venerdì 12 giugno 2009

Susanna, frammento 32


Ritornano i vecchi nodi, cara Rina: la tua gelosia mi esaspera. Un incontro con la sorella di Susy scatena una scenata! Ma si può? Un semplice innocente casualissimo incontro sul corso, fra la gente, in pieno giorno. Che cosa la inquieta in una roba simile? Forse l’empatica percezione del penchant verso il maschio da eccesso digiunante? Ma il marito è stato qui, in paese, in famiglia, con lei fino a pochi giorni fa. E anche se il vedovo letto di contingenza tendesse un po’ le corde del desiderio, quali ostacoli fra l’eventuale suo e il problematico mio! In lei, la forza inerziale dell’educazione alla fedeltà, esemplata splendidamente nella madre; in me, il pensiero della famiglia, il peso del già ingombrante impegno latente, tanto sapido di umori quanto scabro di spine.
Per qualche secondo dolcemente adrenalinico, la tentazione di schiacciare il pedale dell’acceleratore e sterzare verso un burrone risolutore. “Tentazione” è parola impropria, troppo forte e definita; ma un vagolare eccitato fra le nuvole incerte dei possibili, questo sì. Nuvole di carezza, poi, sull’altro registro: rosate di tenero tramonto sprecato, dietro un fondale di monti mosso da quel pedale nervoso sopra un asfalto non avaro di rettilinei drogati, tra il mare e la collinosa campagna. Doveva essere la solita berlinata distensiva e ciacolante, piena di ragazze La Mela e sequenze di fatti parole e sforzi di interpretazione, ma si è intossicata in profluvie di vecchie accuse, reiterati rinfacci, antichi rancori sciolti in tossico di parole aggressive di pronto sgorgo. Incoerenti, tra l’altro, con quell’angelico volto di madonnina vellutata che è vanto dei suoi momenti sereni. O c’è sotto un rodio di follicolina trascurata?
Che rabbia. Quando qualche manipolo di rimorsi si fa avanti a contrastare il denso sapore di certi trascorsi, tu, anima mia mal consigliata, ti adopri per spazzarlo via. E lasciare la mutevole mente libera e disponibile, con tutto il solidale corpo nuovamente purgato dell’azoto coscienziale. Misteri della fisiologia femminina. Forse se tu fossi stata un’altra, più tenera, meno incostante nell’affetto; più, solo un tantino, più intimamente legata a me (innamorata? Non pretendo tanto), io non avrei vagabondato per sentieri aberranti. Chissà.
*
Ho “buttato giù” due articoli-recensione sulle Cronache di filosofia italiana del seduttivo Eugenio Garin: uno per la Gazzetta dello Stretto e uno per Il Gazzettino jonico. Naturalmente, entrambi da rivedere. E’ stata una parentesi di relativa serenità godereccia, per certe stroncature di personaggi grotteschi della provincia filosofica italiana, e soprattutto sicanica, a me indigesti. Per il resto, una brutta serata.
Che ho tentato di dimenticare tuffandomi nella gagliofferia del film Il mondo sulle spiagge: parata di ottimi deretani di geishe e spogliarelliste, che infine davano un senso di annoiata sazietà.

10. 06, ore 23

Fine dell’anno scolastico. Ultimi scrutini: 4a e 3a sez. E. Quasi tutte promosse in filosofia le ragazze di terza. E’ il primo anno che mi capita una cosa simile. C’entra anche un pizzico di sbadigliante cinismo. Ma forse di più l’irritazione per l’esito della seconda. Tutte ammesse quelle di quarta, che lasciano sperare un esame non deludente.
Ho ottenuto per Susanna 6 in scienze e 6 in educazione fisica, materie dove lei era meritamente esposta al giudizio di non sufficienza. Le ho dato 6 in filosofia-pedagogia, naturalmente: sacrificando un po’ all’amicizia, ma senza strafare. E ti risparmio, quaderno, i soprassalti di moralina, fin troppo rintuzzati dall’impegno latente.
Come affronterà gli esami? Mi sento gonfio di responsabilità. Che scarica raffiche di pensieri plumbei e insinua perfino incubi nei sogni. Ieri notte la vedevo fare scena muta, mentre io, accanto a lei, suggerivo invano, sudando, e lei, chiusa in uno dei suoi recessi di ostinazione ribelle, restava impassibile. Brividi di angoscia scuotono ancora il corpo al ricordo.

Per di più, ci sono novità in altro campo: il suo ex semi-promesso, da lei piantato circa un anno fa, si rifà vivo. Un fratello ha telefonato a casa sua; ha risposto lei. Quello chiedeva i regali che il “fidanzato” le aveva fatto e non aveva voluto indietro al momento della rottura. Naturalmente lei, piccata, ha risposto che le pareva un po’ tardi per simili richieste. E piuttosto strano che non fosse l’ex a farle. Pensa che sia stato un pretesto per riaprire un contatto. E teme sviluppi dirompenti. E’ gente di ‘ndrangheta, dicono. Potrebbero tentare un gesto clamoroso, un ratto. Un nuovo caso Alcamo? Susanna è ben decisa a negarsi in ogni caso. E ricostruisce fatti lontani: le martellanti telefonate anonime della scorsa estate ritiene fossero dell’ex, non rassegnato a perderla. Anzi, addirittura minaccioso: parlava di famiglie, di poteri capaci di colpire ovunque, sventolava ambigue possibilità di ritorsioni.
Forse è solo un gioco dispettoso di giovani oziosi che millantano fuori da ogni realtà familiare e di clan. E speriamo così sia. Parole di Susy: “manco morta”. E nun mi schiantu. Che vuol dire “non ho paura”. La solita sbruffoncella? Non credo (mica tanto “solita”, poi): sarebbe ben capace di farli pentire di uno scandalo ingiustificabile. Se è veramente gente di ‘ndrina, deve tenere all’immagine sociale: non si può permettere di perdere la faccia. Un residuo del vecchio codice d’onore deve pur resistere, sopravvivere allo scempio normativo provocato dal consenso alla droga (peraltro, ancora fomite di contrasti interni ai clan). Almeno, così dicono certi reali o presunti informati di codesti deragliati arcana imperii.


12 giugno

Consiglio plenario, ovvero Collegio docenti, a scuola. Routine di consegne e ciarle, lontani dalla carne e dal sangue della Scuola reale, cioè di studenti e famiglie e relazioni e prassi sociali. Un miscuglio-intruglio in cui bene e male, giusto e ingiusto, lecito e illecito s’intrecciano fondono e confondono cassando ogni linea divisoria netta e pulita. E così sia.
Ho chiarito al preside i motivi del mio risentimento. Soprattutto la rigidezza verso la seconda E: non solo eccessiva in sé, ma dissonante con il clima generale dell’istituto e della Scuola in generale, ovunque più incline all’indulgenza pensosa che all’accigliato rigore.
Lo trovo cambiato: gentile, disponibile, morbido (lui, così impettito e “inglese”). Quasi premuroso. Che sarà successo? Me lo sono chiesto lungo tutto il tempo delle formalità e della compresenza con altri colleghi. All’uscita, verso mezzogiorno, ne scopro la ragione: mi raccomanda una sua “cugina”, candidata all’esame di idoneità alla quarta (cioè, all’ultimo anno dei corsi magistrali). In me, un vero choc. Sinceramente, non me l’aspettavo. Da lui (quasi scriverei Lui): col suo aplomb, la sua maschera di sobrietà e Dignità (con la maiuscola, sì: non è un lapsus). Dentro cui sta inscritta la pretesa alla correttezza, alla legalità, alla giustizia. E chissà quante altre maiuscole. E tutto questo, infine, è (dovrebbe essere, a sua ostentazione) coordinato dalla sua qualità di fratello massone, anzi di Venerabile di una loggia localmente importante.
Ma di che ti meravigli, filosofo? Siamo alle solite: alla discrasia tra il dire e il fare, tra la grammatica e la pratica. Ovvero, tra logos e bios. Il preside, lo stimato e rispettato preside Timarco è un po’ gesuita, ecco tutto. Come ce ne sono tanti. A migliaia. E pensare che massoni e gesuiti hanno sempre fatto a pugni con ferina asprezza di linguaggio bellico! Io, come ho risposto all’inattesa istanza? Come ti aspetteresti che rispondessi, quaderno? Ho detto, come avrebbe fatto chiunque altro al mio posto, che avrei tenuto conto, fatto il possibile, ricordato facilitato favorito. Magari sono stato meno tassativo e imperativamente rassicurante della quasi totalità dei miei colleghi, ma non ho certo sollevato dubbi morali e acceso complicazioni deontologiche. “Così fan tutte”, insomma. Fra quelle tutte, unico mio segno di relativa distinzione: la mia (cosiddetta) coscienza stende invalicabili soglie simpatizzanti con la decenza (magari
minimale).
*
Una lettera espresso di Gulizza: mi chiede un articolo di replica ad una certa Antoncelli, che difende la donna dicendo poco originali scemenze, e senza citare l’autore del pamphlet Natura della donna, cioè lui medesimo in persona Gerolamo Gulizza, che l’argomento Donna lo ha sviscerato e rastremato da tutte le parti. Guadagnandosi, così, anche l’odio dell’intero gentil sesso, non solo delle femministe fanatiche alla Simona De Beauvoir, autrice del Secondo sesso. E di quella tremenda involontaria boutade socio-politica che ha attizzato l’estro beffardo del Gulizza: “donne non si nasce, lo si diventa”. Laddove, per dirla in aulico, l’ultimo esploratore dell’universo femminile spara quell’incipit perentorio e sbrigativo che ha fatto buttare il libello gulizzano dalla finestra a più d’una lettrice addottrinata: “La donna è il termine medio tra l’animale e l’uomo”. Ed ha un bello esplanare, di seguito, che quella definizione
è “senz’ombra di disprezzo”, mirando, con assoluto esprit de serieux, a rilevare solamente, e in generale, la minore capacità di movimento (fisico e mentale) della donna rispetto all’uomo. Nonché motivando quella minorità con il “complesso materno”: mestruazioni gestazione allattamento… Né ignora, il reprobo, l’estrema variabilità dei dosaggi ormonali di pertinenza genetica, che dà larga flessibilità ai confini tra maschio e femmina. Quante donne “in gamba” sono più “mobili” di tanti mezzi uomini, ominicchi, eccetera!
Il mio eventuale articolo andrebbe alla Gazzetta di Parma, risalendo così la penisola fino a superare quel centro e quella capitale che sembravano il non plus ultra geografico delle mie modestissime imprese scritturali. Vedremo se ne sarò capace. Di solito riesco male nelle scritture “su ordinazione” (anche se in questo caso si tratta più di immedesimazione che ordinazione).

13 giugno

Lezione di fisica alla cognatina promessa, e di italiano a Susy. Come sempre, la prima risponde bene (cioè, pronta e precisa) alle mie spiegazioni, e la seconda con qualche distrazione rimemorante,
E visite, segnalazioni, raccomandazioni. Non solo pro candidate esterne (all’idoneità per questa o quella classe: di solito, per la quarta e ultima del corso), ma anche per le candidate interne all’esame di abilitazione (qualcuno comincia a dire maturità) magistrale. Naturalmente, nessuno zelatore prende alla lettera la modestia coatta del mio “farò il possibile”: tutti (con scarto di prevalenza femminile) sopravvalutano le mie risorse d’intervento, il mio possibile. Con la conseguenza, già verificata negli anni, che se saranno non pienamente soddisfatti/e dagli esiti, daranno la colpa (o sua gran parte) al sottoscritto, che non si sarebbe impegnato abbastanza nella sua impresa di avvocato d’ufficio. Altrettanto naturalmente non ignoro che genitori e tutori diversi, ma di vicina pertinenza parentale, hanno già provveduto, o stanno per farlo, a raccomandare le loro fanciulle al maggior numero possibile di commissari, dal presidente in
giù. Che bel volume sarebbe scrivere di questo gran movimento se si conoscessero tutti i suoi segmenti pluridirezionati.
*
E’ l’ora dei lamenti: via il tappo. Più senso di vuoto che speranze, più nausea inerte che motivata attività culturale (scrittura, in particolare). In quel vuoto, serpeggia un malessere da privazione: da quale sera frugifera non accosto il pensiero frugante al mistero ontologico? Fremo di impazienza e di rimpianti. Né mi aiuta molto il maiora premunt che mi recito a monito della cieca impazienza (chissà la sproni, la cieca, ad aprire gli occhi sulla realtà vivente e imminente). Ondate di memoria ancora calda mi perseguitano dallo scorso venerdì non del tutto digiuno. Sono stanco e “malato”. E dovrei rinunciare anche a qualcuna delle poche sigarette che mi ostino a fumare. Quasi a integrazione simbolica della mia virilità.
Ore 24. Si va a letto. Con un libro per conciliare il sonno, e la speranza che Morfeo non mi sia avaro. Più un’eco competente: Ho una bella fanciulla / simile nell’aspetto ai fiori d’oro, / la mia Cleide diletta. / Io non la darei né per tutta la Lidia / né per l’amata... (ALCEO, traduzione S. Quasimodo)

Martedì, 14 giugno

Ore sette: mi levo, con un brivido di speranza. Esco e compro la Gazzetta dello Stretto dallo strillone che passa per tutte le strade del paese e me la porta sotto il naso proteso dalla bassa finestra sulla strada. La sfoglio voracemente. Delusione: non c’è, nella pagina letteraria, il mio articolo sul Dante gulizzano, che ruota intorno alla definizione della Commedia come “danza della vendetta”. C’è, invece, un articolo dello stesso Gulizza. Lo leggo, e lo trovo quasi inutile: indegno del titolo e della posizione tipografica. Un intruglio polemico di biologia evoluzionistica e di biologia culturale, per dire che “l’anello mancante” non manca mai, e che natura non facit saltus. Nel caso (dantesco) l’anello mancante non manca tra La vita nova e la Commedia. Dall’una all’altra c’è la necessaria evoluzione della fisiologia dantesca, che accumula variazioni minime per esplodere infine nel capolavoro. Tre quarti dell’articolo sono
spesi per sostenere il più compatto determinismo. Mi irrita: Gulizza non vuol cedere su nessuna posizione, e polemizza, in sottinteso, col sottoscritto e con Nicola Abbagnano, sostenitori (in ovvio ordine inverso) di un moderato, molto calibrato, attentissimo possibilismo, supportato dal Principio di indeterminazione di Heisemberg e da tutta la fisica quantistica (anche se col perplesso dissenso nientemeno che di Einstein in persona: “Dio non gioca ai dadi”). Pare si sia ostinato a stancare le mie resistenze fino al crollo dell’ultima roccaforte. Ma si illude, non cederò: la necessità è categoria metafisicissima, e lui non lo vuol capire. Equivale a una sentenza assoluta sull’intima, estrema e irriducibile struttura della materia/energia: ma quale scienza effettuale è mai pervenuta a tanta “intimità”? E se non vi è pervenuta, con quale diritto la scavalchiamo? Si dirà: ma se tutta la scienza, da Galileo all’intero Ottocento, è
stata deterministica, una ragione ci sarà bene. Sì, le leggi della macrofisica sembrano convalidare quell’ipotesi, ma dai primi del XX secolo quella stessa scienza, crescendo e moltiplicandosi, ha svoltato verso una differente valutazione, appunto quella accennata sopra. Einstein? Come sostengono alcuni fisici ed epistemologi, il genio della relatività ristretta e generale vìola, su questo punto, il codice o canone della scienza, che suona: “non è lecito affermare l’esistenza di un fenomeno o legge fisica che non sia il risultato di osservazioni esperimenti e calcoli effettivamente eseguiti”. Dopo tutto, come ricorda Brecht nella sua Vita di Galileo, “non tutto ciò che fa un grand’uomo è grande”. Fa o afferma – che è poi un altro modo del suo fare.
Si potrebbe, forse, attenuare l’ostinazione einsteiniana ricordando che il capelluto genio non pronuncia un drastico sic est incompatibile con il canone scientifico, ma postula una speranzosa possibilità che in futuro la sovrana Fisica riesca a dimostrare il diletto determinismo. Forse, dico. Personalmente, gli concederei un’altra attenuante: gli piacevano e “coltivava” le belle donne. Da quando l’ho saputo mi è più caro. Spezie, dirà il lettore del tremila, che c’entra con madame la fisica di frontiera come i proverbiali cavoli a merenda. Ma chissà.
Con una buona dose di presunzione sbarazzina, Gulizza non va per il sottile, e non tollera, lui, maestro di tolleranza (almeno, a parole), opposizioni drastiche alle sue convinzioni. Si appella continuamente alla scienza, ma pretende dare lezioni anche agli scienziati. Combatte al coltello la metafisica, ma vi scivola dentro negando il fatto. Non è che sia del tutto incoerente: ammette, egli stesso, che nella sua dottrina si possano trovare residui metafisici (magari per sola inerzia lessicale: le parole sono impregnate di quel virus immortale). E, soprattutto, nella sua guerra alle maiuscole, non risparmia certa inclinazione alla metafisica che gli sembri di trovare nella “fisica di frontiera”. O quella che lui vede come reticenza pluralista della biologia (in tutti i suoi aspetti: dalla fisiologia alla biologia molecolare all’etologia): la mancata riduzione dei molti istinti a uno solo, la fame, del quale gli altri non sarebbero che pulsioni
subordinate, funzionali a quella prima e fondamentale. O addirittura sue variazioni e diramazioni traspositive, che ne ripetono in chiave “laterale” lo spartito del metabolismo. Tema universale, che regge le molteplici varianti, iterandosi e complicandosi nelle infinite forme viventi, e negli abissi delle complessità citologico-molecolari dei singoli esemplari nelle tassonomie della filogenesi più recente.
Ho ricordato Einstein, come massima autorità, oggi, fra i sostenitori del determinismo para-ottocentesco; ora un flash memoriale mi assicura di aver letto che lo stesso Planck, il fondatore della fisica quantistica, come dire la fonte del moderno indeterminismo, concordava con Einstein sulla possibilità di sostenere l’ipotesi deterministica, malgrado la sua contraddizione con lo statuto fondante della scienza appena richiamato. Che si potrebbe anche esprimere (semplificando) così, secondo un appunto finito fra queste pagine di diario: “Non è consentito parlare di ‘realtà’ che non rispondano a osservazioni e misure effettivamente eseguite”.
Ho in mente una polemica aperta, cioè sui giornali ai quali collaboriamo, con Gulizza. In mente: ma, conoscendomi, prima che arrivi al fatto, potrebbe svanire come neve a lento sole. Non manca qualche segno rivelatore della possibile evoluzione vaporante: dopo questo sfogo, sento calare rapidamente il livello adrenalinico. E ho la sensazione di avere esagerato definendo inutile il sempre limpido e logico scrittarello gulizzano, per discutibile che possa riuscire a questo o quel lettore. O al mio contingente umore.
*
Cronaca sub-lunare. Ore 8.30: assisto, con la collega Pina Falconeri, alla prima prova di latino scritto dell’esame d’idoneità. Tre ore filate di ciarle, con poche varianti culturali e molta contingenza. Insomma, più noia che piacere. Pina è incinta, ed è spaventata. Come tutte le sposine al loro primo parto. Già la gravidanza le ha regalato qualche fastidio. E ora, all’approssimarsi del magno evento, arriva la paura. Tento di incoraggiarla, usando l’esperienza nostra, cioè di mia moglie e mia. Mi correggo e chiarisco: quella esperienza è stata tutt’altro che incoraggiante; al contrario, drammatica, e per poco non del tutto tragica. Nemmeno senza conseguenze di lungo corso, ancora oggi segnate sul volto di Rina, come improvvisi fiotti di insicurezza, ogni volta che si parla dell’argomento parto. E forse più nel suo corpo. Dunque, il mio utilizzo di quella esperienza è stato monco e reticente, tra l’imbarazzato e l’edulcorato. Non
ho negato una certa spesa in sangue vivo, ma ho taciuto il peggio: l’eccesso, in quella perdita, dei punti mal dati, e troppi (fino a rifarmi vergine la moglie). Ma questo peggio è stato un involontario e sinistro dono dell’inesperienza sudante del mio amico ginecologo, ancora alle prime armi.
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Scintille antigieniche fra Rina e me. Lei dice che mia madre vivrà più di me e di lei. Forse le augura – magari in un cantuccio remoto del sottosuolo – una morte precoce; che, per lei, privata, appena ventenne, di una madre soltanto a mezza strada fra i quaranta e i cinquanta, sarebbe sempre tarda. Ciò non incoraggia il mio affetto coniugale. Alimenta, invece, altri desideri, e affetti. Molto segreti e ben protetti. O coronata di viole, divina / dolce ridente Saffo! (Alceo, Decima musa, trad. Quasimodo, Lirici greci)
Molto segreti? Ben protetti? Chissà se non siano, invece, perigliosamente esposti in queste pagine semi-schermate. E chi mi assicura, poi, che Rina auguri a mia madre una morte precoce? Che cosa ne guadagnerebbe lei? Ma mère è, dopotutto, una belle-mère “leggera”: non invade la nostra privacy, e se interviene, quando avverte aria di tramontana fra noi due, lo fa per riscaldare l’aria, non per raffreddarla di più. Magari dando ragione a lei, o minimizzando torti e ragioni. Nelle nostre questioni di gelosia, babbo e mamma hanno sempre sostenuto la causa di Rina. Soprattutto, però, mon père, il moralista, il saggio dispensatore di assennati consigli. Altri tempi. Da quando viviamo lontano, le occasioni d’intervento si sono fatte più rare. Ma non per ciò mancheranno. Lo sento e lo so. E infine, tornando a mamma: lei è sempre stata disponibile, premurosa, “faciotola” (attiva) al servizio dei figli e del marito. Ora anche dei nipoti, dei
generi e delle nuore. Con più viscerale tenerezza, ovviamente, per i nipotini. Sapessi, quaderno, quanto ha fatto per la figlia maggiore, malmaritata (per sua esclusiva scelta sfortunata).
Allora può darsi che Rina non desideri propriamente una morte prematura per la suocera, ma le sue occasionali uscite siano solo un modo indiretto di ricordarmi che, ad ogni modo, lei, la sua mamma, l’ha perduta. E allora che le vado raccontando, io, dei miei timori per la salute e la vita stessa di mia madre? Già: sarebbe opportuno che tenessi per me i timori e le ansie filiali. Non si parla di corda in casa dell’impiccato.

15 giugno

Ore 8,30–11,30: assistenza alla seconda prova di latino scritto. Con la stessa amica e collega, Pina Falconeri. Oggi più sorridente, meno tesa, ma sempre molto incinta. Anche sognante, progettante. Il figlio verrà in una famiglia benestante, bisognerà avere molta cura per evitargli vizi e pigrizie da privilegiati. E’ stata perfino meno rigida, più disponibile con le candidate: qualche errore lo ha segnalato, qualche suggerimento lo ha lasciato cadere dalle labbra carnosette: E si è parlato di tanti argomenti: di scuola, di lavoro, degli impegni del marito ingegnere, progettista e costruttore del bel lungomare di Siderato (giudicato dagli intenditori il più bello dell’intera Calamagna). Anche della mia attività “scritturale”, dei miei lavori, delle mie collaborazioni giornalistiche, che lei dice di seguire con vivo interesse. Senza celarmi che a volte le riescono un po’ ostici, quando si occupano di filosofia. Ad onta dei miei sforzi
per farli leggeri. Onta meritata, con la filosofia non ...si scherza.
*
Durante una deviazione in presidenza mi capita, mezzo sepolto sotto riviste e altri giornali, un vecchio numero del famigerato quotidiano capitolino Il Tempo, e gli occhi mi cadono sopra un servizio sul caso Paolo Rossi. Il foglio della destra demo-vaticana (e mezzo nostalgica) spiegava quella morte integrando la versione poliziesca con questo delizioso ricamo: ucciso, quel giovane? Ma quando mai! nessuno lo aveva picchiato e rovesciato dalle marmoree scale dell’alta cultura: “era precipitato per un attacco di vertigini causato da una crisi epilettica”. Quando si dice l’eccesso di zelo: quel foglio, sempre ligio alle cause peggiori della intrappolata politica italiana, non indietreggia nemmeno davanti alle invenzioni più balorde purché utili a danneggiare “i comunisti”. Dove si vede come il fanatismo magnetizzi le menti.

Giovedì, 16 giugno

Stamane niente impegni di scuola. Ma abbastanza di casa. Ore 9-11: lezione di filosofia al giovane Sirta. Un bello sfoggio kantiano. Ma con rispetto per le capacità del ragazzo: inde, ripetizioni dei concetti più aspri, magari riespressi con differenti parole e frasi più facili. Il giovanotto è sveglio, e non sembra incontrare grosse difficoltà.
Ne incontrerà di più nella vita, forse, quando si tratterà di darle una direzione, degli scopi, un senso. Riuscirà a sottrarsi ai condizionamenti della famiglia e relativa tradizione? Il suo è un nome segnato, il nonno è un patriarca della “malandrina”, il padre è il suo delfino. Si sente dire in giro che entrambi vogliono tenere il figlio e nipote fuori da quella sfera drammatica, e che ci siano accordi con gli altri capi per questa esclusione protettiva. I capi, infatti, sanno quando un rampollo è adatto al loro genere di vita, e quando non lo è. Nicola non lo è, a giudizio di padre e nonno. Farà, dunque, una carriera normale, ligia alle regole della pur non stimata società civile e alle leggi del pur osteggiato (e sovente disprezzato) ma altrettanto indispensabile Stato italiano. Ligia, si vuol dire, secondo la prassi comune delle eccezioni contingenti. E’ cosa a sé stante il tenerlo fuori dalle catene ndrinesche (e dunque dalle
eventuali faide fra famiglie venute al cozzo armato). Chissà, poi, se il progetto avrà successo. Sorprese, in questo campo, ce ne sono sempre state nel regno vasto e complesso di mafilandia. Speriamo, per Nicola, che tutto fili liscio. Cioè secondo il suo dna e l’intuizione dei suoi “maggiori”.
*
Pomeriggio. Lezione dantesca a Susy. Con solo brevi intermezzi e molto impegno di studio. Stasera è apparsa, come dire? più rassegnatamente fiduciosa. Conta, certo, molto sul mio aiuto, ma si prepara a un’eventuale delusione. Delusione non imputabile a me, a difetto di impegno da parte mia, ma alle circostanze. Per esempio, una commissione severa, con un presidente arcigno, e prestazioni sue men che mediocri. Il caso che ci assicurerebbe come minimo un paio di materie a settembre. Ma bando al previsionismo storto.
Alla fine della lezione Giampiero ha cercato le coccole di Susy. La quale era preparata col solito regalino e lo ha fatto felice. Sono usciti anche insieme e lei gli ha comprato un altro pupazzetto. Malgrado io gliel’abbia “proibito”, per non viziare il piccolo, condizionando il loro incontro all’attesa dell’immediato vantaggio materiale. Concitato (e tenero) dialogo tra padre e figlio, al ritorno del breve passeggio post lectionem. Padre: “Non ti avevo detto di non chiedere regalini a Susy?” Lui, nel suo linguaggio acerbo, qui tradotto: “Io non ho chiesto niente, è stata lei che me l’ha voluto comprare.” Padre: “E tu non dovevi accettare, dovevi dire papà non vuole.” Lui: “Io ho detto papà non vuole, ma Susy ha detto non dare retta a papà.” Omissis sul rimanente (e perché questo improvviso nodo alla gola?).

“O donna di virtù sola per cui / l’umana spezie eccede ogni contento /del cielo ch’ha minor li cerchi sui/...” (Dante, Inferno, canto II). La beatrice qui sottintesa mi richiama alla penna quell’altra, e il loquace Virgilio che fa il sensale dottrinale fra Dante e la donna teologale (quante “ale”). E io, che mi contento d’una parte del “contento” (contenuto) del primo cielo, e non prevedo “eccedenze” celesti, non faccio parte dell’ “umana spezie”? Così celiavo stasera con Susy, elevandola a mia Beatrice sublunare. Sono occasione di questi spizzichi i canti di riferimento delle altre due cantiche inseriti nel programma d’esame (anche non interi o limitati a un solo tema).

17 giugno

Ore 9-11. Lezione di filosofia a Sirta. Capisce? A volte direi di sì, altre volte ne dubito. Mettiamola così: fino a che punto capisce e segue. Kant non è boccone facile per nessuno. Stiamo ripetendo la gnoseologia. Naturalmente, condensandola nella sola tematica delle forme a priori con cenni allo schematismo trascendentale.
Il resto del giorno, tra visite fatte e ricevute, letture, pasti e una passeggiata serale col bambino sul corso. Avverto segni di stanchezza. E se penso che il bello del ballo deve ancora arrivare, qualche inquietudine supplementare picchia dentro la scatola cranica (che teme lo … sballo).

Sabato, 18 giugno

Sbarco di alunne di quarta, stamane, a casa mia. Un bouquet di bellezze con una (una sola) occhialuta dissonanza. Erano presenti: la piccola, minuta, bionda e ben fatta Stella Del Duca, la paciocchina Nella Rossitto, la formosa moretta Adele Talarcio, tutta curve di sodezza sensuale, bella anche di viso (tipo spagnolo, ma non da flamenco), e con occhi di risacca; Melina Starnina, così dolce, così carina. E, purtroppo per il bouquet – come da lamento qui sopra – anche Gaetana (Tana) Masocca: scarsa di volto, passabale di figura, molto miope e di carattere poco coniugabile. Sono venute per una lezione di letteratura italiana di tipo esplorativo-integrativo. Una carrellata, forzatamente rapida, ma essenziale, sul programma, con più riposate soste su nodi e snodi strutturali, costitutivi: simbolismo, Pascoli, Manzoni, Verga, decadentismo, D‘Annunzio, Pirandello, Svevo. Partenza e prima tappa, il simbolismo, forestiero (francese, sopra ogni altro) e
nostrano. Dapprima faccio parlare loro, a turno, per misurarne informazione manualistica e grado di assimilazione. Poi intervengo: a correggere, chiarire, integrare, allargare, non senza un’eco dell’introduzione di Mario Luzi all’antologia garzantiana (collana “Saper tutto”) I poeti simbolisti, e con fugacissimi cenni al libro-bibbia di Hugo Friedrich, La lirica moderna. Soprattutto in polemica con le pretese metafisiche di certo simbolismo “pensoso” e di tanta “lirica moderna” in generale, dall’ermetismo in giù: si tratti dello spiritualismo romantico della Nathurphilosophie o del (sempre, comunque, preferibile alle giaculatorie mascherate) nichilismo ontologico di Mallarmé (secondo il quale la parola è l’abitazione dell’assoluto e l’assoluto vi si svela come nulla). Naturalmente, anche questi cenni vengono fatti semplificando al massimo, e ripetendo, col supporto di metafore, confronti e traslati variamente tratti
dall’esperienza delle graziose testoline frastornate. Singolarmente succhianti gli occhi neri di Adele Talarcio sbarrati, di quando in quando, da qualche duro concetto di scarsa digeribilità. Questi piccoli black holes rapinosi. Adele che sa di Susy…

O fanciulle che il dolce suono seguite con soave / voce, non più le membra ho docili. Fossi il cerilo / che con le alcioni passa sereno sul fiore dell’onda, / uccello di primavera, colore delle conchiglie! (Alcmane, traduzione Quasimodo)

Pascoli, seconda tappa, è già molto più accessibile, visto che i manuali, in genere (come il loro) si guardano bene dall’invischiarsi in sottigliezze accademiche sul miracolismo linguistico del Romagnolo, finissimo cesellatore della parola evocatrice e ispirato inventore di altre squisitezze innovative (apprezzabili, certo, ma non alla maniera dei verbaioli accademici con bava di sollucchero alle labbra eloquenti). Ed ecco Tana Masocca ripetere la poetica del fanciullino, per il quale e la quale ogni cosa ed evento può essere oggetto e fonte di meraviglia sorgiva, di incantato trasalimento virtualmente poetico. Ecco, a ripagarci dello scarso fascino faccial-vocale della chiaccherina Tana (che, in compenso, si ritiene più intelligente di tante sue compagne), l’abbronzata Adele dalle forme di marzapane (pasta reale in sicanico) leggere e “spiegare” Digitale purpurea, con la sua calda voce avvolgente. E subito dopo la soda minutezza bionda di
Stella recitare e parafrasare mezza X agosto (con i previsti riferimenti biografici e le ipotesi sull’identità brigantesco-predatoria dell’ignoto assassino). E poi la Nella grassottella cimentarsi sul resto della cavallina storna, tornare al “mondo poetico” e “spirituale” del poeta, introdurre il crepuscolare lasciato in eredità alla generazione versifera seguente dal querulo scapolone sororale: ah, i guaiti per il matrimonio (nel 1895) della più sveglia Ida, sagace “profanatrice” del morbido “nido” e perfida “traditrice”dell’incluso casto ménage à trois! Guaiti mica da poco, se Giovannino attraversò un lungo periodo di depressione, a stento curato dalla “martire” Mariù, rimastagli al fianco anche nella nuova dimora (indispensabile, dopo il “tradimento”), a Castelvecchio di Barga, in quella campagna così congeniale alla sua indole morbosamente introversa da sentirla come la sua più vera patria. Satana
tentatore mi spinge a leggere un passo di un’ostracizzata “Storia della letteratura italiana”: “Querulo e solitario, il Pascoli sviluppa i suoi ritmi più viscerali all’insegna di “Myricae”, prugne, menta, rondini, coccodé e grembiuli sororali che nascondono e comprimono l’aspirazione sessuale. E’ un canto genuino, ma così commisto ad un controllo ora debole ora sofisticato, da non produrre quasi mai una lirica che si possa accettare o respingere in blocco. Di qui i caratteri prevalenti della frammentarietà, della leziosaggine, del pargoleggiamento, dei preziosismi letterari.” Stella e Adele mi chiedono qualche esempio di questa critica, visto che ho il libro sul tavolo. E io cedo e leggo. “La frammentarietà, almeno, salva componimenti piuttosto brevi (Orfano, La tessistrice, La quercia caduta, Nella nebbia) o alcuni particolari. Nelle Ciaramelle, ad esempio, dopo un inizio stentato, c’è una quartina di un certo incanto
poetico: ‘Nel cielo azzurro tutte le stelle / paion restate come in attesa: / ed ecco alzare le ciaramelle / il loro dolce suono di chiesa.’” Bellino, ma segue “un banale sfruttamento dell’ultimo verso: ‘Suono di chiesa, suono di chiostro, / suono di casa, suono di culla, / suono di mamma, suono del nostro/ dolce e passato pianger di nulla.’ Aggiungete ancora un ricamo su questo ‘pianger di nulla’e avrete la leziosaggine vera e propria: ‘Non più di nulla, sì di qualcosa. Di tante cose’ E nel lezioso scivola l’incontro dei Due cugini che sembra ‘l’incontro di due lucherini’, e ‘il chiù che vuole più dalle tombe’ (Passeri a sera)”. E via seguitando. Vi ho dato un assaggio di quel che potrebbe essere una vera critica letteraria, contro i prevalenti gorgheggi estasiati della critica accademica. Ma, certo, a voi, dilette fanciulle (perché sorridi, Stella? ) basterà che riusciate a “spiegare” le poesie in
programma e ripetere il giudizio del vostro testo (ho tagliato il “testicolo” che mi veniva in mente). Magari non sottacendo i lutti che hanno segnato l’infanzia del Pascoli, la sua umbratile e vibrante sensibilità: dopo l’assassinio del padre, 1867, la perdita della madre e della sorella maggiore, appena un anno dopo: e nei successivi nove anni due altri fratelli. Attenuanti, che non cancellano, ma spiegano solo in parte i difetti della sua poesia. E, in parte, perfino la qualità dei suoi studi danteschi.
L’assaggio del monumento nazionale, don Lisander Manzoni, glorioso seme (come non dimenticano mai di ricordare le ragazze) di Giulia Beccaria e Pietro Verri, ci ha ammannito qualche inevitabile passaggio biografico, la “conversione”, gli Inni sacri: concepimento, attuazione, esiti poetici ed apologetici, e dunque soprattutto limiti. Ma con paterno consiglio-monito alle fanciulle di non calcare la mano sui difetti anziché sui pregi, nel caso si abbia a che fare col solito bacchettone scolastico-pulpitario. Poi invito Adele a ripetermi la concezione del romanzo storico nella sua evoluzione-involuzione, fino al massimalismo impraticabile dell’ultima tappa (tutta verità-realtà, nessuna invenzione e fantasia). Ad affrontare l’idea manzoniana della divina provvidenza provvede Tana, che non è tanto ligia (oggi, chissà domani) ai dettami e diktat parrocchiali. Espone e critica, con riferimento alla “scopa” pestifera dei Promessi sposi (un
orrore, quel ramazzare bambini e innocenti per presunta punizione di peccatori e colpevoli vari), e all’Adelchi, che rinvia al fantastico aldilà l’attuazione della giustizia contro la violenza storica, giustizia assolutamente irreperibile in questo lercio mondo dove “non resta che far torto o patirlo”. Anche questa trovata, a suo dire (rimemorando mie imbeccate occasionali), un barbaro orrore, che macula irrimediabilmente la sensibilità umana e la stessa moralità dei credenti, massime di quelli colti e speculanti: siano baroni di cattedra all’aspersorio o vecchi e nuovi santi – che con i sadici doc condividono, significativamente e ironicamente, la sillaba iniziale. Insomma, qualche seme mi cade sul terreno giusto. Ed è un vero peccato che il supporto morfologico del cervellino vivace non sia un monumento alla tragica Marylin Monroe o all’ancora seducente Ava Gardner.
Verga diviso in cinque porzioni disuguali: gli esordi letterari acerbi (romanzi patriottico-risorgimentali) strettamente intrecciati a rapidi flash biografici; il tempo delle maliarde fatali tardo-romantiche e mondano-decadenti (Eva, Tigre Reale, Eros…), gli episodici best-seller romantico-sentimentali (Storia di una capinera) e realistico paesani (prime novelle di Vita dei campi), con la svolta di Nedda, ancora barcollante, ma decisiva; la stagione dei capolavori (I Malavoglia, Mastro don Gesualdo), le migliori Novelle rusticane; il teatro, la (presunta) involuzione del dramma e poi romanzo Dal tuo al mio, il “manifesto” verista e la sua pratica, la lingua, la lettura politica dello scrittore tra fascismo, conservatorismo, nazionalismo e perfino socialismo (“sapete che sono diventato socialista, a vedere questi poveri soldati partire per il fronte?”, Lettere a Dina)). E così via, facendo parlare le cinque girls, quale più quale meno, a
seconda della personale disposizione e preparazione. Naturalmente ho illustrato la più recente e rivoluzionaria interpretazione verghiana, quella del Gulizza: ne ho ricordata la ricca Bibliografia, lo studio della sensibilità biologica del Siciliano, la sua incerta evoluzione ideologica e la ben documentata, relativa involuzione linguistico-letteraria (per cui, contro il parere del Momigliano e dei suoi vaccarielli, il Gesualdo sarebbe meno valido dei Malavoglia). Altrettanto naturalmente ho consigliato alle ragazze di non citare Gulizza (nemmeno Rama, che ne accetta le tesi verghiane) e di mostrarsi informate solo se dovesse prendere l’iniziativa di citarlo l’improbabile commissario di Italiano aggiornato e sicanico. Improbabile, ma non impossibile, dopotutto: la Sicania è così vicina!

Il D’Annunzio, “fatto di corsa” dall’insegnante, risulta il meno metabolizzato dalle inquiete testoline, tranne che da Tana, che ha letto Il piacere, oltre che le solite poesie antologizzate. Sparlando del mito del superuomo, abbiamo colto l’occasione per un confronto con Nietzsche, incluso nel programma di filosofia, e per un ripasso guidato degli snodi principali di quel pensiero così biologicamente terragno e corporale nella sua fase culminante e finale. Stella si è cimentata con l’estetismo esistenziale e letterario del Pescarese, ha illustrato, tra consenso e dissenso, sia l’impegnativo “io nacqui ogni mattina” che la fagolatrica “parola gemmata in su le carte”; sia l’italiano para-idiolettico che il “gusto sensuale della parola”. Mi sono permesso di richiamare a confronto qualche giudizio del Praz, del Rama e del Gulizza: quello, tutto sommato, piuttosto indulgente (pur nella sua minuziosa “recensione” di fonti e
“plagi”), questi (meno eruditi di don Mario, ma più esigenti), assai severi con la “parola” dannunziana, contrapposta a una vera “sintassi”, scarsamente operante nel magnificatore del verbum che scintilla soverchiante. La pioggia nel pineto è stata una discreta performance di Adele e La sera fiesolana di Nella. Un cenno anche al “Notturno”, che forse raccoglie il meglio dell’“orbo veggente”.
Di corsa, con l’auspicio di un prossimo incontro riparatore, il trattamento di Pirandello, “autore complesso e difficile”, secondo l’allarmistico avvertimento della collega di italiano. E sotto, Stellina, con la crisi della ragione e il relativismo cognitivo (Così è se vi pare, Uno nessuno centomila… ), l’incomunicabilità, le maschere nude, persona e personaggio, la vita-teatro e il teatro nel teatro, inseguendo una mimesi impossibile, o un’osmosi diffusa, tra vita e palcoscenico. Ma anche l’incisività della sua scrittura, la fertile, a volte spregiudicata, inventiva lessicale e sintattica, la vivacità e densità dei suoi dialoghi. Così via, per quasi tre ore, faticose e non sgradevoli. Né – viva la carica energetica trasfusa dalla grazia muliebre – ignare del canto 240 del Paradiso, lettura e spiegazione, distribuite tra le cinque Grazie.
*
Indi pausa e riposo, ma breve, perché incombeva il ragazzo Sirta, con la terza lezione di filosofia. Che tocca Fichte: da spiegare, per il momento. Gli faccio ripetere pezzi di Kant. Ripete a sufficienza: l’essenziale scolastico l’ha capito. L’altro, quello più aspro e contorto, più complicato (prima che complesso) e meno necessario, forse non l’aveva capito del tutto neppure l’Inventore, herr Immanuel, col suo ombrello e i suoi tè mattinieri, la sua ossessione sincretistica e il mammismo pietistico depistante, le sue passeggiate cronometriche e pensanti (ma perché escludere, tra noi, quaderno, le sue “devozioni” onanistiche!?). Figuriamoci certi e tanti professori di liceo e non solo. Compresi gli autori delle storie magne “del pensiero occidentale”, i quali si guardano bene dal fornire concretizzanti esempi a illustrazione dell’immenso apparato formale teutonico (intuizioni pure, categorie, schemi, principi dell’intelletto
puro e altra bazza). E magari, quando qualche spericolato originale si azzarda, smarrona con esempi sfocati o tutto-fare. Et in Arcadia ego? Spero di no. Ma soprassediamo.
Che vizio ostinato, queste divagazioni. E dire che mi aspetta (intendo, su questo quaderno), lei, la Susy susinesca, che oggi ha profumato il nostro mezzodì con un delizioso distillato, delicatamente insinuante. E ne ha soffuso anche il dantesco Paradiso, canto XII.
Pochi e fuggevoli the touches delle estreme corde musicali, mediati, in chiave catalitica, dal distillato delicato sopra decantato. E viva la rima.
A integrazione sognante: Eros, come tagliatore d’alberi / mi colpì con una grande scure, /e mi riversò alla deriva / d’un torrente invernale (Anacreonte, Eros, Quasimodo)
Dopo di che, sono così stanco e ronzante d’acufene indotto, che vado a fare due passi sul lungomare insieme a Rina e al bambino. Magari a prendere un gelato, prima di cena. Giampiero se l’è già prenotato.

venerdì 5 giugno 2009

Susanna, frammento 31


19 maggio, ore 22, 45

La giornata. Dalle nove alle dieci lavoro a una improbabile mini- Storia della Ragione: una sintesi, dovrebbe riuscire, delle vicende filosofiche angolate sull’evoluzione del concetto di ragione. Alle undici usciamo, tutta la famiglia, per andare a Siderato. Facciamo degli acquisti. Poi ci portiamo sul lungomare, e ci restiamo per mezz’ora circa. Giampiero vuole giocare col mare il suo gioco preferito: lanciarvi ciottoli. Ci spostiamo sulla spiaggia e ci avviciniamo alla battigia. Il piccolo ha tutto l’agio di fare il mini-Balilla lancia-sassi. La sabbia inzuppata dall’acqua ricorrente del mare piace al lanciatore: la sente dura e rassicurante sotto i piccoli piedi calzati a sandali già estivi. Naturalmente, sono coinvolto nel gioco. Il piccolo accetta che il mio lancio sia più lungo, ma si sforza di gareggiare. E aspetta gli elogi per ogni sua riuscita, che, a sua volta, egli accompagna con un gridolino di vittoria.
Se la “pulizia” di questi exploits infantili disturba qualche torbido pensiero? Be’... Ma non fare troppo il rompiscatole, diario-coscienza dei miei sottintesi.
Di nuovo a casa, siamo alle dodici e mezzo. C’è il tempo per tentare qualche cartella ancora. Ne scrivo due. Di getto, indi da rivedere con vigile pazienza. Pranzo. Succulento, tra spaghetti al pomodoro, carne alla pizzaiola e insalata e frutta. Rina è una buona cuoca. Dopo il pasto centrale, la rituale sigaretta, in cortile, assistita da sorsetti di caffè. Quindi passo a leggere il quotidiano di turno, oggi La Stampa. Un paio di articoli politici, poi alla scienza. Il Corriere della sera di martedì offre un lungo articolo sui quasar; ne avevo programmato la lettura per oggi. Lo leggo: buono. Anzi, suggestivo e ...promettente.
Usciamo ancora, nel pomeriggio maturo, sempre in macchina. Andiamo a “Fontane”, località di campagna dotata di acqua speciale. Ci riforniamo di sorella acqua montana, dunque, gradevolmente frizzantina e di buon dosaggio minerale. Acqua, sì, ma anche un pretesto per la passeggiata richiesta da mia moglie. Di ritorno, Giampiero fa le bizze. Il solito bisogno dei cuccioli di aggredire-giocare coi grandi. Insiste, lo porto a vedere una processione religiosa. Mi tocca sorbirmi (stando in macchina, beninteso) una predichetta del Vescovo. Soliti paroloni e consueti parolini stillanti rugiada di buoni propositi, di ottimi avvisi e consigli angelici. E il contrappunto delle domande di Giampiero: su quella strana folla, sul prete e questo e quello. Di nuovo a casa, Giampiero non demorde, si fa “noioso”, litigo con lui, lo allontano da me, con sguardo e pieghe facciali di contingenza “feroce”. Si convince che la cosa è seria, va a sfogarsi e consolarsi dalla madre. Così posso riprendere a lavorare. Abbastanza a lungo da “buttare giù” altre dieci (troppe) cartelle (su Platone). Figuriamoci il riducente controllo d’obbligo che mi aspetta. Non sarà, il lavoretto, se mai sarà condotto all’approdo, quell’hoc est in votis previsto da Gulizza, amante dei volumetti “tascabili”. Bah, vedremo. Non a caso nicchiavo alla proposta.
Fumo molto (relativamente alle mie capacità neuro-fisiche di reagire al veleno). Mi sento male: nausea, ronzii alle orecchie e dentro la scatola di ossa, tremiti. Smetto, esco, con me il bambino, spero di tenerlo buono al cinema, dallo zio di Susanna. “Letti sbagliati”. Ne vedo metà, circa, perché Giampiero non vuole restare oltre e reclama il gelato. Torno a casa: il piccolo ottiene il suo gelato. Mi rimetto a leggere. Una mezzoretta di quotidiano. Ruota il mondo rotondo e tramonta il sole d’oro. Si fa sera. La sirena chiama. La meravigliosa sirena scema: la televisione.
Andiamo tutti e tre in casa Carolui, a vedere Johnny sera, che piace a mia moglie. Giampiero sta quieto un po’, poi si sgancia e gioca con le sue carabattole. Si rientra. Ceniamo. Sto qua, a scribacchiare questi inutili appunti. I quali, se non avrò il pudore di bruciarli prima, fra qualche lustro non riusciranno a riaccendere nessuna scena originale. Forse nessun volto integrale. Ma non avrò il pudore-coraggio dello sterminio igienico-sanitario. Ci vuole del carattere, per averlo, quel coraggio: ne fa parte. E l’uomo in bilico ne ha poco.
Sono stanco e smetto. Vado da Madame Bovary, che ho interrotto stanotte. Forse riuscirò a finirlo prima della fine del mese. Concludere una cosa, anche piccola, anche minima, dà un attimo di effimera gioia. Tanto poco sono capace di concludere le cose di forte impegno. Quanti lavori cominciati, ripresi più volte e mai finiti. Un deposito di incompiute. Cioè, di buoni propositi disseccati.
Quante volte avrò ripetuto questa lagna? Ducunt volentes fata…
*
Frasi e paradossi (apparenti?) della Trofologia.
“Si dice: pensare con l’utero (col sedere, coi piedi); ed è proprio l’utero (o la bocca, o la mano: sempre il corpo) che – in quanto instaura un rapporto con un altro corpo – pensa”. La parte (bocca, piedi…) spinge (costringe?) il cervello a movimentare il tutto. Insomma, il cervello, “organo del pensiero”, non viene escluso, ma riposizionato. Lavora, il cerebro, eccome, ma si polarizza sulla parte corporale in quel momento preminente. Su quelle esigenze, cioè, più o meno modulate e prementi.
Pagina 32: il sadismo spiegato con la logica della fame. Se mangiare implica distruggere, e perciò infliggere sofferenza, ciascuna fase del processo, in quanto riverbera sul totale, contiene godimento. Quest’ultimo essendo, in gran parte e originariamente, liberazione da una sofferenza, cioè da un bisogno insoddisfatto, Anche se, come accade nel sadismo “normale”, la fase distruttiva non conclude nella finale ingurgitante, il godimento non manca. Questa “logica”, operante sempre, viene vissuta con maggiore o minore intensità. E nelle nature più sensibili (più fragili?), più acculturate, sublimata fino a escludere le sevizie corporali. Salvo ritorni di fiamma, sempre possibili (circostanze e stimoli occasionali aiutando). Ma quelle mentali, emozionali non feriscono di meno. Solo, diversamente. Né sono fuori dal corpo.
“Non succede, anche, che la vittima soglia affezionarsi al carnefice? Perché, nel profondo, riconosce nel carnefice una legge che è anche in lei, una ragione, una necessità” (pag. 33). Succede, purtroppo. Ma allora entriamo nel patologico (convenzionale). Ovvero, nel regressivo. Homo sapiens ridiscende all’era giurassica. Riprendere, insistere, tentare di approfondire la tematica, a evitare impressioni di semplicismo e frettolosa superficialità. Sì, ma quando? E quanto?
Niente discorsi susinici, oggi. E meno male. Il faut se regarder. E buona notte.

20 maggio

Eclissi parziale di sole, oggi: spettacolo e movimento all’istituto. Eccitate soprattutto le ragazze, sempre pronte a scaldarsi per ogni minima novità e occasione di sospendere le lezioni. Nonché starsene insieme a ciacolare sui professori d’ambo i sessi. Alcune vestivano più elegante, forse avvertite dell’evento che le avrebbe portate fuori delle aule per qualche mezza oretta, o anche di più.
A casa, nel pomeriggio, lezioni successive di fisica a Susy e Rosy (la fidanzata del cognato). Argomento, un capitolo dell’ottica: specchi e relative “formule dei punti coniugati”. Constato che ricordo ancora bene gli argomenti (piccole soddisfazioni). Si sente che la fisica è stata uno dei miei amori.
*
Le sorprese non finiscono mai con “Susanna niente panna”. Incredibile. Ma vero? Io voglio crederlo, non voglio dubitarne, non ne ho motivo. Non ne ho? Ma è talmente fuori dalla norma, così irreale. E se mi ingannassi, credendolo? Domani scoprirei di avere conosciuto una persona ingenuamente perfida. O infantilmente bugiarda. Infantilmente perché inutilmente: che bisogno c’era di mentire. Su un tale argomento, poi!
Mai fatto, mai saputo. Formule esoteriche? Ma necessarie, quaderno. Per ora.1
Crescita di responsabilità, perciò. Crescita di altro écoulement interno.

Ho letto qualche pagina di Bergson, oggi. Riassumiamo, parafrasando, a titolo di pre-spiegazione a scuola. Noi “solidifichiamo” i nostri fluidi stati, che non sono “stati”, ne facciamo croste sopra un presunto supporto fisso, l’io. Ma l’io stesso non è cosa né supporto, è scorrimento, flusso, écoulement, corrente inarrestabile: durata. La ragione onticizzante sarebbe all’origine delle idee platoniche, queste “cose” incorporee, ma rigide come e più di quelle materiali. Quella tale raison, infatti, è la responsabile della frammentazione solidificante del flusso inesausto, l’élan vitale: essa, la ragione, geneticamente “cosista”, preleva dall’écoulement, spezzetta e raddensa: appunto, “solidifica”. Naturalmente, generando, così, un mondo artificiale e artificioso, irreale. Utile, certo, al procedere scientifico, ma col rischio di scambiare quel mondo fittizio e utile per il mondo reale, questo divenire perenne, inesauribilmente creativo e inventivo. Purtroppo (per la suggestiva teoria) fino a sfociare nell’eterno Spiro, più spurio che mai. Il solito ambizioso auto-inganno del filosofo geloso dello scienziato. Si intuisce un pizzico di plausibilità nella promozione dinamico-creativa del reale e si dimentica che il prevalente soggettivismo del trattamento non regge il confronto con la scienza fisico-chimica: questa organizza dati osservativi, li inchioda a rapporti matematici rigorosi, fa delle previsioni sulla base di quelle sue leggi e trova conferme nei risultati. O, se non li trova, si autocorregge: che cosa le può contrapporre la scorribanda dell’immaginazione autopromzionale?

Intanto, solidifichiamo il più vicino segmento del divino flusso produttore. Stasera l’unità di dio prevale sulla sua trinità trascorsa. Capito, quaderno? Susy e l’unità-trinità divina. Quale esaltante teologia digitale. Che delizioso panta rei dell’induzione elettro-dedo-magnetica. Ah, perché non poter filmare sì soave cinematica, e rivedersela, poi, a varia distanza di mesi anni decenni? Πάντα ρεϊ…

Giugno, ore 21, 45 (ora legale)

Panta rei, sì. E velocemente. Molta acqua è passata sotto i ponti. Tanti grumi sciolti nel flusso bergsoniano: chi li raccoglierà? Ah, tempo. E magra memoria.
Sfoglio l’agenda che ha raccolto i miei grani di condensato.

Martedì 24 maggio. Wunderbar. Wir sind allein bei mich, in meines Haus, viele minuten gewesen. It has been very fine. Insalata di mask-language. Coktails di sensations. With her, of course. Wonderful, yes. Sie ist immer schöner, immer hungry. Geschlechtlich hungry, natǜrlich. (da W. Sgoethe, Liebe Leib, p. 34).

Giovedì 26: idem. Ihr solide Untergrund muscolare stretto fra le mie nervose espansioni prensili. La medietà lenta della mia espansione destra avanza in umide strettoie cedevolmente molli e adesive, surrogato sterile (l’espansione, dico) di ben altra eminenza censurata. Sterile, ma non de plaisir.

Sabato 28. Grave screzio con Susanna furens: disubbidisce a un mio ordine, a scuola, in presenza di colleghe. Respinge accigliata anche una reiterazione finto-burbera dell’ordine. Con maliziosa corona di vorace attenzione delle colleghe presenti. Mi pareva di poter leggere nel loro cervello surriscaldato attraverso le basse fronti trasparenti. Leggere induzioni facili e ghiotte: il collega è così avanti nella sua dipendenza dalla (innegabile) bellezza dell’allieva che ne subisce mortificazione pubblica senza adeguata reazione disciplinare. Ne parlerò alla famiglia – dico – la ragazza, infantilmente, crede di potere approfittare della nostra amicizia. E ne ho parlato, infatti, col fratello, il tenente aviatore, il pilota di aviogetti. Che è cosa non lieve né lieta, per me, povero assemblaggio di ossa strette e di non erculei muscoli, di fronte a questo Dioniso atletico. Vero, Rina? Ho colto, sai, il tuo sguardo furtivamente adesivo addosso al bel tenente. Che peccato che la nostra civiltà inibisca certe diversioni vagabonde a pluralità reversibili. E dire che forse l'altro polo non sarebbe alieno da temporanei scambi e brevi digressioni: sei pur tu una bella donna, e tanto giovane. E io mi sento, tra cotanta venustà e fidiaca virilità, il brutto anatroccolo (senza riscatto). La famiglia dei belli, quella di Susanna. Che divagazioni. Naturalmente, il tenente ha preso la cosa sul serio, ha fatto la predica alla sorella, le ha ricordato i doveri dell’amicizia verso la mia posizione istituzionale, e altre buone e sagge cose. Lei, Susy, stava muta e a testa mezzo china: la statua della coscienza infelice. Ma dentro il patetico marmo che cosa si agitava? Ci stava mandando tutti al diavolo, mentre affidava a un delizioso broncio l’exterieur di un presunto pentimento? Probabile. Io mi affrettai a chiudere il capitolo, a scanso di eccessi poco compatibili col temperamento di Susy. Ma anche voglioso di troncare in fretta quel confronto deprimente fra la mia modestia fisica e quella dovizia tracimante.

Domenica 29. Passeggiata sul corso col fratello e il cognato di Susy. Previo incontro a quattro, noi tre e il padre della ragazza, a parlare di lei, centro radiante dei nostri interessi prevalenti. Preoccupati i familiari, ma soprattutto il padre, per certe stranezze e nervosismi di Susy, per le sue uscite improvvide a scuola, e altre cose che formano insieme la “sindrome Sa”. La quale appartiene tanto alla sua famiglia quanto a me. Anzi, alla mia famigliola, che da quel moi trae linfa e sostanza. Se in questa sostanza (biologica economica sociale) entrano veleni, i veleni passano direttamente alla famigliola. A Rina, a Giampiero. Ma dico ancora male, cioè poco. A colmare la reticenza dovrei parlare della famiglia larga, la mia, quella di Rina: una frondosa realtà umana, che si estende dal padre di lei al mio, e soprattutto a mia madre. Tralascio sorelle e fratelli, meno esposti agli eventuali veleni, ma la mamma, no, lei non avrebbe grandi difese. Capito quaderno? E allora prudenza. Ancora e sempre. Più di quel “troncare, sopire …”

Lunedì 30. Prima metà del giorno. Ci risiamo: Susy sta di nuovo male. E ce l’ha con me. Forse perché parlo di lei con i suoi. Ma come evitarlo? Resta fuori dell’aula durante la lezione di italiano. La signora Spanna la segna assente. Com’è giusto, visto che in aula lei non si è fatta vedere. Come è poco amichevole, però, la collega, verso di me, che, da vicepreside, qualche volta ho chiuso un occhio sui ritardi della futura mammina. Susanna ha telefonato alla famiglia, viene a prenderla il fratello insieme al padre, nella sua fiammante “Giulia” bianca. Come sabato. Ci fermiamo tutti a casa mia. Mia moglie aiuta i parenti di Sa a farle la predica. Lei ascolta e tace. Che cosa rimugina nella testolina ribollente? Vorrei sapere, in particolare, che cosa pensa di me e su me, quante me ne canta in quel silenzio molecolare. Me, il primo responsabile, a suo modo di vedere, dei suoi guai. Quando si scioglie in qualche frase avara e reticente dice e ripete che “se ne andrà”, vale a dire che morirà: prima degli esami. La seconda parte dell’effusione verbale a volte è appena accennata, altre spiegata in tutta la sua esplicitezza. E queste parole di colore oscuro ronzano nella mia congesta cavità cranica, vi spargono liquidi tossici di paure e reazioni difensive. Temo gli “improvvisi” di Susanna, mi compromette troppo a scuola con la sua indocilità spavalda, e minaccia di compromettermi sempre più. Dovrebbe farti meraviglia, quaderno dei miei sfoghi notturni, che mi capiti perfino di augurarle una fine prematura e liberatrice? Di tanto in tanto, si capisce, e nei momenti più grevi di tensione e minacce ambientali, ma capita. E non senza il grazioso alibi: sarebbe liberatoria anche per me, sì, ma soprattutto per lei, la tormentata. O, come sentenzia Rina, la Bella sfortunata.
Lunedì 30. Pomeriggio-sera. Susy viene a trovarmi per la lezione di fisica. Le spiego l’elettrolisi. Farmi seguire con la necessaria attenzione è un’impresa. Dice che capisce. Speriamo. Io, a ogni buon conto, ripeto due e tre volte la spiegazione. E tento di farla ripetere a lei.
Viene a interrompermi l’amico Ciccio Pollùra. Che mi raccomanda una ragazza. Anzi, no, questo deve essere accaduto un altro giorno, forse durante la penultima lezione a Susy. Come dici, quaderno, che significa raccomanda? Andiamo, non sei mica del pianeta Marte: qui, nel profondo Sud, la raccomandazione è cosa naturale come offrire un caffè. Produce sbigottimento le rare volte che il destinatario nicchia, tira sul “vedremo”, pone limiti, e operazioni simili. Il mittente della raccomandazione non prevede (da queste parti, ma forse anche più su, lungo lo stivale) obbiezioni, distinguo, perplessità. Gli sembrano fesserie, sofismi, dubbi da femminelle, indegni dei veri uomini. I quali, in quanto veri, sono, naturaliter, anche e sempre uomini di mondo. In ogni caso, il peroratore ti fa capire che tutto quanto gli puoi opporre in fatto di limiti e quantità è ben sottinteso: lui lascia fare a te, si fida e ti confida la persona. Tu saprai, a tuo libero giudizio, quanto potrai fare senza smarronare. Salvo poi a risentirsi se l’esito scende più del previsto dal livello di protezione ipotizzato dal segnalante o dai committenti.

Martedì 31. Riunione di colleghi per orientarci sulla 2a E, classe difficile, per eccesso di carenze. Il preside Timarco sembra deciso alla severità. Vedrò cosa si può fare per limitare i danni alle ragazze. Tante famiglie mandano le figlie a scuola con sacrifici: sono dell’interno montano, abitano paesini fatiscenti, spremono piccoli poderi e qualche animale domestico per cavarne sostentamento e possibilità di studi pei figli. Sottrarre un anno a queste ragazze non è responsabilità da poco. Naturalmente, ci sono dei limiti, lo so, anche alla magnanimità e sensibilità sociale, ma si deve fare il possibile per limitare piuttosto i danni alle famiglie che la clemenza (finché non sfori sulla decenza).

Mercoledì 10 giugno. Grande giornata di interrogazioni, oggi, a scuola. Che fatica. La maggioranza delle ragazze imparano a memoria la filosofia. Ogni sforzo di penetrare in quei recessi impermeabili alle astrazioni si risolve, nel migliore dei casi, nella produzione di un vago intuire, parcellare e saltellante. Si schiude respiro di primavera quando capiti quella che qualche concetto lo afferra veramente. Ci sono, sì, anche queste piccole grazie negli istituti magistrali.
Pomeriggio. Viene la cognatina virtuale per la lezione di matematica. Dopo di lei arriva anche Susy, accompagnata dal fratello e dal cognato (quest’ultimo, marito della sorella Rosina, attualmente è a spasso e in attesa di reimbarco). Il fratello parte: la licenza è finita. Ci salutiamo con una virile stretta di mano, e un arrivederci a presto. Non sono mancati i ringraziamenti per quello che faccio e farò a vantaggio della sorella. Lei, la saluterà a casa, dopo la (mia) lezione.
Lezione di italiano, Divina Commedia, “Paradiso”, canto I. […] Nel suo aspetto tal dentro mi fei / qual si fe’ Glauco nel gustar de l’erba / che ‘l fe’ consorte in mare agli altri dèi. / Trasumanar significar per verba / non si poria, però l’essemplo basti / a cui esperienza Grazia serba.
E poiché la trascendenza non si può esprimere che in criptiche cifre, quanto precede è la “cifra” del momento. Indubbiamente, la Beatrice che mi rende Glauco è meno eterea dell’angelicata e teologale (e insipidina) Donna dantesca: ma Glauco la preferisce così. O donna di virtù sola per cui / l’umana specie eccede ogni contento / del ciel ch’ha minor li cerchi sui/… Che salti, mon Dieu. E perché proprio questi versi dell’Inferno, canto II, e il resoconto del buon Virgilio? Semplice inerzia associativa mossa dalla doppia Beatrice. Alla meno eterea assicuro che le sue virtù appagano in pieno la mia modestia appetitiva, che ignora cieli più vasti. Il disegno riattuliazzante del suo duplice volto si svolge e compone sotto i miei occhi fagicamente protesi, fra le mie dita devotamente operanti, sulle mie labbra febbrilmente comunicanti, sotto la mia tongue religiosamente danzante. E sotto-sopra altre competenze immanenti, mobilitate in convergente sinergismo trascendentale. Insomma, se le premesse sono state sublimamente dantesche e teologali, la conclusione, inattesa e fuori programma, è stata ctonicamente tangenziale. S’intende, dopo il compimento della letio giusta.

Perfino compiutamente corporale e carnale, se facciamo chiasma tra l’interno forzato e il libero esterno. Vale a dire, tra l’eros mutilo e furtivo del poema paradisiaco (interno), e l’inatteso cursus legittimo e consacrato en plain air (esterno). Che passiamo a schizzare. Esperimento nuovo, sotto la luna, appena pochi metri sopra il livello del mare vicino, sulla faccia larga di un ponte stradale vecchio e screpolato, dentro una “Giulietta” chiusa da vetri appannati dal fiato, aperti ad intervalli in lotta con i fari indiscreti di aliene macchine in corsa, sfreccianti di fretta o rallentanti di curiosità, nel duplice senso di marcia, affrontate con rapidi flash dei nostri. Una cosina deliziosa, vero Rina? Quasi un sapore di clandestinità, di infrazione, un simil-incontro tra amanti. L’innocenza in braccio a Morfeo, nel regno dei beati incolpevoli, la coscienza impegnatissima nella delibazione delle res novae. Un omaggio domestico all’estetica, dove ben altra presenza regna sovrana, in dialettica opposizione poco hegeliana alla divina etica.
No, non era in programma, due giorni (appena) fa, quella sortita serale lunga del trio domestico. Né l’itinerario verso sud né l’attraversamento del ponte. Meno che mai quella sosta ispirata dalla complice luna ruffiana sfarfallante sopra il tremulo mare. E perciò l’impatto è stato così bello, così dolce, così piccante. Ma non solo per “questo”: il pimento più sapido, più eccitante era il rischio: di essere colti da sguardi indiscreti, da pettegola curiosità in casuale moto su libere ruote. O peggio, disturbati da guardoni sbracati. Distante appena due giorni, l’evento scivola già verso la zona della privata virtualità mitica. Appare, alla rimemorazione, più lontano, quasi remoto. Ne cola, dai momenti più “attenzionati”, ancora una luce lattescente sulle carni: di magica luna spalmata sulle pieghe del mare; a capriccio di nuvole vagolanti, vestita e denudata, frammentata e restituita intera. Dimenticavo la terza condizione propiziatrice: il sonno del piccolo. Sonno pieno, profondo. E più che mai galeotto.
Come puoi ben capire, quaderno, della chicca in questione non si potrà parlare alla Beatrice appena omaggiata: ne sgorgherebbe attività stromboliana, con fiamme e pietre di fuoco alte e folte. Può, veramente, la Beatrice in questione pensare che io non mi sobbarchi agli obblighi coniugali? Non può, non è verosimile. Ma è certo, per forza di induzione e logica isterica, che una mia incauta confidenza sul tema l’accenderebbe di gelosia. Di quale composizione affettiva e intensità, poi, non è problema che voglia affrontare qui, stasera, a questa ormai tarda ora notturna (che la comparte, ignara, sa dedicata alla mia vocazione culturale).

4 giugno, ore 22

Brulichio di ricordi freschi e palpitanti, visioni monche e intere, confuso brusio di voci e suoni e colori di immagini vive. La ferita dell’essere mi inebria, le sue labbra dischiuse che invitano cibo pulsante, la sua profondità ombrata di muco scivoloso accelerano tropismi molecolari in ogni fibra, e soprattutto nei siti deputati al collante supremo. E questa binomiale alternanza mi brucia e consuma. Esoso il prezzo dei grani furtivi. Che salgono a rischio sommati ai legali. Ah, perché non ho la fisiologia dell’asceta? Perché il mio ananke dev’essere sotto il duplice segno delle due Beatrici, opposte e complementari?
La scienza dell’essere e la fame del corpo. La contaminazione feconda anche la voluttà dei confronti. Dimensioni e qualità, anatomia e fisiologia: la sobrietà cinetico-vocale dell’una e la compressa esuberanza dell’altra. La Beatrice consacrata e l’eversiva: l’eccesso compete alla seconda. Con la punizione di non potervisi abbandonare: indotto spietato delle coordinate spaziali concesse al furto, in nessun modo surrogabili con libere pareti o ruscellanti campagne. Dio e la Carne: che sintesi dinamica, o sacro Pan imbrigliato.
Quel volto del piccolo dio, com’è chiaro nel cavo pruriginoso della memoria: disegnato dal pensiero e dalle dita, dall’occhio e dalla mente. Le estasi della temporalità, dice Heidegger: avrà mai pensato alle estasi qui in causa? Il Logos, epifania dell’essere: ma ha sperimentato il logos di questo silenzio di lingua che danza ritmi di mucose vibranti nel santuario di ben diverso Holzuwege? L’essere è physis, ma solo questo, caro Filosofo. Die Stimme der Stille: ancora maschere. Suggestive. Magari crivellate. Forse. Ahimé.
Se penso a quel che brucia le sinapsi stasera, quale sofferenza mi diventa l’impotenza, l’impossibilità di agire, di liberare. E come questa brama di libertà fisica mi urla dentro, a sparpagliare emozioni e pensieri.
Disse il poeta: Nil est dictu facilius (Terenzio): “Niente è più facile che parlare”. A volte questa verità si capovolge: niente è più difficile. E la fattispecie evoca piuttosto l’altra “massima”: Фησίν σιωπών, Parla tacendo.

*
Il bambino è malato. Niente di grave, la solita faringite e tonsillite e febbricola da infreddatura, da sudore eccessivo evaporatogli sulle tenere carni, geneticamente troppo reattive a questo tipo di sollecitazioni. Ma è quanto basta per rovesciare i modesti programmi della sera. Si doveva andare in casa di Susanna, su invito di lei; ma né Rina né io ce la sentiamo di esporre il piccolo ai rischi di un aggravamento del suo inghippo. Rina manda me a dire che venga lei (o vengano loro) a casa nostra. Impulsiva e sconsiderata, Susy vorrebbe venire in macchina, con me. La madre ed io, da persone di senno, le abbiamo illustrato gli inconvenienti del caso: immagina i pettegolezzi, se ci vedessero, e non c’è dubbio che qualcuno ci vedrebbe. Susy abbozza, ma non è convinta: odia sottostare ai condizionamenti della odiatissima opinione pubblica paesana. E sbuffa. Ma io torno solo, in macchina, lei seguirà a piedi. Un bel tratto di strada, dopo tutto. Ma la rispettabilità lo esige. Caspita.
Io sono andato al cinema, lasciando le amiche sole col bambino. Dovevo vedere il famoso Africa addio. Film tendenzioso, senza dubbio; ma capace, anche, di spiattellare alcune verità sgradevoli. Quelle stragi di animali: non potrebbero essere impedite? E quelle stragi di uomini, di esseri umani, donne e bambini compresi: nessuno può fare nulla per impedire almeno quelle? Ah, l’ipocrisia dei “princìpi”: la sovranità, il non-intervento, il rispetto dell’indipendenza. Intanto la macelleria procede e dilaga. Ci fosse una anche mediocre capacità di empatia per la sofferenza della carne, la viva carne martirizzata, falciata, distrutta come fosse legno d’alberi secchi o inanime pietra, allora l’appello ai princìpi dei governi, dei signori del potere non minacciato avrebbero qualche difficoltà a legittimare la loro interessata inerzia. Si dovrebbe sancire il diritto morale all’intervento umanitario, altro che santificare l’obbligo del non-intervento. Che ci sta a fare l’ONU, se non è capace di concordare una linea d’azione così chiaramente giusta? Intervenire negli “affari interni” di qualsiasi paese che calpesti i “diritti umani”, e insomma che attui politiche di terrore, o il terrore e gli orrori sopporti dentro i suoi confini. E intervenire con le armi, se la dissuasione economico-diplomatica non bastasse. Bisognerebbe poter costringere governi e popoli a un minimo di civiltà morale.
Già, ma è la solita storia. Proprio chi dovrebbe, non vuole. Proprio le grandi potenze non trovano accordi, paventando ingerenze future nei loro affari, non sempre puliti. E alla fine, è sempre questione di uomini: non ci sono gli uomini giusti, non ce n’è abbastanza, o non abbastanza nei posti giusti. Non ce ne può essere, perché l’uomo mammonico prevale nettamente sull’uomo etico o soltanto sensibile. Come immaginare i boss del grande capitalismo americano e mondiale diventare sensibili alla sofferenza degli altri? Quali altri, poi: negri, gialli, orientali, latino-americani. I diversi, e in buona sostanza, i sottouomini. Concetto mai presente nei discorsi, certo, ma operante nel sottofondo delle decisioni strategiche in economia. Business is business, ecco la regola inossidabile della politica statunitense. A contrastare la quale, poi, anche il fronte antimperialista si contagia di pragmatismo cinico e attua la sua realpolitik. Una brutta bestia, che non ha vista abbastanza acuta da scorgere almeno i bambini stritolati, anch’essi, nella macchina della violenza pandemica.
Sì, è sempre questione di uomini, in ultima analisi. E non c’è sistema che possa formare gli uomini per virtù di meccanismi psicologici o tecnologici. Meno che mai per virtù plastiche di politica e ideologia. O di religione. Anzi!
A proposito di uomini di ultima analisi: m’ero dimenticato di comunicarti, quaderno, la decisione del ministro della Pubblica Istruzione di “licenziare” il poco magnifico rettore dell’università romana. Ugo Papi, ex fascista e nostalgico smemorato di quell’Era (come “titolano” i professori della inviolata Nostalgia) e responsabile primo delle violenze locali. Temeva il peggio, il ministro ritardatario (ma, come si dice, meglio tardi che mai) e ha costretto alle “dimissioni volontarie” quella perla d’uomo (e di studioso). Il quale, manco a dirlo, promuove a merito snobbato quella sua inclinazione affettiva per la (a suo rigoroso pensare) jeunesse dorée e, papale papale dichiara al simpatizzante giornale Rome Daily American: “L’unico mio torto è stato quello di avere sempre cercato di ostacolare i professori di sinistra”. Insomma, un torto fittizio per un merito reale. Al riparo del quale una parte del corpo accademico garantiva privilegi e autorità contro certe perplessità e aperte contestazioni degli studenti antifascisti. Qualifica, codesta, che a menti più mobilizzate appare “anacronistica”, e insomma insufficiente a cogliere avversità organizzate (con le solite complicità istituzionali) e opportunità non approfondite.

Lunedì, 6 giugno

Le ragazze di quarta mi hanno dato l’arrivederci. Agli esami, direttamente, per alcune; altre, invece, possono contare sulla mia disponibilità per il tempo che dagli esami ci separa. Un paio d’ore al giorno, e anche più, per chiarire oscurità, snebbiare visioni confuse, sciogliere dubbi e asperità concettuali. Casa mia è notoriamente facile da raggiungere. Rina brontolerà un po’, forse, per l’eventuale ressa, ma senza drammi né isterismi. Del resto, quelle che abitano nei paesi più lontani (dai venti chilometri in su) difficilmente vorranno pagare la cura di qualche carenza al prezzo di un sacrificio di tempo piuttosto cospicuo. Servizi di corriere e ferrovie non scialano né in frequenza di corse né in velocità di percorrenza. Siamo pur sempre nel profondo Sud. Vedremo.
Lella La Mela non mi ha salutato, ostentatamente. Né ha fatto la foto di fine anno col gruppo che mi si è raccolto attorno, cioè la sua classe quasi al completo. Passa la misura. Quanti cambiamenti dal giugno scorso. Rancorosa gelosia, così lontana dalla ridente estate scorsa, il tempo delle lezioni in casa mia, per lei e Susy, in pura amicizia. Il tempo dei bagni di mare in compagnia, col cuginetto biondo conteso. Fa soffrire, pur sempre, la perdita di un affetto, di un’amicizia.
Susanna studia: durerà? Oggi non è venuta a scuola. Dunque, era una delle mancanti alla foto di gruppo.

Consiglio di classe per lo scrutinio della 2a E. Un disastro: tredici bocciate e ventitré rimandate. Nessuna promossa. Malgrado la mia buona volontà, che non si è risparmiata pazienza e convinta indulgenza. Sono rimasto solo, alla fine. Merito (poco invidiabile) del preside, che ha influenzato le mie colleghe, sempre pieghevoli al fascino dell’autorità. Penso al dramma di tante famiglie, di tanti padri che si spezzano le reni sulla terra dei padroni, o sul piccolo podere personale, per cavarne la stenta capacità di mantenere le figlie agli studi. Che significa, per queste famiglie montane, pagare anche le spese del convitto, dove le religiose non fanno sconti. Uno di questi padri mi ha detto che spende 400.000 lire l’anno. E viva la fede. E lo sterco di Satana.

Sono giù di umore. Scontento, anche, di me, mi chiedo se davvero ho fatto tutto il possibile per attenuare il danno. Certo, la classe era fra le peggiori; ma non valgono le attenuanti della composizione prevalentemente montano-contadina, dell’ambiente degradato o comunque sfavorevole alla “coltura dello spirito”? Altra considerazione, che rende più amara la sconfitta: se ci fosse stata, fra queste ragazze, la figlia di un mafioso, avremmo avuto uguale severità? E quasi rimpiango che non ci sia stata, perché l’inevitabile trattamento di favore da parte delle colleghe consapevoli (e le ignare sarebbero state informate), e il prevedibile cedimento dell’incorruttibile preside (che avrebbe trovato qualche appiglio mondanamente plausibile) mi avrebbero permesso di sfoderare il sentimento dell’equità a più redditizia difesa delle sfortunate. Naturalmente, stesso discorso si può fare per l’eventuale figlia di un notabile politico locale. O la raccomandata dal vescovo.
Ma ormai è cosa fatta, cosa malfatta, né ho argomenti legali per disfare il malfatto.

7 giugno

Altra brutta esperienza: le ragazze insistono con me per sapere l’esito degli scrutinî. Rifiuto, naturalmente, ogni notizia, cioè ogni indiscrezione illegale. Ma a quale prezzo di sofferenza. Una di loro ha resistito in assedio per due ore. Ha tentato tutti i modi, tutte le attenuazioni e obliquità possibili per cavarmi di bocca un indizio, una traccia, qualunque minima sfumatura di sorriso o di sguardi, di mezze parole o di sospiri. Che strana esperienza, e che stress dopo la battaglia. Il costo del non sapere essere deciso e, magari, scostante. La cosa che più intriga, in queste esperienze, è la percezione dell’assoluta buona fede delle postulanti. La quale, vista dall’altra faccia, non significa, poi, che la mancanza di qualsiasi senso della legalità, del rispetto delle regole. E’ fenomeno generale, da queste parti, e in tutto il meridione in genere. Dove si va avanti sulla trama delle amicizie, delle conoscenze personali, del rapporto privato. Ma, del resto, dove l’avrebbero appreso questo senso della legalità? In famiglia, non esiste; nel mondo religioso, meno che mai; nella società esterna, idem. Nella scuola, si dirà. E qui cade l’asino: la legalità del mondo scolastico è, tutt’al più, a pelle di leopardo, con prevalenza dei vuoti cromatici sui pieni, del bianco sulle macchie. O, se si vuole, è a regime di rapsodica casualità. L’altro giorno si accennava al fenomeno delle segnalazioni o raccomandazioni: siamo nel clima in questione. Il quale, purtroppo, ha più d’una scusante: e la maggiore sta nel mondo politico, dove la legalità non se la passa tanto meglio che negli altri ambienti. Ma non è il tempo e il luogo delle disquisizioni impegnate.

Pomeriggio. Lezione di fisica a Rosanna, la fidanzata del cognato. Il quale mi pare che perda il pelo lupesco, ma non il vizio: continua a fare lo sprecadonne, tra alunne e colleghe del suo istituto (più controllato con le prime, più sciolto con le seconde). Temo che il fidanzamento non ne godrà in buona salute: il giorno che Rosy dovesse cogliere pesanti e reiterati segnali di “distrazione” del suo futuro sposo, gliela perdonerebbe? Temo di no. E’ il tipo che parla poco e rumina molto.
Anche Susy è stata qui, dopo Rosy, per lezione di italiano. Un po’ di letteratura, un po’ di Paradiso. Susy ripete la spiegazione del Canto XXV. Legge un mastello di terzine, e poi “spoetizza” in stenta, ma non gravemente, prosa:
“Se mai continga che il poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra / sì che m’ha fatto per molti anni macro // vinca la crudeltà che fuor mi serra /del bello ovile ov’io dormi’ agnello / nimico ai lupi che li danno guerra; // con altra voce omai, con altro vello /ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ‘l cappello; // però che ne la fede, che fa conte / l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi / Pietro per lei sì mi girò la fronte”. Susy spiega. La impegno nella “controversia” sul senso di quel metaforeggiare “pecoreccio”. Ha ragione chi in quell’“altra voce” e “altro vello” legge un piatto riferimento all’età più o meno senile del poeta in eventuale tardo rientro nella sua Firenze; o chi, al contrario, ci vede fiammeggiare il fiero revanchismo del cittadino illustre crudelmente ostracizzato, che ritornerebbe da vincitore, per la forza e con la scorta del poema sacro (altro che il giovanile stilnovismo!), al suo dolce ovile e vi riceverebbe la corona poetica (“cappello”, “dal francese antico chapel vale ghirlanda”). Susy ricorda la mia spiegazione e va sicura sulla fierezza revanchista del Poeta ingiustamente offeso: non tornerà in Fiorenza un mite agnellino, pur “nimico ai lupi che li danno guerra”, ma un adulto montone davanti al quale inchinarsi reverenti. Susy, perché Dante non rientrerà a Firenze? Susy ricorda ancora: la fierezza non gli consenti di subire l’umiliazione dell’ “offerta” nel suo bel San Giovanni.
Un po’ annoiata, lei, nella vigna teologica, continua a “proseggiare” quelle irsute terzine, tra sanpietri e sangiacomi, metafore baronali e traslati principeschi, fino alla famigerata pìstola che lei e l’amica devota, ispirate da un dio più modesto del Sommo, trasformarono in pistòla, facendo arrossire la pudica signora Spanna, vistosamente incinta. Piccole delinquenti! Ci si fa su una risatella, e poi Susy chiarisce il senso di quel cenno all’epistola di san Giacomo (Maggiore, precisa, a distinguerlo dall’altro apostolo), il quale aggiunge, sulla speranza, altre nozioni e delibazioni a quelle “stillate” per primo nel “cor” di Dante da “quei [...] che fu sommo cantor del sommo duce”: e si vuol a dire David, il guerriero salmista, cantore del superboss celeste, nella sua forma di Spirito Santo. Qualche “dilatazione” su quell’immagine equorea della luce stillata, a sua volta metafora della santa conoscenza, e si fa pure una capatina alla (supposta) tomba del santo “galiziano” e ai santissimi pellegrinaggi a San Jacopo de Compostela, ancora oggi più che mai vivi e affollati.
“Come discente ch’a dottor seconda /pronto e libente in quel ch’elli è esperto/ perché la sua bontà si disasconda. // “Spene”, diss’io “è un attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto”. Si regala qualche minuto pure alle ricorrenze degli stessi punti tematici da un canto all’altro, dall’una all’altra cantica, con una particolare scappellata al sesto canto di ognuna, i canti politici, che porgono una ghiotta e copiosa offa alla fame polemica del “ghibellin fuggiasco”, o guelfo “bianco” che dir si voglia, verso gli ipocriti “neri” intenti solo al proprio particulare, e perciò inclini ai compromessi avvilenti e relative alleanze spurie e disinvolte. Un cenno più disteso al canto VI dell’“Inferno”, con un Ciacco severo censore della sua Firenze (“Ed elli a me: ‘la tua città ch’è piena / d’invidia sì che già trabocca il sacco / seco mi tenne in la vita serena/”), relatore della guerra civile fra Bianchi e Neri e profeta vendicatore di un (finto) avvenire sempre fosco e losco. Domanda, ancora, Dante: “ma dimmi, se tu sai, a che verranno / li cittadin de la città partita; / s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione / per che l’ha tanta discordia assalita” /. Risponde, Ciacco, disegnando il succedersi degli scontri tra le fazioni e l’alternarsi delle sconfitte e vittorie dell’una e dell’altra. Poi aggiunge: “Giusti son due e non vi sono intesi; /superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c’hanno i cori accesi”. Un cenno al VI del “Purgatorio”, con la centrale figura di Sordello e ai canti dell’incontro con Cacciaguida. Quando il trovatore Sordello scatta all’abbraccio con Virgilio che ha appena pronunciato il nome di Mantova, Dante erompe nel suo famoso sfogo politico che processa, in controcanto, Italia Firenze e l’intero Occidente, preda di egoismi e stupidità che accendono guerre e massacri anche tra figli di una stessa terra: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave senza nocchiere in gran tempesta / non donna di provincie, ma bordello! / Quell’anima gentil fu così presta, / sol per lo dolce suon de la sua terra, / di fare al cittadin suo quivi festa; / e ora in te non stanno sanza guerra /li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro e una fossa serra.”
Susy ammira la mia memoria dantesca, e ne chiede genesi e senso. Confesso che durante l’ultimo anno di liceo mi venne l’uzzolo di imparare a memoria alcuni canti della Commedia. E che, poi, ripetendoli di tanto in tanto, me li sono trascinati fino a oggi (si capisce, con qualche scotoma, inevitabile con tanto inventore di sintassi e novità lessicali). Insomma, un divertimento, che capita mi venga buono per occasioni come questa che sta impegnando noi due.

Dentro la gravitas del paradisiaco Dante, s’è inserita, tuttavia, una breve pausina di meditazione metafisica. Breve e intensa, come sempre nell’ovattato ma non garantito contesto. Giusto compenso alla nobile fatica. Un tremito mi percorre ancora le viscere mobilizzate all’uopo. Et altro non ci appulcro.
*
Ma tu, quaderno, ora vorresti saperne di più sulle vaghe allusioni della pagina precedente. Formulo la tua domanda: quali cambiamenti dal giugno scorso? Già, quali e quanti, e senza che te ne parlassi mai in tutti questi mesi. Non per malavoglia, o non tanto, quanto per scarsità di tempo, manco di forze, urgenza di altro. Vediamo di cominciare a farlo stasera.
Al tempo dei buoni rapporti, in casa del direttore Carolui, certe sere si giocava a carte, ora più ora meno nel corso dell’anno, ma soprattutto nei mesi tra tardo autunno e inverno. Una di quelle sere, a un certo punto, mio cognato, al solito invito, rispose che non aveva voglia, quella sera, di giocare. Io replicai, ma senza malanimo, che: va bene, non fa nulla; nessuno è indispensabile. Si dava il caso che anche Silvana, la sorella più sbarazzina di Lella, avesse detto, poco prima, la stessa cosa, preferendo ascoltare e vedere in televisione il cantante preferito, Bobby Solo (una vera passione). Sentendo le mie parole rivolte al cognato, la game girl (così s’era chiamata nel gruppo per la sua smania del gioco) pensò fossero un rimprovero per lei. La quale, poi, non era alla sua prima sortita di quel genere, ma aveva il vizio di piantare tutti in asso o farci aspettare i suoi comodi, sospendendo le partite in corso con un pretesto o l’altro. Effetti poco appetibili dell’eccesso di confidenza che le sorelle La Mela, ma lei, soprattutto, avevano in casa Carolui. Era, però, la prima volta che io reagivo in quel modo, pur senza acredine. Lei se ne risentì (ma io lo seppi poi, come altre cose). Sempre in quei giorni, una sera invitai a cena le sorelle La Mela e Rosy Carolui, a quel tempo soltanto loro amica fraterna, e non ancora intenzionata dal cognato. Si mangiò allegramente, quella sera, e anche discretamente. A un certo punto, Silvana aprì il frigorifero e quasi gridò, con allegra voce (e virtuale voracità): “Iiih quanta buona roba c’è qui, dal professore! Dobbiamo venire più spesso, così lo aiutiamo a consumarla, se no va a male!” – Patatrac! Sparata più distruttiva non poteva uscire dalla candida bocca dell’impulsiva Silva delle selve. Rina, infatti, non gradì la clamante schiettezza: l’invadenza non le garba affatto. Né ha una spiccata vocazione umoristica, nel caso si volesse prendere la cosa come un’innocente battuta. Quale non era, in verità. Per lei quella di Silvana era soltanto invadenza. Mutò umore quella sera stessa nei riguardi della troppo disinvolta (“sfacciata”, nel gergo spiccio di Rina) ragazzaccia. Poco, quella sera: da non farsene accorgere dagli altri presenti. Ma non tanto poco da non farsi capire dall’interessata. Nella visione di Rina la game-girl diventava cheek-girl, la sfacciata.
La quale l’indomani si presentò a casa nostra, mentre io stavo a scuola, e chiese a mia moglie un obolo per una raccolta di beneficenza. A detta di Lella, Rina fu quasi sgarbata. Certamente, fredda, scostante, come se avesse ricevuto un’offesa personale dalla “sbracata” Silvana. Diede la sua offerta, ma non fece nulla per trattenere l’amica.
Cominciò così un malumore effusivo che minò l’antica amicizia fra le due famiglie. Anzi, a voler essere più aderenti ai fatti, fra le loro componenti asimmetriche: le sorelle La Mela e gli anziani dell’altra. Sui quali le sorelle, ma soprattutto Silvana, spalleggiata da Rubina, la maggiore, avevano sempre avuto una forte influenza. Un poco anche su Rosanna, naturalmente, ma lei, dotata di più solida personalità, era legata pariteticamente più con Lella, sua ex compagna di classe alle elementari e medie. Ma insomma l’amicizia legava comunque le due famiglie.
Intanto la frequentazione sempre più assidua di casa Carolui da parte del mio cognato farfallone aveva disturbato già parecchio l’attenzione delle sorelle. Ricorda quaderno: tutte nubili, tutte in florida età da marito, nessuna insensibile al fascino indiscutibile del mio parente bellimbusto. E vogliamo aggiungere che la famiglia si manteneva quasi esclusivamente con i modesti ricavi dall’affitto di due o tre stanze a studenti o professori delle due scuole superiori del paese, il liceo classico e l’istituto magistrale? Un insieme di condizioni e coordinate che spingevano l’interesse delle fanciulle verso quel giovane prestante, già sistemato, col suo bravo stipendio, di promettente avvenire. E dai meravigliosi occhi verdi. Più un fossettino al centro del mento volitivo tutt’altro che vano.
Un bel mattino, mentre alunne e professori eravamo nelle rispettive scuole, in casa Carolui piombò Rubina. Una furia, si disse poi. E con un solo obbiettivo, un unico bersaglio, tutt’altro che bene armato di artigli e parola. Insomma, la mite signora Angela Carolui. Che venne aggredita da una tempesta di fiati e suoni troppo frettolosamente organizzati in parole non sempre chiare e raramente ponderate. Il tuorlo di tanto uovo para-cosmogonico era: siete degli stupidi, voi e vostro marito (il quale, poverino, stava alla sua banca, mille miglia lontano dal sospettare simili sviluppi). Vi state facendo prendere in giro, quello vuole solo giocare con vostra figlia, spassarsela e poi ricordarla da lontano, al suo paese, dove tornerà sicuramente appena potrà avere il trasferimento. Non conoscete la sua fama di dongiovanni? Che genitori siete? Rosy è ancora una bambina su certe cose. E così via. La povera signora Angela, riferendo più tardi questa disavventura, fece capire che non era riuscita a pronunciare una sola frase compiuta contro la furia della quasi zitella alla moralina inacidita.
Furono tentati chiarimenti, spiegazioni. Parlai con Lella. Seppi delle reazioni di Silvana, giurai che quella sera io avevo indirizzato le mie parole soltanto al cognato. E non certo con l’intenzione di offendere. Cercai di attenuare le responsabilità di Rina verso Silvana. Sai, lei è fatta così, non capisce l’esuberanza altrui in casa propria; è limitata, se vuoi, ma non è cattiva. Si può chiarire, aggiustare, recuperare. Non le pareva possibile ormai: troppo era stata offesa l’intraprendente e ormai soltanto bad girl (nel senso di cheeky) riniana. La quale era buona, in fondo, ed era soltanto un po’ ingenua nel pensare che tutti fossero schietti e trasparenti come lei. “Voi sapete com’è Silvana: tutta spontaneità, rumore, ciarle, ma anche buona fede, bisogno di affetto, di confidenza…” “Be’ sì, non nego e non dubito della sua buona fede, della sua sincerità, ma per certe donne, e anche amiche, è un po’ troppo disinibita, un po’ troppo selvatica, confidenziale…”.
Lungi dal dimagrire e comporsi, la rottura crebbe, alimentata da chissà quali contorti pensamenti, e divenne definitiva: tra le sorelle e noi, tra loro e la famiglia Carolui. E non c’è uso di mondo e cinismo filosofico che possa impedirci di dire che abbiamo sofferto per questa non prevista né voluta svolta a gomito. Vero quaderno? Anche se non ne abbiamo parlato fino a questa sera. Anzi, forse nella lunga rimozione o dilazione c’entra un po’ questa sofferenza. Che è senso di privazione, rincrescimento, imbarazzo. E, sotto sotto, soprattutto sentimento di impotenza pirandelliana nel comunicare. Quasi un senso di colpevole insufficienza non solo umana, ma professionale: io, insegnante di psicologia, oltre che di veneranda filosofia folta di rivelazioni e suggerimenti, non sono stato capace di venire a capo d’una semplice disputa fra donne.

Ma poi, riflettendo. Era tanto semplice la disputa donnesca con la sua vulcanica materia? Forse il suo cuore, anzi core, era semplice: le aspirazioni delle girls La Mela verso l’appetibile cognato. Ma semplice non equivale senz’altro a facile. Né le complicate complessità intrecciate al core mancano di artigli tenaci: l’insofferenza di mia moglie verso la “seconda Mela” (Silvana detta anche Selvaggia. Terzo appellativo: wild girl), una certa gelosia di Lella verso Susanna (scopertamente, più affiatata con Rina, e non occultamente assai meno “istituzionale” con me: meno allieva, meno studentessa, e più amica au pair). E chissà quant’altro di non scoperchiato. Ma la barriera invalicabile è stata lei, è lei, la para-zitella dagli occhi asiatici, Rubina. Rivedo il suo pallido viso, paffutello e appuntito in una volpina convergenza di occhi naso bocca mento. Lo rivedo nel suo affilarsi in pre-attacco, o contrarsi a preparare un’aggressione differita per forza di circostanze. Be’, dio o chi per lui sia con lei. E con loro tutte, e tutti: includendo nel manipolo l’estraneo padre, vittima delle figlie maggiori, e il piccolo biondo unico maschietto e ultimo nato, ignaramente appena cinquenne. Che, come al solito nelle beghe dei grandi, è la vittima più patetica dell’ira funesta. Come, del resto, anche il mio Giampiero.
Così il Fiore dal gambo corto sparisce definitivamente dal nostro orizzonte privato, dai bagni di mare così lieti e ciarlieri dell’estate scorsa, dallo spazio-gioco di Giampiero. E non ne godo. Un affetto perduto non arricchisce.