venerdì 5 giugno 2009

Susanna, frammento 31


19 maggio, ore 22, 45

La giornata. Dalle nove alle dieci lavoro a una improbabile mini- Storia della Ragione: una sintesi, dovrebbe riuscire, delle vicende filosofiche angolate sull’evoluzione del concetto di ragione. Alle undici usciamo, tutta la famiglia, per andare a Siderato. Facciamo degli acquisti. Poi ci portiamo sul lungomare, e ci restiamo per mezz’ora circa. Giampiero vuole giocare col mare il suo gioco preferito: lanciarvi ciottoli. Ci spostiamo sulla spiaggia e ci avviciniamo alla battigia. Il piccolo ha tutto l’agio di fare il mini-Balilla lancia-sassi. La sabbia inzuppata dall’acqua ricorrente del mare piace al lanciatore: la sente dura e rassicurante sotto i piccoli piedi calzati a sandali già estivi. Naturalmente, sono coinvolto nel gioco. Il piccolo accetta che il mio lancio sia più lungo, ma si sforza di gareggiare. E aspetta gli elogi per ogni sua riuscita, che, a sua volta, egli accompagna con un gridolino di vittoria.
Se la “pulizia” di questi exploits infantili disturba qualche torbido pensiero? Be’... Ma non fare troppo il rompiscatole, diario-coscienza dei miei sottintesi.
Di nuovo a casa, siamo alle dodici e mezzo. C’è il tempo per tentare qualche cartella ancora. Ne scrivo due. Di getto, indi da rivedere con vigile pazienza. Pranzo. Succulento, tra spaghetti al pomodoro, carne alla pizzaiola e insalata e frutta. Rina è una buona cuoca. Dopo il pasto centrale, la rituale sigaretta, in cortile, assistita da sorsetti di caffè. Quindi passo a leggere il quotidiano di turno, oggi La Stampa. Un paio di articoli politici, poi alla scienza. Il Corriere della sera di martedì offre un lungo articolo sui quasar; ne avevo programmato la lettura per oggi. Lo leggo: buono. Anzi, suggestivo e ...promettente.
Usciamo ancora, nel pomeriggio maturo, sempre in macchina. Andiamo a “Fontane”, località di campagna dotata di acqua speciale. Ci riforniamo di sorella acqua montana, dunque, gradevolmente frizzantina e di buon dosaggio minerale. Acqua, sì, ma anche un pretesto per la passeggiata richiesta da mia moglie. Di ritorno, Giampiero fa le bizze. Il solito bisogno dei cuccioli di aggredire-giocare coi grandi. Insiste, lo porto a vedere una processione religiosa. Mi tocca sorbirmi (stando in macchina, beninteso) una predichetta del Vescovo. Soliti paroloni e consueti parolini stillanti rugiada di buoni propositi, di ottimi avvisi e consigli angelici. E il contrappunto delle domande di Giampiero: su quella strana folla, sul prete e questo e quello. Di nuovo a casa, Giampiero non demorde, si fa “noioso”, litigo con lui, lo allontano da me, con sguardo e pieghe facciali di contingenza “feroce”. Si convince che la cosa è seria, va a sfogarsi e consolarsi dalla madre. Così posso riprendere a lavorare. Abbastanza a lungo da “buttare giù” altre dieci (troppe) cartelle (su Platone). Figuriamoci il riducente controllo d’obbligo che mi aspetta. Non sarà, il lavoretto, se mai sarà condotto all’approdo, quell’hoc est in votis previsto da Gulizza, amante dei volumetti “tascabili”. Bah, vedremo. Non a caso nicchiavo alla proposta.
Fumo molto (relativamente alle mie capacità neuro-fisiche di reagire al veleno). Mi sento male: nausea, ronzii alle orecchie e dentro la scatola di ossa, tremiti. Smetto, esco, con me il bambino, spero di tenerlo buono al cinema, dallo zio di Susanna. “Letti sbagliati”. Ne vedo metà, circa, perché Giampiero non vuole restare oltre e reclama il gelato. Torno a casa: il piccolo ottiene il suo gelato. Mi rimetto a leggere. Una mezzoretta di quotidiano. Ruota il mondo rotondo e tramonta il sole d’oro. Si fa sera. La sirena chiama. La meravigliosa sirena scema: la televisione.
Andiamo tutti e tre in casa Carolui, a vedere Johnny sera, che piace a mia moglie. Giampiero sta quieto un po’, poi si sgancia e gioca con le sue carabattole. Si rientra. Ceniamo. Sto qua, a scribacchiare questi inutili appunti. I quali, se non avrò il pudore di bruciarli prima, fra qualche lustro non riusciranno a riaccendere nessuna scena originale. Forse nessun volto integrale. Ma non avrò il pudore-coraggio dello sterminio igienico-sanitario. Ci vuole del carattere, per averlo, quel coraggio: ne fa parte. E l’uomo in bilico ne ha poco.
Sono stanco e smetto. Vado da Madame Bovary, che ho interrotto stanotte. Forse riuscirò a finirlo prima della fine del mese. Concludere una cosa, anche piccola, anche minima, dà un attimo di effimera gioia. Tanto poco sono capace di concludere le cose di forte impegno. Quanti lavori cominciati, ripresi più volte e mai finiti. Un deposito di incompiute. Cioè, di buoni propositi disseccati.
Quante volte avrò ripetuto questa lagna? Ducunt volentes fata…
*
Frasi e paradossi (apparenti?) della Trofologia.
“Si dice: pensare con l’utero (col sedere, coi piedi); ed è proprio l’utero (o la bocca, o la mano: sempre il corpo) che – in quanto instaura un rapporto con un altro corpo – pensa”. La parte (bocca, piedi…) spinge (costringe?) il cervello a movimentare il tutto. Insomma, il cervello, “organo del pensiero”, non viene escluso, ma riposizionato. Lavora, il cerebro, eccome, ma si polarizza sulla parte corporale in quel momento preminente. Su quelle esigenze, cioè, più o meno modulate e prementi.
Pagina 32: il sadismo spiegato con la logica della fame. Se mangiare implica distruggere, e perciò infliggere sofferenza, ciascuna fase del processo, in quanto riverbera sul totale, contiene godimento. Quest’ultimo essendo, in gran parte e originariamente, liberazione da una sofferenza, cioè da un bisogno insoddisfatto, Anche se, come accade nel sadismo “normale”, la fase distruttiva non conclude nella finale ingurgitante, il godimento non manca. Questa “logica”, operante sempre, viene vissuta con maggiore o minore intensità. E nelle nature più sensibili (più fragili?), più acculturate, sublimata fino a escludere le sevizie corporali. Salvo ritorni di fiamma, sempre possibili (circostanze e stimoli occasionali aiutando). Ma quelle mentali, emozionali non feriscono di meno. Solo, diversamente. Né sono fuori dal corpo.
“Non succede, anche, che la vittima soglia affezionarsi al carnefice? Perché, nel profondo, riconosce nel carnefice una legge che è anche in lei, una ragione, una necessità” (pag. 33). Succede, purtroppo. Ma allora entriamo nel patologico (convenzionale). Ovvero, nel regressivo. Homo sapiens ridiscende all’era giurassica. Riprendere, insistere, tentare di approfondire la tematica, a evitare impressioni di semplicismo e frettolosa superficialità. Sì, ma quando? E quanto?
Niente discorsi susinici, oggi. E meno male. Il faut se regarder. E buona notte.

20 maggio

Eclissi parziale di sole, oggi: spettacolo e movimento all’istituto. Eccitate soprattutto le ragazze, sempre pronte a scaldarsi per ogni minima novità e occasione di sospendere le lezioni. Nonché starsene insieme a ciacolare sui professori d’ambo i sessi. Alcune vestivano più elegante, forse avvertite dell’evento che le avrebbe portate fuori delle aule per qualche mezza oretta, o anche di più.
A casa, nel pomeriggio, lezioni successive di fisica a Susy e Rosy (la fidanzata del cognato). Argomento, un capitolo dell’ottica: specchi e relative “formule dei punti coniugati”. Constato che ricordo ancora bene gli argomenti (piccole soddisfazioni). Si sente che la fisica è stata uno dei miei amori.
*
Le sorprese non finiscono mai con “Susanna niente panna”. Incredibile. Ma vero? Io voglio crederlo, non voglio dubitarne, non ne ho motivo. Non ne ho? Ma è talmente fuori dalla norma, così irreale. E se mi ingannassi, credendolo? Domani scoprirei di avere conosciuto una persona ingenuamente perfida. O infantilmente bugiarda. Infantilmente perché inutilmente: che bisogno c’era di mentire. Su un tale argomento, poi!
Mai fatto, mai saputo. Formule esoteriche? Ma necessarie, quaderno. Per ora.1
Crescita di responsabilità, perciò. Crescita di altro écoulement interno.

Ho letto qualche pagina di Bergson, oggi. Riassumiamo, parafrasando, a titolo di pre-spiegazione a scuola. Noi “solidifichiamo” i nostri fluidi stati, che non sono “stati”, ne facciamo croste sopra un presunto supporto fisso, l’io. Ma l’io stesso non è cosa né supporto, è scorrimento, flusso, écoulement, corrente inarrestabile: durata. La ragione onticizzante sarebbe all’origine delle idee platoniche, queste “cose” incorporee, ma rigide come e più di quelle materiali. Quella tale raison, infatti, è la responsabile della frammentazione solidificante del flusso inesausto, l’élan vitale: essa, la ragione, geneticamente “cosista”, preleva dall’écoulement, spezzetta e raddensa: appunto, “solidifica”. Naturalmente, generando, così, un mondo artificiale e artificioso, irreale. Utile, certo, al procedere scientifico, ma col rischio di scambiare quel mondo fittizio e utile per il mondo reale, questo divenire perenne, inesauribilmente creativo e inventivo. Purtroppo (per la suggestiva teoria) fino a sfociare nell’eterno Spiro, più spurio che mai. Il solito ambizioso auto-inganno del filosofo geloso dello scienziato. Si intuisce un pizzico di plausibilità nella promozione dinamico-creativa del reale e si dimentica che il prevalente soggettivismo del trattamento non regge il confronto con la scienza fisico-chimica: questa organizza dati osservativi, li inchioda a rapporti matematici rigorosi, fa delle previsioni sulla base di quelle sue leggi e trova conferme nei risultati. O, se non li trova, si autocorregge: che cosa le può contrapporre la scorribanda dell’immaginazione autopromzionale?

Intanto, solidifichiamo il più vicino segmento del divino flusso produttore. Stasera l’unità di dio prevale sulla sua trinità trascorsa. Capito, quaderno? Susy e l’unità-trinità divina. Quale esaltante teologia digitale. Che delizioso panta rei dell’induzione elettro-dedo-magnetica. Ah, perché non poter filmare sì soave cinematica, e rivedersela, poi, a varia distanza di mesi anni decenni? Πάντα ρεϊ…

Giugno, ore 21, 45 (ora legale)

Panta rei, sì. E velocemente. Molta acqua è passata sotto i ponti. Tanti grumi sciolti nel flusso bergsoniano: chi li raccoglierà? Ah, tempo. E magra memoria.
Sfoglio l’agenda che ha raccolto i miei grani di condensato.

Martedì 24 maggio. Wunderbar. Wir sind allein bei mich, in meines Haus, viele minuten gewesen. It has been very fine. Insalata di mask-language. Coktails di sensations. With her, of course. Wonderful, yes. Sie ist immer schöner, immer hungry. Geschlechtlich hungry, natǜrlich. (da W. Sgoethe, Liebe Leib, p. 34).

Giovedì 26: idem. Ihr solide Untergrund muscolare stretto fra le mie nervose espansioni prensili. La medietà lenta della mia espansione destra avanza in umide strettoie cedevolmente molli e adesive, surrogato sterile (l’espansione, dico) di ben altra eminenza censurata. Sterile, ma non de plaisir.

Sabato 28. Grave screzio con Susanna furens: disubbidisce a un mio ordine, a scuola, in presenza di colleghe. Respinge accigliata anche una reiterazione finto-burbera dell’ordine. Con maliziosa corona di vorace attenzione delle colleghe presenti. Mi pareva di poter leggere nel loro cervello surriscaldato attraverso le basse fronti trasparenti. Leggere induzioni facili e ghiotte: il collega è così avanti nella sua dipendenza dalla (innegabile) bellezza dell’allieva che ne subisce mortificazione pubblica senza adeguata reazione disciplinare. Ne parlerò alla famiglia – dico – la ragazza, infantilmente, crede di potere approfittare della nostra amicizia. E ne ho parlato, infatti, col fratello, il tenente aviatore, il pilota di aviogetti. Che è cosa non lieve né lieta, per me, povero assemblaggio di ossa strette e di non erculei muscoli, di fronte a questo Dioniso atletico. Vero, Rina? Ho colto, sai, il tuo sguardo furtivamente adesivo addosso al bel tenente. Che peccato che la nostra civiltà inibisca certe diversioni vagabonde a pluralità reversibili. E dire che forse l'altro polo non sarebbe alieno da temporanei scambi e brevi digressioni: sei pur tu una bella donna, e tanto giovane. E io mi sento, tra cotanta venustà e fidiaca virilità, il brutto anatroccolo (senza riscatto). La famiglia dei belli, quella di Susanna. Che divagazioni. Naturalmente, il tenente ha preso la cosa sul serio, ha fatto la predica alla sorella, le ha ricordato i doveri dell’amicizia verso la mia posizione istituzionale, e altre buone e sagge cose. Lei, Susy, stava muta e a testa mezzo china: la statua della coscienza infelice. Ma dentro il patetico marmo che cosa si agitava? Ci stava mandando tutti al diavolo, mentre affidava a un delizioso broncio l’exterieur di un presunto pentimento? Probabile. Io mi affrettai a chiudere il capitolo, a scanso di eccessi poco compatibili col temperamento di Susy. Ma anche voglioso di troncare in fretta quel confronto deprimente fra la mia modestia fisica e quella dovizia tracimante.

Domenica 29. Passeggiata sul corso col fratello e il cognato di Susy. Previo incontro a quattro, noi tre e il padre della ragazza, a parlare di lei, centro radiante dei nostri interessi prevalenti. Preoccupati i familiari, ma soprattutto il padre, per certe stranezze e nervosismi di Susy, per le sue uscite improvvide a scuola, e altre cose che formano insieme la “sindrome Sa”. La quale appartiene tanto alla sua famiglia quanto a me. Anzi, alla mia famigliola, che da quel moi trae linfa e sostanza. Se in questa sostanza (biologica economica sociale) entrano veleni, i veleni passano direttamente alla famigliola. A Rina, a Giampiero. Ma dico ancora male, cioè poco. A colmare la reticenza dovrei parlare della famiglia larga, la mia, quella di Rina: una frondosa realtà umana, che si estende dal padre di lei al mio, e soprattutto a mia madre. Tralascio sorelle e fratelli, meno esposti agli eventuali veleni, ma la mamma, no, lei non avrebbe grandi difese. Capito quaderno? E allora prudenza. Ancora e sempre. Più di quel “troncare, sopire …”

Lunedì 30. Prima metà del giorno. Ci risiamo: Susy sta di nuovo male. E ce l’ha con me. Forse perché parlo di lei con i suoi. Ma come evitarlo? Resta fuori dell’aula durante la lezione di italiano. La signora Spanna la segna assente. Com’è giusto, visto che in aula lei non si è fatta vedere. Come è poco amichevole, però, la collega, verso di me, che, da vicepreside, qualche volta ho chiuso un occhio sui ritardi della futura mammina. Susanna ha telefonato alla famiglia, viene a prenderla il fratello insieme al padre, nella sua fiammante “Giulia” bianca. Come sabato. Ci fermiamo tutti a casa mia. Mia moglie aiuta i parenti di Sa a farle la predica. Lei ascolta e tace. Che cosa rimugina nella testolina ribollente? Vorrei sapere, in particolare, che cosa pensa di me e su me, quante me ne canta in quel silenzio molecolare. Me, il primo responsabile, a suo modo di vedere, dei suoi guai. Quando si scioglie in qualche frase avara e reticente dice e ripete che “se ne andrà”, vale a dire che morirà: prima degli esami. La seconda parte dell’effusione verbale a volte è appena accennata, altre spiegata in tutta la sua esplicitezza. E queste parole di colore oscuro ronzano nella mia congesta cavità cranica, vi spargono liquidi tossici di paure e reazioni difensive. Temo gli “improvvisi” di Susanna, mi compromette troppo a scuola con la sua indocilità spavalda, e minaccia di compromettermi sempre più. Dovrebbe farti meraviglia, quaderno dei miei sfoghi notturni, che mi capiti perfino di augurarle una fine prematura e liberatrice? Di tanto in tanto, si capisce, e nei momenti più grevi di tensione e minacce ambientali, ma capita. E non senza il grazioso alibi: sarebbe liberatoria anche per me, sì, ma soprattutto per lei, la tormentata. O, come sentenzia Rina, la Bella sfortunata.
Lunedì 30. Pomeriggio-sera. Susy viene a trovarmi per la lezione di fisica. Le spiego l’elettrolisi. Farmi seguire con la necessaria attenzione è un’impresa. Dice che capisce. Speriamo. Io, a ogni buon conto, ripeto due e tre volte la spiegazione. E tento di farla ripetere a lei.
Viene a interrompermi l’amico Ciccio Pollùra. Che mi raccomanda una ragazza. Anzi, no, questo deve essere accaduto un altro giorno, forse durante la penultima lezione a Susy. Come dici, quaderno, che significa raccomanda? Andiamo, non sei mica del pianeta Marte: qui, nel profondo Sud, la raccomandazione è cosa naturale come offrire un caffè. Produce sbigottimento le rare volte che il destinatario nicchia, tira sul “vedremo”, pone limiti, e operazioni simili. Il mittente della raccomandazione non prevede (da queste parti, ma forse anche più su, lungo lo stivale) obbiezioni, distinguo, perplessità. Gli sembrano fesserie, sofismi, dubbi da femminelle, indegni dei veri uomini. I quali, in quanto veri, sono, naturaliter, anche e sempre uomini di mondo. In ogni caso, il peroratore ti fa capire che tutto quanto gli puoi opporre in fatto di limiti e quantità è ben sottinteso: lui lascia fare a te, si fida e ti confida la persona. Tu saprai, a tuo libero giudizio, quanto potrai fare senza smarronare. Salvo poi a risentirsi se l’esito scende più del previsto dal livello di protezione ipotizzato dal segnalante o dai committenti.

Martedì 31. Riunione di colleghi per orientarci sulla 2a E, classe difficile, per eccesso di carenze. Il preside Timarco sembra deciso alla severità. Vedrò cosa si può fare per limitare i danni alle ragazze. Tante famiglie mandano le figlie a scuola con sacrifici: sono dell’interno montano, abitano paesini fatiscenti, spremono piccoli poderi e qualche animale domestico per cavarne sostentamento e possibilità di studi pei figli. Sottrarre un anno a queste ragazze non è responsabilità da poco. Naturalmente, ci sono dei limiti, lo so, anche alla magnanimità e sensibilità sociale, ma si deve fare il possibile per limitare piuttosto i danni alle famiglie che la clemenza (finché non sfori sulla decenza).

Mercoledì 10 giugno. Grande giornata di interrogazioni, oggi, a scuola. Che fatica. La maggioranza delle ragazze imparano a memoria la filosofia. Ogni sforzo di penetrare in quei recessi impermeabili alle astrazioni si risolve, nel migliore dei casi, nella produzione di un vago intuire, parcellare e saltellante. Si schiude respiro di primavera quando capiti quella che qualche concetto lo afferra veramente. Ci sono, sì, anche queste piccole grazie negli istituti magistrali.
Pomeriggio. Viene la cognatina virtuale per la lezione di matematica. Dopo di lei arriva anche Susy, accompagnata dal fratello e dal cognato (quest’ultimo, marito della sorella Rosina, attualmente è a spasso e in attesa di reimbarco). Il fratello parte: la licenza è finita. Ci salutiamo con una virile stretta di mano, e un arrivederci a presto. Non sono mancati i ringraziamenti per quello che faccio e farò a vantaggio della sorella. Lei, la saluterà a casa, dopo la (mia) lezione.
Lezione di italiano, Divina Commedia, “Paradiso”, canto I. […] Nel suo aspetto tal dentro mi fei / qual si fe’ Glauco nel gustar de l’erba / che ‘l fe’ consorte in mare agli altri dèi. / Trasumanar significar per verba / non si poria, però l’essemplo basti / a cui esperienza Grazia serba.
E poiché la trascendenza non si può esprimere che in criptiche cifre, quanto precede è la “cifra” del momento. Indubbiamente, la Beatrice che mi rende Glauco è meno eterea dell’angelicata e teologale (e insipidina) Donna dantesca: ma Glauco la preferisce così. O donna di virtù sola per cui / l’umana specie eccede ogni contento / del ciel ch’ha minor li cerchi sui/… Che salti, mon Dieu. E perché proprio questi versi dell’Inferno, canto II, e il resoconto del buon Virgilio? Semplice inerzia associativa mossa dalla doppia Beatrice. Alla meno eterea assicuro che le sue virtù appagano in pieno la mia modestia appetitiva, che ignora cieli più vasti. Il disegno riattuliazzante del suo duplice volto si svolge e compone sotto i miei occhi fagicamente protesi, fra le mie dita devotamente operanti, sulle mie labbra febbrilmente comunicanti, sotto la mia tongue religiosamente danzante. E sotto-sopra altre competenze immanenti, mobilitate in convergente sinergismo trascendentale. Insomma, se le premesse sono state sublimamente dantesche e teologali, la conclusione, inattesa e fuori programma, è stata ctonicamente tangenziale. S’intende, dopo il compimento della letio giusta.

Perfino compiutamente corporale e carnale, se facciamo chiasma tra l’interno forzato e il libero esterno. Vale a dire, tra l’eros mutilo e furtivo del poema paradisiaco (interno), e l’inatteso cursus legittimo e consacrato en plain air (esterno). Che passiamo a schizzare. Esperimento nuovo, sotto la luna, appena pochi metri sopra il livello del mare vicino, sulla faccia larga di un ponte stradale vecchio e screpolato, dentro una “Giulietta” chiusa da vetri appannati dal fiato, aperti ad intervalli in lotta con i fari indiscreti di aliene macchine in corsa, sfreccianti di fretta o rallentanti di curiosità, nel duplice senso di marcia, affrontate con rapidi flash dei nostri. Una cosina deliziosa, vero Rina? Quasi un sapore di clandestinità, di infrazione, un simil-incontro tra amanti. L’innocenza in braccio a Morfeo, nel regno dei beati incolpevoli, la coscienza impegnatissima nella delibazione delle res novae. Un omaggio domestico all’estetica, dove ben altra presenza regna sovrana, in dialettica opposizione poco hegeliana alla divina etica.
No, non era in programma, due giorni (appena) fa, quella sortita serale lunga del trio domestico. Né l’itinerario verso sud né l’attraversamento del ponte. Meno che mai quella sosta ispirata dalla complice luna ruffiana sfarfallante sopra il tremulo mare. E perciò l’impatto è stato così bello, così dolce, così piccante. Ma non solo per “questo”: il pimento più sapido, più eccitante era il rischio: di essere colti da sguardi indiscreti, da pettegola curiosità in casuale moto su libere ruote. O peggio, disturbati da guardoni sbracati. Distante appena due giorni, l’evento scivola già verso la zona della privata virtualità mitica. Appare, alla rimemorazione, più lontano, quasi remoto. Ne cola, dai momenti più “attenzionati”, ancora una luce lattescente sulle carni: di magica luna spalmata sulle pieghe del mare; a capriccio di nuvole vagolanti, vestita e denudata, frammentata e restituita intera. Dimenticavo la terza condizione propiziatrice: il sonno del piccolo. Sonno pieno, profondo. E più che mai galeotto.
Come puoi ben capire, quaderno, della chicca in questione non si potrà parlare alla Beatrice appena omaggiata: ne sgorgherebbe attività stromboliana, con fiamme e pietre di fuoco alte e folte. Può, veramente, la Beatrice in questione pensare che io non mi sobbarchi agli obblighi coniugali? Non può, non è verosimile. Ma è certo, per forza di induzione e logica isterica, che una mia incauta confidenza sul tema l’accenderebbe di gelosia. Di quale composizione affettiva e intensità, poi, non è problema che voglia affrontare qui, stasera, a questa ormai tarda ora notturna (che la comparte, ignara, sa dedicata alla mia vocazione culturale).

4 giugno, ore 22

Brulichio di ricordi freschi e palpitanti, visioni monche e intere, confuso brusio di voci e suoni e colori di immagini vive. La ferita dell’essere mi inebria, le sue labbra dischiuse che invitano cibo pulsante, la sua profondità ombrata di muco scivoloso accelerano tropismi molecolari in ogni fibra, e soprattutto nei siti deputati al collante supremo. E questa binomiale alternanza mi brucia e consuma. Esoso il prezzo dei grani furtivi. Che salgono a rischio sommati ai legali. Ah, perché non ho la fisiologia dell’asceta? Perché il mio ananke dev’essere sotto il duplice segno delle due Beatrici, opposte e complementari?
La scienza dell’essere e la fame del corpo. La contaminazione feconda anche la voluttà dei confronti. Dimensioni e qualità, anatomia e fisiologia: la sobrietà cinetico-vocale dell’una e la compressa esuberanza dell’altra. La Beatrice consacrata e l’eversiva: l’eccesso compete alla seconda. Con la punizione di non potervisi abbandonare: indotto spietato delle coordinate spaziali concesse al furto, in nessun modo surrogabili con libere pareti o ruscellanti campagne. Dio e la Carne: che sintesi dinamica, o sacro Pan imbrigliato.
Quel volto del piccolo dio, com’è chiaro nel cavo pruriginoso della memoria: disegnato dal pensiero e dalle dita, dall’occhio e dalla mente. Le estasi della temporalità, dice Heidegger: avrà mai pensato alle estasi qui in causa? Il Logos, epifania dell’essere: ma ha sperimentato il logos di questo silenzio di lingua che danza ritmi di mucose vibranti nel santuario di ben diverso Holzuwege? L’essere è physis, ma solo questo, caro Filosofo. Die Stimme der Stille: ancora maschere. Suggestive. Magari crivellate. Forse. Ahimé.
Se penso a quel che brucia le sinapsi stasera, quale sofferenza mi diventa l’impotenza, l’impossibilità di agire, di liberare. E come questa brama di libertà fisica mi urla dentro, a sparpagliare emozioni e pensieri.
Disse il poeta: Nil est dictu facilius (Terenzio): “Niente è più facile che parlare”. A volte questa verità si capovolge: niente è più difficile. E la fattispecie evoca piuttosto l’altra “massima”: Фησίν σιωπών, Parla tacendo.

*
Il bambino è malato. Niente di grave, la solita faringite e tonsillite e febbricola da infreddatura, da sudore eccessivo evaporatogli sulle tenere carni, geneticamente troppo reattive a questo tipo di sollecitazioni. Ma è quanto basta per rovesciare i modesti programmi della sera. Si doveva andare in casa di Susanna, su invito di lei; ma né Rina né io ce la sentiamo di esporre il piccolo ai rischi di un aggravamento del suo inghippo. Rina manda me a dire che venga lei (o vengano loro) a casa nostra. Impulsiva e sconsiderata, Susy vorrebbe venire in macchina, con me. La madre ed io, da persone di senno, le abbiamo illustrato gli inconvenienti del caso: immagina i pettegolezzi, se ci vedessero, e non c’è dubbio che qualcuno ci vedrebbe. Susy abbozza, ma non è convinta: odia sottostare ai condizionamenti della odiatissima opinione pubblica paesana. E sbuffa. Ma io torno solo, in macchina, lei seguirà a piedi. Un bel tratto di strada, dopo tutto. Ma la rispettabilità lo esige. Caspita.
Io sono andato al cinema, lasciando le amiche sole col bambino. Dovevo vedere il famoso Africa addio. Film tendenzioso, senza dubbio; ma capace, anche, di spiattellare alcune verità sgradevoli. Quelle stragi di animali: non potrebbero essere impedite? E quelle stragi di uomini, di esseri umani, donne e bambini compresi: nessuno può fare nulla per impedire almeno quelle? Ah, l’ipocrisia dei “princìpi”: la sovranità, il non-intervento, il rispetto dell’indipendenza. Intanto la macelleria procede e dilaga. Ci fosse una anche mediocre capacità di empatia per la sofferenza della carne, la viva carne martirizzata, falciata, distrutta come fosse legno d’alberi secchi o inanime pietra, allora l’appello ai princìpi dei governi, dei signori del potere non minacciato avrebbero qualche difficoltà a legittimare la loro interessata inerzia. Si dovrebbe sancire il diritto morale all’intervento umanitario, altro che santificare l’obbligo del non-intervento. Che ci sta a fare l’ONU, se non è capace di concordare una linea d’azione così chiaramente giusta? Intervenire negli “affari interni” di qualsiasi paese che calpesti i “diritti umani”, e insomma che attui politiche di terrore, o il terrore e gli orrori sopporti dentro i suoi confini. E intervenire con le armi, se la dissuasione economico-diplomatica non bastasse. Bisognerebbe poter costringere governi e popoli a un minimo di civiltà morale.
Già, ma è la solita storia. Proprio chi dovrebbe, non vuole. Proprio le grandi potenze non trovano accordi, paventando ingerenze future nei loro affari, non sempre puliti. E alla fine, è sempre questione di uomini: non ci sono gli uomini giusti, non ce n’è abbastanza, o non abbastanza nei posti giusti. Non ce ne può essere, perché l’uomo mammonico prevale nettamente sull’uomo etico o soltanto sensibile. Come immaginare i boss del grande capitalismo americano e mondiale diventare sensibili alla sofferenza degli altri? Quali altri, poi: negri, gialli, orientali, latino-americani. I diversi, e in buona sostanza, i sottouomini. Concetto mai presente nei discorsi, certo, ma operante nel sottofondo delle decisioni strategiche in economia. Business is business, ecco la regola inossidabile della politica statunitense. A contrastare la quale, poi, anche il fronte antimperialista si contagia di pragmatismo cinico e attua la sua realpolitik. Una brutta bestia, che non ha vista abbastanza acuta da scorgere almeno i bambini stritolati, anch’essi, nella macchina della violenza pandemica.
Sì, è sempre questione di uomini, in ultima analisi. E non c’è sistema che possa formare gli uomini per virtù di meccanismi psicologici o tecnologici. Meno che mai per virtù plastiche di politica e ideologia. O di religione. Anzi!
A proposito di uomini di ultima analisi: m’ero dimenticato di comunicarti, quaderno, la decisione del ministro della Pubblica Istruzione di “licenziare” il poco magnifico rettore dell’università romana. Ugo Papi, ex fascista e nostalgico smemorato di quell’Era (come “titolano” i professori della inviolata Nostalgia) e responsabile primo delle violenze locali. Temeva il peggio, il ministro ritardatario (ma, come si dice, meglio tardi che mai) e ha costretto alle “dimissioni volontarie” quella perla d’uomo (e di studioso). Il quale, manco a dirlo, promuove a merito snobbato quella sua inclinazione affettiva per la (a suo rigoroso pensare) jeunesse dorée e, papale papale dichiara al simpatizzante giornale Rome Daily American: “L’unico mio torto è stato quello di avere sempre cercato di ostacolare i professori di sinistra”. Insomma, un torto fittizio per un merito reale. Al riparo del quale una parte del corpo accademico garantiva privilegi e autorità contro certe perplessità e aperte contestazioni degli studenti antifascisti. Qualifica, codesta, che a menti più mobilizzate appare “anacronistica”, e insomma insufficiente a cogliere avversità organizzate (con le solite complicità istituzionali) e opportunità non approfondite.

Lunedì, 6 giugno

Le ragazze di quarta mi hanno dato l’arrivederci. Agli esami, direttamente, per alcune; altre, invece, possono contare sulla mia disponibilità per il tempo che dagli esami ci separa. Un paio d’ore al giorno, e anche più, per chiarire oscurità, snebbiare visioni confuse, sciogliere dubbi e asperità concettuali. Casa mia è notoriamente facile da raggiungere. Rina brontolerà un po’, forse, per l’eventuale ressa, ma senza drammi né isterismi. Del resto, quelle che abitano nei paesi più lontani (dai venti chilometri in su) difficilmente vorranno pagare la cura di qualche carenza al prezzo di un sacrificio di tempo piuttosto cospicuo. Servizi di corriere e ferrovie non scialano né in frequenza di corse né in velocità di percorrenza. Siamo pur sempre nel profondo Sud. Vedremo.
Lella La Mela non mi ha salutato, ostentatamente. Né ha fatto la foto di fine anno col gruppo che mi si è raccolto attorno, cioè la sua classe quasi al completo. Passa la misura. Quanti cambiamenti dal giugno scorso. Rancorosa gelosia, così lontana dalla ridente estate scorsa, il tempo delle lezioni in casa mia, per lei e Susy, in pura amicizia. Il tempo dei bagni di mare in compagnia, col cuginetto biondo conteso. Fa soffrire, pur sempre, la perdita di un affetto, di un’amicizia.
Susanna studia: durerà? Oggi non è venuta a scuola. Dunque, era una delle mancanti alla foto di gruppo.

Consiglio di classe per lo scrutinio della 2a E. Un disastro: tredici bocciate e ventitré rimandate. Nessuna promossa. Malgrado la mia buona volontà, che non si è risparmiata pazienza e convinta indulgenza. Sono rimasto solo, alla fine. Merito (poco invidiabile) del preside, che ha influenzato le mie colleghe, sempre pieghevoli al fascino dell’autorità. Penso al dramma di tante famiglie, di tanti padri che si spezzano le reni sulla terra dei padroni, o sul piccolo podere personale, per cavarne la stenta capacità di mantenere le figlie agli studi. Che significa, per queste famiglie montane, pagare anche le spese del convitto, dove le religiose non fanno sconti. Uno di questi padri mi ha detto che spende 400.000 lire l’anno. E viva la fede. E lo sterco di Satana.

Sono giù di umore. Scontento, anche, di me, mi chiedo se davvero ho fatto tutto il possibile per attenuare il danno. Certo, la classe era fra le peggiori; ma non valgono le attenuanti della composizione prevalentemente montano-contadina, dell’ambiente degradato o comunque sfavorevole alla “coltura dello spirito”? Altra considerazione, che rende più amara la sconfitta: se ci fosse stata, fra queste ragazze, la figlia di un mafioso, avremmo avuto uguale severità? E quasi rimpiango che non ci sia stata, perché l’inevitabile trattamento di favore da parte delle colleghe consapevoli (e le ignare sarebbero state informate), e il prevedibile cedimento dell’incorruttibile preside (che avrebbe trovato qualche appiglio mondanamente plausibile) mi avrebbero permesso di sfoderare il sentimento dell’equità a più redditizia difesa delle sfortunate. Naturalmente, stesso discorso si può fare per l’eventuale figlia di un notabile politico locale. O la raccomandata dal vescovo.
Ma ormai è cosa fatta, cosa malfatta, né ho argomenti legali per disfare il malfatto.

7 giugno

Altra brutta esperienza: le ragazze insistono con me per sapere l’esito degli scrutinî. Rifiuto, naturalmente, ogni notizia, cioè ogni indiscrezione illegale. Ma a quale prezzo di sofferenza. Una di loro ha resistito in assedio per due ore. Ha tentato tutti i modi, tutte le attenuazioni e obliquità possibili per cavarmi di bocca un indizio, una traccia, qualunque minima sfumatura di sorriso o di sguardi, di mezze parole o di sospiri. Che strana esperienza, e che stress dopo la battaglia. Il costo del non sapere essere deciso e, magari, scostante. La cosa che più intriga, in queste esperienze, è la percezione dell’assoluta buona fede delle postulanti. La quale, vista dall’altra faccia, non significa, poi, che la mancanza di qualsiasi senso della legalità, del rispetto delle regole. E’ fenomeno generale, da queste parti, e in tutto il meridione in genere. Dove si va avanti sulla trama delle amicizie, delle conoscenze personali, del rapporto privato. Ma, del resto, dove l’avrebbero appreso questo senso della legalità? In famiglia, non esiste; nel mondo religioso, meno che mai; nella società esterna, idem. Nella scuola, si dirà. E qui cade l’asino: la legalità del mondo scolastico è, tutt’al più, a pelle di leopardo, con prevalenza dei vuoti cromatici sui pieni, del bianco sulle macchie. O, se si vuole, è a regime di rapsodica casualità. L’altro giorno si accennava al fenomeno delle segnalazioni o raccomandazioni: siamo nel clima in questione. Il quale, purtroppo, ha più d’una scusante: e la maggiore sta nel mondo politico, dove la legalità non se la passa tanto meglio che negli altri ambienti. Ma non è il tempo e il luogo delle disquisizioni impegnate.

Pomeriggio. Lezione di fisica a Rosanna, la fidanzata del cognato. Il quale mi pare che perda il pelo lupesco, ma non il vizio: continua a fare lo sprecadonne, tra alunne e colleghe del suo istituto (più controllato con le prime, più sciolto con le seconde). Temo che il fidanzamento non ne godrà in buona salute: il giorno che Rosy dovesse cogliere pesanti e reiterati segnali di “distrazione” del suo futuro sposo, gliela perdonerebbe? Temo di no. E’ il tipo che parla poco e rumina molto.
Anche Susy è stata qui, dopo Rosy, per lezione di italiano. Un po’ di letteratura, un po’ di Paradiso. Susy ripete la spiegazione del Canto XXV. Legge un mastello di terzine, e poi “spoetizza” in stenta, ma non gravemente, prosa:
“Se mai continga che il poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra / sì che m’ha fatto per molti anni macro // vinca la crudeltà che fuor mi serra /del bello ovile ov’io dormi’ agnello / nimico ai lupi che li danno guerra; // con altra voce omai, con altro vello /ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ‘l cappello; // però che ne la fede, che fa conte / l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi / Pietro per lei sì mi girò la fronte”. Susy spiega. La impegno nella “controversia” sul senso di quel metaforeggiare “pecoreccio”. Ha ragione chi in quell’“altra voce” e “altro vello” legge un piatto riferimento all’età più o meno senile del poeta in eventuale tardo rientro nella sua Firenze; o chi, al contrario, ci vede fiammeggiare il fiero revanchismo del cittadino illustre crudelmente ostracizzato, che ritornerebbe da vincitore, per la forza e con la scorta del poema sacro (altro che il giovanile stilnovismo!), al suo dolce ovile e vi riceverebbe la corona poetica (“cappello”, “dal francese antico chapel vale ghirlanda”). Susy ricorda la mia spiegazione e va sicura sulla fierezza revanchista del Poeta ingiustamente offeso: non tornerà in Fiorenza un mite agnellino, pur “nimico ai lupi che li danno guerra”, ma un adulto montone davanti al quale inchinarsi reverenti. Susy, perché Dante non rientrerà a Firenze? Susy ricorda ancora: la fierezza non gli consenti di subire l’umiliazione dell’ “offerta” nel suo bel San Giovanni.
Un po’ annoiata, lei, nella vigna teologica, continua a “proseggiare” quelle irsute terzine, tra sanpietri e sangiacomi, metafore baronali e traslati principeschi, fino alla famigerata pìstola che lei e l’amica devota, ispirate da un dio più modesto del Sommo, trasformarono in pistòla, facendo arrossire la pudica signora Spanna, vistosamente incinta. Piccole delinquenti! Ci si fa su una risatella, e poi Susy chiarisce il senso di quel cenno all’epistola di san Giacomo (Maggiore, precisa, a distinguerlo dall’altro apostolo), il quale aggiunge, sulla speranza, altre nozioni e delibazioni a quelle “stillate” per primo nel “cor” di Dante da “quei [...] che fu sommo cantor del sommo duce”: e si vuol a dire David, il guerriero salmista, cantore del superboss celeste, nella sua forma di Spirito Santo. Qualche “dilatazione” su quell’immagine equorea della luce stillata, a sua volta metafora della santa conoscenza, e si fa pure una capatina alla (supposta) tomba del santo “galiziano” e ai santissimi pellegrinaggi a San Jacopo de Compostela, ancora oggi più che mai vivi e affollati.
“Come discente ch’a dottor seconda /pronto e libente in quel ch’elli è esperto/ perché la sua bontà si disasconda. // “Spene”, diss’io “è un attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto”. Si regala qualche minuto pure alle ricorrenze degli stessi punti tematici da un canto all’altro, dall’una all’altra cantica, con una particolare scappellata al sesto canto di ognuna, i canti politici, che porgono una ghiotta e copiosa offa alla fame polemica del “ghibellin fuggiasco”, o guelfo “bianco” che dir si voglia, verso gli ipocriti “neri” intenti solo al proprio particulare, e perciò inclini ai compromessi avvilenti e relative alleanze spurie e disinvolte. Un cenno più disteso al canto VI dell’“Inferno”, con un Ciacco severo censore della sua Firenze (“Ed elli a me: ‘la tua città ch’è piena / d’invidia sì che già trabocca il sacco / seco mi tenne in la vita serena/”), relatore della guerra civile fra Bianchi e Neri e profeta vendicatore di un (finto) avvenire sempre fosco e losco. Domanda, ancora, Dante: “ma dimmi, se tu sai, a che verranno / li cittadin de la città partita; / s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione / per che l’ha tanta discordia assalita” /. Risponde, Ciacco, disegnando il succedersi degli scontri tra le fazioni e l’alternarsi delle sconfitte e vittorie dell’una e dell’altra. Poi aggiunge: “Giusti son due e non vi sono intesi; /superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c’hanno i cori accesi”. Un cenno al VI del “Purgatorio”, con la centrale figura di Sordello e ai canti dell’incontro con Cacciaguida. Quando il trovatore Sordello scatta all’abbraccio con Virgilio che ha appena pronunciato il nome di Mantova, Dante erompe nel suo famoso sfogo politico che processa, in controcanto, Italia Firenze e l’intero Occidente, preda di egoismi e stupidità che accendono guerre e massacri anche tra figli di una stessa terra: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave senza nocchiere in gran tempesta / non donna di provincie, ma bordello! / Quell’anima gentil fu così presta, / sol per lo dolce suon de la sua terra, / di fare al cittadin suo quivi festa; / e ora in te non stanno sanza guerra /li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro e una fossa serra.”
Susy ammira la mia memoria dantesca, e ne chiede genesi e senso. Confesso che durante l’ultimo anno di liceo mi venne l’uzzolo di imparare a memoria alcuni canti della Commedia. E che, poi, ripetendoli di tanto in tanto, me li sono trascinati fino a oggi (si capisce, con qualche scotoma, inevitabile con tanto inventore di sintassi e novità lessicali). Insomma, un divertimento, che capita mi venga buono per occasioni come questa che sta impegnando noi due.

Dentro la gravitas del paradisiaco Dante, s’è inserita, tuttavia, una breve pausina di meditazione metafisica. Breve e intensa, come sempre nell’ovattato ma non garantito contesto. Giusto compenso alla nobile fatica. Un tremito mi percorre ancora le viscere mobilizzate all’uopo. Et altro non ci appulcro.
*
Ma tu, quaderno, ora vorresti saperne di più sulle vaghe allusioni della pagina precedente. Formulo la tua domanda: quali cambiamenti dal giugno scorso? Già, quali e quanti, e senza che te ne parlassi mai in tutti questi mesi. Non per malavoglia, o non tanto, quanto per scarsità di tempo, manco di forze, urgenza di altro. Vediamo di cominciare a farlo stasera.
Al tempo dei buoni rapporti, in casa del direttore Carolui, certe sere si giocava a carte, ora più ora meno nel corso dell’anno, ma soprattutto nei mesi tra tardo autunno e inverno. Una di quelle sere, a un certo punto, mio cognato, al solito invito, rispose che non aveva voglia, quella sera, di giocare. Io replicai, ma senza malanimo, che: va bene, non fa nulla; nessuno è indispensabile. Si dava il caso che anche Silvana, la sorella più sbarazzina di Lella, avesse detto, poco prima, la stessa cosa, preferendo ascoltare e vedere in televisione il cantante preferito, Bobby Solo (una vera passione). Sentendo le mie parole rivolte al cognato, la game girl (così s’era chiamata nel gruppo per la sua smania del gioco) pensò fossero un rimprovero per lei. La quale, poi, non era alla sua prima sortita di quel genere, ma aveva il vizio di piantare tutti in asso o farci aspettare i suoi comodi, sospendendo le partite in corso con un pretesto o l’altro. Effetti poco appetibili dell’eccesso di confidenza che le sorelle La Mela, ma lei, soprattutto, avevano in casa Carolui. Era, però, la prima volta che io reagivo in quel modo, pur senza acredine. Lei se ne risentì (ma io lo seppi poi, come altre cose). Sempre in quei giorni, una sera invitai a cena le sorelle La Mela e Rosy Carolui, a quel tempo soltanto loro amica fraterna, e non ancora intenzionata dal cognato. Si mangiò allegramente, quella sera, e anche discretamente. A un certo punto, Silvana aprì il frigorifero e quasi gridò, con allegra voce (e virtuale voracità): “Iiih quanta buona roba c’è qui, dal professore! Dobbiamo venire più spesso, così lo aiutiamo a consumarla, se no va a male!” – Patatrac! Sparata più distruttiva non poteva uscire dalla candida bocca dell’impulsiva Silva delle selve. Rina, infatti, non gradì la clamante schiettezza: l’invadenza non le garba affatto. Né ha una spiccata vocazione umoristica, nel caso si volesse prendere la cosa come un’innocente battuta. Quale non era, in verità. Per lei quella di Silvana era soltanto invadenza. Mutò umore quella sera stessa nei riguardi della troppo disinvolta (“sfacciata”, nel gergo spiccio di Rina) ragazzaccia. Poco, quella sera: da non farsene accorgere dagli altri presenti. Ma non tanto poco da non farsi capire dall’interessata. Nella visione di Rina la game-girl diventava cheek-girl, la sfacciata.
La quale l’indomani si presentò a casa nostra, mentre io stavo a scuola, e chiese a mia moglie un obolo per una raccolta di beneficenza. A detta di Lella, Rina fu quasi sgarbata. Certamente, fredda, scostante, come se avesse ricevuto un’offesa personale dalla “sbracata” Silvana. Diede la sua offerta, ma non fece nulla per trattenere l’amica.
Cominciò così un malumore effusivo che minò l’antica amicizia fra le due famiglie. Anzi, a voler essere più aderenti ai fatti, fra le loro componenti asimmetriche: le sorelle La Mela e gli anziani dell’altra. Sui quali le sorelle, ma soprattutto Silvana, spalleggiata da Rubina, la maggiore, avevano sempre avuto una forte influenza. Un poco anche su Rosanna, naturalmente, ma lei, dotata di più solida personalità, era legata pariteticamente più con Lella, sua ex compagna di classe alle elementari e medie. Ma insomma l’amicizia legava comunque le due famiglie.
Intanto la frequentazione sempre più assidua di casa Carolui da parte del mio cognato farfallone aveva disturbato già parecchio l’attenzione delle sorelle. Ricorda quaderno: tutte nubili, tutte in florida età da marito, nessuna insensibile al fascino indiscutibile del mio parente bellimbusto. E vogliamo aggiungere che la famiglia si manteneva quasi esclusivamente con i modesti ricavi dall’affitto di due o tre stanze a studenti o professori delle due scuole superiori del paese, il liceo classico e l’istituto magistrale? Un insieme di condizioni e coordinate che spingevano l’interesse delle fanciulle verso quel giovane prestante, già sistemato, col suo bravo stipendio, di promettente avvenire. E dai meravigliosi occhi verdi. Più un fossettino al centro del mento volitivo tutt’altro che vano.
Un bel mattino, mentre alunne e professori eravamo nelle rispettive scuole, in casa Carolui piombò Rubina. Una furia, si disse poi. E con un solo obbiettivo, un unico bersaglio, tutt’altro che bene armato di artigli e parola. Insomma, la mite signora Angela Carolui. Che venne aggredita da una tempesta di fiati e suoni troppo frettolosamente organizzati in parole non sempre chiare e raramente ponderate. Il tuorlo di tanto uovo para-cosmogonico era: siete degli stupidi, voi e vostro marito (il quale, poverino, stava alla sua banca, mille miglia lontano dal sospettare simili sviluppi). Vi state facendo prendere in giro, quello vuole solo giocare con vostra figlia, spassarsela e poi ricordarla da lontano, al suo paese, dove tornerà sicuramente appena potrà avere il trasferimento. Non conoscete la sua fama di dongiovanni? Che genitori siete? Rosy è ancora una bambina su certe cose. E così via. La povera signora Angela, riferendo più tardi questa disavventura, fece capire che non era riuscita a pronunciare una sola frase compiuta contro la furia della quasi zitella alla moralina inacidita.
Furono tentati chiarimenti, spiegazioni. Parlai con Lella. Seppi delle reazioni di Silvana, giurai che quella sera io avevo indirizzato le mie parole soltanto al cognato. E non certo con l’intenzione di offendere. Cercai di attenuare le responsabilità di Rina verso Silvana. Sai, lei è fatta così, non capisce l’esuberanza altrui in casa propria; è limitata, se vuoi, ma non è cattiva. Si può chiarire, aggiustare, recuperare. Non le pareva possibile ormai: troppo era stata offesa l’intraprendente e ormai soltanto bad girl (nel senso di cheeky) riniana. La quale era buona, in fondo, ed era soltanto un po’ ingenua nel pensare che tutti fossero schietti e trasparenti come lei. “Voi sapete com’è Silvana: tutta spontaneità, rumore, ciarle, ma anche buona fede, bisogno di affetto, di confidenza…” “Be’ sì, non nego e non dubito della sua buona fede, della sua sincerità, ma per certe donne, e anche amiche, è un po’ troppo disinibita, un po’ troppo selvatica, confidenziale…”.
Lungi dal dimagrire e comporsi, la rottura crebbe, alimentata da chissà quali contorti pensamenti, e divenne definitiva: tra le sorelle e noi, tra loro e la famiglia Carolui. E non c’è uso di mondo e cinismo filosofico che possa impedirci di dire che abbiamo sofferto per questa non prevista né voluta svolta a gomito. Vero quaderno? Anche se non ne abbiamo parlato fino a questa sera. Anzi, forse nella lunga rimozione o dilazione c’entra un po’ questa sofferenza. Che è senso di privazione, rincrescimento, imbarazzo. E, sotto sotto, soprattutto sentimento di impotenza pirandelliana nel comunicare. Quasi un senso di colpevole insufficienza non solo umana, ma professionale: io, insegnante di psicologia, oltre che di veneranda filosofia folta di rivelazioni e suggerimenti, non sono stato capace di venire a capo d’una semplice disputa fra donne.

Ma poi, riflettendo. Era tanto semplice la disputa donnesca con la sua vulcanica materia? Forse il suo cuore, anzi core, era semplice: le aspirazioni delle girls La Mela verso l’appetibile cognato. Ma semplice non equivale senz’altro a facile. Né le complicate complessità intrecciate al core mancano di artigli tenaci: l’insofferenza di mia moglie verso la “seconda Mela” (Silvana detta anche Selvaggia. Terzo appellativo: wild girl), una certa gelosia di Lella verso Susanna (scopertamente, più affiatata con Rina, e non occultamente assai meno “istituzionale” con me: meno allieva, meno studentessa, e più amica au pair). E chissà quant’altro di non scoperchiato. Ma la barriera invalicabile è stata lei, è lei, la para-zitella dagli occhi asiatici, Rubina. Rivedo il suo pallido viso, paffutello e appuntito in una volpina convergenza di occhi naso bocca mento. Lo rivedo nel suo affilarsi in pre-attacco, o contrarsi a preparare un’aggressione differita per forza di circostanze. Be’, dio o chi per lui sia con lei. E con loro tutte, e tutti: includendo nel manipolo l’estraneo padre, vittima delle figlie maggiori, e il piccolo biondo unico maschietto e ultimo nato, ignaramente appena cinquenne. Che, come al solito nelle beghe dei grandi, è la vittima più patetica dell’ira funesta. Come, del resto, anche il mio Giampiero.
Così il Fiore dal gambo corto sparisce definitivamente dal nostro orizzonte privato, dai bagni di mare così lieti e ciarlieri dell’estate scorsa, dallo spazio-gioco di Giampiero. E non ne godo. Un affetto perduto non arricchisce.

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