosa catechizzazione forzata al verbo comunista produsse orrori di tipo religioso (nel senso del fanatismo, e delle inquisizioni e delle magnifiche guerre di religione che allietano la storia); qui, la religione rinnova in chiave cristiano-maronita la proverbiale ferocia degli antichi mongoli: una moltitudine di palestinesi civili e militari viene stretta in un cerchio di acciaio e di fuoco che impedisce ogni rifornimento vitale, dal cibo ai farmaci, dall’acqua alla luce elettrica. I bambini che vengono mandati, nella vampa della torrida estate, ad attingere qualche secchio d’acqua da una vicina fontana vengono fulminati come topi molesti in un sinistro gioco di tiro al bersaglio. Chi, fra le zanne delle situazioni estreme, quei bambini mandava o lasciava andare, sperava, certo, che un residuo di “umanità” resistesse in quelle belve ubriache di sangue: uccidere dei bambini? Come pensarlo, andiamo! Quando, infine, la piccola Varsavia che replica il famigerato ghetto “nazificato” al massacro nel ’44 si arrende al “combinato disposto” di fame sete malattie e promessa di vita salva ai superstiti, i valorosi guerrieri di Cristo fanno lubrico mosto dei palestinesi ingannati pestandoli, vivi, sotto i cingoli dei loro carri armati. Il tutto, sotto l’occhio benedicente dei loro alleati israeliani, beniamini di certa noblesse intellettuale italiota ed europea. Lo scempio si ripete, amplificato, sei anni dopo, in un’altra estate di fuoco e di umana vergogna, al compimento del “nostro” novennio, a pochi mesi dal “fatidico incontro” sul lungomare di Zefiria. Stiamo “tacendo” (come parlarne, infatti, con adeguata verbalità?) di Sabra e Chatila. Nel binomio-apice della distruttività qui adombrata lo scenario muta, la sostanza rimane, replicata senza risparmi: pura macelleria di carne umana, praticata dalla stessa orda drogata di dio e di anfetamine. Lo scenario: due campi di profughi palestinesi, popolati, al momento della “soluzione finale”, soltanto di donne vecchi e bambini. Anche questa eroica impresa ebbe l’imprimatur israeliano: quei soldati con la stella di Davide fumavano tranquille sigarette agli ingressi dei due campi nel medesimo arco di tempo che i falangisti di un Cristo satanizzato riempivano di raffiche indiscriminate e di urlante terrore. Particolare di illuminante significato, i due campi erano inondati dalla luce di potenti fari installati dagli israeliani ai loro confini. Nessuna fuga possibile, nessuna traccia di umana pietà nei massacratori, nessuno slancio di resipiscenza nei biblici guardiani degli ingressi. O nei loro kafkiani ufficiali. Era ministro della Difesa, in questo ennesimo tempo marcio della storia israeliana, Ariel Sharon; era lui, la botte di grasso, il vertice responsabile di quel nuovo “sacro macello della Valtellina”. Anzi, di quel clone di ogni sacro macello della magnifica e progressiva Storia degli Umani. Una tardiva inchiesta della magistratura ebraica non escluse, negli anni successivi, quella responsabilità, ma la verbalistica condanna non impedì allo sciagurato Sharon la salita al top della carriera politica. Né la provocatoria passeggiata, da premier, sulla Spianata delle moschee (pura provocazione attizza-odio) e relativo codazzo di Seconda Intifada, nuovi sparpagliati scontri, vecchie operazioni di pulizia etnica camuffata da autodifesa e altro bene, culminante nella fragorosa epopea del kamikaze islamico, inedita figura nell’horror medio-orientale e triste, disperata risposta di spietato contrappasso alle stragi di palestinesi consumate in oltre mezzo secolo di arroganza marziale israeliana. Assistita o tollerata da un Occidente che si avviava verso la punizione del nascente terrorismo islamico.
E pensare che c’è gente, ancora oggi, che tenta di giustificare quel repulisti osceno: si disse, e si ripete, che fra quei civili, tra quei vecchi donne bambini s’erano nascosti resistenti armati. Bugia colossale, ma se anche qualche briciolo di verità ci fosse in quella bastarda legittimazione, se qualche palestinese sbandato si fosse rifugiato in quello spazio elettivamente tagliato fuori dagli scontri, quale logica bellica potrebbe riscattare quell’orrore senza scuse (uccidere cento innocenti per eliminare un colpevole)?
Inutile ricordare che anche di questi eventi io mi sono occupato con i soliti articoli. Ma quando il “glorioso gazzettino” morì (prima del suo bravo direttore, che lo seguì pochi anni dopo) e nel mio ambiente curialesco non c’era un giornalino laico disponibile, scrissi articoli-saggi per una rivista romana, “Passioni”, che mi ospitava soprattuto come autore culturale. Un titolo che trattava, sulla rivista, un arco di temi collegati, reca il titolo “La crisi mediterranea”: una rassegna di quella “crisi” che si stendeva fra il sempre vivo confronto Israele-palestinesi e gli abusi americani contro la Libia di Gheddafi, bombardata con l’accusa di un criminale sabotaggio aereo.
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L’anno di Sabra e Chatila ospitò, in contemporaneità mensile, un altro evento drammatico: di assai minore impatto globale, ma con una sua multipla rilevanza di non trascurabile peso: umana, socio-storica, mediatica. E, last but non least, privata e personale. Alludo all’incidente che troncò la vita di Grace Kelly; a quel 13 settembre che vide precipitare fuori strada, sulla Corniche superiore, la Rover di Grace, ferendola mortalmente. Ma che c’entra il “personale”?, direte. C’entra, per via di innocenti coincidenze. Anno e mese del matrimonio di Grace con Ranieri di Monaco coincidono con quelli dell’incontro “fatale” con Rina. Alla festa di un battesimo: una cugina di una sua compagna d’infanzia battezzava una pargoletta che oggi è una matura signora e una giovane nonna. Ballando e conversando, si fece amicizia, e io mi offrii di darle lezioni di filosofia-pedagogia e matematica. Lei ne parlò alla madre, che fu felice di cogliere l’occasione di un’assistenza gratuita alla figlia, certamente preziosa, e chissà se non aperta a futuri sviluppi. Felice, quella madre tenera e semplice, anche perché il sottoscrito era figlio di una cara amica di giovinezza e adolescenza: frequentavano la stessa “mastra”, cioè sarta che tiene allieve. Sarta maestra, insomma, e nel fatto assai competente e perciò molto richiesta. Quanto agli sviluppi auspicati, ahinoi, ci furono. Anche precocemente, se germogliarono dopo soltanto un trimestre o poco più. Poteva, la mia “suscettibilità” estetica resistere a quel volto di madonnina dai tratti così fini delicati raffaellescamente ben distribuiti? E allora, si dirà, che c’entra quel sospiro? Omissis, sui sottintesi geni dati ai figli.
Da questa scoperta, il nome di Grace Kelly entrò amichevolmente nella nostra vita. Ragion di più, perché un secondo nome, poco usato, di Rina coincideva con quello della diva e principessa, già tanto felice e ora tragicamente sfortunata. Per tutto ciò, ed altro ancora, fu un sincero dolore la notizia della sua morte. Come altresì un propellente di curiosità affettuose per la vita e carriera della brava attrice. Io avevo visto qualche suo film, credo l’intero trittico hitchcockiano: Delitto perfetto, La finestra sul cortile, Caccia al ladro. L’anno prima del matrimonio regale, con La ragazza di campagna, aveva vinto l’Oscar. Da quel lontano passato la festa mediatica su Grace e la sua famiglia non è più cessata: le hanno dedicato canzoni, biografie, saggi di genere investigativo sul “mistero della sua morte”. Forse avremo occasione di riparlarne.
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Fra gli eventi capitali del novennio come privare di almeno un soffio di cenno la morte e l’avvento dei papi dell’epoca? Muore Paolo VI, gli succede l’evanescente e mite Giovanni Paolo I. Che toglie il disturbo un paio di mesi dopo (non senza code di sospetti e ipotesi borgesche presto organizzate in esiti editoriali più o meno plausibili). La scomparsa del primo apre la strada al secondo Giovanni Paolo. Un papa che ha svangato la storia recente fino a collassi sismici di sistemi e assetti internazionali. Un Uomo di anatomia e fisiologia opposte a quelle dell’innocente Luciani: bello, virile, voce tanto maschia quanto femminea la precedente, uomo di carisma garantito. E non solo per i cattolici di tutto il pianeta, anche per tanti cristiani non cattolici, e per i tiepidi, gli agnostici, gli atei dichiarati. I quali, beninteso, ne misurarono, contrastando (con sforzi anche penosi di lucidità) l’universale tentazione al cedimento, più le conseguenze “negative”, cioè più o meno conservatrici, che quelle positive dell’irenismo convinto. Insomma, quell’espansionismo missionario-politico che l’instancabile apostolato itinerante favorito dalla simpatia umana guadagnava alla causa e potenza di una rivitalizzata Chiesa cattolica, sempre più impicciona nelle faccende della ragione laica. Un odi et amo complicato. Del quale, superfluo notarlo, il sottoscritto partecipava con notevole impegno delle sue emozioni e risorse dialettiche.
Ad esaltare quel carisma intervenne, quel 13 maggio 1981, l’attentato di Ali Agca in piazza San Pietro. Che aprì un capitolo drammatico di nuovi misteri nell’elezione non casuale di quel personaggio tanto polarizzato. Da un lato, la coincidenza dell’attentato con l’anniversario della favoleggiata apparizione di Fatima nutrì di nuova sostanza superstiziosa quel mito: il misterioso attentato era stato predetto dalla Madonna! Lo credette, stando alle sue parole, anche il papa (ma sarà vero? verosimile, non sembra, in sì forte tempra). Dall’altro, le ipotesi politiche in piena fioritura: i sospetti volarono in un palleggio bipolare tra gli estremi della Cia e della Bulgaria, con diramazioni laterali sempre inserite in quello schema. Va bene i “Lupi grigi”, magari, ma per incarico di chi, di quale potenza e sistema di potenze? Chi e Cosa aveva interesse alla morte del pontefice? Come c’entra, nel ghiotto mistero, un altro episodio oscurissimo, il rapimento dell’incolpevole giovinetta Emanuela Orlandi, figlia di un modesto dipendente vaticano, mai più ritrovata? Dopo due decenni e passa il mistero è più fitto che mai. Né l’incontro del papa col suo attentatore, nel dicembre ’83, rischiara quelle tenebre: “Ho parlato con lui come si parla con un fratello al quale ho perdonato. Quello che ci siamo detti rimarrà un segreto fra me e lui”. Questa dichiarazione di Wojtyla prosciuga ogni speranza di luce da quella parte. A meno di sorprese future, mai da escludere.
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Il caso Orlandi merita ancora qualche rigo. Da quel 22 giugno del 1983, data della sua sparizione, non è trascorso anno, quasi, senza una novità testimoniale su Emanuela. E a ogni novità il caso s’è arricchito e aggrovigliato un po’ di più, coinvolgendo in complicità macchinose e insospettabili sempre nuovi personaggi altolocati e figure della criminalità “d’autore”. Un caso per tutti. L’amante di un boss della famigerata Banda della Magnana, impresaria del rapimento, sostiene di avere saputo dal suo compagno per conto di chi sia stata rapita e forse dove sia stata sepolta la ragazza, uccisa, in seguito, forse (ancora forse) per tapparle la bocca. Su che cosa? Tra le nebbie di qualche incertezza, la donna, Sabrina Minardi, dice addirittura di averla vista, la ragazza, intontita come per effetto di droga; e di avere riconosciuto un prete fra “magnanesi” impicciati nel caso. Quel prete coinciderebbe con l’alta figura di monsignor Marcinkus, e proprio costui viene senz’altro identificato come mandante del ratto di quella innocentissima “sabina”. Ed ecco che il caso si slarga, macchia sfrangiata di molti tentacoli: il famigerato presidente della banca vaticana, lo Ior (Istituto Opere di Religione), fu magna pars nel tragico destino di Roberto Calvi, direttore del Banco Ambrosiano. Pare che gli ingenti prestiti di Calvi al Marcinkus non siano mai rientrati e che ne siano rimaste sacrificate cospicue somme di provenienza mafiosa. Quest’ultimo pesante dettaglio sarebbe il movente del presunto suicidio di Calvi dentro l’improbabile cornice dei “Frati neri”, nome di un famoso Ponte sul Tamigi, in una Londra sinistra da romanzo gotico. Un’altra vittima illustre (se non altro per onestà, altrimenti qualificata ingenuità) fu l’avvocato Ambrosoli. Ricordo che ne appresi la notizia nella magia romantica della Roma scolastica: ero di nuovo commissario di maturità nell’Urbe babilonica, in quel luglio del ’79, e lessi in titoloni sui quotidiani del pomeriggio la notizia del delitto. Anbrosoli ebbe il torto, agli occhi di gentiluomini come Sindona e complici di malavita e politici, di avere preso sul serio il compito affidatogli: fare luce sui conti e gli sconti e gli ammanchi del Banco Ambrosiano. E, come spesso succede nelle faccende di homo oeconomicus, la verità emersa da quei controlli troppo scrupolosi investiva sempre nuovi potenti e insospettabili delle “due sponde”: perciò fu festeggiata con la morte anticipata del valoroso impiccione. Ebbi un brivido di rabbia impotente, in quel ritaglio di personalissima pax romana deambulante: ancora una volta, il giusto veniva sacrificato alla feroce ingordigia di Mammona Pantocrator. Ne venne avvelenata la mia svagataggine passeggiante nella sera magica. Poco competitivo, più tardi, in quanto contrappasso risarcente, il risolutivo caffè al cianuro servito in carcere al troppo intraprendente Sindona (conferma o ripresa di una gloriosa tradizione romano-rinascimentale riattivata almeno dai tempi di Pisciotta, strumento divenuto inservibile e ingombrante dopo la tempestiva liquidazione di Salvatore Giuliano, sinistro eroe-servo di Portella della ginestra). Mistero fra i mille misteri italiani, la morte di Sindona, maniacale fondatore di banche a rischio, non mancò di divergenti interpretazioni. Una delle quali (di fonte autorevole) insinua che a preparare il caffe “dosato” sia stato lo stesso Sindona, per fingere un avvelenamento esterno. E che la morte sarebbe dovuta a un errore in quel dosaggio fatale. Errore personale, o intervento di operatore esterno furtivo? Sul mistero si continua a discutere e discettare. Non senza onorare anche la sfuggente presenza dell’immancabile Andreotti, detto, onorevolmente, anche Belzebù, in tutta l’aggrovigliata faccenda. Né soltanto Andreotti: altri personaggi, direttori e presidenti di Banche, furono tirati dentro per i capelli. Alcuni con esiti di sofferenze immeritate, come Baffi e Calvi.
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Ma che c’entra tutto questo con Manuela rapita? Voci dicono cose pesanti: che monsignor Ior fosse un vizioso, ghiotto di tenere fanciulle indifese. Altre voci precisano (come accennavo sopra) che la bocca di Emanuela si rivelò a rischio e bisognò saldarla nell’eterno mutismo. E ancora voci, più o meno credibili, correggono che il ratto doveva tappare un’altra bocca, quella del padre, e che la cosa poi sfuggì al silenzioso controllo criminale. In questo caos calmo, una cosa salta fuori con non scalfibile evidenza: le complicità vaticane. “Pensate un po’”, dicevo ai miei studenti sicanici, “il mafioso Enrico De Pedis, detto Renatino, uno dei protagonisti dell’affaire, giustiziato, a colpi di pistola, il 2 febbraio del ‘90, dai “fratelli” in Magnana (interno, e buio, regolamento di conti), è stato seppellito nella cripta della santissima chiesa di Sant’Apollinare, come un benefattore emerito, un quasi santo!” In una intervista la sorella maggiore di Emanuela, Natalina, ricordò che, anni prima, in una telefonata anonima a “Chi l’ha visto”, una voce d’uomo aveva detto: “Se volete risolvere il caso di Emanuela Orlandi guardate nella tomba di Renatino De Pedis”. Naturalmente la sorella ha chiesto alle potenze senza volto di aprire quella tomba. Finora, invano. Insiste, anche, Natalina, sulla scarsa attendibilità della versione che vuole Emanuela uccisa per punire qualche potente: il padre, Ercole, morto nel 2004, era solo un messo della Casa Pontificia, un fattorino di lusso, ma sempre fattorino, non è che avesse “chissà quali poteri”. La signora ricordò pure che i “Lupi Grigi dichiararono che Mirella Gregori era stata rapita per ricattare lo Stato italiano ed Emanuela, invece, cittadina vaticana per colpire la Santa Sede”. La Gregori era stata rapita il 7 maggio ’83, un mese prima di Emanuela. Aveva 15 anni come lei. La famiglia Orlandi le associa e le ricorda insieme. L’associazione “Penelope” riunisce i parenti stretti di persone scomparse di cui si ignora la sorte: lottano, decisi a non cedere alle tenebre, per conoscere sorte e verità contestuali di quelle scomparse.
Particolari ammiccanti: Emanuela è stata rapita in Corso Rinascimento, vicino a Palazzo Madama; la chiesa di Sant’Apollinaire si trova nei pressi, Renatino è stato ucciso in Campo dei fiori, sotto l’occhio bronzeo di Giordano Bruno che sprizza scintille di memorie truci. Nell’ultimo mio impegno romano in qualità di commissario alla maturità classica del liceo “Virgilio”, nel recarmi, la mattina, dal mio albergo in quella scuola, passavo davanti a Campo dei fiori e sostavo, se avevo tempo, davanti al monumento, in memore raccoglimento.
E fermiamo qui un cenno che minaccia di farsi espansiva macchia d’olio scritturale, mentre nella realtà continua a produrre complicazioni e nuovi misteri. Coinvolgenti perfino laghi sotterranei e faglie sotto l’onusta superficie della Roma laica e vaticana, e via Pignatelli e corso Rinascimento e chissà quant’altro. Con altri raccapriccianti particolari, come quello che vorrebbe il corpo spento di Emanuela dentro un sacco di spazzatura in transito, prima dell’inumazione segreta. Nel tempo in cui scriviamo la situazione è in movimento, e sembra difficile pensare che si possa chiudere con la verità svelata senza ombre di menzogne funzionali a questo o quell’interesse losco, a cavallo fra la Roma politico-economica e il Vaticano degli imbrogli e delle omertà. Si tenterà, forse, più autorevolmente, anche di ottenere l’apertura della tomba-cripta. Si tenterà...