martedì 6 aprile 2010

SUSANNA, Frammento 63


Altro momento cuspidale nella ricca vicenda del fascino papale si ha quando dalla tribuna millenaria dell’Agrigento coronata di storia e arte, ma sfregiata (come tutte le città e bellezze siciliane) dall’affarismo malavitoso marziale e politico, condanna e minaccia del castigo divino la malagente della mafia: “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio” (o qualcosa del genere): quel metallico grido di una gola virile regalò qualche brivido di consentanea emozione anche ai non credenti d’Italia, in sofferenza per quell’osceno connubbio insanguinato che un giornalista fantasioso definì polimafia (lo stesso che aveva marchiato la diccì come “Balena bianca”). E quel lieve graffio alla corretta grammatica aggiunse un pimento di simpatia al quasi urlo profetico. Riportandoci, fra l’altro, alla sera della sua elezione, quando il suo primo errore (“Se sbaglio, mi corriggerete!”) sollevò l’immensa folla berniniana in un’onda d’immediata simpatia plaudente e speranzosa.
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L’avvento di un papato come quello wojtylano è più importante, o no, della pur tragica epopea del brigatismo rosso e contorni? Il primo fenomeno ha eroso le fondamenta di un sistema internazionale durato quasi mezzo secolo, il secondo ha falciato vittime disarmate solo in Italia: basta questo dislivello comparativo a giustificare quel primato?
Rivedo volti in memoria e riascolto voci di pianto, mogli figli madri di bersagli delle Brigate illuse apparsi nel tritacarne del tubo catodico in occasione del decennale e ventennale: loro non troverebbero seria quella distinzione “maggioritaria”. Forse conviene soprassedere ai teoremi e limitarsi a registrare eventi e fatti. Beninteso, per generalia. Tra gli anni Settanta e Ottanta lo Stivale logorato da immoralità diffusa e svariata si insanguinò del terrorismo politico, con diversa intensità nei distinti segmenti del tempo.
Fra i molti nomi rispettabili delle vittime assassinate o gambizzate quello di Aldo Moro gode (soffre?) di un rilievo eccezionale garantito da molti parametri e aureolato di un copioso (starei per dire “fastoso”) futuro: le dimensioni dell’impresa brigatista (e non soltanto per l’oscena strage della scorta), il ruolo politico del bersaglio, le implicazioni nel riassetto delle alleanze intorno all’esecutivo, il gioco dei sospetti non risolto né pacificato da scoperte certezze e documentate rivelazioni. Quel 16 marzo del ’78 aprì una partita etico-politica che conobbe omissioni rimozioni rigidezze teleguidate: e ingenuità incredibili nelle scelte di uomini navigati della sinistra istituzionale. E il successivo 9 maggio, il cadavere di Moro nel bagagliaio della storica Renault 4 rossa diede suggello a un delitto che ebbe molti complici inerti tra le file democristiane e quelle comuniste. Un’epidemia statolatrica prese alla gola quei valentuomini: i colleghi di partito di colpo dimenticarono la tiepidezza verso quello Stato da sempre sofferente sotto allotria tutela, che ne aveva profumato le lunghe carriere di incenso vaticano, e dollari americani (nonché delitti misteriosi). E furono improvvisati pretoriani dello Stato über alles; i comunisti, vittime dell’altra religione e chiesa (il piramidamismo ateo), s’impuntarono sul non possumus pretesco davanti a un idolo mai riconosciuto nella sua astrattezza formale e sempre contestato nella sostanza capitalistico-borghese, discriminatoria e vocazionalmente ostile alla classe operaia in nome della quale le Brigate uccidevano. Illusi, quei giustizieri in truce buona fede e rabbia sociale, di un possibile risveglio insurrezionale per il quale mancavano le condizioni scatenanti di esplosivo impatto immediato: non s’era raggiunta la “massa critica” necessaria all’innesco, la giusta quota percentuale di poveri sfruttati e disoccupati disperati; mancava la quantità-limite di rabbia reattiva in quell’Italia dell’ex boom dalle lunghe propaggini. S’irrigidirono, dall’una parte e dall’altra, su quel punto d’onore mal riposto: non si tratta con l’eversione, non si regalano riconoscimenti alle Brigate fuorilegge. E via strombettando, alla salute dell’anima dell’infelice mediatore delle “convergenze parallele”, che invano reiterava nelle sue lettere vieppiù toccanti la memoria di precedenti salva-vita, di trattative dell’identico tipo e dosaggio ora negato a lui. Che avevano salvato persone in carne e sangue (il caso, per esempio, dei terroristi palestinesi nell’attentato romano della stazione Termini) e non idoli ambigui, come la mal sacralizzata icona di uno Stato fin troppo ferito da fellonie mammoniche e sozzerie variamente compromissorie, e ora, per la sciagurata occasione, diventato un Leviathan hobbesiano innestato a un etico vampiro hegeliano (Hegel definisce lo Stato: der Gang Göttes in der Welt, “l’ingresso di Dio nel mondo”!). Tradito e umiliato da sempre, quello Stato ora costretto al rigore inattendibile: a cominciare dalla doppia limitazione della sua sovranità, quella cattolico-vaticanesca e quella americana, che s’era ritagliata pezzi di territorio nazionale di controllo assoluto disseminandolo di basi militari (non prive di ordigni nucleari). Per non parlare del sistemico (ancorché oscuro e negato coram populo) intreccio mafia-politica-servizi segreti. E perché no della “riserva mentale”, così poco fit con la repubblicana democrazia, da poterne sospendere le garanzie civili in caso di “minacce comuniste”. Non solo da improbabili sommosse popolari, ma altresì da eventuale e malaugurata sconfitta elettorale del blocco moderato a vantaggio della sinistra estrema: vedi la segretissima organizzazione stand-by, con le sue Gladio et similia, incardinate nel sistema difensivo del “libero Occidente”.
La famiglia Moro giustamente non perdonò ai mediocri furbastri della capetteria democristiana quella coriacea insensibilità verso l’“uomo buono” disperatamente esaltato dal papa Paolo VI, nel suo accorato appello agli “uomini delle Brigate rosse”. Evidentemente, per gli intemerati campioni del biancofiore quei giovani erranti al kalashnikov non erano più nemmeno uomini. Non perdonarono, la moglie, i figli, il fratello, che non nascosero trasparenti sospetti verso il Grande patrigno-padrone transatlantico, disturbato dai “maneggi” di Aldo intorno alle Botteghe Oscure. Né quelli, collegati ai primi, verso tutti i notabili Dc, troppo cedevoli alle pretese di quel Padrone cinicamente spregiudicato, e insieme troppo esposti, taluni, all’attrazione del supremo Colle. Il “tempo galantuomo” forse non esiste, ma una sua vocazione a sciogliere lingue legate e aprire spiragli ad aspre verità non si può negare. Corrado Guerzoni ha riferito una confessione di Sereno Freato: il montanaro capelluto Flaminio Piccoli aveva detto a Freato, riferendosi a Moro: “Se questo torna sono dolori”. E Freato, assicura Guerzoni “ce lo riferì subito”. E’ un dettaglio non da poco, anzi “che spiega tutto”. Tutto, o quasi: l’immobilismo ipocrita, personificato, si disse, nel segretario Dc, l’“onesto Zaccagnini”; l’arroccamento sull’inedita fermezza in complicità plurali, che sarebbero comiche se non si fossero rivelate tragiche (con gli Usa, già in rush di orticaria al solo accenno di legittimazione del Pci); col Pci, che, poco genialmente, si lasciò intrappolare in quella ipocrisia idolatrico-statalista; con altre cattedre di frontale orizzonte (poco entusiaste di un Pci annacquato in acquasantiera democriastina); il capovolgimento di identità del maggior partito sub iudice a stelle e strisce: “Il partito della mediazione per antonomasia – disse Guerzoni – divenne all’improvviso tutt’uno col ‘partito della fermezza’, che per la Dc è quasi un ossimoro”. Mirabile, poi, come abbaglio ideologico dai riflessi disumani, la sparata di Berlinguer, che, in visita alla famiglia Moro, dice papale papale alla moglie: “Sappia che non faremo nulla”. Un’esplicitezza crudele, che riverbera fino alle parole mutile di Paolo VI, quando chiede agli Uomini delle Brigate rosse di liberare Moro, “semplicemente, senza condizioni”. Pressioni del governo tanto persuasive da piegare sua santità alla decisiva pretesa funebre. Senza condizioni. Le pressioni vennero alla luce in occasione del funerale senza salma, celebrato dal papa per bocca del cardinale Poletti. Altra debolezza, dunque: quella del pontefice che si fa condizionare dal governo, anteponendo un’astrazione pomposa a quella vita incarnata che la Santa Sede “difende sempre” (in realtà, solo quando si tratta di aborto, eutanasia, accanimento terapeutico… ). E si pretendeva che la vedova partecipasse ai funerali celebrati dai complici degli assassini. Fermezza contro fermezza, quella della signora Moro nel diniego odora di sentimenti offesi, di umanità ferita, e dignità dolente. Sì, Moro dalla prigione, la famiglia da casa, capirono che anche il papa aveva fatto “pochino”. Peccato.
Ma ecco il retroscena che salda le diverse spinte. In vaticano s’erano formati due “partiti” contrapposti: uno dava fiducia a Moro e ne apprezzava le intenzioni aperturiste verso il Pci; l’altro giudicava il flirt col “partito ateo” (di fatto, se non nelle dichiarazioni ufficiali) un insopportabile azzardo. Il primo valutava positivamente la maggiore attenzione alle fasce deboli della società italiana, ignorate o solo sfiorate dal boom economico appena trascorso; il secondo le affidava alla divina provvidenza. E non prevedeva fiumi di lacrime per la minacciata morte di Moro. Quest’ultimo gruppo finì col prevalere, spalleggiato dai boss democristiani e dall’ambasciata americana. E così sua santità non potè fare che “pochino” per l’ “uomo buono”. Sulla linea del non possumus spiccò (e non poteva essere altrimenti) la gobba più carica di segreti pudendi della storia italiana. Non poco né pochino, al contrario, venne giudicato, pertanto, il patto fra Dc e Pci per l’appoggio “esterno” al quarto governo Andreotti, già siglato prima della tragedia. In quell’aggettivo sta il bandolo, segreto ma trasparente, della pessima matassa. Quale brutta strega in sembiante di seducente fatina aveva ispirato lo statista-ostia per spianare la strada al Pci verso il proibito “interno” della acciaccata maggioranza Usa-Vaticano?
Le mie parole non intendono “santificare” un Uomo cui non avevo, nel mio piccolo, risparmiato critiche di vario genere quando, vivo e instancabile, coerente e flessibile, egli urtava la mia sensibilità sociale e politica. Sensibilità, e quasi malattia, contratta anni fa (tanti, ormai) che oggi spinge questo sfogo: la brutta malattia della verità. In fattispecie, a quel virus instancabile si aggiunge la pietà umana: una convergenza, ben poco “parallela”, che rafforza l’esito testimoniale. Se soffro della sua inutilità? Certo. Anche della sua pericolosità personale. Ma fa parte del gioco (o giogo che sia). E’ il pedaggio per transitare, di tanto in tanto, sul sentiero stretto dell’autostima. Non posso negare, però, che l’ultimo Moro, della prudente e progressiva apertura ai comunisti, mi aveva convinto della sincerità di quella svolta già prima dell’agguato. Pur non ignorando le condizioni di oggettiva difficoltà, e quindi necessità, in cui annaspava la Dc dopo le elezioni del ’75-’76 che ne avevano segnato un pesante arretramento a vantaggio dei comunisti.
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Mentre lo scrittore che aveva dichiarato coram populo “né con lo Stato né con le Brigate rosse” (ma la frase della vulgata è monca: lui aveva detto, o fatto intendere, “con questo Stato”) scriveva il suo ben documentato pamphlet senza riguardi per gli “amici di Moro”, Francesco Cossiga preparava la sua ascesa ai vertici del Leviatano appena sfamato col ghiotto boccone: rassegnando tempestive dimissioni da ministro dell’Interno. “L’affaire Moro” non turbò più di tanto i sonni, né incupì in incubi i sogni ai devoti mangia-ostie in missione di alta politica. Non raccolse, la requisitoria di Sciascia, neppure il plauso del Partito Comunista berlingueriano, ché anzi (a parte singoli casi in libera randomness) volle leggere, in quella severa inchiesta, l’ostinazione di una coscienza morale troppo incline alle battaglie solitarie: non si era dimenticata né perdonata, nelle oscure Botteghe, la sorniona insinuazione del “Contesto”: il Partito “rinculante” verso una complicità di fatto con la tabe irredimibile del corrotto potere democristiano. La requisitoria di Sciascia, questo cavaliere offeso della verità nuda, percorre le lettere dalla “prigione del popolo” con un sagace quanto appassionato scrupolo ermeneutico, coprendo di evidenza corrosiva la “teoria dei due Moro”. Sopra questa comoda, gesuitica panzana lo scrittore di Racalmuto spruzza il suo disgusto, mostrando che il Moro della Prigione è uno e identico, lo stesso delle battaglie politiche, anche quando lancia le sue sacrosante accuse ai suoi felloni amici dal fiore bianco e dall’anima nera. Né Sciascia era stato meno severo verso l’uomo politico finito nel pozzo: ma ora prevaleva la miscela anfetaminica dell’umana pietà con la fobia per le grandi menzogne strumentali. Era, in quel tempo, l’autore del “Giorno della civetta”, deputato al Parlamento nazionale nel gruppo radicale. Quando fu istituita la Commissione d’inchiesta sulla strage di via Fani e seguito, fu proposto come rappresentante del suo gruppo: o che quei valentuomini della Balena Bianca non si opposero a sì vile nomina? No, tu no! A motivazione di questo non prevalebis assai democristiano quei catoni improbabili andavano dicendo che il pamphlet di don Leonardo aveva offeso la memoria di Moro (e tutti i capoccia dc) con la sua “tesi precostituita”. Fieramente pacata la risposta di Sciascia a quelle accuse tanto irritate quanto fantasiose: “Il mio giudizio su Moro politicante e non statista è quanto di più ovvio si possa dare in sede storica: al di là delle retoriche di parte e commemorative. E in quanto alla tesi precostituita, sfido gli anonimi portavoce della DC a riassumerla chiaramente e brevemente agli italiani. A dimostrazione che il mio punto di vista rappresenti, come si vuol far credere, una fuorviazione, un allontanamento dalla verità. Il mio libro su l’affaire Moro è stato un tentativo di avvicinamento alla verità, una valutazione attenta e pietosa di fatti e documenti. Ed è appunto questo che non si vuole, che si teme, di cui si ha paura”.
Sciascia sarà imposto dal suo gruppo, e farà parte di quella Commissione, ma con l’unico esito di dover constatare le prevedibili complicità trasversali dei diversi poteri istituzionali nel tacere deformare coprire errori di coordinazione, rivalità, retropensieri inconfessabili nella gestione dell’affaire: fin dalla “svogliata” ricerca dei covi brigatisti, pur rivelati perfino nella farsa delle sedute spiritiche. Insomma una tragica replica in rebus (dettagli a parte) delle previsioni fantasticate nel tanto contestato Contesto. E obliteriamo un complementare esito doloroso per lo scrittore. Uno scontro tra menzogna politica e verità di fatto nel terzetto Sciascia-Berlinguer-Guttuso. Lo si legge nella biografia di Sciascia scritta da un discepolo devoto (fino all’autoidentificazione risentita): “Il maestro di Regalpetra”.
Ancora mi chiedo come sia potuto accadere che il Pci, con tante teste lucide nei suoi gruppi dirigenti, cadesse in quella trappola gesuiticamente bianca (o, se si preferisce, “nera”, ma sotto lenzuolo bianco). L’enfatizzata paura di offrire il fianco ai calunniatori che tentavano di piantare nella tradizione rivoluzionaria del Partito le radici del terrorismo rosso: è questa la strada scivolosa della fermezza comunista? Non soltanto, forse: come il sentiero del malaccorto “compromesso storico” si apriva nell’infida foresta delle “paure sudamericane” (l’affaire Cile-Usa-Cia, con l’eroico sacrificio di Salvador Allende, aveva spento le ultime fiammelle di speranza in una rivoluzione sociale pacifica), così la stolida politica della fermezza sentiva ancora di quel cattivo odore. Realismo politico, lo chiamano: un piatto che il moralista don Leonardo non poteva gustare. Il suo palato ne aveva sentito il forte agrume nella menzogna “realistica” del binomio Berlinguer-Guttuso, questo flash inatteso di Realpolitik, finito davanti al giudice, per svampare in una replica di “giustizia ingiusta”. Forse, a questo punto, conviene darne un mini-sunto: il segretario comunista aveva accennato, presenti Sciascia e Guttuso, a sospetti di complicità balcaniche (forse ceche) con le Br. Sciascia ne riferì nelle sue “deposizioni”; Berlinguer lo denunziò per calunnia; lo scrittore chiamò testimone Guttuso, ma anche il caro amico e antico sodale negò. Il giudice investito dell’affaire sull’Affaire recitò un ruolo di cinico Pilato: nessuna condanna, perché “la calunnia di Sciascia” non aveva rilievo penale. “La calunnia di Sciascia”!
Così lo scrittore aveva ricevuto abbastanza materiale per poter misurare, e in parte anticipare previsionalmente, ma soprattutto contestare, la svolta del Pci che scivolava verso la corrotta, mammonica e cratofila Dc, largamente collusa, tra l’altro, con la malavita organizzata siculo-calabro-campana. Nel “Contesto” (1971) il partito al governo (metafora della Dc), in difficoltà elettorali, si convince che avrebbe governato meglio, cioè con più garantita impunità, alleandosi col Partito Rivoluzionario Internazionale (maschera trasparente del Pci di Berlinguer). Più testualmente, nel romanzo è il “realista” ministro del partito inamovibile che sintetizza “in una battuta” lapidaria la situazione “della politica, per così dire, istituzionalizzata”: “il mio partito, che malgoverna da trent’anni, ha avuto ora la rivelazione che si malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale”. Ma poi la battuta viene sviluppata e pimentata al meglio: “specialmente se su quella poltrona – indicò la sua dietro la scrivania – venisse ad accomodarsi il signor Amar. Ora la visione del signor Amar che da quella poltrona fa sparare sugli operai in sciopero, sui contadini che chiedono acqua, sugli studenti che chiedono di non studiare, come il mio predecessore buonanima, e anzi meglio; questa visione, debbo confessarlo, seduce anche me. Ma oggi come oggi è un sogno. Il signor Amar non è un imbecille: sa benissimo che io su quella poltrona ci sto meglio di lui; e ci sto meglio nel senso che tutti stanno meglio mentre ci sto io, il signor Amar compreso.” Ce n’era abbastanza per incollare addosso all’Incauto la classica accusa di qualunquismo. La quale riverbera perfino in una intrusiva intervista dell’onesto Corrado Stajano. Né lo scrittore s’era fermato a quel primo quasi esplicito j’accuse: la sua contestazione incupisce, nel ’74, in “Toto modo”, letto e “tradotto” come una sorta di obliqua profezia del caso Moro; e prosegue, solitaria, con un po’ tutta la successiva produzione sino all’“Affaire” e oltre, con “Candido”, interviste, interventi sparsi su casi di giustizia tradita, polemiche spesso aspre contro il “comune sentire”; e via scrivendo. Era finito col diventare bersaglio di attacchi calunniosi (questi, sì) quanto ideologicamente frettolosi. Forse il più amaro gli venne da Scalfari, che poco accortamente degrada la difesa del Moro prigioniero a fatto personale. Eccone un brano tanto perfido quanto stridulo: “Il rapimento, la morte, le lettere di Moro non sono che un pretesto del quale lo scrittore si serve per parlare di sé, per difendere sé, per attaccare e vendicarsi di quanti a suo giudizio l’hanno offeso e non l’hanno sufficientemente apprezzato […] il suo pamphlet è al tempo stesso la difesa di Moro e la vendetta di Sciascia.” Quanto prezioso tempo del suo impegno di scrittore morale costò, al Racalmutese tosto, doversi difendere “colpo su colpo” dall’infittirsi di questi attacchi negli ultimi anni della sua declinante esistenza e vieppiù clinicamente sofferente resistenza! E purtroppo, non sempre senza qualche sua imprudente scivolata nella distrazione rimuovente: vedi il caso del famigerato exploit capovolto del 10 gennaio (un sabato) 1987: il provocatorio, sbagliato e autolesionistico articolo dall’altrettanto sbadato (o sbilanciato) direttore del Corsera intitolato “I professionisti dell’antimafia”. Una “sbadataggine” che profanava, corrivamente, anche se involontariamente, la lunga fila di galantuomini i quali alla versione attivo-investigativa e punitiva di quella professione avevano sacrificata la vita. Il tutto, per “punire” chi avrebbe fatto carriera con l’antimafia caciarona e di espansivo folklore! Quali carriere, poi! Ma ecco: quella scivolata può benissimo stare sul conto delle tante amarezze riversategli dentro dagli attacchi ingenerosi al suo anticonformismo militante: da quelle amarezze poteva bene scaturire una reattività permalosa (e, a volte, frettolosa). E n’è scaturita. Complice, magari, la dolorosa decadenza fisica, che raramente può essere una remora frenante della accumulata suscettibilità.
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Ho resistito, finora, alla tentazione di trascrivere su queste pagine privatissime qualche passo dell’ultima lettera di Moro, naturalmente diretta ai familiari adorati, dalla moglie ai figli, uno sgorgo di sincerità al cospetto della morte incalzante, nel quale la parte patetica si alterna a un ferito quanto fermo j’accuse contro i suoi amici (di partito, soprattutto), e altri soggetti dolorosamente deludenti:
“ Mia dolcissima Norina, dopo un momento di esilissimo ottimismo dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell’incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione […]Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC con il suo assurdo ed incredibile comportamento […] E’ poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall’idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati dalle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare. E questo è tutto per il passato. Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande, carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in un’unica casa, anche Emma, se è possibile, e fate ricorso ai buoni e cari amici. Che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore […] Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissmo. […] Tutto è inutile quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo. Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibile l’ordine di esecuzione. Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue. Prega per me, ricordami soavemente, carezza i piccoli dolcissimi, tutti. Che Iddio vi aiuti tutti….”
O che non c’è stato perfino chi ha scosso questa straziata commozione come prova lampante di un patetismo estraneo al “vero Moro”, e dunque da non lasciarsene “impressionare”? Ma è bene tacere certi nomi.
Niente patetismi ma fierezza inquisitiva e toni biblici in altre lettere. Come in quella diretta a Zaccagnini, del 24 aprile: “Non creda la DC di avere chiuso il suo problema liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa per impedire che della DC si faccia quello che se ne fa oggi […] Per questa ragione, per un’evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene…”
Nella telefonata del brigatista Valerio Moruci a Franco Tritto, fedelissimo assistente di Moro, affiora un sospiro di pietà, che Sciascia coglie e sottolinea: quella pietà che sembrava bandita dalla torva acredine di una tragedia ingessata nell’ideologia, e ora riemerge: nelle parole, nelle ripetizioni, nelle pause di quel parlare concitato, di necessità frettoloso e incalzante, eppure resistente alla salvifica necessaria fretta. Praticamente nella “pazienza” di quel terrorista che ripete più e più volte il messaggio da recare alla famiglia Moro: prima all’assistente Tritto, poi al padre di lui, correndo il rischio di essere catturato dalla polizia intercettante. Scrive Sciascia: “La voce è fredda, ma le parole, le pause, le esitazioni tradiscono la pietà. E il rispetto. Per quattro volte chiama Moro ‘l’onorevole’, e per due volte ‘il presidente’…”. Piccole verità senza bollo di Stato. Come quelle gridate dalla folla agli improbabili pretoriani di quello sputtanatissimo Stato: “l’avete ucciso voi”, “lo hanno abbandonato quando non serviva più”, e simili scaglie di evidenza greggia. Tra le quali, forse, anche la non frettolosa cattura di quei brigatisti così funzionali ai segreti voti o disegni dello Stato segreto.
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Il dispiacere più sofferto a chi scrive questi appunti sul “caso Moro” venne dal coinvolgimento, in quella tragica recita delle improbabili purezze, dell’amato Sandro Pertini, in quel tempo amaro Presidente della Camera. Come dubitare di quella coerenza fierezza buona fede? Ma altrettanto difficile era sottrarre il Caso alla saggia moralità popolare del proverbio sempre citato e spesso tradito: il troppo stroppia. L’eccesso: ecco l’idolo ruffiano del Moloch affamato di sacrifici umani, che si finisce con l’adorare quando ci si intestardisce sulle formule astratte. Un eccesso di fierezza ecco il troppo che armò la mano omicida contro Moro, inopinata avatar di uno Stato d’un tratto tumido di intransigente rigore. Fierezza di sorgiva scaturigine nel vecchio guerriero che da giovane aveva proibito alla madre di chiedere al Nemico fascista la grazia per lui, prigioniero di uno Stato allora non riconosciuto giusto perché sfigurato. Dov’era, ora, quello Stato che potesse vantare tanta purezza (o coerenza di democratica indipendenza) da doverla custodire negando a degli avversari militarmente “convincenti” lo status di controparte riconosciuta? Stava soltanto nella retorica da comizio, nella teoresi accademica di ponzatori professionali, nell’ipocrisia di chi se lo inventava a copertura di un malgoverno largamente corrotto e corruttore, che la stagione di Mani pulite avrebbe smascherato clamorosamente nella folta spasmodica liberatrice demolizione giudiziaria (ahimé, solo temporanea) di Tangentopoli e del correlato sistema partitico della cosiddetta Prima Repubblica. E, chissà, pure nella malafede di chi vi cercava una maschera decente al proprio servilismo di provinciale filo-americano. O non ci sarà stato anche qualche aspirante al sommo Colle che dal grande Idolo attendeva lo sgombero di quella strada in salita? Come che sia andata (e quali che siano le componenti del “maledetto imbroglio”), resta il fatto che in nome di un tale Moloch-Baal fenicio-cartaginese (ah, il delizioso “Salambò” di Flaubert! quante spigolose e ghiotte verità ci regala a migliore intelligenza delle humaae historiae a far corona intorno alla deliziosa, e tragica, sacerdotessa del titolo!) si sacrificarono vite umane. Per la prima volta mi trovai in convinto contrasto col futuro e prossimo “Presidente degli italiani onesti”. Convinto e, ripeto, doloroso contrasto. Non mi sarebbero mancate future occasioni di tornare ad ammirarlo: chi può dimenticare il Pertini accigliato che, la fedele pipa in mano, da milioni di teleschermi infiammati, sferzava una classe politica in gran parte ladra e complice di ladri, degna di stare in galera: Pertini “commentava” alla sua maniera, schietta e diretta, lo scialo predatorio consumato intorno al terremoto dell’Irpinia (novembre 1980), alla faccia dei suoi quasi tremila morti e della inclusa porzione di malamorte da sepolti vivi. Non che i volti petrigni di quegli avvoltoi e sciacalli e iene si colorassero di vergogna e fossero stati dalle fiere rampogne convinti a un sia pur futuro pentimento. Ma agli onesti vocazionali, e a quelli da incapacità manovriera, quel discorso (tutto a braccio, com’era il suo stile) piacque. E fu elisir di rivitalizzante frescura contro le torbide acque politiche inquinate da liquami morali molteplici e i loro deprimenti gorghi ripetitivi1. Meno che mai si può cancellare il ricordo del Pertini corporalmente presente, qualche anno dopo, alla lunga agonia del piccolo Alfredino nella morsa del pozzo assassino e dell’impotenza umana.
Posso confidarti, lettore senza volto del prossimo terzo millennio, che, dopo molti anni da quella assurda tragedia, ancora mi capita di sentirmi riempire gli occhi di lacrime al risvegliarsi dell’invocazione di quel bambino tradito che dal fondo di quel budello d’inferno privo di dèi pietosi implorava: “Mamma, mamma, basta, basta!” Sì, vi resiste ancora un paragrafo della mia teodicea capovolta. Non era stato ancora e sempre l’ingordo Baal-Moloch a inghiottire la solita ostia di tenera carne?
Pertini era fatto così: uomo di coerenze severe fino al masochismo virile e alla crudeltà, restava esposto a rigidezze spiazzanti anche verso amici e sodali, a suo giudizio non abbastanza saldi nella fedeltà ai valori fondanti. E fu ancora Sciascia a scontarne un episodio allorché, dopo cordialità incoraggianti dal Colle (l’esuberanza pertinica che propone il latino tu ai personaggi intenti al Lei, per il Signor Presidente!) dovette incassarne un silenzio di pietra al suo appello in difesa di un’altra illustre vittima della malagiustizia: Enzo Tortora. Male informato, Pertini seguì i disturbati consigli dei suggeritori in mala fede. Ma anche qui, zitti e avanti. Magari ricordando, in pectore, il Galileo di Brecht: “Non tutto ciò che fa un grand’uomo è grande”.
Un dettaglio dello scandalo Vermicino mi si sveglia ─ forse a beffardo memento che le cose del mondo non sono quasi mai semplici; e che le buone azioni umane non sempre hanno eredità di vita lunga. L’eroe di quella tragedia, Rosario Tarsia, l’uomo che s’era calato nel pozzo, testa in giù e salda imbracatura, fino a raggiungere la mano del piccolo Alfredino, a quasi 40 metri di profondità (e con la mano un momento di speranza presto stracciata dalla cieca inesorabilità del Fato gravitazionale), quell’eroe diventò un criminale: da generoso soccorritore col suo quarto d’ora di meritata celebrità, si trasformò in truce assassino della moglie, brutalmente accoltellata, e perciò condannato a 16 anni di carcere che sta ancora scontando.2 Come se un fato beffardo avesse escluso da quella biografia la possibilità di realizzare il bene, alla presa scivolosa del quarantenne soccorritore la manina dell’innocente era sfuggita come attratta da quell’Ananke spietato e Alfredino era precipitato nelle fauci del Mostro senza volto. Anzi, col volto occasionale della cieca gravità, la stessa che ci consente di abitare godere e saccheggiare questo pianeta dai mille volti crepitanti di insidie anche nelle sue bellezze più seduttive. “Piangeva, si lamentava, chiamava la mamma”, ripetè a lungo, anche dopo anni, il salvatore mancato.

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Vorrei scaricare in questa abbondanza già ridondante un’altra notizia che ho raccattato mentre rileggevo questi appunti: l’implicazione dell’Abbé Pierre nell’affaire Moro. Personaggio della magra categoria dei simpatici, l’Abbé è un miscuglio di spregiudicatezza e generosità, e soprattutto di reattività solitaria alle ipocrisie del mondo: specialmente dei Mida arroganti e insensibili, dei politici tarati dal Proteo tornacontista, dei preti tonanti dai pulpiti ma refrattari alla pratica del soccorso vivo e militante (per non parlare della spinosa castità). Uno spirito ribelle, di testimonianza operosa del migliore vangelo: che non teme di cantarle ai malavitosi e ai riciclatori del denaro mafioso. Un intreccio aspro e dolce di francescanesimo attivo, di spregiudicatezza giudicante, di convinzione profonda al servizio dei poveri dei deboli dei reietti. Premio Balzan “per essersi interamente dedicato al soccorso dei sofferenti nello spirito e nel corpo”, fu più volte candidato al Nobel. Ma troppo divergente rispetto alla sensibilità di quel mondo per vincerlo, quel premio da sempre moderatamente politicizzato. Il fondatore della comunità Emmaus disse di sé in un’intervista: “Sono stato marinaio, sono stato missionario e un po’ brigante, come quelli che erano sospettati durante la Resistenza e come qualcuno di quelli cui diamo asilo oggi”. Chi sono questi neo-resistenti sospettati e coperti dal santo prete-brigante? Giusto quei signori che hanno realizzato il capolavoro di eccessi capovoltisi nella loro rovina: i biechi, ma “spiegabili”, eroi di via Fani. Il marito di una nipote dell’Abbé fu tra i sospettati dell’agguato; la nipote era segretaria della famosa scuola di lingue Hyperion, a sua volta segnalata come possibile covo di intellettuali con penchant estremista e simpatie rosso-terrore: l’Abbé, com’era suo costume, si spese tutto a proteggerli: sospetti? infondati, tagliò corto. Addirittura, il caso era, a suo ardito giudizio, del tutto comparabile al famigerato Affaire Dreyfus. Resistente, fu arrestato dalla Gestapo. Si vantò di non avere ucciso nessuno, da combattente nel maquis. Sbagliò qualche amicizia: forse anche quella con l’irrequieto, contraddittorio, rinnegato filosofo Garaudy (da comunista finito codino antisemita). L’accusa di negazionismo (negare la realtà della Shoah) riverberò dal filosofo all’Abate l’immancabile implicazione di antisemitismo. Uno slittamento assasi facile: ancora oggi ti puoi permettere, forse, di criticare la politica palestinese di Israele e certi tratti barbari della cultura biblica senza suscitare un coro di crucifige sulla tua pelle?
Fu uomo “olistico” l’abate e non ignorò la carne e le sue “debolezze”: “Mi è capitato di cedere al desiderio sessuale”. E all’amore che lo giustifica – aggiungiamo. Ma non se ne fece travolgere – assicura –. Questo “mito vivente” incantò l’“Uomo dei segni”, Roland Barthes. Al punto da fargli dedicare un saggio, “L’iconografia dell’Abbé Pierre”, dove lo definii “una foresta di segni”, minutamente esplorando la “foresta” per sottoporla a un fantasioso strutturalismo. La Chiesa inquieta fu costretta alla pazienza dallo spessore socio-mediale del rompiscatole. Che all’Infallibile par excellence non lesinava rogne e malumori: difende perfino il matrimonio dei religiosi e le unioni gay. Bettino Craxi, alla ricerca del “Grande vecchio”, puntò lo sguardo di lince su Hyperion: forse si nascondeva in quella “cellula” sovversiva mascherata di intellighentzia al quadrato? Se lo trovò davanti come testimone il giudice Mastelloni, a ricevere dichiarazioni spontanee in difesa degli italiani operanti nella cerchia di Hyperion: erano stati colpiti da mandati di cattura del giudice per reati legati al terrorismo rosso. Fu un osso duro per il giovane Mastelloni. Che lo accosta a Caron dimonio, se gli attribuisce “Occhi di bragia”. L’abate indigesto fece otto giorni di “scenografico” sciopero-digiuno in difesa degli accusati: disse che erano rifugiati all’Hyperion in quanto perseguitati da una misteriosa centrale nazi-fascista, o giù di lì. Il giudice riferì anche di una visita dell’abate a Zaccagnini durante i 55 giorni del sequestro: di quel colloquio non trapelò nulla. Ma della sua inutilità per la salvezza di Moro dovette soffrire non poco, l’Abbè. Strappava ammirazione anche a coloro che disturbava, è il caso di Mastelloni: gli attribuisce una “visione globale” dei problemi e dei rapporti umani che gli consente atteggiamenti e scelte irritanti per politici in toga e giudici in abiti civili. Per non parlare dei militari. Gli dobbiamo il decreto di Mitterrand a protezione dei latitanti accolti in Francia. Simone de Beauvoir non gli negò collaborazione convinta (e forse non gli avrebbe negato più impegnative simpatie operative, la spregiudicata autrice dei “Mandarini” e del “Secondo sesso”). L’esprit jacobiniste è una latenza costante nella Francia democratica di ogni tempo: lo si vede da tanti, e anche da questi, fatti.
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Non mancò qualche plausibile argomento ai difensori della fermezza: che cosa avrebbero pensato i familiari dei cinque infelici massacrati, gli uomini della scorta, bersagli fulminati e sinistro vanto della “geometrica potenza di fuoco” terroristica? Certo, avrebbero pensato: Moro è un privilegiato, Moro andava salvato, anche cedendo agli assassini. Ma plausibile non vuol dire incontestabile: che cosa avrebbe fruttato, di giusto e di moralmente accettabile, la morte di Moro? Che dono ne ha ricevuto chi se l’augurava per un malinteso senso di equità e di giustizia-vendetta? Mica i terroristi avevano concesso tempo di trattative agli uomini della sventurata scorta. Ripensandoci: l’argomento, più che plausbile, è specioso. Ma è quello sul quale ha battuto e ribattuto in questi anni la gobba più intasata dell’Italia post-bellica, il sette volte Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Anche se per nulla convicendo la famiglia Moro (il figlio Giovanni soprattutto. A quando un libro di questo figlio? E un film sul Divo Giulio?)
Povero Moro. Mi salta sullo schermo mnestico un altro scampolo esemplare della sua vita pubblica: la volta che alla Camera, in pieno fermento multipolare per lo scandalo Lockheed, si drizzò, improbabile Farinata a segno invertito, in difesa della sua poco difendibile Dc e dei due notabili indiziati, il democristiano Luigi Gui e il socialdemocratico Mario Tanassi. Il 1977 era a un terzo del terzo mese e cominciava a riempirsi di traumatici eventi. “Non ci processerete sulle piazze” gridò Moro. Ma, quasi a “presentimento” del peggio in arrivo appena un anno dopo, il Parlamento dell’epoca, bypassando l’oratoria moresca, mandò i due notabili davanti alla Corte costituzionale “per corruzione aggravta ai danni dello Stato”. Gui ne uscì indenne (o appena sfiorato), Tanassi chiuse la carriera con sul petto cucita la “lettera scarlatta” della sentenza di colpevolezza: un adulterio della sua “coscienza socialista” sposata col Partito dei poveri, tradito col suo nemico Mammona. Povero Moro, sì: altro che processo sulle piazze, appena l’anno dopo. E per il partito, anzi i partiti alleati complici nel malaffare, bisognerà aspettare 14 anni di più: saranno processati nei tribunali e sulle piazze. Ma non impareranno nulla, quegli uomini di pietra.
Che, sull’affaire Moro verrà il tempo dei pentimenti a catena, è previsione facile, conoscendo i nostri polli: vedremo leaders e leaderini recitare il mea culpa da un capo all’altro della “banda larga” di una politica fantasiosa nell’auto-contraddizione e nei giri di valzer. Diranno: si poteva salvare Moro, abbiamo sbagliato. E i media, l’amplificatore ciarliero, strombetteranno da mille bocche catodiche, non tutte pulite, e per alcuni giorni o settimane (magari intervallati dai ritmi personali del contagio) si sentirà la musica dissonante del “caso di coscienza” collettivo. Chissà se il Sardo mordace reciterà anche lui il pentimento. E come reagirà a un eventuale (che direi inevitabile) libro-memoriale del figlio di Aldo, Giovanni Moro. Il maggior beneficiario del sacrifico di Moro, insomma Francesco Cossiga, non è tipo da ginocchi in penitenza: se lo accuseranno, reagirà, spietato. Dopo il ventennale discretamente mosso, sarà il trentennale, credo, l’occasione per una fiera commemorativa più folta varia densa di pentimenti e smemoratezze. E magari di nuove rivelazioni e supposizioni: chi, dei protagonisti mediatici, resisterà alla tentazione di correggere qualche ipotesi, cassarne altre, proporre nuove e sconvolgenti letture dell’affaire ? La fiera cominciò subito dopo il sacrificio, e segnò un “punto di svolta” già nel 1981, col film di Margarethe von Trotta, “Gli anni di piombo”, dove si accenna alle richieste dei brigatisti: liberazione di attivisti comunisti in cambio della vita di Moro. Il film ebbe successo, di critica e di pubblico, grazie a un felice intreccio fra vicende personali e familiari delle due sorelle protagoniste in polemica, una giornalista, l’altra terrorista in carcere, con eventi pubblici, socio-economici e politici. Ma grazie, non meno, alla buona, e a momenti ottima, prestazione degli interpreti: Barbara Sukowa, Jutta Lampe, Doris Schade, Rudiger Vogler. Lo spunto reale fu la morte in carcere della militante della Rote Armeé Fraktion Gudrun Esslin, interpretata, fondatamente, come spregiudicato omicidio politico. Nel film tale accusa viene dalle ricerche della sorella giornalista, che però cozza con l’indifferenza dell’opinione pubblica.
Film e libri ce ne sono già tanti e tutti, in un modo o nell’altro, ipotizzano verità nascoste che non sarà facile strappare alle occhiute tenebre di tenace custodia. No, non tutto si sa del caso Moro e forse questo tutto non sarà mai cumulato, per quanti sforzi si facciano nel tentare di raccogliere verità parziali e frammenti da cucire insieme per attingere quella totalità improbabile. Nemmeno il film di Giuseppe Ferrara, “Il caso Moro”, 1986, si spinge al di là di più o meno fondate ipotesi sollecitate da verosimiglianze contestuali sulle molteplici complicità estere e interne. Anche il libro di Sergio Zavoli, “La notte della Repubblica”, deve arrestarsi alle ricostruzioni verosimili, ai sospetti, alle dichiarazioni dei Br intervistati. Come Laura Braghetti e gli altri, che forniscono versioni differenti perfino sul come Moro venne ucciso. Sparò Mario Moretti, o Prospero Gallinari, uno solo dei due o entrambi? Gennaro Maccari o nessuno di loro? E, nel caso del nessuno, chi sparò a Moro? Quale esperta mano premette il grilletto della skorpion, la mitraglietta che in 8 /10 di secondo scarica l’intero caricatore, 750 colpi?
Quanto alle interferenze americane, è vero che esponenti di quella irritabile potenza “alleata” hanno negato sempre qualsiasi pressione, ma sta di fatto che Moro tornò “turbato” da un incontro con Kissinger (così la famiglia testimonia). Ci sono e ci saranno nel non lontano trentennale i politici convinti che si tratta di un delitto esclusivamente italiano, ma altri insisteranno sulla congiura a molte voci non tutte italiane. Né altrettanto esplicite. Certo il clima era quello. Le confusioni, gli abbagli, furono solo negligenza in buona fede o malizia di ponderate e mirate scelte? Vedi caso di via Gradoli, rivelata da una seduta spiritica (sic) come covo delle Br, ma, stranamente, ignorata e scambiata con un omonimo paesino improbabile ben lontano dalla capitale. Insomma, chi avesse voluto, avrebbe trovato Moro facilmente. Purtroppo, per lui, le volontà che contavano avevano ben altre priorità e mire da onorare.3

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3 Nota. Le titubanti previsioni di Paolo Assaggi si sono rivelate logicamente profetiche, e ne diamo un cenno integrativo in questa nota. Giovanni Moro ha veramente scritto il suo libro di testimonianza, e non vi risparmia i principali responsabili diretti o laterali di quella pluralissima impostura omicida. Fra i primi spicca proprio Cossiga e, come immaginato da Paolo, il Gran Sardo risponde per le previste rime all’attacco dell’autore, coprendolo di villanie impietose senza una stilla di tollerante comprensione per la sofferenza di quel figlio precocemente orfanizzato. Un altro libro, “Sia eseguita la sentenza”, rievoca lo sviluppo del dramma e le sue commessure. Il più significativo e tranchant ci pare il libro di Annachiara Valle, “Parole, opere e omissioni – La Chiesa nell’Italia degli anni di piombo” (Rizzoli) che prende di petto i retroscena vaticani confermando le peggiori ipotesi di coinvolgimento di quel mondo della perenne ambiguità. Tre cardinali avevano pensato di offrirsi ostaggi alle Br in cambio della vita di Moro. Occorreva l’autorizzazione delle autorità superiori, allora incarnate dal Sostituto di Stato della Santa Sede, monsignor Caprio. A lui si rivolge il vescovo di Ivrea, Luigi Bettazzi, illustrando le intenzioni del terzetto (gli altri due sono il vescovo di Livorno, Alberto Ablondi e Clemente Riva, ausiliario di Roma): “Ci muoveremo noi, in prima persona, ma vorremmo che il Vaticano ci desse via libera”. E questa è la serafica risposta del Caprio: “Ha già fatto troppo [sic!] il Papa, non occorre esporsi di più. Non c’è nulla da fare. E’ meglio che muoia un uomo solo piuttosto che tutta la nazione perisca”. Ferito nella sua coscienza umanitaria e cristiana, Bettazzi tenta un estremo gesto: informa che sono in corso contatti con le Br, che i loro capi attendono un segnale; e conclude: “Farò come non fossi venuto”. Ma il coriaceo sostituto replica, secco: “Poteva non venire…le proibiamo di offrirsi come ostaggio”. Inevitabile l’intepretazione corretta (cioè politica) di quella chiusura assassina da parte del Bettazzi: “Una lezione che si voleva dare a chi voleva inserire le sinistre nei gangli del potere”. In Vaticano, insomma, c’erano (e questo si sapeva da tempo) due posizioni, drasticamente contrapposte, e il partito contrario alle trattative “impose” a Paolo VI quella frasetta che sigillò mortalmente il destino di Moro: “senza condizioni”. Un insulto in faccia alle Br, una spinta verso quella soluzione tragica che gli “uomini delle Brigate Rosse” avrebbero evitato volentieri. Si legge nel libro: “Il partito ostile alla trattativa era in larga parte influenzato dal governo italiano e soprattutto da Andreotti che aveva un filo direto con il segretario di Stato, Agostino Casaroli. In più c’erano gli ambienti vaticani che non volevano l’apertura al Pci operata da Moro.” Controprove? Facili da opporre al cinico non possumus del sacro Covo: nel 1974 le trattative vaticane (tramite un autorevole cattolico come Corrado Corghi: “Mi mossi mettendo sempre al corrente il Vaticano di quanto facevo”) per salvare il giudice Mario Sossi non imposero la “clausola” “senza condizioni” e “Mario Sossi tornò a casa”. Disparità di trattamento poco evangelicamente motivate. Anche per i brigatisti in carcere la Chiesa si adoperò al meglio per evitare soluzioni tragiche (del genere capitato alla colonna torinese incappata nello sbrigativo generale Dalla Chiesa) favorendo resa e consegna delle armi. “Facendo leva su quei giovani (alcuni partiti dalle parrocche affascinati dagli spari e finiti nelle patrie galere. Da cui sono usciti anche grazie al sostegno di preti, suore e volontari. Portatori di opere, dopo le parole e le omissioni)” (Giovanni Bianconi, “Vaticano, il doppio binario della mediazione con le Br”, Corsera, 20. 04, 08) Et altro non ci appulcro, direbbe Assaggi.
[Nota del curatore, che ha usato anche l’onesto servizio di Enrico Mannucci, “Fumata nera per Moro”, “Magazine” del Corsera].

Nota ( ) bis. Rieccolo, il supermalato coriaceo, Cossiga senatore emerito, ex tutto: a pimentare di nuovo arzento la sua testimonianza serial inserendo l’innesto clamoroso nella festa mediatica dei suoi ottant’anni. Intervistato da Aldo Cazzullo per il Corsera dell’8 luglio 2008 non si fa pregare per spifferare altre ciniche ghiottonerie sull’affaire Moro. Domanda del giornalista. “A trent’anni dalla morte di Moro, il consulente che le inviò il Dipartimento di Stato, Steve Pieczenick, ha detto: ‘Con Cossiga e Andreotti decidemmo di lasciarlo morire’. Quell’uomo mente? Ricorda male? Ci fu un fraintendimento tra voi? O a un certo punto eravate rassegnati a non salvare Moro?” Risposta glamour del senatore a vita, parte prima: “Quando con il Pci di Berlinguer ho optato per la linea della fermezza, ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte.” Parte seconda, al doping tossico, marca Cossiga: “Altri si sono scoperti trattativisti in seguito; la famiglia Moro, poi, se l’è presa solo con me, mai con i comunisti”. Parte terza, una stilettata al cenere moresco, mascherata di neutrale passione etico-teorica: “Il punto è che, a differenza di molti cattolici sociali, convinti che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile, io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era così: la dignità dello Stato, come ha scritto, non valeva l’interesse del suo nipotino Luca”. E mosca sui buchi delle omissioni che la risposta cossighiana lascia aperti davanti alla precisa domanda sull’intervento diretto degli Stati Uniti.
L’intervista è lunga e tocca vari temi: un altro ancora ci tenta perché riverbera di nuovo sulla memoria di Moro. Bocciando la dietrologia e la tesi del complotto straniero contro il perduto Amico, Cossiga ritorna (ne aveva già parlato) sulla strage di Bologna 1980 per “prosciogliere” la Mambro e Fioravanti, soffiare ancora sulle ceneri dell’incauto Defunto, qualificare un incidente quella strage: “...di terrorismo me ne intendo. La strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della ‘resistenza palestinese’”: i quali, autorizzati dal lodo Moro a fare in italia quel che volevano, purché non contro il nostro Paese, “si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo”. E, visto che siamo in ballo, perché non sferrare un bel calcio agli stinchi dei signori magistrati, brutta genia agli occhi del “massone” Cossiga (tra i suoi bersagli, il pur coriaceo procuratore Cordova, nemico giurato dei pasticci massonici)? Eccolo, il calcio: “Quanto agli innocenti condannati, in Italia i magistrati, salvo qualcuno, non sono mai stati eroi. E nella rossa Bologna, la strage doveva essere fascista. In un primo tempo, gli imputati vennero assolti. Seguirono le manifestazioni politiche, e le sentenze politiche.”
Non meno coriaceo il venerando Andreotti, ex Belzebù, il quale, onorato ospite alla presentazione di un libro di Luigi Manconi, ripete le sue difese della famigerata fermezza, senza omettere la vecchia tiritera: “Eravamo in guerra. C’erano i morti di via Fani, le loro vedove che minacciavano di bruciarsi in piazza se avessimo trattato con le Br”. Commentino del cronista Giovanni Bianconi: “Questo è un dettaglio che Andreotti racconta da trent’anni, e da trent’anni smentito dalle due vedove degli uomini della scorta, nonché da un’intercettazione telefonica di quei giorni, quando la moglie del maresciallo Leonardi chiamò la signora Moro per negare la stessa notizia riportata da un quotidiano”. Il libro dell’ex senatore verde dell’Ulivo, nonché ex Lotta continua, Luigi Manconi, è l’ennesima rivisitazione degli anni di piombo, ma con una coda sul terzo millennio; titolo: “Terroristi italiani. Le Br e la guerra totale, 1970-2008”. Presente all’incontro anche l’ex Br Valerio Morucci: Andreotti e Morucci, due vecchie volpi in semi-feeling con quasi-inversione di ruoli. Andreotti: “E’ possibile che abbiamo sbagliato qualcosa, soprattutto nell’analisi globale.” Morucci: “Il discorso del presidente Andreotti mi pare molto indulgente verso le Brigate rosse. Forse troppo. Dubito che in quel momento lo Stato potesse reagire diversamente da come fece” (Corsera, 24. 11. 08, Giovanni Bianconi, “Andreotti, stretta di mano e dialogo con Morucci”. La pagina si apre con questa titolo in do di petto: “Volantino a La Spezia: torna la lotta armata”. Ma il testo ridimensiona quell’urlo seduttivo. Il che non toglie che al ministro della Giustizia Angelino Alfano arrivino buste con proiettili dentro siglate da stelle a cinque punte [nota del curatore degli Archivi di Paolo Assaggi]

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