giovedì 30 luglio 2009

Susanna, frammento 35


30 giugno

Et idem et semper eadem. Bisestilico sgorgo, stasera, in ciniche danze di coincidenze profane. Sie ist immer appetitlich. Und heute abend ist sie sehr gut mit mir gewesen. Ella ha estado muy disponible esta tarde.
Che stultitia questo voler fermare nuclei di tempo in punti di inchiostro. E chiudere in gusci di rigidi scarabocchi liquidi turgori in fuga. Miliardi di atomi rutilanti di silente rumore dentro e sotto il verde dell’inchiostro per tentare l’impossibile decantazione del panta rei. Ah giorni di luce e di fuoco in questa gonfia estate dall’orizzonte infoscato! Ma il mio corsivo straniero non è sans pécher...
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Un cadavere ambulante, verde poco meno dell’inchiostro di questa biro: fegato in disfacimento cirrotico ed emorragie nel corpo gonfio di un “applicato” di segreteria che ha pochi mesi di stenta vita residua e vuole sposarsi fra pochi giri del residuo scontato. Vorrei conoscere l’eroina di tanta impresa. La sposa, sto dicendo. Non si rende conto del monco e corroso avvenire in attesa? Non è verosimile. Ci sono molle segrete di interessi in gioco? Si dice, in giro. Né la cosa appare inverosimile: sposa, indi vedova, erediterebbe casa e altri beni (modesti, s’intuisce, ma pur sempre appetibili da una modesta condizione). Buona combinazione per ricominciare. Qualche anima pia sussurra che lei si sacrifica per dargli un po’ di felicità. Pochi mesi, poche occasioni di legittimo sesso, frugali bevute alla grama coppa della vita avara. Questo, lei, la sposa promessa, vuole dargli? Sarebbe opera meritoria, per sé. Ma se dietro al “per sé” c’è, come dicono altri, l’ “in sé” di un’eredità, il bouquet si complica. Con buona pace dei dicotomici, noi, quaderno, approviamo in toto. Ci sia residuale amore (nato intero), ci sia, incollato, interesse materiale, si aggiunga pietosa empatia: ci sta bene il tutto. E agli angeli di sogno lasciamo l’astratta purezza delle  fantasie di fumo.
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Ma si avverte anche una certa nausea della vita inquinata.
E dei commissari della incombente maturità. Il solito, discutibile e discusso, preside degli anni inquieti, gli inizi della mia “carriera magistrale”: presidente della 2a, e forse anche della 3a commissione, che sarebbe la mia: cioè quella in cui sono rappresentante d’istituto (di istituto, non, come sarebbe logico e sano, di classe. Sparagnino fino al ridicolo, il nostro Stato ragioniere). Per fortuna, c’è anche, nella 3a commissione, un commissario di filosofia-pedagogia che è stato mio collega e amico in questa scuola due anni fa. Insomma, abbiamo avuto la riunione o seduta preliminare per gli “esami di stato”. Che cominciano domani.

Un roveto al cuore. Punture e bruciori. E una stanchezza da morire. Cui si aggiunge l’angoscia per Rina che sta peggio, malgrado le cure. E la necessità schifosa di questa difesa che mi manda a letto senza sonno. La gola congesta della loquace malata non le permette di pronunciare che stente parole deformate dal dolore. Noto, quaderno, che tutte le rabbie suscitate da quella loquacità così spesso aggressiva (a volte non priva di ragioni, confessiamolo) si sciolgono in umida compassione per questa sofferenza “ingiusta”. Quasi che la sentissi spostata dal bersaglio corretto (moi), a quello sbagliato. Capricci dell’ironico burlone, sua Oscurità il Caso.


Venerdì, 1 luglio.
Ore 22,30’

Prova scritta di italiano. Temi balordi. Burocrazia luteziana. Non abbiamo ancora un presidente: il nominato ministeriale ha declinato l’invito. Un certificato medico, che non si nega a nessuno, e il collega misterioso, dopo la formalità indolore della cosiddetta visita fiscale, si godrà beato le vacanze. Probabilmente è del capoluogo, dunque sul mare. Che ha tante belle spiagge, per singoli e famiglie. Però, chi può dirlo? Magari sarà malato veramente. O impedito da diverso inghippo. ¿Quien sabe? E a noi che ce ne frega? Né l’improbabile motivazione seria intacca di un’unghia la consolidata prassi del “no, grazie!” immotivato e godereccio. Spesso il morbo giustificatore sta tutto nel misero compenso per i commissari che aggiungono fatica a fatica, rogne e riduzione di relax.
E’ arrivato, stamane, anche il commissario di italiano, che alla riunione era ancora assente: altra sostituzione, altro rimpiazzo di rinunciatario. Il presente, tratto dalle liste di riserva del Provveditorato, ha tutte le carte in regola. Per essere un’emerita testa di kappa. Ma non priva di risorse comiche e competenti sorprese. Ne sentiremo delle belle.
Durante l’assistenza, ho cercato di aiutare un po’ tutti, ma specialmente le mie alunne. E, fra loro, con occhio più vigilante, “quella”, raccomandata anche da mia moglie, che, pur sofferente, non dimentica l’amica.
Non chiedermi come mai, quaderno: è la prassi, il bello della prassi. O, in linguaggio televisivo più esplicito, il bello della diretta. E della dritta. Che più dritta non si può. E’ anche il brutto. Per varie ragioni. Prima: non puoi aiutare tutte nella stessa misura; indi, c’è chi si accontenta e non manca chi recrimina accusando. Seconda: le brave, quelle che non hanno bisogno di aiuti e aiutini, raramente gradiscono che si dia aiuto a chi ne ha bisogno. Al massimo, tollerano l‘usanza: tanto bene è radicata, e integrata nel sistema! Una terza ragione ammonisce sulla diversa reattività al suggerimento: c’è chi lo coglie correttamente e chi pasticcia sull’incomprensione parziale, e al limite perfino totale. Prende, cioè, fischi per fiaschi: per esempio, una parola per un’altra. Nell’insieme, tuttavia, si può ritenere proficuo il mio movimentato lavoro di assistenza. Alla fine, che c’è di male? Si mette in pratica il precetto evangelico: dar da bere agli assetati. E le ragazze sono più o meno tutte assetate. A essere precisi, anche le brave apprezzano interventi migliorativi: il rilievo di una svista, la segnalazione di una sciatteria, e simili. Naturalmente, non si va oltre certi limiti. Per ragioni ambientali e di equilibrio nel rapporto fra colleghi commissari e collega rappresentante d’istituto (est modus in rebus). E di equità verso l’ “utenza esaminanda” (come ha detto un commissario).
Spreco di sigarette, durante l’assistenza. No, non dentro l’aula: candidati e candidate sono collocati nei corridoi, e le finestre sono aperte. Pericoli di ingressi illegali, di temi svolti fuori e introdotti furtivamente attraverso le finestre? Sono ben sorvegliate. Più facile un movimento nei bagni: anche quelli sorvegliati, ma non si può escludere la complicità (diversamente interessata) di qualche bidello/a.
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Che pungiglione, che trafitture nella regione toracica sinistra. Perché non mi imbavaglio contro la tentazione? Va bene che, anche non fumando, i miei colleghi mi costringerebbero lo stesso a farlo: fumerei comunque il loro fumo passivo. Che, oltre ad essere sgradevole, fa male ugualmente. O di più.
E che pena queste sofferenze costituzionali chiamate esami. Intanto è troppo stressante “portare” l’intero programma di tutte le materie: sarebbe più razionale e umano pretenderne una bella porzione, con gli argomenti principali obbligatori e una parte degli altri a scelta dei candidati. Costringerli a memorizzarli tutti per tutte le materie, significa non solo sottoporre gli studenti a una fatica improba, nociva alla salute, ma altresì incoraggiarne il ricorso alla raccomandazione. C’è da scommettere che le ragazze sono quasi tutte “segnalate”. Nel quasi si possono incontrare esemplari di due categorie: quella dei poveri cristi senza conoscenze pertinenti (contadini, operai, Gente d’Aspromonte…); e quella delle ragazze e dei ragazzi bravi, e orgogliosi, che non vogliono inquinare le prove. Categoria, quest’ultima, poco, pochissimo popolata. Perché? Ma perché capita che anche i bravi e le brave non disdegnino un appoggino: giustificato press’a poco così: siccome sono tutti raccomandati, accetto di essere segnalato/a anch’io perché si valorizzi la mia preparazione. E non mi venga diminuito il voto alto che dimostrerò di meritare. Non è pura teoria e prurito di testimone sospettoso: la cosa ha plurimi riscontri.
Per tutto questo, che scivola a valle, e tantissimo altro, che accade a monte e sale in alto loco, vien voglia di ridere in faccia a tutti noi, commissari esterni, presidenti, ministro, direttori generali del ministero. Per finire con presidi e colleghi meritevoli di altri, meno delicati, impieghi. E ai rappresentanti d’istituto no? Anche, certo, ma un po’ meno: in quanto tali, essendo più vittime che carnefici. Certo, quando viene il nostro turno, sappiamo essere pure noi commissari esterni meritevoli di quelle risate virtuali.
Altre ragioni per ridere in faccia a tutti, e cantare ai colletti bianchi la verità terrosa dell’esistenza, si trovano nei programmi, nell’orientamento culturale dell’Istituzione. Quale appare anche, e soprattutto, dai temi di italiano agli esami di maturità: poteva mancare l’eterno Spiro? Non poteva, e infatti eccolo dardeggiare di rapinosa luce nella traccia dantesca: “L’umano e il divino nel Paradiso di Dante”. Ed è la traccia numero uno: chiara e dicotomica, quanto generica e “orientata”. Né, poi, così nuova e originale (formulazione a parte, o magari compresa). Immagino cosa succederebbe se qualche candidato/a tentasse di ridurre quel divino all’umano troppo umano che costituisce la sostanza antropologica e morale della Commedia. Le ragazze che l’hanno scelta, con involontaria ironia, hanno raccontato qualche episodio della cantica. Vanno forte i soliti san Francesco e san Domenico, Cacciaguida, avo e profeta dell’accaduto, l’incantato elogio della Madonna, umile e alta più che creatura; e simili olezzi. Una delle girls dell’altra sezione ha tenuto a precisare, con qualche indugio ricamatorio, che Dante è “un grandissimo poeta”. E tante cose ancora sono accadute in questa memorabile giornata di silenzioso cimento e tacita adrenalina sussurrante (comunicano tra loro a voce bassa, quasi, appunto, in sussurro, le ragazze durante la prova). La piccola, paffutella Mimma Minniti ha pensato bene di tenersi accanto, sul banco, la bianca coroncina del rosario, tutta raccolta e in esposta evidenza. E’ ben tra le più brave, Mimma, ma un aiutino trascendente non si rifiuta mai. Susanna, a volersi arrendere all’amuleto, avrebbe preferito, forse, due corna rosse da diavoletto ghignante. Molto diffuso, quasi totalitario, il segno di croce quale incipit di scongiuro e buon augurio. Nel quasi s’accuccia, lo scetticismo astinente dell’osannata Susy, coronato dall’altro, delle compagne-amiche più strette. Gente laica!
Ho aiutato anche Lella La Mela, il fiore dorato dal gambo corto, l’occhiglauca perduta della scorsa estate. Che non ha rifiutato l’aiuto. Anzi. Negli occhi, un lampo marino di umida luce. Sono sicuro che pure lei soffre di questa “separatezza”. Tanta buona amicizia in frantumi: come non rimpiangerla? E finita, poi, per fisime ed esagerazioni: di orgoglio, gelosie sfocate, isterismi scaricati su innocenti (che c’entrava Lella con la sorella maggiore?).
                                    
La sera, visite, seccature, sprechi di tempo. Alunne che chiedono, già ora, notizie sul loro tema! O che narrano la loro avventura “compositiva”, in cerca di pareri e previsioni. Troppa vicinanza tra scuola e privato? Anche questa è prassi diffusa. Di paese, di territorio, di regione? Forse non soltanto. Ma non sono stato al centro-nord: né come insegnante, né, ancora, come commissario esaminatore.
Assieme alle seccature, ma ben distinte, pure visite gradite. Viene Susanna per la solita lezione. Dopo la lezione (di italiano: su Dante e il XV del Paradiso, che “ripete”), Susy mi prepara la cena. Ma non vuole cenare con me. Significherebbe troppa intimità, e lei ne ha pudore. Cioè, in realtà, non intende alimentare malumori in Rina, ancora a letto, sofferente, e dunque dalla tavola imbandita assente. Io mangio con particolare concentrazione, mentre Susy, assolto il compito di domestica cuoca vicaria, siede accanto al letto a far compagnia quasi monologante all’amica non ancora risanata. Finita la mia cenetta meditativa (su quella novità d’impianto), Susy sparecchia. Fermentano immagini di possibilità remote. Né propriamente auspicate.
Verso le undici, sbarca in casa mezza famiglia susynica, la metà femminile, cioè. E si raccoglie intorno al letto della malata. Che cicaleccio! Quando vanno via, è già mezzanotte. Viene a prenderle uno dei fratelli di Susy con la sua macchina. Rina è contenta della visita. Ma accusa un po’ di depressa atrabile: febbre e dolente gola in fiamme le impediscono di partecipare compiutamente alla conversazione, per difficoltà di deglutizione e respiro. Gianpiero risente della indisposizione materna, ma i suoi quattro anni appena compiuti lo aiutano a distrarsi se qualche gradita presenza si fa disponibile ai suoi giochi. E al suo bisogno di lasciare la casa per qualche ora in cerca di spazi più ariosi.

2 luglio

Sabato ebraico: riposo a scuola. Mezzogiorno: arrivano rose per mia moglie: dalla famiglia di Rosy, la fidanzata del cognato. Pomeriggio: Susanna porta un regalo alla stessa festeggiata: un cofanetto con carillon e ballerina in figura di danza, che ruota sulle note della musichetta. Il cofanetto è tappezzato di velluto rosso, e l’interno del coperchio è foderato di specchietti rettangolari che moltiplicano l’immagine della danzatrice ruotante. Molto carino. E sostanzioso: nel cofanetto c’è pure una collana e degli orecchini. Susy non conosce tircheria. E’ uno dei suoi lati più cattivanti. Rina compie gli anni: ventisette. Dimenticavo: Giampiero ha già provveduto a rompere le gambe alla ballerina. Mancava, infatti, il suo marchio personale sul compleanno materno.
Dopo le effusioni, a base dei prevedibili e consueti “non dovevi”, “come no?”, “non dovevi, voglio dire, spendere tanto”, “lei merita anche di più”, e via con la musica: dopo tanto fiato e sonorità, lezione a Susy. Matematica, stasera. Non riesce ancora a risolvere i problemi. A meno che non siano di una facilità che certamente non troverà agli esami. Ne risolviamo un paio, sforzandomi di farle entrare nella fascinosa testolina l’impianto dell’impostazione. E soprattutto, di collocarvelo stabilmente.
A sera inoltrata, mamma e sorella vengono a prenderla. Si fermano fino a mezzanotte anche stasera, replicando la visita a Rina. Che comincia a stare meglio. Come faranno a riempire di chiacchiere tutto questo tempo?
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Pensieri oziosi di un affaccendato.
Poiché nella levigata compattezza bucherellata dell’ontologia domestica si è presentato un hueco più diametrato del solito recente, i Dasein del già ampiamente teorizzato binomio loco y hermético vi hanno incuneato non insolite chances di allegra locura y efusiòn corporal. Perdurando, ostinato, lo sbarramento ematicoide dell’interieur, le manipolazioni si sono appagate di periferie concettuali. Che sono pur sempre gratificanti, da la boca a las piernas. Fuori da ogni decente possibilità di controllo le rimpiante ben lubrificate latebre del rustichesco ninferno decameronico. Peraltro, già percorso, con reiterazioni inventive (come sai, quaderno), soltanto in preludio vestibolare, ovvero  assaggio di soglia delusa. Le opere e i giorni: in versione “locura”. Tamen...
Al tamen soddisfatto, però, è tempo di accompagnarne, anzi sovrapporne un altro. Di ben diverso peso: l’esame incombente dovrebbe tagliare ogni tentazione esplorativa. Fino al “fatidico giorno”. Ci riuscirò? Ci riusciremo? Non si sa. Affatto saputo è che devo. A costo di mordermi labbra e nocche.
Devo, sì. Dobbiamo. Qui si parrà tua nobilitate, magister. Che l’eroico Alfieri ci aiuti. Ma lui era favorito: qui le forze attrattive sono diabolicamente più insidiose.

Domenica, 3 luglio

Bagno ristoratore alle poltrite membra. Poi barba e colazione. Indi, lezione di filosofia alla candidata e al candidato esterni alla maturità classica. Come ieri, alla stessa ora, per le stesse due ore e passa. Nel solito miscuglio di piccole soddisfazioni e meno piccole delusioni. Bah! La filosofia, si sa, non è cibo leggero per la comune attrezzatura cerebrale votata più al percepibile concreto che al vaporoso astratto. E difatti, le piccole soddisfazioni s’affacciano quando dall’empireo categoriale si plana sulle bassure “confrontabili” del corpo e sue pertinenze. Forse che fra le mie alunne i preferiti non sono stati sempre Schopenhauer (nel loro slang confidenziale, Shopy), Nietzsche, Freud, Feuerbach…?
Pranzo, per la prima volta dall’inizio della malattia, con Rina a tavola. Quella sua aria sofferente, il volto smagrito, attenuato il normale rosa delle gote, le danno una commovente aura “mistica”. Ed è il tempo infido dei rimorsi, dei serpentini sensi di colpa. Non vado a letto con la sua migliore amica, e tuttavia l’ampiamente documentata sensiblerie verso quel polo magnetico conosce un saltellante ritorno di punture epigrastiche. Be’, sono contento di averla avuta accanto davanti al maggior tavolo della casa e del suo tempo. Contentissimo anche Gianpiero, che ne festeggia il ritorno nella compagine del terzetto a modo suo, con trillante irrequietezza. Dopo il pasto, avrebbe voluto uscire insieme a lei, ma alla fine si è accontentato della mia sola compagnia. Al rientro, tentativo di riposo mezzo abortito, mentre il piccolo scorrazza per gli spazi liberi e non liberi dei vicini parenti in pectore.
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Pomeriggio di seccature e seccatori: processione di visitatori in cerca di notizie sugli scritti e dintorni. Tranne un caso: Guido Lagona, collega di filosofia in forza al liceo classico di Sozerato, nonché assessore regionale democristiano al turismo e spettacolo. Viene a “raccomandarmi” gente per gli esami in corso al magistrale, e riceve segnalazioni omogenee da parte del riluttante ma rassegnato qui scrivente sottoscritto. Anche Guido è in commissione di maturità, sempre a Zefiria, ma al liceo classico, dove si sono presentati i due allievi privati in attesa della prova orale. Privati e non paganti, per via di legami amichevoli col cognato.
Guido ha portato il figlio, un bel biondino vivace e risoluto, poco più in anni di Giampiero. Hanno giocato un po’ insieme, e hanno trovato il tempo di litigare per la prepotenza dell’occhiglauco biondino grintoso. Che il padre ha debitamente rimproverato e frenato, ma con scarso esito. Finché sono ripartiti, lui contento della missione compiuta, io di essermi scaricato della vischiosa incombenza “commendatizia”.
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Susanna risolve problemi di geometria, con lunghe interruzioni. A un certo punto mette il broncio. Poi le passa. Siamo alle saltuarie crisi di scoraggiamento. Più che legittime e comprensibili. Io, pour ce que me concerne, ho evitato deviazioni e deragliamenti. O meglio, ho cercato di evitarli, ma lei non pareva d’accordo, e ha strappato qualche leggera sfilacciatura al mio non possumus. Indi, mio mini-disagio. A lezione finita, verso le otto (ora legale), mamma e sorella di Susy vengono a prenderla, ma Rina invita Susy a cena e lei accetta. Dopo l’inevitabile breve sosta, accompagno le due donne a casa loro, ovviamente in macchina. E’ la seconda volta in due giorni che Susy cena con noi. Stasera c’è anche il fratellino più piccolo, Mino (Giacomino), undici anni di frenesia cinetica. E di precoce malizia. Susy dice che si sveste e veste in sua presenza senza imbarazzi. Una volta, in risposta a non so che osservazione e di chi (certo riguardante pudore e rispetti) rispose: “Oh, mbe’, Mino mi sapi”. Che tradotto suona: mi sa, mi conosce. Come ebbe a precisare in rapida sintesi: appunto, si spoglia e si veste in sua presenza. Come se lui non fosse cresciuto, in corpore et in mente, dai suoi lontani quattro e cinque anni. Ma lì, in quella famiglia, numerosa e franca, con poco spazio a disposizione nella modesta casa, le cose vanno così. Al contrario che nelle nostre case, nella mia paterna e in quella omologa di Rina (il cui padre soffre sddirittura di una sorta di ipermoralistica sessuofobia).
Due cene con Susy, e sia pure remorata di fratellino, significano aura nuova nel volume sensibile delle nostre stanze. Una sorta di pizzicante elettricità soffusa che avvolge ogni oggetto movimento gesto parola sorriso risata. Le risate di Susy (quando riesce a seppellire la mutria esaminale) risuonano alte e squillanti: l’analogon, in verbo dotto, è un vasto lampo di brezza fresca dentro l’afa estiva.
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Rileggendo questa pagina ventilata dalle risate sopra evocate mi vellica l’ennesima tentazione citatoria: vorrei trascriverci sopra un delizioso quadretto di un impareggiabile letterato con l’anima: Concetto Marchesi. Una vecchia conoscenza, in quanto autore della più ammirata e sostanziosa Storia della letteratura latina; una scoperta recente come narratore e maestro di bella scrittura. Un composto che concilia arguzia, ironia, delicatezza di sentimenti, straordinaria disposizione empatica verso la vita sofferente e mortificata (sia umana o soltanto animale), vivace sensualità e una scelta lessicale perfettamente aderente alla disposizione ritmico-sintattica, mai stentorea, incline più alla levità sorridente che alla mutria moralistica. La scelta politica, poi, me ne completa, per la sua precocità e coerenza estrema (fino al rischio, da rettore in Padova, di finire fra gli artigli dei tedeschi, post 25 luglio ’43) l’icona “carnale” che costringe alla simpatia assoluta. Leggerlo e rileggerlo è una vera godurie.
Il passo che sto per trascrivere sta nel vibrante Libro di Tersite (dedica: “A Pellegrino, fratello laico e cercatore del convento di Sant’Antonio a Monte”).
Lo scrittore è ospite di certi signori amici suoi; s’è allontanato e ora ritorna. Eccone la descrizione degli ambienti, premessa a un dialogo frizzante di sensuale arguzia:
Quando ritornai il giorno dopo, alle undici e mezzo, la cameriera, giovane e saporita, mi fece attraversare un corridoio e poi una grande sala e poi un altro corridoio, finché aprendo un uscio lucido e bianco mi disse lentamente: – I signori sono di là che discorrono. La signora la prega di volersi accomodare costà –. E mi introdusse nel gabinetto di toilette riservato alla padrona di casa.
Nella umida frescura odorosa respiravo la misteriosa essenza dell’invisibile corpo. La lucida bianchezza delle vasche, il tepore morbido degli accappatoi, il lieve disordine degli sgabelli levigati rivelavano tutto un intimo rito di bellezza ignuda. Sedetti davanti alla specchiera, dov’erano disposti gli oggetti consueti della farmaceutica femminile; ed estrassi fuori dalla conchiglia cristallina il piumino della cipria. Era grande, bianchissimo, leggero leggero. Preso per il popolino d’oro e lievemente agitato, il cigno si veniva facendo più gonfio e più grande come acquistasse una strana vita, e i tanti fili delle piume sottili, che si rialzavano ai lati, scoprivano appena il cuscinetto che aveva il colore della tortora. Io ci soffiavo su, adagio, adagio, per allargare quel petto di seta.
In quel momento apparve sulla soglia della stanza lei, la padrona di casa. Una malizia fanciullesca di beffa illuminava di grazia tutto il suo volto.
–   Buon dì, brutto signore! Oh, cosa fate?
–   Buon dì, bella signora! Cerco un cuore.
– Là dentro?
– Qua dentro.
– Soffiandoci sopra?
– E’ il miglior modo per destare i cuori.
Dalle sue labbra sgorgò una risata così fresca e limpida che avrei aperto la bocca per accoglierne lo zampillo.
Quella signora sapeva ridere e sorridere adorabilmente. Io sono insaziabile di sorrisi, fratello Pellegrino: penso spesso che bellezza sarebbe morire in mezzo a volti sorridenti.
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Distratto e assorbito in ben calamitanti altrove, il mio ego stressato rimpiange, a volte, il lavoro creativo che langue e tace. A compenso punitivo, da stasera, e fino alle prove orali, tace e langue anche il modesto eros. Intra et extra moenia. Ut supra dixi. O quasi. Ma non è facile. Dico: sottrarre al suo parziale uso extravagans lo spazio libertatis coevo e coeso alle susiniche Stunden. Questo, dicevo, non è facile, visto che il doppio usage s’era cristallizzato in solide abitudini gelose della propria integrità. Ma tant’è. Stavo per dirti, quaderno, “la rinuncia è dei forti!”; ma il diavoletto ironico ha scodinzolato dentro l’orecchio interno un micidiale “appunto!” . Insomma, la sfida si fa dura.
Anche certi aggettivi andrebbero evitati. Cancello? A che pro? Maiora premunt. Per esempio, ma esempio cogente: due sere fa una compressione vaso–circolatoria fra ingressi fagico-erogeni agganciati provocò nella controparte una macula evidente di quasi totale assorbimento della gamma hertziana ottica inferiore. Incidente ben probatorio, agli occhi non distratti di familiari et matris. Brividi di Angst, nel fondo del pozzo mentale qui scrivente. Non fugati del tutto dalla notifica, tra ansiosa e divertita, dell’improbabile spiegazione che all’evento allotrio diede l’inquisita interessata in sede di tribunale familiare (ovvero, più parcamente, materno). Mica esiste un partner canonico al suo fianco. Insomma: sospetti spenti o tuttora caldi di interrogativi pensosi, in quel di susanìa? Ancora stasera, qui, in domo amicitiae, l’assenza, da quel sito carnoso inferiore, di un (quasi) centimetro cubo-curvo dell’elemento preferito da Roberto Grossatesta, brillava come diamante nero di insinuante eccedenza accusatoria. Interessante, poi, nell’aula scolastica mattutina del giorno esaminale primo, l’evidenza eidetica di tanta macula in quella festa policroma di abitini eleganti e pallori venuseo-scolastici in ansia. L’avranno notata, le folte presenze diversificate dello spazio minoico? Il proprietario di queste righe custodiva in un angolo buio del cerebro arcaico un rimescolio di tacito orgoglio imbavagliato nel silenzio.
Il tacito orgoglio è però inciso di una deduzione contrastante: l’inquisita, in casa sua, è una sorvegliata speciale: tanto suggerisce il rilievo materno ut supra dixi. E si torna alle vibrazioni di Angst dentro i condotti meningei.

4 luglio, sera

Oggi, compito di latino. Testo arduo, lingua tortuosa, insomma un brano di Quintiliano, che ha fatto sudare anche qualche dottoressa in latinis. Molti dubbi fra le candidate. Indi, molte consultazioni. Anche fra colleghi del ramo, e affini. Ho partecipato, si capisce, a queste conventions, traendone non vani lumi per le nostre alunne, quella in particolare (ma che ti preciso a fare, quaderno?).
Giornata faticosa di tensione multipolare e lunga : di mattina, per quanto detto sopra, di pomeriggio, per la “correzione” degli scritti: temi d’italiano e versioni di latino. Con i primi scontri. La generale mediocrità dei docenti mi crea difficoltà di relazione e sacrifici di orgoglio. Che fatica, usare toni pacati con colleghi incapaci della  minima elasticità mentale. Non leggono, specie le donne. E perciò conservano un’idea angustamente scolastica e vetero-grammaticale dello scrivere. Vedono errori dove non esistono, segnano blu opinabili discrezionalità sintattiche, al massimo suscettibili di un segnetto rosso a futura memoria. Cioè, per chiarire, in sede di prove orali, se la candidata ha usato scientemente una certa forma, o a caso e  in opaca ignoranza. Il commissario di italiano e storia, per esempio, non prevede e non ammette che si possa iniziare un periodo con un pronome relativo: lo considera “errore blu”. Ed io a torcermi le budella per fargli capire l’evoluzione dell’italiano scritto, l’importanza di una misurata flessibilità nell’impegno letterario: come si potrebbe scrivere anche soltanto un buon articolo di giornale soffocati dal grammaticismo d’antan di questi ghiozzi bavosi? L’ho mezzo convinto, per via d’una certa diffusa stima nei miei confronti e verso il mio amico-maestro (avrei dovuto dire all’inverso, lo so, ma ormai è scritto). Domani gli porterò qualche elzeviro del Corriere della sera e della Stampa, dove quell’uso è di casa.
Come non bastasse la fatica nel lugubre ambiente della stravecchia scuola, nel resto del pomeriggio-sera, lezione di matematica a Susy. Risolve qualche problema, con lenti vantaggi sui tentativi precedenti. Troppo lenti per cavarne utile decisivo nella prova di domani. Le servirà, comunque, essere corretta nei calcoli. Non è escluso che riesca anche a capire l’impostazione di un problema, ma dovrebbe trattarsi di un caso semplice. Il che, invece, sembra da escludere. Vedremo. Certo che si partecipa all’ansia delle ragazze (e delle famiglie). Un po’ per una fisiologica immedesimazione con chi soffre; un po’ perché le famiglie  tendono a scaricare sul rappresentante d’istituto (ricorda quaderno: uno per commissione) la responsabilità maggiore dell’eventuale insuccesso dei figli. Né costoro sono del tutto alieni dallo stesso male. Anche se, ovviamente, le eccezioni non mancano. Eccezioni, appunto: non la doverosa regolare normalità. Ma così va il mondo (della Scuola italiana. E meridionale in privilegiato primis).
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La Chute. Il bel titolo camusiano mi si è arrampicato alle orecchie. E’ bensì sprecato tra queste linee dritte inzavorrate di colorati inchiostri (ora è rosso); ma non posso rinunciarvi. Non mi è concesso. La mia chute non è così romanzesca, ed è anche meno complessa e più ordinaria; tuttavia, mi pesa. Forse quanto la sua al personaggio Clamant, giudice-penitente. Non lo sono un poco anch’io? Non sono, io pure, costretto a farmi, in qualche misura, giudice-penitente? L’uomo che si accusa per potere accusare gli altri, che severamente giudica se stesso, prima di darsi licenza d’essere implacabile giudice agli altri. Insomma, di che si tratta? E non lo sai, tu, quaderno? Non stavi qui sotto, dentro il cassetto inchiavardato di questo tavolo, quando è avvenuto il non concesso e non previsto? Avrai recepito, no?, e inciso nella tua innocente memoria fisica le sonorità divergenti dell’eccedenza tabù. Ma se proprio vuoi saperne di più, continuo la flebile flagellazione. Non si erano escluse certe operazioni matematico-filosofiche fino alla conclusione dell’experiri esaminale? E invece? Invece è accaduto. L’Io fichtiano degradato a bassa empiria corporale ha ceduto al richiamo della foresta. Duplice foresta: metafora e verità effettuale. Colpa sua? Non essere villano con Venere Urania se scopre il segreto ctonio. Non dare a lei la colpa del tuo fallo (duplice anch’esso, come la foresta nera sopra onorata). Homo sum,  nihil humani a me alienum puto. Sì, latineggia pure. Il fatto resta. Factum, fatum. Fare e dire. E viceversa. Con un di più di impazienza olfattiva, che applicata a intricarsi in quella luttuosa tricologia, sub specie digiti, raggiunte le scivolose vie del Sancta Santorum, irraggia insolita fragranza dal cilindroide prensile, a stretti intervalli calamitato dalle impilate coane respiratorie. Insolita e meno elisia, ma santamente ctonia. Stravaganze? Lo so. Né reciterò un ipocrita mea culpa.
Che non avvenga più, che non si cada ancora, però. O perderò del tutto la residua stima di me. Residua quanto vuoi, ma così necessaria. Si ha un bel pavoneggiarsi a spirito libero e mente superiore ai comuni laccioli etico-sociali: certi confinamenti contano. E stasera mi circola in vene febbrili un immusonito disagio smorza-appetito.

martedì 14 luglio 2009

Susanna, frammento 34


Zefiria, 27 giugno,

Mini-cronaca della giornata. Visita ai miei familiari prima della partenza da Akiskene. Faccio un sommesso appunto ai genitori, che non sono venuti a trovarci nei due giorni precedenti: tutti presi dal fidanzamento della figlia minore, trascurano ogni altro nodo di interesse, compreso il nipotino. La cosa mi addolora un po’, ma cerco di non farla pesare troppo. La mamma si scusa: pensava, tra l’altro, che restassimo ancora qualche giorno. Indi, abbracci e baci. E spazio sgombro per l’impegno massimo. Rientriamo, quasi all’ora di pranzo.
Alle 14, 30 il fidanzato in campo, e futuro terzo cognato, viene a prelevarci a casa nostra e ci accompagna alla stazione di Realpolia, distante un paio di chilometri dal nostro paese insulare. Si mostra molto disponibile, come ogni bravo fidanzato, e giocherellone col bambino, al quale compra dolci e pupazzetti. Giampiero, sul treno, non rinuncia alla sua batteria di domande: sulla nuova conoscenza, la sua grande macchina nuova, e altro solletico. Della parola “fidanzato” conosce già la corposa semantica: l’amato zio fratello di mamma è il fidanzato di Rosanna, e viceversa: non è difficile immettervi il nuovo arrivato.
Dopo sei interminabili ore di viaggio plurimo, cioè con sali-scendi tra un mezzo e l’altro, non privo della solita ansia indotta dalla vivacità del piccolo, si arriva a Zefiria. Mio cognato ci aspetta alla stazione con la sua macchina, e ci porta alla nostra umile casetta “continentale” in modico affitto. Gioia della piccola peste domestica, che ritrova il suo preferito compagno di giochi.
Fra poco si cena, ospiti dei neo-parenti dirimpettai.
                                                *
Trovo, qui, una lettera di Gulizza, che apro con stupida ansia, quasi fosse un cenno del Fato. Mi spiega perché Ciaccò non ha pubblicato il mio pezzo su Dante nell’ultimo numero della “Gazzetta letteraria” e mi assicura che uscirà su quella di domani. Figurati l’ansia, quaderno. Sono sicuro che stanotte sognerò il contesto. E chissà con quali amplificate deformazioni da adrenalina repressa e non vinta. Finge di compiacersi del mio impegno su Possibilità e necessità, un saggio polemico con i suoi recenti articoli inneggianti alla più dogmatica ottocentesca necessità causale. Mi manda anche un ritaglio della Sicania con un suo articolo su Nietzsche, dove cita il mio nome e relativo mini-saggio nicciano, già scampolo della “parte prima” della mia tesi di laurea, poi gradito ospite di “Teoretica” e finalmente incluso nell’antologia Mondo trofico, curata dal prof. Rama. Mi ha fatto piacere, anche se un piacere ridotto: avevo già visto e letto l’articolo, infatti, durante il breve soggiorno isolano. E’ sempre quello apparso anche sulla Gazzetta di Parma.


28 giugno

Come previsto, stanotte ho sognato Ciaccò e dintorni. Egli aveva pubblicato il mio articolo dantesco, ma in una pagina diversa dalla letteraria, e quasi “a margine”: una sorta di atto dovuto, ma poco convinto. Nel sogno io sfogliavo il giornale, cioè la Gazzetta dello Stretto, con dolorosa trepidazione. La stessa che ha mosso la mia mano stamattina, quando, al grido del giornalaio ambulante, mi precipitai alla finestra bassa sulla strada per comprare il giornale, l’avido braccio steso fino allo strillone in lento arrancare col suo fascio a tracolla, la mano a strozzare fra pollice e indice le 60 lirette del prezzo. Veloce spoglio delle pagine per arrivare alla letteraria: l’articolo c’era. Un tuffo al cuore, ma di gioia. E non è collocato “ai margini”, anzi sta in posizione eminente: taglio alto e centro-pagina, su sei colonne. Una specie di promozione al rango di onorevole conclusione della rassegna dantesca, durata tutto l’anno precedente e la prima metà del presente. Meno male. Anzi, molto bene.
Me lo sono letto subito, e ne sono soddisfatto. Anche la penalità cieca dei refusi mi ha usato misericordia: solo un paio, piccoli e ininfluenti.

Il modesto evento s’è montato da sé una bolla emozionale che organizza diversi elementi di appagamento nella scarna mitologia personale. Gli elementi: le delusioni delle settimane precedenti, la triangolazione Assaggi–Ciaccò–Gulizza ribollente di scatti adrenalinici, il sogno di stanotte. E perfino la condizione dell’acquisto del giornale: direttamente da casa, senza il fastidio della sortita obbligata. La cosa accade non rare volte, è vero, se mi trovo in casa  (domeniche e festivi, per esempio); ma oggi ha avuto un sapore e una fragranza particolari. Quasi una consegna a domicilio del dono bramato rivendicato e insidiato. E dunque, con un di più che sa di grazia, a compenso delle pene d’amore perdute (anche la cultura può crescere a passioncella assorbente e punitiva).
E forse di un’altra compensazione bisognerebbe parlare (almeno tra noi, quaderno, no? O l’abbiamo già fatto nelle tue pagine precedenti?). Si vuole dire che, quando altre e più grasse mitologie (religiose, metafisiche, estetiche…) vengono meno, il fertile cervello bisapiente inventa presto dei surrogati: come le mini-mitologie personali, sentimentali, domestiche. E le maiuscolate collettive: di clan, di partito, etniche, ideologiche, e via allargando. Nelle quali, purtroppo, s’avverte pur sempre un vago sentore metafisico. Vago, e minimo, nelle personali; meno vago e più carico di ectoplasmi pragmatici, non sempre incruenti, in quelle plurali e collettive.  E qui  mi fermo, a scanso di  prolissi sospiri e sterili espirazioni vagabonde.
Alle ore nove, lezione di filosofia al giovane Sirta.
                                                *
Nel pomeriggio, lezione di italiano a Susanna. Deliziosa nella guaina del vestitino bianco a strisce trasversali nere, centrali e parallele. Quasi a sottolineare il centro di quel piccolo mondo ambulante: pancino appena visibile nella stretta del tessuto, e sotto-pancia di puro annuncio, ben nascosto. Ovvero, sprofondato nel gioco schermato delle mobili pieghe danzanti al molle passo della sua snellezza nervosa. Il vestito, di buon gusto e adatto alla figura di Susy, è un regalo di mia moglie. Calzava sandali perfettamente coordinati al vestito, e i piedi nudi occhieggiavano di orgoglio ben fondato fra quelle strisce di cuoio leggero.
Ci ha raccontato che il suo vecchio professore di religione le ha detto, incontrandola e soffermandosi paternamente sorridente: “Sei cresciuta!” Guarda un po’! Laconico e allusivo, ma anche discreto e pudico. Lo conosco bene, padre Panella: siamo colleghi all’Istituto magistrale dove insegno. E’ persona seria e dignitosa: non ha potuto nascondere l’ammirazione per tanta esplicita bellezza, ma l’ha espressa copertamente. Ovvero: non ha potuto frenare la spinta a dire, e l’ha sciolta nel linguaggio velato che consente giudizi anche audaci senza offendere. Mi si sveglia un ricordo: il racconto di un collega sul suo conto. Un sacerdote della diocesi criticava, non ricordo più perché, padre Panella; egli ne parlava al nostro collega fondatamente discolpandosi. Quindi, quasi a compimento dell’autodifesa, aggiungeva: “Io non mi sono mai sporcato col sesso”. Alludendo, ovviamente, a trascorsi del suo confratello in Cristo, trascorsi ben  noti nell’ambiente zefirese. Persona a modo, dunque, don Panella; e degno di farci pensare che non mancherebbe mai di rispetto a un’ex allieva. Ma, vivaddio, anche capace di apprezzare comm’il faut i doni profani della divina Provvidenza.
E poi Susy ha detto anche altre cose. Per esempio, che stamattina gli sguardi dei maschi sono stati particolarmente fastidiosi. Venendo a piedi da casa sua, lei ha avuto modo e tempo di subirne parecchio, di “fastidio”: c’è almeno un buon chilometro di strada da lì al centro, e poi qui, a casa nostra. Domande pertinenti: questo pomeriggio, è andata meglio? ha avuto meno sguardi? Un po’ meno, dice, data l’ora, ma pur sempre una vera ossessione. Già: una volgare fastidiosa ossessione. E persecuzione. Ci credo. A parte, forse, il “fastidio” e il “fastidiosa” (che, infatti, noi mettiamo fra virgolette, vero quaderno?). Altrimenti, perché venire a piedi, quando avrebbe potuto farsi accompagnare da uno dei fratelli in macchina? Forse voleva sfoggiare il vestito nuovo, e saggiarne il potere catalizzante sui “fastidiosi” maschi delle più varie età e condizioni sociali. Dal garzone del fornaio, insomma, al settantenne don Panella, digiuno di sesso per amore di Cristo.
O vogliamo sottilizzare? Digiuno, forse, di sesso plurale. Penso a Onan?
Che ci sarebbe di male? Anzi di men che naturale. Poi ci sono sogni e segni di perfetto controllo corporale spontaneo. Spesso onirico. Ma di che m’impiccio?   Anche perché, di passo in passo, si finirebbe sul tema perennemente caldo dei preti pedofili. E dei correlati scandali, sempre gestiti dalle autorità supreme con la pelosa ipocrisia del “sopire, troncare”. Ovvero, nascondere e negare, promuovere e allontanare. Salvo l’impossibilità materiale della maschera per tosta resistenza dell’opposizione parentale delle vittime imberbi. E di quella diretta delle cresciute e barbate.

29 giugno

Data di peso, questa, e giornata conseguente: è il compleanno di Giampiero. Piccola festa domestica, e gran movimento tra casa e paese: la torta ordinata e prelevata, insieme al festeggiato, contorno di altri dolciumi di suo gusto, euforia lampeggiante dell’innocenza protetta. E gli invitati: la famiglia di Susy (non al completo, tuttavia), la famiglia Carolui, il cognato neo-fidanzato, i coniugi Anello. L’anno scorso c’erano anche le sorelle La Mela, oggi, con mio rimpianto, lontane e ostili. Tutte, ma per volontà e decisione di una sola, la delusa n.1, aspirante protesa e scartata alla congiunzione maritale con il cognato bello e bellimbusto, attratto da più fresca modellata carne e da migliore volto. Giampiero in piena espansione cinetica, fino alle inevitabili monellerie. E tante foto, molti regalini, quello di Susy il più consistente: un trenino con tanto di rotaia e ampia autonomia di moto a batterie. Rina apprezza e “concede” il tempo e la fatica che do alla comune amica: Lei non ama la tirchieria di chi riceve senza dare.
Purtroppo, tocca proprio a Rina guastare un po’ la festa, con la sua salute malconcia: ha la gola in crescente infiammazione, congestione, difficoltà di deglutizione, dolore. Nel progredire del malanno, è spuntata la febbre, nel tardo pomeriggio. E a sera, le difficoltà vocali sono diventate piena impossibilità di articolare parole. Una brutta angina, dice il medico. E prescrive antibiotici, antinfiammatori, vitamine. Non senza avvertire che il decorso clinico non prevede una guarigione rapida, né sul lato febbre né su quello infiammatorio. Pazienza, sopportazione, cura scrupolosa, e rigorosa clausura in casa (quella che avrebbe dovuto praticare già da ieri, almeno, e non ha praticato). Rina non fa mai pesare le sue sofferenze: è una bella virtù per chi le sta accanto. Ma anche un rischio per lei: quello di sottovalutare il fatto morboso. E’ già capitato altre volte. Con ovvie ricadute su tutta la casa. Insomma, non c’è virtù che non comporti qualche rospo per eccesso di “bellezza”. Si conferma, sempre, l’antica massima: “ottima cosa è la misura”.
                                              *  
Ma la pietà per la dolorosa circostanza non ha impedito al fatuo diarista qui assorto di cedere alla tentazione erotologica mediata dalla consueta lezione di italiano a chi sai tu, quaderno paziente. Tra esposizione di storia letteraria e lettura di Dante, ripetizione di lei e correzioni di lui, il “demonico” (non confondere con “demoniaco”!) sofistico trova  spazi e s’insinua, perentorio e sfacciato.
Forse il diarista si giustificherebbe: in fondo, che malattia è? Mica si tratta di un male a rischio vita! Già: si è in diritto di pensare a cosa di lieve pericolosità. Tutt’al più, fastidiosa di inibizioni e frustrazioni dolenti. Ma io consiglio al Fatuo di non incanaglirsi nella miseria delle auto-assoluzioni. Accetti la sua condizione di colpevole, rinunci alle scuse. E pure alle attenuanti. Soprattutto, non si abbandoni alle consuete registrazioni coperte.
Semmai giocherelli un po’ con letteratura e autori eccitanti. Ripetendo Fogazzaro (more scolastico, sia pure) stasera Susy ha risvegliato certi ricordi critici e pungolato il mio modesto sadismo di laico allergico alla bacchettoneria. Nel capitolo fogazzariano della vallardiana “Storia dei generi letterari italiani”,  volume Il Romanzo, l’Autore traccia un ritratto tanto scrupoloso quanto spietato del “serafico romanziere” vicentino. Vi si possono gustare passi come il seguente sull’indole tendenzialmente fanatica del narratore:

Questa Dama bianca delle rose [personaggio del romanzo Leila], ch’è tutta una caricatura involontaria della bontà della fedeltà dell’altruismo, vuol fare il bene per forza, come donna Prassede: soltanto che il Manzoni detesta e ironizza il tipo psicologico di donna Prassede, mentre il Fogazzaro lo esalta. Quest’uomo che si fa assertore d’un “cattolicesimo progressista” non meglio specificato, ha una mentalità così unilaterale, inquisitoriale e ristretta, da richiamare alla mente di chiunque, senz’ombra di prevenzione, l’immagine di un sacrestano zelante. /Non c’è un suo personaggio di qualche rilievo, che non venga sottoposto – presto o tardi – a una specie di esame teologico. Apriamo Malombra : “il conte aveva una religione tutta propria... Le opinioni di Marina non erano così nette e precise” (I, 5). Daniele Cortis: “alzò le labbra dalla tazza, e disse a mezza voce, tranquillo: – “E’ cattolico, Lei? – (cap. III). A questa domanda ossessionante i personaggi del Fogazzaro rispondono a gruppi terribilmente uniformi [...] Eppure, per quanto preparati a trovare il nome di Dio in ogni pagina del Fogazzaro, talvolta si rimane sconcertati, tanto il riferimento scende dal pedantesco al morboso.”

Morbosità, che non è solo l’ambigua mescolanza di sensualità e religione, il sado-masochismo di certe rinunce brucianti di desiderio soffocato, ma sono anche, e sopra ogni altra, le sortite teologali di pura barbarie. Alla piccola Ombretta annegata nella darsena viene affibbiato un compito salvifico che all’autore sembra nobile e al povero non-credente suona di sconcia disumanità. Ecco il marito Franco che consola la moglie:

“Non sai la nostra Maria cosa dice in questo momento? Dice: mamma mia, papà mio, adesso siete soli, ciascuno di voi non ha che l’altro, siate uniti più che mai, donatemi a Dio perché mi ridoni a voi, perché io sia il vostro angelo e vi conduca un giorno a lui e stiamo insieme per sempre”.

Né si perita di parlare direttamente al Regista celeste, a chiedere permessi strabilianti e consegnare confessioni molto edificanti:

“E glielo disse, a Dio, con la piena delle lagrime, che gli permettessse di piangere, ma che sapeva bene perché la bambina era morta. Non aveva egli tanto pregato che il Signore la salvasse dal pericolo di perdere la fede stando con sua madre?”

Commento nel Romanzo: dopo avere appena lodato “il dolore materno, che confina con una lucida follia di toccante risonanza”, il testo segnala l’arrivo del marito che “aggela ben presto ogni cosa.  S’egli parla alla moglie [...] sentiamo l’imparaticcio; s’egli parla a Dio [...] il bigottismo sfuma ridevolmente nell’inumanità;  e se, per finire il capitolo con luminarie, il Fogazzaro sottopone le sue due creature al giudizio di Dio [...] vediamo pendere sul capo dello scrittore un crudele dilemma: meschino o retore.”

 Si potrebbe dire meglio la miseria morale del “credere nonostante tutto?” Anche se quel nonostante è un’immonda pustola di crudeltà in maschera? Eppure è quel che accade in cinque miliardi di cervelli drogati di fede. Ecco, infatti,  un pezzetto di quel “giudizio di Dio”:

“Colui che meglio è conosciuto dalle generazioni umane quanto più ascendono nella civiltà e nella scienza [...] aveva impresso il segno del Suo giudizio sul viso della donna e sul viso dell’uomo. Mentre l’alba si accendeva in aurora, la fronte di Franco venivasi irradiando di una luce interiore, gli occhi suoi ardevano, fra le lagrime, di vigor vitale; la fronte di Luisa sempre più si oscurava, le tenebre salivano in fondo a’ suoi occhi spenti”

 Insomma, “il grande, inatteso dolore che guarisce [...] non risolve un bel nulla”: il devoto, e neghittoso, Franco, chiuso nel suo egoismo blindato dalla fanatica illusione, s’illumina d’immenso, pregustando il paradiso; la moglie, straziata nel ventre mutilato della figlia, sprofonda sempre più nelle tenebre esterne. E “Ombretta che annega nella darsena non solo non salda effettivamente il dissidio fra le coscienze dei suoi genitori, ma non costituisce neppure quell’episodio di superiore evidenza, cui s’inchina anche qualche critico acerbo del Fogazzaro” (Il romanzo, pagg. 318-19).
                                                
Un intreccio di accensioni analogiche, poi, mi fa ricordare, per somiglianza e per contrasto, ossimoricamente, quell’arguto giudizio del Croce sul “misticismo galeotto” di Antonio Fogazzaro (saggio del 1903): che richiama alla mente del critico “quel gran santo di Roberto d’Arbrisselle, del quale il Voltaire narra che s’era scelto una nuova forma di martirio: coricarsi tra due monache nude, stare a carezzarle l’intera notte, et le tout sans pécher”.
Forse quest’ultimo scampolo di ghiottoneria analogica è stato il motore dell’intera carrellata memoriale. Fino a rimettermi in mano i testi utilizzati in questa divagazione non troppo divagante (Se si vuole guardare Sotto il velame). E della quale, naturalmente, ho fatto partecipe Susy.

domenica 5 luglio 2009

Susanna, Frammento 33


Domenica, 19 giugno

Mutili appunti frettolosi. Lavoro: stamane, lezione a Sirta, dalle 10 alle 11,30. Argomento nuovo, Schelling, il filosofo dell’Assoluto come “Identità indifferenziata” che si viene differenziando in Natura e Spirito lungo le vie del Tempo prodotto insieme al correlativo fenomenizzarsi. Nell’affannato svolgersi – tentavo di introdurre in quel fresco cervello vergine – l’Identità originaria viene sciogliendo le sue implicitezze, evolvendo dal primigenio tumulto delle realtà “morte” alle prime forme di vita elementari, e da queste a quelle via via più complesse, fino all’uomo, col suo megacervello, e alla connessa autocoscienza. Da questo dualismo conclamato (inconscio-coscienza, natura-spirito) l’Assoluto può ritrovarsi come perfetta unità soltanto nella sintesi dei due poli realizzata dall’Arte, organo e suprema ontofania dell’Identità originaria. L’artista, infatti, opera in un’ambigua duplicità, parte cosciente e parte no. Sa quel che vuole rappresentare (pittura scultura musica o altro che sia la sua specialità) ma non sa quel che, nei fatti e potenzialmente, ha immesso nell’opera. Perciò accade che sia un critico, uno spettatore sensibile, un lettore congeniale a rivelargli aspetti significati e bei segreti a lui non chiari nei tempi dell’esecuzione.  O creazione che si voglia enfatizzare.
Abbiamo ripetuto un’altra parte di Kant (schematismo trascendentale, con ovvi richiami al quadro double dei giudizi e delle categorie) e un sintetico Fichte, distinto in “primo” e “secondo”. Il primo, baldanzoso killer del noumeno kantiano e banditore euforizzato dell’immanentismo totale. Il quale, imperniato sull’Io assoluto, “necessario” erede parricida del vecchio barbuto crudelissimo Dio biblico, ne prende il posto di “creatore” universale; ma soprattutto di rompiscatole etico, che riduce l’infinita ricchezza fenomenica della feconda e multiforme Natura a grigio materiale mono-uso, battezzato non-io, quale necessario ostacolo dell’imperativo morale che ne deve trionfare in ciascuno dei suoi dinamici momenti essais ed essorts. Il “secondo Fichte” è quello che, “invecchiando”, diventa, di tappa in tappa, traditore sofistico, transfuga mascherato (di illusorie pure ragioni logiche) e riformatore verboso di quel  giovanile e inebriato idealismo egolatrico, ora costretto alla resa davanti al rispolverato divino Essere trascendente (una specie di rana esopica che rinunci all’impresa davanti all’irraggiungibile bue cornuto). Schelling, di solito, riesce più simpatico ai giovani d’ambo i sessi: non foss’altro, per quel senso e rispetto della irriducibile molteplicità inventiva della vivente puttana natura. Ma anche per quel privilegiamento dell’Arte, come viatico al “colorito” Assoluto, contro la plumbea Egocrazia fichtiana (scusa, quaderno, questi paroloni e neologismi). Naturalmente, anche il “vecchio” Schelling tralignerà parecchio, flirtando con la ineludibile Religione e il peccato originale, ma restando su terreno latamente metafisico piuttosto che strettamente religioso. E neppure il pomposo Hegel si salverà dalle insidie spurie della bassa empiria socio-politica, e finirà col riammettere una qualche differenza ontologica fra Weltgeist  e Gott.
Ai tempi della mia collaborazione alla rivista del prof. Lastrada ho recensito, per quelle pagine accoglienti (anzi, pazienti) un polpettone di saggio su Hegel che ne dimostrava la (pretesa) compatibilità con la Trascendenza religiosa. Quante ore del mio tempo sprecai per quell’inutile sforzo! Ne conservo ancora alcuni degli estratti, parecchie pagine di analisi puntuale e di critiche rispettose ma decise, filate al telaio della teoresi lastradiana. Un documento della mia scadente autorevolezza di fronte ai testi di peso. E alla tentazione rematosa.
*
Il resto del dì, passeggiata a Siderato con gli amici e virtuali parenti Carolui, nonché il cognato e fidanzato oramai ufficiale, anche se ancora lontano dagli incontri formali fra le coppie di genitori. Situazione che non ci risparmia ansie e batticuori, perché il solerte cognato è l’incarnazione perfetta del saggio proverbio sul lupo che perde il pelo ma non il vizio: continua, come se niente fosse, a sfarfallare da un fiore di grazia all’altro. Rientra tardi a casa, e costringe, a volte, la famiglia di Rosy ad attenderlo, per pranzo o cena, fino a impudiche ore tardive. Scommetterei che prima o poi si farà scoprire dalla ragazzona ingenua, che sembra torpida, ma vede e capisce. Che parla poco, ma rimugina assai (come avremo già segnalato, quaderno). Speriamo bene.
Jolly della coppia, mio figlio, che dallo zio continua a essere viziato. Se ne vanno soli, tutti e tre, ed è il piccolo a chiedere la distanza dai genitori: sa che con quei due qualcosa ci scappa sempre. Giusto come con Susy (o quasi).


20 giugno

Giornata piena di scuola pubblica e lezioni private. Ore 8,30 – 14, 30: esami orali dei candidati per l’idoneità alla IV classe (c’è anche qualche maschietto), cioè all’ultimo anno di corso. Naturalmente, tutti i candidati, femmine e maschi, sono raccomandatissimi. Oggi cinque, un ragazzo e quattro ragazze, che in qualche misura rispondono: se non arrivano alla sufficienza piena, non ne sono lontanissimi. Insomma, considerate le attenuanti generiche, hanno titoli per una fondata ipotesi di assoluzione-ammissione. Dicesi ipotesi perché gli scritti sono sensibilmente più discosti delle prove orali dalla bramata sufficienza, e insomma oscillano tra l’insufficienza e la mediocrità. Purtroppo, una candidata ha fatto, come si bestemmia in gergo, “scena muta”. Ed era la più bella, la più formosa e polputella dell’intero florilegio femminile di buon livello estetico. Contava sulla raccomandazione (autorevole) o sulla bella presenza? O sul combinato disposto? Difficile, infatti, avallare la seconda ipotesi, visto che la commissione d’esame è a prevalenza femminile, e che le donne difficilmente perdonano la bellezza delle fanciulle in fiore. A meno che loro, le donne sedute da “questa parte del tavolo”, non abbiano vistosi titoli per sentirsene al sicuro. Che non è davvero il caso nostro: vuoi per meno tenera età, vuoi, soprattutto, per minore armonia di linee nel volto e nel corpo, disegnati da madre natura piuttosto distrattamente. Né la simpatica Pina, che potrebbe confrontarsi bene sul piano della figura, può gareggiare, col suo pancione troppo incinto, con l’economia morfologica di questo corpo floridamente vergine. Allora, sul combinato: calcoli infondati, perché neanche la componente maschile e giovane può promuovere il nulla assoluto. Non può, non deve, non dovrebbe: dipende. Da cosa? Dalla forza della pressione subita nel riceverne “segnalazione”. Se la forza è troppo “forzuta” qualcuno della Corte potrebbe trovare l’impudenza di (almeno) tentare.

Pomeriggio. Dopo parca siesta agitata da sogni maldestri e impiccioni, lezione di italiano a Susy: Dante, Paradiso, canti XV e XVII. E’ (o riesce a mostrarsi) abbastanza serena, ascolta attenta, memorizza e ripete quasi fedelmente.
Le parentesi divagatorio-rilassanti (?) filano, tra spine di sospetti e rovi di timori, con tormentate compensazioni di vuoti e di pieni. Lei, si sa, reagisce ottimamente agli stimoli culturali, e la risposta è sempre pronta, di riflessi e di mente. Ai posteri la decrittazione umorosa. Oh, il delicato alonare intorno al parziale prensile destro tentato da memori narici!


21 giugno

Mini-diario del giorno. Mattina, dalle 8,30 alle 13,30, esami orali, ut supra; cioè, per l’ammissione alla IV classe. Tre candidati, tutti e tre (ma che bisogno c’è di dirlo?) super-segnalati: nessuno raggiunge la sufficienza, ma due qualcosina riescono a ripetere. La terza, ahimè, tace o farfuglia. Ed è, doppio ahimè, una mia ex alunna, bocciata lo scorso anno, che si ripresenta a scuola per esservi riammessa. E’ tanto belloccia, modellata, col visetto pieno e un incarnato che fa venire l’acquolina in bocca e disturba il respiro. Come mostrava le gambe, le scultoree gambe (da crampi al diaframma). Ma purtroppo a tanto pieno corporale fa riscontro un deserto assoluto di vuoto cognitivo. Specifico, s’intende. Mi trema la mano a scriverlo, ma preme la triste realtà: voto, in filosofia e psicologia, tre. Che avrebbe potuto essere anche una derelitta unità nuda, se pietà solidarietà e venustà non avessero congiurato per un po’ di clemenza, cioè per un pur minimale aggancio a eventuali possibilità di soluzioni “consiliari” non drastiche.

Ancora delusioni dalla Gazzetta dello Stretto: la pagina letteraria non porta il mio articolo sul saggio gulizzano Fisiologia di Dante. Per di più, Ciaccò annuncia l’ultima puntata di questo bilancio del centenario: una rassegna delle manifestazioni dantesche peloritane. Dunque non ha intenzione di pubblicare il mio articolo, pur rivisto e approvato dal Gulizza? E perché mai? O esagero, non insolitamente, in nerume previsionale?
La delusione mi brucia. A dare valvola di sfiato alla tensione viscerale, ne scrivo al professore. Il quale, da parte sua, non ha risposto alla mia ultima lettera. Che succede? Mi vogliono liquidare? Cosa mai avrei fatto (o non fatto) di così imperdonabile? Forse perché ho avuto l’ingenuità di confidare al Gulizza che gli amici dello Stretto mi chiamano “pappamolla” per una mia (più presunta che reale) arrendevolezza nei suoi confronti? Sarebbe meschino. Ma poi: sono più i vuoti che i pieni nelle me “risposte” alle richieste del comune amico (e maestro?). Il quale, non a torto (dal suo punto di vista, un po’ facilone e frettoloso), si lamenta della mia pigrizia, della mia scarsa disponibilità ai suoi desideri. Che sono tanti e prementi, ma poco congruenti con la mia incapacità di montare i magri volumetti cari alla sua parsimonia di fatica tempo citazioni. E anche denaro, visto che a pagare le spese di stampa sarebbe lui. Mi ci vorrebbero un paio d’anni almeno per tentare una cosina decente. Dice che sono logorroico, incontentabile, accademico malgrado tutto (cioè, malgrado i suoi esempi, peraltro così sguarniti di risonanza mondana). Forse ha ragione. In parte, certamente: sono ingordo, non mi sazio mai di letture documentali, citazioni, auctoritates da onorare servire esibire. Peggio di un clericus dei luminosi tempi delle sacre Scholae. E pare inutile la lezione del “dire in breve”, cui mi costringe la collaborazione giornalistica. Infatti, anche su questo terreno, non mancano i richiami i consigli i (dolorosi quanto inevitabili) tagli degli amici. Dell’amico gazzettiero, specialmente, che il mestiere lo conosce bene e non deroga dai suoi codici. Non può, del resto. Né posso negare che più volte ha forzato la costrizione ambientale per risparmiare all’amico rematoso i prevedibili mal di pancia: evitare i tagli o ridurli al minimo quasi indolore. Ma forse queste lagne me le sono ripetute altre volte su queste pagine vanamente esorcistiche. Ho bisogno di tempi lunghi, è un fatto. Unica attenuante: dopotutto, ho il mio lavoro, che mi spreme già abbastanza. E non godo di una grande capacità di applicazione: inclino piuttosto all’astenia che all’esuberanza stakanovista.
In ogni caso, l’eventuale esclusione ciacconesca dal “Centenario” sarebbe la classica goccia che fa traboccare il vaso (magari da notte). Non sopporterei il colpo: troppo duro per le mie delicate meningi. Romperei, e definitivamente, con Ciaccò. E forse anche con Gulizza (mai con Rama, però, sempre delicato e signorile. Forse un po’ troppo verso il nervoso Gulizza). Anche lui, dovizioso di consigli e pretese, poverissimo di comprensione fisiologica. Paradossale, per un autore che si ispira alla biologia e fa così largo uso di dna e dintorni (magari con qualche licenza scarsamente compatibile con la vera genetica contemporanea).
Al Ciaccò ho perfino chiesto se conosce certi colleghi della mia commissione di maturità magistrale che vengono dalla sua città. Mi risponderà? Peraltro, non so bene perché gli abbia rivolto quest’appello: giornalismo e scuola, due ambienti che raramente s’incontrano. Vedremo. Intanto vado a fare quattro passi con la famiglia, a smaltire il cocktail di bile e adrenalina prima della cena. Il lungomare fa al caso. E mi preparo agli inevitabili incontri con amici colleghi e alunne. A stanotte, quaderno. O, meglio, a domani. Stanotte spero di fare buoni sogni. Uno, soprattutto: un frondoso ombreggiante fresco albero di “susine” fra docili cespugli inclinati sopra l’acqua di un torrente arcadico: un ritaglio di pace al centro della già cominciata calura africana di questa faticosa marina magnogreca.

22 giugno,
ore 22

La giornata. Ore 8-12.30, esami di idoneità. Che fatica. Non tanto per la quantità delle domande e il numero, non eccessivo, delle candidate: a stancare, fino allo stress, è la qualità delle risposte, la loro approssimativa frammentarietà, la scarsa presa concettuale, l’esile consistenza, spesso, del palese imparaticcio d’occasione. Dov’è mai l’interesse verace, il gusto per il sapere in quanto tale? Eccezioni? Una o due, ma a metà: trapela dalla maschera del “pro esame” una certa vivacità mentale, ma più come promessa, al momento sopraffatta dall’urgenza dell’appuntamento utilitario. Ad ogni modo, in questa generale siccità, una promessa è già acqua fresca di ruscello (come quella del sogno che non ho fatto stanotte). Specialmente se si protende da due occhi azzurri annegati in liquida luce palpitante.
Per il resto, nulla di nuovo sul fronte Scuola. Al consiglio per lo scrutinio, dalle ore 13 alle 14 e mezzo, si sono commesse le solite porcheriole. Stavolta soprattutto a vantaggio della cugina del severo preside frammassone e liberale. Ce l’aveva raccomandata a tutti noi professori, per l’occasione più che “dipendenti”, amici e sodali. Anche io l’ho “aiutata”, ma quanto le altre candidate, né più né meno. E gliel’ho detto. Magari dolcificando un po’: “Sa, io sono fatto così: se debbo aiutare una persona, aiuto nella stessa misura le altre che sono nelle stesse condizioni. Mi sento meglio, dopo. Non dico no all’amico, e non commetto doppia ingiustizia. S’intende, il tutto nei limiti di una minimale, ma per me invalicabile, decenza”. Il Venerabile mostra di apprezzare. Sincero?
Con tutta la buona volontà, mia e dei colleghi, i risultati sono al limite del disastro: su 12 candidati, 7 sono stati respinti, 5 rimandati a settembre. Ho lottato per salvare un ragazzo dalla bocciatura: un buon figliolo, che suscita solidale comprensione. Alla cugina del preside è rimasta una sola materia da riparare, l’italiano: una disciplina dove si può giocare meno d’indulgenza e sordità, visto che scripta manent. Il compitino della candidata era piuttosto miserello di pensiero-immaginazione, e un po’ più del tollerabile claudicante in grammatica e lessicalia.

Pomeriggio. Lezione a Susanna. Un po’ filosofia, un po’ italiano. Comincia a entrare nella temperie “esame”: risponde discretamente. Intermezzo, con qualche usata susina di sano sapore filiaco. Che avarizia di nota. Ma va bene così.


23 giugno

Oggi, prima giornata di tregua dalla scuola: per alcuni giorni sarò libero dalle gioie avvelenate del lavoro istituzionale, del suo ambiente ricco di quello specifico “umano troppo umano”. Mattinata in movimento: per sistemare le cose di qua, prima e in vista della partenza per la Sicania. Incontri e saluti con i nostri amici, a cominciare dai dirimpettai neo-parenti in progress. La prosperosa fidanzata semi-ufficiale di mio cognato ha fatto un regalino a Giampiero, un volume di figure da colorare e completare.  Braci abbracci, buon viaggio, a presto, e così sia. Poi visita alla famiglia di Susanna, con dolci e bevande sul tavolo rotondo del soggiorno e breve riunione di familiari e amici intorno. Lei, Susy, è voluta venire con noi fino al centro, dicendo ai suoi che mandassero il fratello Berto a prenderla a casa nostra entro un’ora. Altri saluti baci e auguri di ottimo viaggio. Susanna è scesa con noi, però s’è allontanata per sbrigare, disse, una commissione sul corso principale. E’ tornata dopo mezz’ora con un regalo per Giampiero, un bel leone di legno molle e peluche, ruggente e semovente, che lo ha, dapprima un po’ spaventato, poi deliziato. Con accompagnamento di dolci e baci per l’onomastico di domani. Verso le 12 e mezzo l’abbiamo riportata a casa, precedendo l’eventuale venuta del fratello: desiderio del piccolo, che ha voluto stare ancora un poco con la sua amica prediletta. Avendo già salutato tutta la famiglia, l’abbiamo lasciata, come da suo desiderio, all’ingresso del condominio.
Mi resta un’ora per leggere il quotidiano prima del pranzetto, parcamente pre-viaggio. Indi, preparazione del bagaglio, riposino sulla sdraio (mezz’ora), ripulitura e via alla stazione: ci ha portato mio cognato, che rimane ancora in Megan Ellas un paio di giorni prima di rientrare anche lui nella Terra dei Ciclopi. Alle ore 15, partenza. Col rapido. Giampiero non si fa capace della defezione dello zio prediletto: con chi giocherà, poi, a casa, anzi nell’altra casa? E intende, nell’altra terra, quella dei boschi, anzi del bosco per eccellenza, la cosiddetta “Sciara di Giove”, più volte esplorata con lo zio avventuroso e giocherellone. C’è voluto un bel po’ di impegno per convincerlo che lui aveva ancora da fare a Zefiria, che sarebbe arrivato in Sicania fra qualche giorno, e così via. Quanto al genere di affari o daffare del mitico zio, Giampiero non ha l’età per essere informato (e per sua fortuna, e nostra, non l’avrà ancora per molti anni). In verità, il bel Casanova matematico, oltre a fare il professore pubblico e statale, fa anche lezioni private; ma temo che la calamita attuale sia di ben diversa pertinenza. Ad onta, ahimé del fidanzamento para-ufficiale.
Sulla nave traghetto si scende dal treno, si va ai bagni, si prende un caffé in due (io propongo due, Rina dispone uno: devo riguardi al mio stomaco). Giampiero scorrazza per la grande sala e sulle terrazze, attirando l’attenzione benevola dei passeggeri. E naturalmente, mangia e beve con generosa alacrità. E fa pipì, come noi due genitori guardiani. La traversata dello stretto è tranquilla, il mare è calmo, il cielo azzurro. Giampiero contempla i gabbiani in volo e fa le sue domande sulle meraviglie della vita e i misteri del mondo. Al solito, si perde tempo nell’imbarco e sbarco del treno, con la segmentazione e la ricomposizione del convoglio. E alla stazione di Zancle, per l’aggancio di nuove vetture.

Ore 21,30: si arriva alla nostra stazione. Finalmente. Dopo sei ore e mezza: un tempo compatibile con un viaggio da Catania a Roma in un Paese appena più civile. Dalla stazione al nostro paesello a monte, altro mezzo di spostamento, altro tempo: 20 minuti di corriera e siamo a… Stavo per dire a casa. Invece il capolinea è a ridosso della piazza centrale. E da qui a casa ci sono ancora cinque minuti di strada a piedi. Imboccata la nostra via, mandiamo avanti Giampiero, che raggiunge il negozietto, rallegrando i suoceri (il suocero, cioè, e la sua nuova moglie). Ed eccoci, un minuto dopo, tutti riuniti. I due affettuosissimi anziani non sapevano del nostro arrivo per stasera, e si sono euforizzati. Poco dopo si chiude il negozio e si lavora alla preparazione della cena. Il “si” impersonale, in verità, annacqua una piccola verità effettuale ben definita: sono i suoceri a muoversi, costringendo Rina al riposo, dopo la fatica del viaggio scomodo.
Mentre i due volenterosi preparano, io mi concedo alle mini-delizie del ritorno, dell’arrivo: spogliarsi, lavarsi, rivestirsi con panni domestici, palpare i libri sugli scaffali, quasi una carezza di saluto, e una mezza promessa di meno fuggevoli incontri. Ma a quali dei tanti ancora non letti toccherà la grazia? I giorni di vacanza, prima della ripresa con gli esami di maturità, non sono tanti.
E palpando o carezzando i cari, amati, e magari, in certi casi, amati-odiati libri, disporsi all’attesa della cena. Quindi cenare, la famigliola riunita intorno al tavolo quadrato della stanzetta intermedia, con modesta ambizione di saletta da pranzo, faute de mieux, Giampiero al centro dell’attenzione, tenero sorvegliato speciale dell’amore comune, con le sue esigenze alimentari, i suoi capriccetti, la sua irrequietezza. Parca e ricca cena, poca varietà di cibi, abbondanza ospitale in ciascuno di essi: formaggi, salame, prosciutto crudo e cotto, ampia scelta di frutta, vinello subetneo di qualità, di maschio sapore e modesta gradazione alcolica. Il televisore acceso, gli scambi verbali scarsi, e per lo più fra noi tre e Giampiero, con le sue domande, i suoi perché?, come mai?, e tutta la sua curiosità “assorbente” (Montessori). Piccole felicità. Da raccontare giusto a un diario minimo, e a nessun altro.


24 giugno

Spremuta della giornata, ricca di incontri. Festa di San Giovanni, oggi, dunque onomastico di mio padre e mezzo onomastico di mio figlio. Gli estremi di un arco che si tende per una freccia incapace di scoccare. Metafora frusta, ma spinosa: vi si maschera tutta la coscienza (mia) delle nostre carenze socio-pragmatiche, delle nostre ritrosie introverse.
Solita sveglia super-mattutina, disbrigo faccende fisio-estetiche personali. Colazione, sosta nel salotto rosso a leggere l’ultimo libro di Cassola. Poi nostra (cioè, del nostro terzetto) visita ai miei genitori, euforico uso ludico-tenero del nipotino raggiante e sgambettante da parte di nonni digiuni da mesi, avida perlustrazione infantile della vecchia casa, piano terra e primo, cortile orto e terrazzino inclusi, e tante domande e risposte tra nonni e piccolo erede. Con annessi dolcetti tra un bacio e l’altro.
Prima sera, visita alla famiglia paterna, cioè di nuovo ai genitori con in più l’ultima sorella, stamani assente, perché ospite dei futuri suoceri. E ora, invece, presentissima, cioè coronata di fidanzato e mezza sua famiglia (genitori e sorella maggiore). Grandi abbracci, baci, bla bla bla. E’ gente del luogo, del quartiere, addirittura, anche se da tempo trasferita dalla periferia al centro della vicina   Realpolia, in una sua zona nuova, assai ambita e orribilmente zeppa di palazzoni-caserma. Tutto sommato, e fatte le debite sottrazioni, un’oretta lieta. Almeno per noi di famiglia. La futura cognata di mia sorella, invece, era triste: so che aspira alle attenzioni coniugali di mio fratello, ma senza speranza. Lui, intanto, era assente per “motivi insuperabili”. Ma anche per non incoraggiare la donzella nelle sue illusioni.
Non gli fa sangue, dice lui: cioè, non l’attira fisicamente. Anzi, per dirla tutta, gli ispira una certa repulsione: per il taglio della bocca, i grossi talloni, l’incarnato biancastro, e chissà che altro. Non è che sia brutta, semplicemente non scocca tra le loro pelli la scintilla della simpatia. Non scocca in lui, si capisce. E pensare che i genitori sarebbero tutti e quattro felici di questo secondo matrimonio: i miei e quelli di mio cognato: brava figliola, lei; universitaria e laureanda, educatissima, tutta scuola e famiglia. E chiesa. Ma questo ultimo particolare non si somma ai pregi, nell’ottica del fratello, anche lui, se non “tormentato” come me, alquanto freddo verso quelle sponde. Peccato. Anche perché pare che questa ritrosia del fratello sia destinata a limare un poco il feeling tra i consuoceri e fra i miei genitori e il nuovo acquisto domestico. Nessun rischio, comunque, per la perfetta intesa fra i due colombi: storia indipendente e schietta, la loro passione è a prova di bomba. E sia pure, la bomba, la delusione in campo. Meno male.
Non è mancato nemmeno un fondo di malinconia per certe assenze. L’anno scorso,  di questi tempi, e in queste occasioni (il nostro ritorno dalla Calamagna, e simili) zio Silvio era il centro e il perno più vivo di queste innocenti gioie collettive: aria fresca nel cortile neo-piastrellato della vecchia casa dai molteplici destini, cenette loquaci, cibi sani, bevutine contenute (lui era già malato, ma non ancora nelle condizioni decadute dell’inverno scorso). Ora lo zio è un rimpianto irto di spine. E una macchia putrida che inzuppa la terra.

25 giugno,
tarda sera

Mi pareva troppo bello per essere vero. E non è durato. Questo ristoro di vacanza indisturbata, questo riposo ritmato su svagati vagabondaggi in città, quiete attese della cena davanti al televisore acceso, o riempite di letture affrettate di gusto “furtivo”; questa parentesi di nostalgie mediate dai luoghi, di inventari sentimentali e culturali registrati su vecchie foto e sbiaditi ritagli di giornale, il facile proustismo che rianima le mie prime audacie “incoscienti” su occasionali madeleine di carta; questo dono è stato sospeso. Hanno investito il fratello minore di mio suocero. Lui faceva un’inversione di marcia sulla nazionale con la sua “Ape”, uno sconosciuto figlio di buona donna gli è piombato addosso con la sua “Giulia 1600” lanciata a tutto gas.
La telefonata che ci ha avvertito è arrivata con molto ritardo: l’incidente era avvenuto all’una e ai parenti è stato notificato alle sette (di sera). Il bersaglio della malasorte era già in ospedale da subito dopo il fattaccio; lo abbiamo raggiunto mentre lo trasportavano dal pronto soccorso in corsia. E’ ridotto a mal partito: il viso è tutto un’escoriazione, la testa ha un lungo taglio, una frattura al bacino non si sa di quale estensione sia, il trauma cranico lo ha tenuto in successivi stati di incoscienza per non so quanto tempo. Stentava a riconoscerci, il fratello, me e Rina, che siamo i parenti più vicini a lui. I sanitari non nascondono qualche timore di lesioni interne non ancora emerse.
Al termine della visita, siamo andati alla sede della polizia stradale, per attingervi notizie più precise e dettagliate, ma  non c’erano che due guardie ignare. Siamo passati, allora, dalla più vicina stazione dei carabinieri, quella di Castel Normanno, che ha registrato l’incidente. Il maresciallo ci rivela che il torto principale è dello zio, che manovrava dove non doveva; all’investitore si può imputare solo un concorso di colpa per eccesso di velocità presunto (e magari dimostrabile dagli effetti dell’impatto). Insomma, una specie di classica accoppiata, il danno e la beffa. Si era supposto che l’Ape, col suo carico di merce varia, ma dello stesso genere (mangimi per animali domestici), si trovasse presso la caserma dei carabinieri; ma non c’era nulla. Siamo, infine, tornati a casa, progettando i prossimi movimenti, a cominciare da domani. Pochi erano i giorni di vacanza prima della campagna “maturità”, e ci sono stati tolti, risucchiati dalla iattura, cui è impossibile sfuggire. E si fa presto a dire pazienza.
Questo scarno quarantacinquenne è uno sfigato doc: separato dalla  moglie, per eccesso di intrusione di una suocera megera, in piena rottura con i parenti di lei, minacciato dai suoi fratelli, padre di un bel bambino della cui legittimità genetica è stato indotto a dubitare infondatamente più dal suo temperamento sospettoso che da elementi oggettivi (e da qualche non improbabile insinuazione malevola di estranei ostili), indebolito nelle sue difese psicofisiche dalla situazione stressante, era un soggetto a rischio di imprudenze per difetto di vigilanza. Ed ecco il frutto avvelenato di tanta convergenza di fattori distruttivi.

26 giugno, domenica

Continua la giostra intorno all’incidente. Siamo stati alla Polizia, e vi abbiamo trovato una dolorosa sorpresa. Si era sperato, dalle parole dei carabinieri, in un concorso di colpa per eccesso di velocità: pare che non ci sarà neppure questa piccola sottrazione al peso della malora. La polizia ci ha dichiarato che la colpa non può essere dell’investitore, neppure in parte, perché il giovanotto frettoloso viaggiava sulla nazionale, con assoluto diritto di precedenza e senza limiti di velocità, mentre lo zio gli ha tagliato la strada all’improvviso con quell’assurda inversione di marcia appena dietro una curva. Era impossibile, per l’investitore, evitarlo. Anche frenando, come, del resto, ha fatto, sbandando, ma senza evitare di prenderlo in pieno. Amen. Resta l’amaro in bocca per due ragioni: prima, l’evidente eccesso di velocità non punibile dell’attore, sia pure involontario, di tanto scempio; seconda, la mancanza di un segnale con limite di velocità in una strada tanto frequentata e così pericolosa. Il solito Mezzogiorno mezzo civile e mezzo notte berbera. Tra l’altro, con manutenzione stradale approssimativa e di imprevedibile arbitrio cronologico. Ma non voglio aprire questo libro, come dice mia madre.
Siamo andati a trovare l’investitore, che aveva paura di incontrarci, e voleva evitare di riceverci. Lo abbiamo rassicurato già al citofono, e si è convinto. Che altro ci restava da fare, dopo le illuminazioni oscure della polizia? Gli abbiamo parlato con quasi dimessa gentilezza, contro i suoi timori di chissà che scontri. Che ci sarebbero stati, certo, con altre persone al nostro posto. Con gentilezza, dunque, e con la legittima curiosità di saperne di più dalla viva voce del protagonista attivo, per così dire. E’ un giovane rappresentante di medicinali. E’ stato cortese, s’è mostrato molto dispiaciuto del danno inflitto al nostro congiunto, ha ripetuto la versione già nota, ci ha promesso che non avrebbe preteso risarcimenti per i danni provocati dallo scontro alla sua bella macchina: avrebbe fatto la denuncia all’Assicurazione in modo da aiutare lo zio, delle cui condizioni socio-economiche si rendeva conto. Abbiamo ringraziato e siamo andati a trovare l’infortunato all’ospedale.
Soffre parecchio. Né lo ingesseranno tanto presto: ci sono lenti tempi tecnici da rispettare. Mi addolora vederlo in quello stato. Molti punti di sutura al viso, soprattutto in fronte. Escoriazioni da tutte le parti. E soprattutto, quella frattura del bacino. Ne avrà per mesi. Deo gratias.

Pomeriggio. Ritorno a Liotria per nuova visita allo zio: noi tre e i suoceri. Io resto fuori dell’ospedale col bambino: mia moglie non vuole che entrie. Perché? Porta male, per il piccolo. Insomma, superstizione pura. Ci sono abituato. Quando si decideranno, le Competenze specifiche, a proibire l’ingresso negli ospedali ai bambini inferiori ai dieci anni? Tutto lento, nel lento Sud. Tranne la malavita e i già operanti intrecci con la multiforme spregiudicatezza della politica.
Ne approfitto per mostrare qualche cosa della grande città al bambino, sempre avido di novità. Dopo una ventina di minuti, Rina esce e ci raggiunge. Così tutti e tre ce ne andiamo a dare un po’ di svago più appropriato all’età di Giampiero. Si va alla Villa grande, cioè ai giardini pubblici monumentali, dove il piccolo ha modo di correre e soprattutto godere la vista di tanti animali, dai pesci della grande vasca con fontana zampillante alla varia fauna del piccolo zoo sotto e dietro il grande poggio-piazza balconato. S’è divertito tanto, specialmente con le estrose scimmie acrobate, così espressive e comunicative, avide e brave nello sbucciare banane e noccioline con le agili mani. Il divertimento non è stato privo di qualche brivido per il piccolo: quando una scimmia saltava e si aggrappava alla grata, diciamo prossimale, della gabbia, lui faceva un saltino all’indietro, ad evitarne il contatto. Molto attraente anche l’elefante, per Giampiero, che lo vedeva per la prima volta in carne e realtà non virtuale. Com’è grande, papà. Perché è così grande? Ahi, ci risiamo con le domande prive di senso adulto. Perché la natura lo ha fatto così. E perché lo ha fatto grande e le scimmie piccole? La natura fa così, certi animali li fa grandi, certi altri piccoli. E perché fa così? Omissis. Anche i pappagalli colorati hanno ricevuto il suo gradimento ciarliero e indagatore. Figurarsi il loro parlare, non riscontrabile negli altri animali. Insomma, Giampiero nel paese delle meraviglie.
*
Siamo a casa da circa un’ora, e le donne preparano la cena, la solita cenetta ghiotta ma parca, per motivi di capienza e prudenza (leggi dispepsia nel sottoscritto). Ma già il sapore si annuncia come ieri sera: intriso di amaro non medicinale. La quieta atmosfera di resa domestica (tregua ai pensieri di peso, disciplina della calma dolce, letture svagate e poco mirate…) s’è guastata senza rimedio. L’immagine dell’infortunato gioca le sue intermittenze intrusive sul nostro schermo mnestico intriso di impotente compassione. Pace. Domani si riparte, si ritorna nella Magnagrecia jonica.
E alle sue palesi e nascoste attrattive, siano pure intrugliate con spine di responsabilità e nebulate di incertissime possibilità scolastiche.