sabato 29 novembre 2008

SUSANNA Seguito. Frammento 2


3 agosto


La Gazzetta letteraria, sezione settimanale della Gazzetta dello Stretto, quotidiano zanclese, nel numero del 28 luglio, ospita il mio articolo su Mastronardi. Ciaccò lo ha sistemato bene: posizione centrale, su 4 colonne. Ma ha messo titoli di sua libera scelta e privato piacere personale: Uno scrittore che non sa ritrovarsi (occhiello) Il maestro Mastronardi è tutto da rimpiangere (titolo). Il meridionale di Vigevano, scritto per l’ottanta per cento in dialetto, offre non poche pagine felici. L’insieme è però di una sconsolante aridità (cappello e catenaccio). Insomma, Ciaccò ha accentuato le mie riserve sul nuovo Mastronardi e ha goduto di sventolarle, esagerate, sui pennoni dei suoi titoli (non tutte presenti nel mio testo le espressioni da lui usate). Poco male. Non poco, invece, nell’altra abbondanza: ben 21 refusi seminati nella mia sudata prosa. Con un picco di nonchalance nel mio cognome, deformato da una s fantasiosa dislocata davanti all’ultima lettera. Quasi un attentato. Vuoi vedere che ci sono miei nemici nel corpaccio redazionale della opulenta Gazzetta? Scherzo, naturalmente: per siffatti esiti, basta la cialtronesca pigrizia di qualche correttore di bozze, e una congrua ignoranza della lingua italiana. Eppure il gazzettone ha un ricco (relativamente alla latitudine) mercato tra la Sicania orientale e la Calamagna: potrebbe, la proprietà, tenerci un po’ di più alla correttezza linguistica.
A ripensarci, l’ipotesi dell’attentato non è poi così peregrina. Ne riparleremo. Non tutti mi vogliono bene in quel covo di vanità e servilismo plurale.
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Titolo su nove colonne nella prima pagina della Gazzetta dello Stretto: Primi risultati della ricognizione del Ranger. La superficie lunare è solida. Possibile lo sbarco dell’uomo. Davvero esaltante. A parte il titolo, che, d’amblé, farebbe supporre una mai pensata possibilità che quel suolo fosse liquido (o pasto-gassoso, come quello di Venere e Giove?). Mentre non sembra si sia neanche temuto fondatamente che potesse presentarsi come profonde masse di mobile sabbia (che è quanto quel titolo vorrebbe sottintendere). Tre grandi fotografie della superficie lunare riempiono buona parte della pagina. L’intera “sequenza” di queste foto sarebbe costata 17 miliardi di lire! E qui un altro brivido di malinconico disagio: con tanta fame e sofferenza nel mondo, sono queste le priorità del progresso?
Si andrà presto sulla luna, dunque. Un altro effetto collaterale di siffatte conquiste della scienza sul mio cervello è un certo disgusto per le civetterie dei letterati (più o meno) puri: con le loro avanguardie e retroguardie, le loro polemicucce, la suscettibilità da numi incompresi. Un tempo consideravo il letterato come il culmine della specie homo sapiens sapiens (una vecchia pretesa umanistica): da qualche anno, non più. Progredisco.

Interessante articolo-recensione di Walter Tauro su un gruppo di libri che parlano di alcuni retroscena dell’ultimo conflitto mondiale. Uno di questi, I generali del deserto, di Barnett, è tutto una requisitoria, ben documentata, contro i generali inglesi operanti, appunto, nel deserto africano. Barnett smentisce le affermazioni calunniose di Montgomery sui soldati italiani “pessimi combattenti”, presenta lo stesso Montgomery come un “pallone gonfiato”, definisce Cunningham “inetto”, Ritchie un “ottuso professionista fedele ai regolamenti quanto incapace di efficaci iniziative personali”. O’Connor e Auchnileck appaiono “i soli veramente in grado di condurre una guerra, messi tuttavia di continuo in ombra dalla prevaricante campagna pubblicitaria orchestrata da Montgomery. Al quale ultimo [continua Tauro] l’autore dedica un capitolo a parte, nel quale mette l’accento sulla natura ambigua di questo generale, che gli impedì di sfruttare a dovere la schiacciante superiorità di uomini e di mezzi e di non (sic) arrischiarsi a cogliere i frutti della vittoria, permettendo così a Rommel di organizzarsi indisturbato”.
Quest’ultimo periodo di Tauro, variamente brutto, mi suggerisce alcune (amare) considerazioni: comincia con un Al quale cui fa seguito a troppo breve distanza il cacofonico nel quale. La natura ambigua di questo generale che gli impedì di sfruttare, ecc. è una combinazione sintattica non meno brutta; ma quando a gli impedì si fa reggere la subordinata di non arrischiarsi a cogliere... siamo alla matita blu: protestano la grammatica e, più ancora, la logica stretta. E se quel permettendo non è, tecnicamente, sbagliato, resta pur sempre inelegante, mentre direi improprio quel natura ambigua messo lì a denunciare le esitazioni e rinunce del generale verso lo sconfitto nemico: non sarebbe stato più coerente un “poco intrepida”? La natura ambigua andrebbe bene per far sospettare un tradimento. Ma è questo che si vuole insinuare? Non pare plausibile.
Di questi pezzi di prosa alquanto sbracati se ne incontrano spesso negli articoli e nei libri di Tauro. E di tanti altri collaboratori delle pagine culturali. I quali, tuttavia, collaborano indisturbati, pubblicano quello che vogliono e nessuno gli rompe l’anima. Quando offro qualcosa io, almeno per la quotidiana terza pagina, affiorano spesso inconvenienti: mi fanno aspettare troppo, se mi pubblicano scaricano nello scritto un buon numero di strafalcioni, qualche volta non me lo pubblicano proprio. Le alate ragioni sarebbero quelle che l’amico Ciaccò mi illustra da sempre: io scrivo troppo difficile per una normale terza pagina, faccio articoli lunghi, scopro idee sinistrorse, sono poco prudente in materia di religione e competente (folto, anzi straripante) contesto socio-antropologico. Questi due ultimi motivi sono credibilissimi, dato quell’incanto di contesto. Per lo stile, invece, non riesco a capacitarmi: io mi sono sforzato di adeguarmi al livello medio dell’elzeviro, e sono persuaso di esserci riuscito. Il più delle volte. Riuscito, preciso, senza rinunciare a quel gusto ritmico e quel tanto di eleganza lessical-sintattica di cui sono capace (senza pretendere di essere un campione di écriture artiste e un parnassiano della prosa). Quanto all’estensione degli articoli, be’ mi sembra di essere riuscito anche in questa difficile auto-disciplina o censura che sia. So che non sono ben visto per via delle mie idee, e non ignoro che, per quanto mi sforzi di mascherarmi e costringermi, il mio pensiero, più o meno, affiora sempre. Anche quello critico, cioè la severità, in parte connaturata in parte catalizzata dalla frequentazione dei professori Rama e Gulizza. E così mi tocca vedere un Bombardi Sartani rifilare indisturbato nei suoi articoli espressioni fieramente tecniche a base di “trascendenze ontologiche”, “datità esistenziali” e simili cime verbali. E anche leggere articolesse lunghe tre colonne buone e magari con la coda del terzo o quarto di colonna: e nessuno blocca simili eccessi (e talvolta ascessi).
Ancora (lagne). Nei primi tempi della mia collaborazione riuscivo a far passare articoli piuttosto “duri”, cioè di tono saggistico: perché in seguito non mi è stato più possibile? Soppesando tutte le ragioni probabili, credo che quella ideologica sia la prevalente e decisiva  nel determinare, voglio dire, l’ostilità dei gazzettieri di peso.  A neutralizzare, o ridurre drasticamente, la quale non ci sarebbe altro che l’antidoto di un protettore autorevole. Proprio quello che mi manca. Ciaccò fa quel che può, e se mi nasconde qualche dettaglio non dovrei imputarglielo a colpa. Mi disse una volta che il direttore Camarco preferiva “passare” articoli di sicura fede, anche mediocri, anziché i miei, che pure apprezzava: quelli, non era costretto a leggerli, i miei sì; e attentamente, cioè sciupando tempo e sforzando il cervello per coglierne l’eventuale veleno ideologico da spremere via. Questa attività censoria lo stanca, e perciò capita che i miei scrittarelli siano costretti a lunghe attese (qualche volta fino a perdere attualità). Triste, ma inevitabile. Intanto Ciaccò non è più tornato sull’argomento: forse s’è convinto che io faccio del mio meglio per “emendarmi” sui due o tre fronti (ideologia, lunghezza, stile) e che ormai la situazione s’è stabilizzata e spetta a Camarco ammorbidirsi un po’ di più. Chi lo sa?
Se penso ai primi tempi, che nostalgia! In quei primi mesi su questo fanatico giornale centro-destrorso sono riuscito a far passare una serie di pezzi abbastanza eretici: un elogio di Gramsci (in polemica con fior di baroni in cattedra supercattolici), due “celebrazioni” dell’ateo Camus, un Kierkegaard polemico con la Chiesa ufficiale del suo Paese (e gli “dèi presenti”), due Sartre comunisteggianti, un Kafka anti-brodiano, cioè “irredento” e tragicamente laico. E altre cosette non prive di frizzante appeal.
Ora alla Gazzetta giacciono, di mio: due vecchi articoli (quelli che lamentavo sopra come probabili cestinati), due altri più recenti, su Aldo Capitini (e la “pietà” gesuitica) e su un ghiotto saggio intorno agli sviluppi della filosofia matematica; due recensioni. Di queste ultime, una pizzica la signora Curzia Fernari, che intanto si becca i premi letterari senza sapere scrivere; l’altra bacchetta un esaltato filosofante, che pasticcia con mitologia pagana e antropologia, religione ebraica e cristiana, fisica quantistica e biologia molecolare per sbrodarsi in un enfatico prolisso clamante salmo di mera propaganda cattolica. Poi, avrei in cantiere due altri scritti (non sarà vero che scrivo troppo?): il più avanzato è una recensione al candido Leonida Répaci, autore di una raccolta saggistica, Calabria grande e amara; l’altro è uno sfogo (ma ben documentato) su Goldwater e compagnia non bella (anzi, bellicosa).
Previsioni sul materiale in campo. Sono quasi sicuro che i primi due siano ormai “superati”. Dei successivi, quello sulla Fernari sarà in sofferenza, dato che la signora è una beniamina di don Salvatore Quasimodo, amico e pupillo del rettore Pugliatti, a sua volta in ottimi rapporti con il giornale e con Ciaccò; e dato, altresì, che la stessa autrice ha regalato il suo libro a Ciaccò con tanto di dedica. L’altro pezzo, su e contro il dottor Cusmana Calerca, l’eclettico folle, sarà sembrato, o sembrerà, troppo aspro come stroncatura a un autore zanclese. Dei due più recenti, quello su Capitini, per cautelato che sia in virtù di auto-censura obbligata, sarà apparso troppo impietoso con La pietà dei gesuiti. La recensione-esposizione su Mutamenti del pensiero matematico, dell’ottimo Meschkovskij è troppo tecnica per una comune pagina letteraria. Dell’ambo da finire e mandare, la recensione a Répaci, ad onta della severità del rupestre calabrese verso la santa Chiesa maculata, potrebbe passare, in omaggio a quel bacino di lettori gazzettari (magari con qualche taglietto o sostituzione minimale di lessico). Nessuna speranza, invece, per il Goldwater, troppo “antiamericano”, per lorsignori. Cioè, spavaldamente onesto.
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Continua la Decima rassegna cinematografica internazionale di Messina -Taormina. Sherley Mac Laine, “madrina” della Rassegna per il decennale, ha spento le 10 candeline. Vorrei fare un salto alla “Perla dello Jonio”, ma non so se ce la farò a sganciarmi dal vischio familiare.
A pagina 10 della Gazzetta una notizia allarmante per gli occidentali: Prossima in Cina una prova atomica. Eh sì, è solo questione di tempo: prima o poi tutti i grandi Stati avranno la loro atomica. Si faranno tentativi di arginarne la proliferazione, ma gli effetti non saranno né generali né soddisfacenti. Ad maiora.
Agiubei torna dalla RFT. Butler chiede all’India una mediazione per il Laos. Due militari americani uccisi in un bar a Saigon dallo scoppio di un ordigno. Inconvenienti del mestiere. Di “liberatori” col pelo sulla pancia (non alludo ai soldati, ma a chi li manda). Sono morti anche sei civili sudvietnamiti. I guerriglieri comunisti alle porte della capitale. Situazione esplosiva nello scacchiere Sud-orientale. Se ci sarà un conflitto, la miccia sarà il Vietnam.
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Nella trepidante attesa, cerchiamo di fare qualche buon bagno di mare. Bisogna che cominciamo a portare a Nettuno anche il bambino. Ma oggi siamo andati soli, io e mia moglie Rina: il piccolo lo abbiamo lasciato con la nonna, mia madre, e la zia ancora nubile, la piccola delle mie sorelle. Con loro Gianpiero si trova bene. Siamo passati a prenderlo al ritorno dal mare di Akulia.
Arriva qualche cartolina di alunne calamagnesi. Cartoline illustrate, con distinti o affettuosi saluti “per lei e famiglia”. Una, con un suggestivo scorcio panoramico dell’entroterra silano, mi giunge particolarmente apprezzabile: è di una efebica Venere nero-chiomata dagli occhi rapinosi (impossibile da ignorare). I suoi saluti sono altrettanto distinti che affettuosi (ovviamente, sempre “per lei e famiglia”). La classe di questa alunna è particolarmente fortunata quanto a belle figliole: nessuna racchiotta e una decina di soggetti variamente attraenti.


3 agosto, tarda sera

Allarme nel mondo: Nave da guerra americana attaccata nel Golfo del Tonchino. Il presidente Johnson convoca i capi militari e politici alla Casa Bianca. Brutto affare: la miccia è accesa. Riusciranno a spegnerla? Vorranno spegnerla? Ho paura che ci siamo già: sarà l’inizio di una nuova guerra locale, come quella di Corea di dieci anni fa. Cioè di quelle che non sono meno micidiali e crudeli delle guerre totali, se non per il minore coinvolgimento di Paesi.. E anche, quando va bene (cioè, meno male) per il minore numero di morti malmorti feriti mutilati. E psicotici.
Naturalmente, a leggere i nostri giornali, a sentire i nostri telegiornali, la colpa è tutta comunista, e le buone ragioni interamente americane. Si accetta per buona, da noi più che nel resto dell’Europa natificata, qualsiasi iniziativa americana: per cinica e illegale che sia. Protestano soltanto i comunisti e una parte dei socialisti; ma loro, si sa, sono sempre in malafede: per definizione. E’ il verbo dei nostri moderati, cattolici o laici che si dicano. Una volta, i nostalgici del glorioso ventennio erano abbastanza antiamericani da saper dubitare delle loro “spiegazioni” e pretendere una “terza via” fra gli schieramenti planetari opposti e prevalenti: oggi tendono, (almeno in parte, ma in sempre più larga parte) se non a fondersi, almeno a civettare con la benemerita Democrazia Cristiana, baluardo di libertà, non meno del transatlantico Campidoglio, casa madre delle nuove democrazie europee, e specialmente della nostra.
Pare normale e naturale, ai nostri democratici bi e tri-colore che le navi americane facciano la ronda giorno e notte lungo le coste nordvietnamite con i cannoni puntati sulle città di un Paese sovrano, riconosciuto e garantito da trattati internazionali; che gli aerei a stelle e strisce sorvolino incessantemente il territorio di quello Stato; che continuino a provocarlo. Per noi benemeriti del destino, che ci ha assegnati al “Mondo libero”, la provocazione è sempre del mondo comunista, questi tartari del ventesimo secolo. Ora si dà per scontato che la nave americana navigasse in acque internazionali, come proclamano quelle massime autorità. Chi ne dubita, chi sospetta una montatura è preso per imbecille o plagiato dalla “propaganda comunista” (questa, sì, sempre bugiarda e incessantemente all’opera, per confondere gli ingenui). Di tanto in tanto mi lascio tentare dal bisogno di comunicare alle mie allieve magistraline considerazioni di questo genere. Gli effetti? Discreti, direi. Per delle classi femminili, s’intende. Spicca un gruppetto della quarta classe per sensibilità indotta. Quella soprattutto.
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4 agosto

I minatori francesi sempre bloccati nel ventre della miniera. Tento di immaginare lo stato d’animo di questi sventurati sepolti vivi. Di immedesimarmi con le loro menti sconvolte dal terrore più squassante. Morire da sepolti vivi è la morte più straziante che io riesca ad immaginare.
Tuttavia, mi nutro lo stesso, rido alle situazioni comiche, guardo gli spettacoli d’evasione alla tivvù, vado al mare. E spalmo una mia estetizzante cupidigia visiva sulle appetitose nudità di giovani bagnanti stese al sole sulle sabbie dorate o sulla minutaglia ciottolosa delle nostre “variegate” spiagge (magari badando a non farmi sorprendere da mia moglie).
Qualche volta, ma non troppo di rado, mi avviene di pensare al destino di crudeltà casuale e di indifferenza assoluta che incombe sugli uomini, anzi su tutti i viventi sensibili. Ogni giorno – penso – in tutte le ventiquattro ore, in ogni minuto di queste ore, e in ogni secondo di questi minuti accadono nel mondo cose atroci. Ogni attimo del nostro tempo è colmo di sofferenza, in questa o quella parte del nostro pianeta (e chissà in altri lontani); ogni battito del nostro polso coincide con mille gemiti di dolore sparsi per il mondo. Non scatta minuto ai nostri orologi senza che una certa quantità di esseri umani vi vengano uccisi feriti mutilati: in guerre, rivolte, insurrezioni, agguati personali, incidenti su strada o sul lavoro. Né il peggio è la morte istantanea: questa, se capita in età “compatibile”, è un dono del...cielo; quello, il peggio, sta nelle torture che una parte dell’umanità subisce ad opera di un’altra parte. Negli inferni delle prigioni politiche, nei Paesi delle dittature fasciste come (purtroppo) anche in alcune di quelle comuniste (o del “socialismo reale”). Ma lo si fa, e non si dice, anche nei Paesi ufficialmente democratici: dove più dove meno, le garanzie giuridiche sono sub conditione, ed è facile trovare o inventare emergenze che “impongono” di sospenderle. A danno delle vittime e per godimento dei sadici sempre presenti fra le cosiddette “Forze dell’Ordine” (che spesso sono quelle di “un determinato ordine” e di un correlato disordine). Quand’ero ragazzo credevo che la religione funzionasse da freno pressoché infallibile sulla crudeltà umana; oggi so, dalla storia e dall’esperienza, altrui e personale, che le religioni funzionano meglio come catalizzatori e moltiplicatori della naturale inclinazione sadica degli uomini. E non abbiamo accennato alle morti a volte non meno crudeli provocate dalle malattie, da certe mostruose varietà specialmente. Lunghe agonie tormentose sono ordinaria quotidianità in certe forme di cancro (tra l’altro, in florida crescita). Ma anche altre non scherzano: peste lebbra cirrosi sclerosi a placche ... Insomma, tutto il mondo è un solo carnaio di uomini e bestie che urlano di strazi, e l’infinita messe di sangue sofferente che riempie gli ipocriti granai della Storia cresce senza tregue, senza intervalli che non siano semplici ondulazioni di intensità, un più o meno nel continuum del dolore.
Nello stesso tempo, dentro gli stessi spezzoni di Crono, altri godono, mangiano, bevono, fornicano, gridano e sfiatano di ben riusciti orgasmi. Come sottrarsi a questa “legge”? “Dio d’amore, perché permetti questo?” – gridava l’altro ieri un mio ex professore di latino al liceo scientifico di Realpolia. Colpito da una malattia atroce, che lentamente lo paralizza in tutte le sue funzioni e capacità, cominciando da quelle motorie e in esse giocando con lenta perfidia, l’infelice, sta conoscendo l’assurdo multiforme della fede consolatrice e ne ha moti di rivolta. Ritengo, tuttavia, non radicali né destinati a durare e solidificare. Troppo intriso di educazione catechistica, il buon Beppe Spoda.
Il dio d’amore permette questo e altro fin dal primo giorno che atomi e molecole si organizzarono in assetti viventi. Solo che non è lui l’autore di tanto miracolo e sfascio. Lui, che è soltanto favola e invenzione di tardi cervelli umani troppo spaventati dalle mortali minacce degli spinosi ambienti in cui si trovarono a vivere, cioè a lottare per la sopravvivenza, tra prede e predatori spesso incombenti minacciosi e invincibili. Cervelli, in fondo, ancora infantili, se afflitti da tutte le categorie della mentalità infantile (vedi Piaget).
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E penso anche al Dio di Tennessee Williams nella commedia Improvvisamente l’estate scorsa: rivedo le “aquile del mare” volteggiare nel cielo sopra le assolate spiagge oceaniche dove si schiudono le uova delle tartarughe marine e mi si riaccende la sequenza visiva delle minuscole creaturine appena sgusciate dall’uovo che fuggono disperatamente verso l’acqua salvifica del mare vicino: sanno, per memoria genetica, che devono farlo per sfuggire a quei predatori incombenti, anch’essi stampati nella memoria specifica insieme al loro moto di morte. Vedo il loro brulichio affannato, già esperto del destino di catastrofe che le attende sulla soglia della vita, e le aquile planare in cerchi di nembi neri e rapide avventarsi, in un ultimo guizzo, sulle tenerissime carni. Si è calcolato che scampino a quel mattatoio dall’1 al 10 per cento al massimo delle ghiotte bestioline in fuga: un intervallo beffardamente breve, fra la trepidante nascita e la morte atroce. Come la durata di moltissime specie viventi. Questa visione non mi ha più abbandonato dalla sera che ho visto per la prima volta la commedia tradotta in film con la radiosa e carnale Elisabeth Taylor. E mi risuona da allora la frase rivelatrice: “Ho visto il volto di Dio”. Riferita appunto al banchetto di cui sopra.
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5 agosto, sera tarda

Il piano di una nuova dimostrazione dell’esistenza di dio registra questi progressi: Tre persone, presso La Spezia, schiacciate da un autotreno. Sempre in incidenti, due altre, Padre e figlio, morti a Venezia. Sembra la parodia di un celebre titolo: Morte a Venezia. Ma certamente le due vittime ignoravano la coincidenza e forse avevano fatto il callo anche allo scenario fantastico di Piazza San Marco. Seguitiamo. Una donna perde la vita sull’Autostrada del Sole, nel Casertano. (Gazzetta dello Stretto). Qualcuno giudica che la famosa A18 abbia accumulato già meriti sufficienti per un nome alternativo: “Autostrada della morte” . Dal commento, ritorno ai fatti: Annegano dieci persone (ibidem). Ancora: Ragazzo francese ucciso da un leone. Ci fermiamo qui.
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Ho ricevuto, oggi, un pacco da Gulizza. Contiene un libro postumo del filosofo Luigi Ferratti messo insieme da lui, che fu suo allievo, con gli appunti manoscritti del suo maestro; una lettera di mezza risposta alla mia ultima, speditagli circa un mese fa, e il dattiloscritto di un mio articolo sul suo pensiero con qualche richiesta “intromissione” personale. Il libro ferrattiano si intitola Linguaggio del sogno, ed è un pingue volumotto di 350 pagine, ivi compresa l’introduzione del curatore (dieci paginette scarse). Naturalmente, devo leggerlo e recensirlo. Nella missiva Gulizza mi fa tante scuse per non avermi risposto prima. Sono convinto di averlo irritato con le mie due ultime lettere schiette. Ho preso l’abitudine di parlargli chiaro: sto diventando un buon allievo, no?
Quanto al mio articolo su di lui, posso proporlo, se mi va, al direttore e fondatore della rivista La Procella, che si stampa a Reggiùli. Vedremo.

6 agosto

Titoli di 1a pagina su La Stampa: Johnson ordina alla Marina di distruggere “qualsiasi unità che attacchi le nostre navi” L’annuncio del Presidente in una conferenza stampa alla Casa Bianca.”Questi ordini – ha detto con voce ferma – saranno eseguiti” La VII Flotta rafforzerà il settore nel Golfo del Tonchino: una potente squadriglia aerea da combattimento proteggerà le navi da guerra. Washington è decisa a dimostrare alla Cina che gli Stati Uniti non sono una “tigre di carta”

Ci si preparano giorni di afa supplementare. La Stampa riporta il commento del francese Le Monde all’incidente del Tonchino. Il giornale francese teme che la tendenza russa a un disimpegno in quel settore possa incoraggiare “la Destra del Laos” e “i suoi padrini americani” a “intensificare le operazioni militari e riguadagnare il terreno perduto”. Teme, del pari, un’estensione del conflitto nel Vietnam del Nord. “Ci si può chiedere – continua il giornale – se l’attacco all’incrociatore americano non avesse precisamente il fine di far sapere a chi di dovere che non ci si spaventa ad Hanoi o a Pechino di uno scontro con l’imperialismo americano”. Ipotesi plausibile. Resta da sapere, comunque, se l’incrociatore americano navigasse veramente in acque internazionali. Cosa che non credo affatto.

Nella 3a pagina La Stampa del 3 agosto ospita un articolo di Nicola Abbagnano, L’animale che parla. L’articolo tratta della filosofia del linguaggio, e rileva l’opportunità che i filosofi del neopositivismo logico non dimentichino, col loro assolutismo linguistico, la natura originariamente strumentale del linguaggio, la costituzione ugualmente legittima di molti linguaggi e la necessità di vedere il linguaggio nei contesti non linguistici dai quali emerge come mezzo di orientamento (biologicamente motivato). Ecco un passo particolarmente significativo per certe espressioni che denotano, appunto, una non trascurabile sensibilità biologica):

[...]il più delle volte il linguaggio viene considerato e studiato in se stesso, prescindendo dall’uomo che parla e dalle situazioni in cui parla, in espressioni e frasi analizzate indipendentemente dal contesto non linguistico in cui esercitano la loro funzione e dai fini cui sono dirette. Ma se il linguaggio è lo strumento fondamentale di cui dispone per la costruzione del suo mondo quell’animale che è l’uomo, in esso è sempre un animale che parla: un animale, cioè un essere fornito di bisogni. Dipendente dal mondo, soggetto a limitazioni di ogni specie, errori e illusioni”.
Ciò esclude la possibilità (almeno attuale) di un “linguaggio perfetto”, secondo la pretesa di alcuni filosofi e linguisti. Pur restando vero che il linguaggio della scienza, e particolarmente quello matematico, sia, oggi, il linguaggio più perfetto (o meno imperfetto). Il discorso di Abbagnano risveglia in me l’idea (non proprio recente, ma sempre “rimandata”) di un articolo (da Terza pagina o da rivista culturale) sulle Convergenze filosofiche. Lo scritto dovrebbe accostare alcuni pensatori contemporanei (Abbagnano, Camus, Merleau-Ponty, Nietzsche, Paci, Russell, Rensi, Schopenhauer... a Gulizza), mostrando la tendenza prevalente del pensiero contemporaneo più vitale verso una rivalutazione della corporeità e animalità dell’uomo, della mondanità e naturalità assoluta del mondo umano, e di un empirismo duttile come metodo filosofico coerente con quella tendenza. La rivalutazione è favorita dagli sviluppi delle più recenti e fortunate scienze biologiche, dall’etologia alla genetica e biologia molecolare, a loro volta soccorse e alimentate dalla fisico-chimica e dalla cibernetica. Sarebbe un omaggio al “vecchio” e un tentativo di avvicinargli alcuni astri dell’odierno firmamento di Sophia. Lo farò? La mia fucina è ricca di idee e buoni propositi, ma povera di esecuzioni.

La pagina 5 dello stesso quotidiano ospita un articolo di Carlo Arturo Jemolo sulla Crisi degli italiani nel 1914-15. Un anno, poi l’intervento. Mi permetto di dubitare del presunto “stato d’animo” che “venne a crearsi per i più degli italiani”, secondo l’illustre giurista e storico: “di schietto, sincero entusiasmo, di fede, sia pure ingenua, ma sentita, nei valori ideali della guerra che si combatteva da parte dell’Intesa” contro “la barbarie tedesca, l’autoritarismo e così via”. I più forse piangevano e maledicevano la guerra e chi la imponeva ai poveri operai e contadini; forse imprecavano contro l’indistinta congrega dei responsabili di entrambe le parti per essere stati brutalmente strappati alle loro case, terre, lavoro; alla serena o tribolata, ma sempre più sopportabile, vita domestica del tempo di pace. Come avviene, nella realtà dei più, sempre, quando gli fanno scoppiare sopra la testa una guerra. La quale, fra le varie forme e occasioni di barbarie, non teme confronti. Quella fede entusiasmo eccetera poté nascere, sotto la spinta della propaganda, dopo, quando era inutile piangere e conveniente darsi un conforto purchessia, una forza morale che reggesse l’immensa fatica dell’anima nei rischi sacrifici sofferenze quotidiani del corpo. Ma che c’entrano, pur sempre, i più? L’articolo finisce, poi, in gloria Dei. Ed io mi stupisco come un intellettuale, una mente repleta di cultura informazione memoria storica possa trovare compatibile con tanta consapevolezza e coscienza etica una fede religiosa, e quella cristiana e cattolica in particolare. Come non bruci di sgomento, un uomo di normale sentire e sapere, al cospetto dell’orrore sconfinato di sofferenze inenarrabili che mondo e storia, e proprio la guerra in primis, oppongono alle eiaculazioni verbali sui mirabolanti attributi del Dio giusto misericordioso amoroso onnipotente. Per tacere degli orrori stragisti pullulanti in quell’Antico Testamento, e, a pimento-contesto del sadismo teoconico, le contraddizioni e favole.
La guerra, le guerre: la prova maggiore fra le massime che mostrano il guasto originario del mondo, la sua assoluta nudità contro le ciarle mistificatrici, il vero male radicale che attossica l’uomo. Eppure è nelle guerre che s’alzano al cielo le preghiere più accorate e le più spudorate ruffianerie; eppure dopo l’immane macello dei cinquanta milioni di morti e lo sconfinato seminario dei feriti e mutiliati della seconda guerra mondiale un revival religioso senza precedenti portò al potere dei Paesi occidentali partiti cattolici. E che non ci furono tentativi di inquinare la Costituzione italiana col nome di dio, pretese di agganciare al progetto ignominioso la complicità vaticana? Che non ci furono fior di risvegli spirituali e santi frenetici prestati alla politica dell’Italia rinsavita (in parte) dalla sbornia fascista? Nell’occasione i marpioni del Vaticano furono più saggi dei cervelloni proponenti il dio costituzionale. Sì, l’uomo è davvero capace di qualunque paradosso, di qualsiasi irrazionalità.
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Lo so quaderno, lo abbiamo già notato e annotato sulle tue pagine, mi ripeto, ci ripetiamo: in gloria Dei, anche noi. Sia pure in modo dialettico (vedi, usiamo una parola aristocratica, di alto lignaggio). E torniamo, con questi intenti imperativi e igienico-sanitari, alla nostra piccola privata e inutile Dimostrazione dell’esistenza di dio attraverso la cronaca nera. Dal quotidiano La Stampa. Pag. 6: Quattro ferrovieri svizzeri in permesso s’uccidono precipitando per 700 metri sul Massiccio del Bianco (titolo) Sono già 34 le vittime di quest’anno sulla tragica montagna (occhiello). Ma sorvoliamo sul resto: per risalita esofagea di nausea metafisica.
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E cambiamo argomento. All’Esposizione di Losanna meno visitatori del previsto. Cinque milioni di persone in tre mesi: se ne attendevano 7-8 milioni. Spiegazioni eziologiche? Pare che i padiglioni siano troppo culturali e poco folkloristici. Eppure ho visto in un documentario televisivo la grandiosa bellezza della manifestazione. Losanna: il gomitolo di Mneme svolge il filo di dolci ricordi e scioglie nodi di rimpianto. Sono passati sei anni da quel viaggio nel meraviglioso di Bruxelles, Expo 1958, Viaggio-premio per la media più alta della facoltà di filosofia, io, il primo, e il secondo, a notevole distanza, il caro Enzo, amico e collega che da un paio di anni non vedo e non leggo (nella sua nervosa grafia epistolare). te. *
E’ stato pubblicato il Censimento delle vittime del Vajont: 2014 morti. Finora il più autorevole “sillogismo” nella presente “dimostrazione” dell’esistenza di Dio, creatore di questo mondo meraviglioso. Certo, un Dio che può “assistere” ad uno spettacolo come “il Vajont” è un’immagine da meditare anche nel cervello meno alacre e più contorto: ma la gente naturaliter credente preferisce litigare coi parenti increduli piuttosto che imparare e disimparare. Disimparare il dio gonfio di virtù benefiche e imparare, per esempio, gli dèi di pietra di Epicuro e Lucrezio, di Spinoza o di Camus: un’idea teologica che s’impone con schiacciante autorità. Ma la devozione degli umani è di buona lega: si chiama paura. Un argomentare alla prof. Gulizza suonerebbe, pressappoco, così. La paura teologica è il primo derivato dalla sostanza del mondo biologico: la fame. Come tutti gli animali, anzi tutti i viventi, gli uomini mangiano e, correlativamente, temono, per fisica necessità, di essere mangiati. Unificando in poche figure espanse la copiosa molteplicità delle minacce trofiche (grandi carnivori predatori, altri uomini di vario colore, ecc), si inventano gli dèi, potenze invisibili, ma variamente incarnate, e virtualmente assassine, cioè pantofagiche: perciò, da rabbonire con offerte sacrificali per ricavarne protezione e vantaggi materiali (salute, caccia feconda, vittoria negli inevitabili scontri fra tribù e via spalmando). Quando e dove al politeismo succede il monoteismo, questa logica si semplifica ma non crolla: gli dèi e il dio unico sono la stessa sostanza monistica modificata nella forma, nelle sembianze (sempre zoomorfiche o, “progredendo”, antropomorfiche). La stessa corona di attributi promozionali (potenza, giustizia, amore, misericordia...) fa parte del trattamento propiziatore. E’ bensì vero che molti credenti, a cominciare dai mistici confessionali, credono in buona fede di amare dio, ma in realtà lo temono. Al punto da ingannare se stessi sforzandosi di credere nel suo amore e di ricambiarlo. O che non si è arrivati al paradosso comico di dichiarare (al momento non ricordo quale campione della favolistica teologica l’abbia detto) che il proprio amore per dio fosse tale e tanto da offrirgli non solo la vita, ma l’anima addirittura. Bello, no? Uno dice al suo buondio: se vuoi una prova assoluta del mio amore, dannami pure. E certi beoti di accademia a ostentare rispetto per tanta offerta.
Insomma, il dio monoteistico, concentrato di virtù senza limite, è, nei fatti del culto, un Moloch bulimico variamente mascherato. Nella gloriosa Cartagine imperiale, quei comprensivi devoti, nei momenti di maggiore pericolo per la città-stato, offrivano a quel buongustaio la carne più tenera, quella dei bambini. I quali, a suggello della civiltà e del suo pilastro maggiore, la fede religiosa, venivano scaraventati vivi e croccanti nelle fauci incendiarie del dio antropofago. Pare che tale fortuna molto metafisica toccasse con precedenza assoluta ai primogeniti. E nelle contingenze di maggiore pericolo, erano i personaggi eminenti della Città a immolare per primi quella carne purissima. La pratica era diffusa presso i fenici, che, fondatori di quella città sventurata, nelle sue leggi la importarono, a garanzia di felice fortuna. Né la deliziosa teologia pratica era confinata sulle rive del mare nostrum: i classici dell’antropologia culturale ci hanno insegnato che diffusissima era anche presso le popolazioni del centramerica. Insomma, è falso che i credenti sentano un dio buono: lo sanno e sentono crudelmente cattivo, e perciò lo adùlano, lo blandiscono e vestono di eccelse virtù, contraddette invano dalla tragica baraonda della vita cieca: hanno un vitale bisogno di farselo amico, di scongiurarne la bulimia cronica, e non badano a spese in fatto di sacrifici: per millenni, prevalentemente umani, e poi animali e vegetali. Ma non è detto che i sacrifici umani siano del tutto scomparsi: a ben guardare, se ne potrebbero scoprire ancora abbondanti tracce e code, sotto mentite spoglie e con percorsi tortuosi. Ma questo è un altro discorso, per altri tempi e occasioni.
*
E torniamo a leggere cronaca nera e al sangue. A pagina 9, della stessa Gazzetta, tre bambine e tre adulti uccisi dall’ennesimo incidente d’auto; e dieci feriti sempre in quel tipo di incidenti. Che, in periodicità annuale, pare sommino un totale di tutto rispetto: nella sola Italia, tra gli otto e i diecimila morti: in tutta Europa, sui centomila. Ci vuole troppa fantasia per associarli ai vecchi sacrifici umani, visto e considerato che l’auto è, tra i nuovi idoli, il più venerato? Sacrifici più spicci, privati della prosopopea rituale delle vecchie pratiche, surroganti il sacro altare e le marmoree o litiche statue dei vecchi dèi con l’anonimo asfalto delle seducenti arterie e gli inutili guard rail. Posso spendere, quaderno delle mie solitudini serali e notturne, un minuto, anzi tre, pensando alle tre bambine assassinate sui nuovi altari di pietre all’asfalto, a quelle sconosciute ostie immacolate per i nuovi moloch autostradali? Come saranno morte (anzi, volate in grembo al Signore, dicono i credenti loici)? Hanno sofferto molto? Spero di no. E si può confrontarne l’esiguo numero con quelle troppe affogate nel sonno dalla sovrabbondanza divina dell’acqua propiziata dalla sudiceria umana? Vajont: un altro sacrifico a Mammona, avatar dell’onnipotente pantocrator Moloch. Un monumento megaliquido di sacrificio, un pantagruelico banchetto. Altro che i giganti litici dell’isola di Pasqua, qui si va per le spicce, si risparmia fatica e tempo.
Ecco come, trascinati dall’onda della logica fluente, ci si dimentica dei propositi di tregua e rispetto della misura: siamo tornati alla lettura teologica della pandemia trofica. E dei suoi derivati: aggressività, lotta, guerra, scontri...

mercoledì 19 novembre 2008

Susanna e la metafisica - Parte prima


Anche quel senso della verità che in
fondo è il senso della sicurezza, l’uomo
lo ha in comune con gli animali.
NIETZSCHE, Aurora

DIARI DI PAOLO ASSAGGI

quaderno n0 1

Per quale ragione al mondo dovrebbe qualcuno voler essere ottimista, se non ha da difendere un Dio che deve aver creato il migliore dei mondi, se egli stesso è la bontà e la perfezione? Ma quale pensatore ha ancora bisogno dell’ipotesi di un Dio?

nietzsche, Umano, troppo umano

Akiskene, 10 agosto, sera
Che scampanio stamane, all’alba! Inizia il mese delle grandi feste estive. La principale, per il nostro paese e dintorni, è quella di Ferragosto, che coincide con una delle tante madonne del cattolicesimo popolare: la Madonna della Corda.. Patrona assoluta del paese (santi di quartiere e madonne vicarie controllano soltanto quartieri, appunto, e frazioni del Comune), questa madonna viene festeggiata alla grande, con impegni finanziari notevoli in fuochi d’artificio, illuminazioni, sfilate e processioni lungo le strade principali e qualcuna delle secondarie appena percorribili. Capita, è vero, che contingenze eccezionali sconsiglino la festa magna e impongano modestia e rinunce; ma la vocazione generale – popolani superdevoti, piccola e media borghesia mercantile, piccolissima “nobiltà” agraria, senza esclusioni perentorie per la poco affollata intellighentsia locale di variegata collocazione sociale – è la festa grande. Che perciò si celebra, a volte, anche in condizioni pubbliche non liete, e si riduce alle dimensioni della piccola (fuochi discreti, soltanto messe e cerimonie in chiesa, rinuncia al giro del paese, ridotto al solo ingresso nella piazza centrale, in un tripudio di spari colorati...), ma soltanto in situazioni emergenziali (anche di crisi economica). Lo scampanio di stamane significa annuncio di festa grande: ci saranno tre giorni di allegra baldoria, con tre serate di fuochi pirotecnici, folle di devoti calanti dai paesi vicini e meno vicini, una grande fiera, folto movimento tra la piazza centrale e i bar del paese, ormai ben fornito di pubblici locali della ristorazione spiccia..

Non ci sono dubbi: la religione è il più grande business dell’economia mondiale: col suo core devoto e l’immenso indotto che lo circonda. E, come scrive quel genio poetico e cattolico secundum quid (un quid al limite dell’eresia, e magari oltre) che è Baudelaire: “Dio è il solo essere che per regnare non ha neppure bisogno di esistere”. Dio e, ovviamente, l’intero Olimpo di ogni religio lucreziana. Perché “lucreziana”, quaderno? Ma perché nel De rerum natura quel sostantivo, religio, significa superstizione: che è giusta ermeneutica del fenomeno religioso in tutte le possibili forme e varianti.

2 agosto
Ho pensato spesso negli ultimi tempi a una nuova e originale dimostrazione dell’esistenza di Dio. Consisterebbe in una paziente raccolta di notizie di nera sui disastri flagelli incidenti mortali e guerre guerre guerre, che scandiscono il tempo della nostra sventura terrena. Notizie, ordinate in modo para-tematico, riprodotte col massimo di testo giornalistico riduttivamente compatibile, con o senza minimali postille di commento. Ne verrebbe fuori una loquacissima parata di interventi provvidenziali da far tacere ogni dubbio sull’ordinamento divino del mondo. S’intende che qui si incensa il Dio confessionale, il Dio tutto sostanza di Giustizia Bontà Bene Amore Misericordia Pietà e sinonimi e complementi ad infinitum. A farne uno specimen basterebbe, a volte, la cronaca di un solo giorno, o di pochissimi. Prendiamo i giornali del 28 luglio scorso: sono pieni di disastri e incidenti pluri-mortali. Sfogliamo La Gazzetta dello Stretto (che mi ha fornito lo stimolo). Titolo di spalla della 1a pagina, su cinque colonne: Il disastro ferroviario in Portogallo (occhiello) Centoquattro i morti accertati nel deragliamento presso Oporto (titolo). Forse il groviglio dei rottami rinserra altre vittime. I feriti sono centotrenta. Il rapido, costituito da una motrice e da una vettura, si è spezzato mentre viaggiava a 90 chilometri orari. La seconda carrozza è uscita dai binari dividendosi in due tronconi. Aveva a bordo 250 persone, mentre ne poteva portare 68 (cappello). Occhio alle cifre: blasone della prudenza umana e del senso delle regole: 250 e 68. La stupidità assassina.
Sotto, stessa pagina, titolo a 2 colonne: Sciagura stradale in Francia. Diciannove ballerini morti in un incidente. Il torpedone sul quale viaggiavano è precipitato su una linea ferrata. Pagina 2: titolo di centro, su 4 colonne: Delitto del “sangue blu” presso Como. Medico uccide un barone per una maestrina inglese. Titolo a 3 colonne: Una ragazza a Torino, sequestrata e sfregiata dall’antico spasimante. Pagina 4: Muore un anziano operaio in seguito a un infortunio. Un gitante muore a Ganzirri, colto da improvviso malore. Investito un mendicante da un taxi. Bimba a santa Lucia cade dal balcone e muore all’ospedale. Pagina 5. I funerali del bambino dilaniato dalla bomba. Pagina 10. Quattro operai italiani annegati in Svizzera. Un quinto italiano ha perso la vita nel Tirolo. Folle armato di ascia vuole uccidere una coppia. Siciliano spara, a Torino, contro l’auto del genero. Agrigentino arrestato per omicidio. Pagina 11. Sedici operai bloccati in un tunnel al confine francese con la Svizzera. Tre bimbe intossicate da paste avariate. Pagina 12. A Bastia, presso Perugia, otto bambini feriti da una bomba a mano.
A scorrere la cronaca nera di tutti i giorni si trova tale abbondanza di morti feriti mutilati da eguagliare gli effetti di un modesto conflitto armato. Naturalmente, le cifre della cronaca piccola sono limitate ai paesi raggiungibili dal giornale, o giù di lì. Anche a fermarsi su un centesimo dei disastri ospitati ogni giorno sui quotidiani di questa o quella parte del bel pianeta, non è evidente la presenza del buondio provvidente? Obbietta il credente: che c’entra la Provvidenza? Già, che c’entra, se non esiste? Ma se, come tu dici, esiste, come non interessarla in questi eventi, essa che abbraccia l’universo intero? Il motto di fede popolare, Non si muove foglia che Dio non voglia, vale ora sì ora no, a seconda delle convenienze dialettiche (!) del credente (s)ragionante? In verità in verità ti dico che ogni foglia (piccola o grande) è mossa da quel primo motore. Che tu, credente, favoleggi come sintesi infinita di perfezioni, e invece fatti con misfatti degradano a impersonale intreccio di cause e agenti solo parzialmente, forse minimalmente, esplorabili dal pur mostruoso cervello umano.
Un altro credente dice: che ne sai tu dei disegni di Dio. Risponde l’umile registratore degli eventi massimi e minimi: io proprio nulla. Soltanto, mi pollano domande dalle “sorgenti irrazionali del pensiero”, e altre dalla ragione dono di Dio, secondo vostri insegnamenti. Non serve a pensare, il Pensiero, e la ragione a ragionare? Insiste il desistente fedele: – Ma non a oltrepassare i limiti. – Ah, già, i limiti: hic sunt leones. Solo che i leoni, prima o poi, si vanno a visitare e collocare nel loro contesto; l’oltre-limite metafisico deve restare inviolato. Chi pone questi limiti? Chiarisce, scaltro, il fedele: – La fede, la religione, i testi sacri, la tradizione: baluardo di salvezza e segno di identità. Non siamo singoli isolati e irrelati: siamo comunità, convivenze organiche, guai a staccarsi dalla comunità. – L’infedele ritenta . – Siamo mica al medio evo? Le comunità, oggi, hanno altre fondamenta, o possono averle; altri vincoli di solidarietà collettiva verso e contro l’esterno, che le sue minacce attivano e concretizzano (sia pure imperfettamente).
Un dottor sottile azzarda: - Ma non potrebbero essere, le sciagure, i flagelli, le malattie uno strumento degli oscuri disegni divini? Un mezzo, per noi incomprensibile, atroce, se vuoi, ma in quella misteriosa logica trascendente, previsto per la prevalenza del bene sul male, via sacrifici morte e sofferenze? Per esempio, un espediente per far ravvedere il peccatore, realtà plurale fino ai miliardi. Si comprime il transfuga, a bloccare gesti forti, ma non al punto da castrare le parole. Replica: - Che modi spicci ha il tuo dio. E che strano modo di far pentire ravvedere riscattare i peccatori, maciullando insieme granitici farabutti e teneri infanti ignari di colpe. Hai mai letto qualche statistica sulla mortalità infantile nei secoli passati, da noi società evolute, e presso i paria del terzo e quarto mondo, ieri come ancora oggi e nel prevedibile futuro? Insomma, come vedi, non tutti siamo accessibili a certe lezioni.
- Peggio per te e i tuoi pari.
- E per quei bambini dilaniati tra le lamiere contorte dei treni deragliati. Mutilati in mille modi, torturati da malattie e campioni di umanità allergici alla pietà. Un piano divino che includa la tortura e il massacro di innocenti, sai, mi riesce così ostico che preferisco nessun piano. Quando, poi, quegli innocenti sono i bambini, dai primi giorni di vita ai pochi anni prepuberali (o anche meno, se vuoi, per esempio fino ai sei-sette anni) questo ingranaggio perverso mi induce a un apparente paradosso: voglio troppo bene a dio per ammetterne l’esistenza.
- Non esageriamo con questi bambini immolati: Dio li porta in Paradiso, dopo tutto.
Non ci avevo pensato. Però, a ben riflettere, il tuo dio resta ingiusto. Come! fa morire alcuni in tenera età e se li porta dritti dritti in paradiso, e fa vivere molti anni altri per offrirgli mille occasioni di peccato e mandarli all’inferno!
- Questa apparente pietà è solo arroganza: chi crede, si consegna a Dio e ai suoi misteri.
- E’ vero, è inutile discutere quando non c’è una base comune di intenzioni e intelligenza. E perciò è inutile ti ricordi l’obbiezione del Papini pre–conversione all’eternità delle pene infernali: che rapporto ci può essere fra, fosse pure tutta una vita di “peccati mortali”, e quella eternità, non concepibile altrimenti, per un cervello finito, che come durata infinita?
- Caro collega, i misteri della religione non sono indovinelli e giochi enigmistici per cervelli insolenti. E tu, come filosofo, non puoi dimenticare che c’è la trascendenza, un oscuro al di là di ogni umana possibilità di esplorazione e comprensione.
- Giusto. Ma sii coerente: se questo guazzabuglio di ogni religione evoluta affonda nelle tenebre della trascendenza, non ne parliamo.
- Non è quello che dico io?
- Non precisamente: voi credenti dite trascendenza quando vi conviene, ma ne parlate e sproloquiate come se foste il terminale di tutti i segreti del dio trascendente, o giù di lì. E cianciate di miracoli a ogni starnuto di visionaria che vede lacrimare la prima madonna di gesso alla sua portata. E non si contano le guarigioni miracolose... Non è parlare dell’indicibile, tutto questo giudicare predicare deliberare moraleggiare e comandare? Questa fregola di potere sacerdotale, che ha fatto così largo uso della tortura nei secoli luminosi (a vostro dire) della fede trionfante. Non potete nemmeno definire gli attributi del vostro dio ... Riferiti al trascendente, infatti, perdono ogni senso e significato accessibile agli umani. Mentre è fin troppo chiara la reale profonda cupa insensibilità del credente al variegato strazio della carne vivente, compresa quella infantile. Un campione di blindato egoismo: questo, nella sua realtà profonda è il credente.
Quanto precede non è che la libera ricostruzione parziale di conversazioni fra me e qualche collega o amico che mi provoca nel mio, secondo loro, narcisistico ateismo confuso. Che per qualche cervello affilato viene a significare “iperlucido”, essendo “l’eccesso come il difetto”. Il quale vorrebbe intendere così, e obiettarmi, che il troppo stroppia. E per oggi basta su questo spreco di ciarle. Salvo aggiungere il baleno di un risarcimento al “titano fasullo” (titolo di un mio articolo su Giovanni Papini): dimenticavo che lo scrupolo onto-logico della sproporzione fra tempo di permanenza peccatrice in questa valle di lacrime ed eternità della pena infera inquieta anche il Papini post conversione.
Ma per chiudere più concretamente la “pagina” ricordiamo una bella conquista del “pensiero” umano: il telegiornale di stasera annuncia il successo del “Ranger VII”: quattromila e più fotografie sono state scattate a distanze sempre minori dalla superficie lunare. Questi fatti sono capaci di esaltarmi ancora. Ma anche di rattristarmi: ah, se l’intelligenza umana si limitasse ad inventare solo mezzi di ampliamento conoscitivo e farmaci per i troppi nostri mali!

lunedì 17 novembre 2008

Susanna e la metafisica



PASQUALE LICCIARDELLO


SUSANNA E LA
METAFISICA

ROMANZO


*

C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo.
LUIGI PIRANDELLO, Uno, nessuno, centomila
*

Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente, non hanno neppure bisogno di parer verosimili, perché sono vere.
LUIGI PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore


Nelle epoche di civiltà rozza e primordiale l’uomo credette di conoscere nel sogno un secondo mondo reale; è questa l’origine di ogni metafisica. Senza il sogno non si sarebbe trovato alcun motivo
di scindere il mondo.
FEDERICO NIETZSCHE, Umano, troppo umano


*
Per quanto amare, dolorose, angoscianti siano le cose di cui si scrive, lo
scrivere è sempre gioia, sempre “stato di grazia”.
LEONARDO SCIASCIA, La strega e il capitano

PREAMBOLO

* * *
Qualche tempo fa ho ricevuto un insolito dono: un pacchetto contenente quaderni scolastici. “Scritti” dove più dove meno, raramente pieni, spesso con molti fogli bianchi, e tanto di data all’inizio di ogni blocco di pagine: un diario, insomma. Discontinuo, incostante, non privo di ripetizioni. Ma soprattutto composto di “materiali” diversi, tra loro incoerenti, casuali: dalla cronaca privata alla trascrizione e commento di notizie politiche, dalla meditazione filosofica al moralismo occasionale, su fatti e misfatti del giorno. E poi: minute di lettere indirizzate a questo o quel personaggio di spicco, abbozzi o veri e compiuti articoli di giornale: da terza pagina e politici; o di costume. Fra quelli culturali, recensioni, commemorazioni, polemiche. Rapsodica ma insistita l’analisi interiore, e soprattutto l’autoanalisi. Entrano ed escono da queste pagine le figure più varie: familiari, amici, colleghi, studenti, politici, letterati, filosofi e uomini di cultura in genere. Gli studenti sono quasi tutti di sesso gentile: l’autore, infatti, insegnava in un istituto magistrale, dove, com’è noto, la preponderanza femminile è proverbiale, e spesso intere classi erano composte di sole ragazze.
Nel diario figurano molti nomi, e anche quello dell’autore; ma credo si tratti di nomi posticci (almeno, in parte). Magari allusivi, a volte (e chissà in quale misura), della realtà coperta, ma, per la maggior parte, credo del tutto fittizi. Il perché di tanta prudenza affiora dal carattere di certe pagine, di certe confidenze non coerenti con lo stato coniugale del diarista.
Leggendo questi sfoghi vieppiù intriganti cercavo qualche indizio che mi orientasse sulla identità del collega misterioso. Credo di averne trovato più d’uno: certi dettagli, certe parole ricorrenti, e precisi stilemi, ma, soprattutto, alcune circostanze adombrate, e più che adombrate, in certe “giornate”, mi riportano alla memoria un collega col quale, in anni lontani, quando insegnavo nella Magna Grecia ionica, c’era stata un’amicizia alquanto mossa, ma sincera, fatta di consonanze e divergenze. Un rapporto più dialettico, si può dire, che “pacioso”: garantito, però, da una reciproca stima. Le défaillances caratteriali non le ignoravo, né lui ignorava le mie. Questa reciprocità, anzi, alimentava una sorta di complicità morale, che, nei momenti buoni, ci permetteva di perdonarci limiti e colpe (più che altro, negligenze e pigrizie). Capitava che ci dicessimo (a consolazione reciproca?): “A volte sembriamo l’uno l’alter ego dell’altro”.
Una settimana dopo il pacco mi arrivò una lettera di chiarificazione. La trascrivo:
Carissimo,
molti anni fa ti confidai che tenevo un diario: un coacervo di cose varie, una specie di Zibaldone, con certe marcate prevalenze. Ti dissi pure che mi ripromettevo, da pensionato, di elaborare parte di quel materiale grezzo in uno o più racconti, o in un lungo romanzo autobiografico. Ti dirò, anzi, che ho cominciato a pensarci da prima che entrassi, come dice il burocratese, in quiescenza. Ma tutte le volte, l’impresa s’è interrotta. Spesso, appena agli inizi. Ora sono in pensione da quattro anni, ma non ho trovato la serenità necessaria alla continuità compatibile con un lavoro del genere. Che ho ricominciato e sviluppato fino a un certo punto, arenandomi come per il passato.
Parlo di serenità mancante, ma dovrei, più probabilmente, dire, e confessare, carenze caratteriali, remore genetiche. Quali? E quante? Troppo lungo, e sgradevole, sarebbe uno sforzo bastante a esaurire l’argomento. Meglio sintetizzare, semplificando, con la formula “incapacità di concludere”. Fossi dotato (gratificato) di quella capacità, la serenità me la sarei conquistata, magari a forza di contrasti domestici. Paradosso? Non del tutto: le mie poche conoscenze accademiche, e in generale i “riusciti”, sono tutte persone che attraverso iniziali conflitti intra moenia sono arrivati a conquistarsi quella “serenità”. Come dire: un tempo di lavoro garantito. Certo, ci sono anche le malattie, e si offenderebbero se non le ricordassi. E gli interventi chirurgici. Ma il vulnus decisivo sta nel piccolo dittatore bi-elicato.
Che fare? La soluzione migliore sarebbe di bruciare l’intero malloppo. Non lo dico per civetteria esorcistica: ne sono convinto. Ma so anche, con quasi assoluta certezza, che non ho abbastanza carattere neppure per un esito così drastico. Stavo per scrivere virile: non ho mai raggiunto una vera maturità caratteriale.
Breve, ho pensato di affidarti i miei quaderni. Per farne cosa, mi chiederai. Quello che vuoi. Un romanzo, due, tre. Una serie di racconti. Non so. O nulla, li lasci come sono, me li restituisci. Nel caso tu decidessi di usare il materiale per un tentativo di narrazione coerente, hai piena libertà d’intervento: taglia, aggiungi, sostituisci, modifica, come ti pare. Insomma, ti propongo l’elezione a mio editor. Unico limite, la salvezza della sostanza: di fatti, emozioni, sentimenti, pensiero (soprattutto). Precisazione, me ne accorgo, superflua: ma ormai sta lì. Correggermi? A che pro?
Allora, vuoi provare?
A quest’ora avrai (forse) letto, se non tutti, buona parte dei quaderni: avrai trovato indizi per identificarmi. Io però non ti aiuto oltre, e ti lascio nel dubbio: per piccolo che possa essere. E forse neppure tanto piccolo, se consideri che altri colleghi tenevano diari: per lo più convenzionalmente sentimentali, ma almeno altri tre o quattro avevano accennato al modello Zibaldone. Ne avevano parlato a me, ma qualcuno di loro anche a te (mi pare). Eravamo il drappello dei dotti (così ci sfottevano gli altri colleghi, i praticoni della mediocrità prevalente), e uno o due di essi hanno intrapreso con successo la carriera universitaria. Del più robusto e rubizzo del cenacolo lo so per certo, e fa linguistica all’università del Bruzio; non sono sicuro dell’altro, orientatao alla pedagogia. Dunque, chi ti scrive, oggi? Indaga, metti a frutto tutta la tua sagacia di inquisitore pirandelliano, e vedremo se avrai saputo indovinare. Quando, fra qualche mese (o anno?), mi avrai telefonato a questo numero di cellulare per comunicarmi la tua decisione sui quaderni, forse mi toglierò anche l’ultimo velo. Ammesso che possa resistere ai molti indizi.
Non ignoro le difficoltà enormi del pubblicare presso un editore almeno di media importanza, in questa nostra società (meglio: non società)letteraria frammentata in camarille e piccole-grandi mafie pronte a spensierate e spocchiose esclusioni. Non scrisse, una volta, Umberto Eco che un autore il quale si offra a un editore senza, almeno, una presentazione di Moravia o di Flaiano, non solo non ha speranza di essere valutato per la pubblicazione, ma non la merita proprio. Allora la disinvolta impudenza del super boss della fortuna editoriale mi indignò e stimolò un mio articolo polemico. Allora...
Lo so, è una sciocchezza, questa segretezza del cavolo. Tanto più che non sono così sicuro di avere evitato tutte le tracce della mia identità reale. Considerala un’altra manifestazione della mia residuale immaturità. O l’effetto cattivo di buone letture (che poi è un altro modo di dire la stessa cosa).
*
Non avevo ancora finito di leggere il quaderno n.1 che mi arriva, sei giorni dopo la lettera, un altro pacco, appena più grosso del primo: sono fogli di videoscrittura e contengono la trascrizione parziale, riveduta e corretta, qua accresciuta e là ridotta, di una parte dei quaderni e di pagine sparsamente saltuarie di agende scolastiche (omaggi dei librai e delle case editrici), che negli anni più recenti erano diventati i nuovi contenitori degli sfoghi solitari (Cristo, com’è facile cadare nell’ironia dei doppi sensi involontari!) del collega misterioso. I fogli delle agende editoriali sono fotocopiati, e non sono moltissimi.

Che fare? Me lo chiedevo man mano che procedeva la lettura. Che mi interessava abbastanza, sia pure con ovvi alti e bassi. A volte mi eccitava intellettualmente con sollecitazioni coinvolgenti, specie nelle sue escursioni filosofiche, altre volte mi disorientava.. Ma soprattutto, mi convinceva (anche se non sempre, com’è ovvio) stilisticamente. Al punto che mi sembrerebbe un vero peccato non provare a valorizzare una prosa così “vibrata”.
Sulla quale, perciò, ho cercato di usare una delicatezza parsimoniosa, rispettandone molto di più la qualità che la quantità. Insomma, sono intervenuto meno parcamente soltanto per eliminare certe ripetizioni troppo vicine, correggere qualche svista, aggiungere una parola chiarificatrice, sciogliere qualche nodo sintattico troppo sofisticato, o soltanto oscuro. Beninteso, la misura della “manipolazione” varia a seconda delle pagine: nei quaderni ve ne sono di già corrette e pronte per l’eventuale stampa; ma anche del tipo opposto: semplici appunti frettolosi, abbozzi di dialoghi, canovacci di narrazioni mai compiute, schizzi veloci, notazioni grezze, con qualche disinvoltura linguistica tipica. Sono le pagine prevalenti, e danno quel senso di provvisorio e di incompiuto che caratterizza l’insieme. Del resto, che altro può essere un vero diario? Quel che mi pare di dover ribadire è il valore letterario globale. Mi pare: ma quanto può pesare questo parere nel mercato competente? Forse dovrei aggiungere Ai posteri...
Giudizio, dunque, forse incauto. Comunque, soltanto personale. Provare per credere? Ma ognuno prova e sente come gli ditta dentro compare Dna e relativa acculturazione dipendente. Così, almeno, direbbe l’amico del diario. Per onorare il quale al massimo delle mie capacità, ho deciso di lasciare, dove c’è e finché si conserva, la forma diaristica (spesso così occasionale). E che altro potevo fare? L’idea sola della fatica immane implicita in una diversa soluzione mi fa tremare le vene e i polsi. Neanche lo scrivente è un mostro di energia e tenacia. Tanto vero, che la presente premessa viene scritta quando il lavoro, già a buon punto, bensì, resta, tuttavia, a “notevole” distanza dalla conclusione bloccata. Quale distanza? Ah, saperlo! Ma saperlo vorrebbe dire essere oltre le insidie ricorrenti dello scoramento astenico. Che vedrai non capère in questi giri
A me non resta, intanto, che augurarmi (anzi, augurare al mio amico) buoni lettori. Ma, già: a me o al mio amico? A entrambi, direbbe il testimone imparziale: il “romanzo”, non appartiene a entrambi? A pari merito? Forse. Ma forse no. Come misurare le percentuali spettanti all’uno o all’altro? Nel dubbio, non sarebbe opportuno, ingrediens nel non casto mondo dei lettori (ingenui e scaltri) celarsi sotto uno pseudonimo? Ci penseremo. Intanto, chiudiamo la catena dei forse.
*
Ps. Calma, lettore scaltro. Lo so che l’espediente del manoscritto è vecchio quanto il cucco: che sia trovato a Saragozza o tra polverose cartacce secentesche d’archivio; che sia “di un prigioniero” o mandato da un mezzo finto ignoto per pacco postale. Né io sono disposto a smentire o confessare, precisare e illuminare. Ti dico soltanto che la vita, a volte, è, pirandellianamente, più incredibile della realtà. E con ciò, amen. E buona lettura.
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Ps. Bis. Ho riletto questa premessa (o introduzione?) mesi dopo averla scritta. E dopo cento interruzioni: più o meno lunghe, più o meno motivate, ma quasi sempre infette di ricorrente sfiducia nelle virtù del nostro mondo letterario. Virtù etiche, di onestà intellettuale e non preconcetta equità. Ed estetiche, disperse, come si presentano, fra divergenti indirizzi (?) teorici, e soprattutto incollate alle dominanti ragioni del business editoriale. Che cosa vuol dire, poi, “nostro”? Soltanto italiano, o anche europeo, o dell’intero celebrato Occidente? Scegli pure liberamente, ipocrita lettore (con quel che segue). Scrivere solo per aggiungere carta alla carta, inedito a inediti, velleità a velleità? Grosso problema.. Ma siccome ne conosco di più grossi, lasciamolo lì. Insoluto e abbandonato. Alla peggio, sarà (il futuro allude all’ancora incompleta “stesura” del totale) l’ennesimo manoscritto (anzi, manoscritto sul manoscritto). Il fatto che si tratti, qui, di video-scrittura non cambia nulla della sostanza (almeno, si spera. Ma poi chissà).
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Ps 3. Ho ancora riletto il (presunto) Preambolo. Dopo molti mesi dal secondo post scriptum. Incredibile? Macché: coerente con quanto sopra esposto e squadernato. E, nella rilettura, si capisce, qualcosa è volato via, altro si è aggiunto, o sostituito al cassato. Non senza echi sottesi a contingenze, letterarie e no, influenti in un modo o nell’opposto sul work in progress sempre appeso a un filo (a un fragile filo). E immerso, più che mai, nelle nebbie del possibilismo kierkegardiano e musiliano. Preambolo in progress, insomma.
A proposito della comproprietà problematica e del nomen auctoris nell’ultima pagina scritta dell’agenda-diario 200… l’ignoto mezzo-rivelato mi suggerisce di usare, intanto, uno pseudonimo. Poi si vedrà..
Naturalmente, ora so chi ha mandato il malloppo. Non era difficile, leggendo i diari, isolare fra i pochissimi possibili, l’autore vero. Si chiama Paolo Assaggi.

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mercoledì 5 novembre 2008

GINO RAYA, A VENT’ANNI DALLA MORTE


Il 2 dic. 1987 Gino Raya lasciava questo discutibile mondo: un infarto perentorio ne aveva stroncato la pur solida fibra. Particolare non trascurabile, l’evento funesto capitava alla fermata di un bus, sulla strada, nel buio d’una gelida sera della Roma congesta di anonima folla, l’aria affocata negli odiatissimi veleni del traffico. La morte confermava, così, quella solitudine che aveva segnato la sua vita di studioso. Supplemento di conferma, Raya tornava, solo (a ottantun anni e mezzo), da una conferenza culturale.
“Oltre il rogo non vive ira nemica”, si diceva una volta; e Benedetto Croce citava la sentenza a suggello della sua teoria della Storia come pensiero e come azione. La Storia in fieri, in quanto azione, “giudica e manda”, combatte e condanna; ma come pensiero, cioè storiografia, non giudica, giustifica. Vale a dire, spiega (dispiegando ragioni). La dottrina si applica anche ai protagonisti della cultura? Certamente. Ma la pratica è altra cosa: quale, per esempio, si presenta nel nostro caso. No, a Gino Raya la massima non è stata applicata. Nei vent’anni dalla morte, nessun segno di corale attenzione è venuto dal mondo culturale”: né da quello accademico né dal giornalistico. Solo pochi amici ne hanno risvegliata la memoria in occasione del decennale: ma privatamente, lontano dal moltiplicatore mediatico. Il mondo ha continuato a ignorarlo. Gino Raya rimane un autore vitando, un maudit: l’“ira nemica” continua a vivere oltre il rogo. Espressione (tra l’altro) da prendersi quasi alla lettera, essendo stato, il corpo, cremato, per sua coerente volontà testamentaria di materialista convinto. Quasi un estremo gesto di rivolta contro il plurimo “disordine” etico-culturale, che quel divergente genetico aveva largamente contestato con un’indipendenza di giudizio gelosamente difesa perfino dentro la giovanile militanza crociana. Nonché usata, spesso e volentieri, con asprezza sferzante, specialmente contro i palloni gonfiati delle diverse categorie: letterati, scrittori, critici, pensatori, politici.
Varia e copiosa, perciò, la schiera dei nemici presi di mira dalla frusta rayana. Che talvolta è sottilmente ironica e tagliente non meno della barettiana, altre volte alquanto umorale. Non c’è dubbio: faceva ben poco per farsi “accettare”. Diceva, il fiero Pertini, che l’uomo di carattere ha sempre un brutto carattere: è proprio il caso del nostro amico e compianto maestro. Qui, brutto significa, essenzialmente, fiero, coerente, poco incline alla tolleranza pelosa (o magari soltanto pietosa). E basta, questo stigma caratteriale, a legittimare l’ottusa ostilità dei suoi persecutori? Ottusa, perché largamente preconcetta e personalistica; e perché consumata, in prevalenza, con la più miserabile delle armi: la “congiura del silenzio”. Anche ipocrita, quell’ostracismo, visto che degli studi verghiani del Nostro si servono tutti: e questo è il solo caso che costringa gli utilizzatori a citarne il nome. Non mancano, però, esempi di vero e proprio furto: ci si appropria di suoi giudizi critici su questo o quell’autore o evento culturale senza citarne la fonte. Un furto che il collerico saccheggiato in qualche caso denunciò con l’accusa di plagio.
Lo si è anche accusato di atteggiarsi a martire, e forse c’è stata una certa enfatizzazione del ruolo: ma questo, il poco gradevole ruolo, gli era stato imposto, e anno dopo anno confermato, vieppiù intossicandolo. Un circolo vizioso: più Raya approfondiva la sua divergenza (di critico e pensatore) e più crescevano ripulse e silenzi. Ma anche: più montavano questi chocs en retour più si inaspriva l’animo ulcerato dello scomunicato vitando. Il movimento ricalca, in piccolo, il feed back positivo della cibernetica: l’effetto retro-agisce sulla causa intensificandone la forza, e questo incremento causale rifluisce sugli effetti amplificandoli. E’ quanto accade nelle valanghe o negli incendi. Se si pensa che la chemio-dinamica dei fenomeni biologici si basa sul prevalere del feed back negativo (l’effetto retro-agisce sulla causa depotenziandola) a salvaguardia degli equilibri vitali, si può capire come e quanto la salute psico-fisica di un perseguitato di acuta sensibilità debba soffrire. Magari fino a certe esplosioni di narcisismo reattivo poco congruenti con la sobrietà del carattere (allergico all’enfasi e ai facili elogi). O fino ai saltuari dubbi insensati sugli amici più veri e devoti, a certi sprechi di spazio della sua rivista per inutili foto-riproduzioni di lettere verghiane. Legati, questi sprechi, a un sintomo ancora più allarmante: il masochismo da ritorsione, che lo induceva a rifiutare per la sua rivista testi validissimi di qualche devoto allergico a sue richieste di facili libelli d’ispirazione famista,
Ma con tutti i suoi limiti caratteriali egli mi appare ancora un Gulliver fra lillipuziani nel confronto con la media attuale e tardo-storica (l’ultimo mezzo secolo o più) dei baroni in cattedra e degli operatori culturali in genere. E sia detto non per negare valori eminenti fra quei “baroni” e fra questi “operatori”, ma per relegarne l’eminenza dentro i perimetri dell’acquisito e del consolidato. Come dire: quei valentuomini sono bensì gremiti di erudizione e capaci di spostare qualche tassello e virgola del contesto metodologico ereditato (crocianesimo, marxismo, strutturalismo, decostruzionismo,…) e nell’area critica di questo o quell’argomento; ma dove cercare, in quel folto di prevalenti carrieristi schierati, l’idea nuova, la proposta che ti fa saltare dalla sedia o cattedra che sia? Dove, il dissenso radicale e ben motivato dai “valori” correnti, nel nome di una meno pigra e più controllabile scienza del mondo umano che quei valori ridefinisca e ridimensioni? Anni fa un “consulto” di cattedratici del nostro ateneo si chiedeva quale novità reale, e insomma rivoluzionaria, si fosse verificata in quella cittadella del sapere (anzi Sapere): guardandosi in faccia quei valentuomini furono costretti a riconoscere che la novità stava tutta e soltanto nelle scandalose teorie rayane: famismo e conseguente critica fisiologica. E qui un marziano, immune dai meriti terrestri, si figurerebbe che da quel riconoscimento il destino del Raya abbia galoppato in trionfale corsa di contrito risarcimento. Ma noi siamo sul pianeta Terra.
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Per non millantare un copyright che non ci compete, riveliamo subito che quei marziani spettano alla scrittrice Pina Ballario, la quale, quaranta e più anni fa, scrisse questa scherzosa iperbole: “Gino Raya sarà, come Vico, apprezzato fra cento anni, dopo la epurazione fatta dai Marziani sulla terra. Non so perché si temono gli omini verdi dei dischi volanti. Io e gli amici miei sparsi un po’ in ogni parte del mondo li aspettiamo. E renderanno giustizia a Gino Raya” (“Gazzetta di Novara”, 23. 02, 1963)
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Si potrebbe persino chiedere dove stia l’eccellenza espressiva degli eminenti, baroni di cattedra e big della libera prosa, inventiva o giornalistica, tanto rari sono i veri campioni di stile: conosciamo fior di “emeriti” che “non sanno scrivere”. Vale a dire che sono capaci al più di una prosetta ammodino, ampollosa o asfittica, dove la correttezza sintattica resta confinata all’aspetto grammaticale, senza sfiorare quella più vera sintassi che è “monoblocco” di pensiero-passione profondo e fulgido stile di stretta fitness. Una sintesi che vuole estro, arguzia, ritmo sequenziale, originalità di immagini e agilità comunicativa (fuggendo come la peste le lungaggini le cacofonie e l’ingorgo ipotattico). Ebbene, questo binomio raro, sostanza ed eleganza, Raya lo realizzava in ogni suo scritto (e sia pure con l’inevitabile “più o meno” di ogni prova umana nel tempo); gli altri, quando sono al top, si fermano a rapsodici decori e calchi “brillanti”. Il prosatore Raya (sia critico che narratore) fa pensare, tra l’altro, alla “regola” di Ivo Andric: “una parola superflua non dovrebbe mai essere pronunciata”, e proprio perché “nulla più della lingua induce allo spreco e al peccato”. L’autore più lontano da siffatti sprechi e “peccati”: ecco il prosatore Raya. Una qualità che gli veniva riconosciuta dalle poche celebrità oneste e non prevenute. Parlando della rivista Narrativa (fondata dal Raya nel 1956, trasformata, nel 1966, in Biologia culturale), Maria Bellonci scriveva: “Pubblica racconti e scritti critici dove non una parola sia superflua o convenzionale o bugiarda, e dimostra […] l’assoluta coincidenza fra arte e morale” (Il Giorno, 26. 04. 1960). E Antonio Aniante, a sua volta, coglie nello stile rayano l’elegante sintassi qui segnalata, attribuendola “a una forte carica culturale, aggressiva, sadica, immaginosa”, declinabile in questi termini: “La carica culturale utilizza gli strumenti volta a volta più idonei, dalla scienza alla cronaca nera. La carica aggressiva spiega la schiettezza e la densità del dettato, che punta al suo tema senza preamboli complimenti mezzi termini in genere. Nel processo aggressivo-polemico si dispiegano due fenomeni: quello sadico e quello umoristico; entrambi connessi al senso del ritmo. Solo che il ritmo del sadico corrisponde ad un certo compiacimento impietoso, e il ritmo dell’umorista corregge la crudeltà del sadico dirottandola nell’arguzia o nella risata” (Antonio Aniante, Il famismo, Milano, Pan editrice 1977). Non ci vengono in mente che due soli nomi di scrittori paragonabili al Raya: Concetto Marchesi e Gesualdo Bufalino. In modi diversi, ma ugualmente eccellenti, ti deliziano con la loro arguzia, fantasia, discreta ma schietta sensualità, audacia traslativa, laica profondità di pensiero, ironia dissacrante e commossa saggezza. La loro prosa te la senti quasi in bocca, come una leccornia che seduce il palato. E sia detto senza nulla togliere alle buone scritture del nostro panorama letterario novecentesco.
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Il titolo di Aniante ci riporta al maggiore contributo di pensiero osato dal Raya. Il quale, all’alba dei suoi cinquant’anni, comincia a sviluppare quella estrema reductio ad corpus che è la dottrina famista o biologia culturale. Testo fondamentale, La fame. Filosofia senza maiuscole (Padova, 1961, con prefazione di Luigi Volpicelli. 3a ed., Roma, 1974). Libro spregiudicato e geniale, che, risalendo, secondo un aggiornato metodo vichiano (“Natura di cose è nascimento di esse…”), la vicenda filogenetica, trova nell’innesco metabolico della primordiale chimica organica l’origine e la sostanza costante della vita nella sua infinita fenomenologia. Siffatta impostazione porta a includere in quell’unica matrice l’uomo intero, “dalla testa al calcagno” (come recita una celebre formula). Dunque, anche l’intera gamma dei fenomeni mentali e cosiddetti spirituali, con totale ripudio della millenaria interpretazione dualistica o platonizzante. Un itinerario, insomma, dove ogni parametro antropico specifico (razionalità, affettività, cultura, religione. arte…) viene letto come sviluppo fisiologico del corpo nelle sue strutture “nobili” (cervello, ecc.) e accostato ad analoghe e più elementari funzioni del mondo animale. Il punto focale dell’homo novus famista sta nell’unicità del primum movens di ogni sua azione, di muscoli o di pensiero. Il benservito spetta alla ragione come categoria metafisica e presunta motrice di pensieri “spassionati”, di teoresi libera dalle emozioni. Il famismo dice: nessuna azione o respiro senza il movente passionale, che ricondotto alla sua radice basale, è sempre una modalità della pulsione fagica, un appetito. L’unica razionalità possibile sta nell’autodisciplina tecnica della passione-appetito, che può rivolgersi a una pagnotta come a un libro, a un corpo o a un cuore, e cioè secondo una sterminata gamma di trasposizioni. In ognuna delle quale affiora la originaria bivalenza del rapporto fagico: gradire o rifiutare. Di qui la visione antropofagica dell’eros. Quella spinta originaria non può non agire in ogni emozione. La normalità del freno anti-incorporazione nell’amore non deve cancellare la ricorrente prova tragica del delitto passionale come metafora dell’ingestione; né i casi di regressione cannibalica verso il corpo bramato. In questa severa reductio biotrofica l’arte non può essere che danza, ossia mimesi ritmica dell’atto fagico comunque trasposto (dislocato, sublimato o mascherato).
All’uscita del libro era facile prevedere quanto si è puntualmente verificato: salvo pochissime, nobili eccezioni, il resto sono reazioni di indignato raccapriccio presso le anime timorate (ivi compresi i grandi Tartufi dotti e cattolici); di superciliose ironie nei campioni dell’accademia sedicente laica (così tributaria, in rebus, della secolare tradizione metafisico-religiosa: anche quando si autocertifica materialistica). Troppo sconvolgente, la Weltanshauung rayana, per la varia pigrizia mentale dell’intellighentsia maggioritaria, non solo italiana, ma planetaria. La quale risponde riconfermando ad augendum quei valori assolutizzati che Raya chiama maiuscole (per l’iniziale un tempo d’obbligo nei relativi lessemi). E che, purtroppo, stanno dimostrando una vitalità tetragona ai colpi dell’evidenza, moltiplicando l’orrore del mondo con le quotidiane stragi del terrorismo islamico e dell’altrettanto criminale stragismo indiscriminato dei cosiddetti Paesi civili e democratici, come gli Usa e certi loro satelliti. Che in entrambi i casi la catalisi religiosa operante nelle diverse forme del fanatismo strumentale sia evidente nel suo aspetto più cinico e catastrofico non turba i sogni del quietismo mammonico ammantato di sonanti ideali. La voce del fantasma rayano, così chiara e forte contro le maiuscole potenzialmente assassine, continua a gridare nel deserto.
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Questo è l’uomo cui si continua a far torto anche da cenere. Gli universitari, quando gli proponi di fare qualcosa per ricordarlo, si defilano. Qualcuno perfino “scusandosi col dir non lo conosco”. Ma non è solo il mondo accademico a recitare de Raya il poco gagliardo ruolo delle tre scimmiette (“non vedo non sento non parlo”): il variegato e altrettanto discutibile universo giornalistico non è da meno. Anzi. Giornali che il Defunto onorò per decenni si guardano bene dall’onorarne le ricorrenze. Tra questi spicca per assenza ribalda La Sicilia, che Raya illustrò per oltre mezzo secolo con i suoi eleganti elzeviri e “Servizi speciali” (da anniversari celebri: veri densi saggi critici).
Ma i responsabili del quotidiano hanno fatto di peggio. Alla notizia della morte, mi si chiese il classico coccodrillo (ero il seguace più in, e collaboravo, come tale, a quelle pagine culturali dal 1974). Lo scrissi, contenendolo nelle nuove misure imposte dalla rinnovata redazione culturale. Lo portai, come al solito, ignorando che lo stavo mandando al macello. L’articolo fu squartato: un pezzettino-civetta in prima pagina, il “servizio”, sfigurato da tagli infelici, a pg.24, tra il vario ciarpame dell’Attualità. Eppure era uno schietto pezzo da terza pagina. La piccola infamia suscitò indignazione tra amici conoscenti alunni del mio liceo: tra questi, una animosa fanciulla (Mariagrazia Finocchiaro) scrisse una vibrata lettera di protesta al giornale, che, con “piacevole sorpresa” dell’autrice, la pubblicò (18. XII. 1987, “La parola ai lettori”; titolo La biografia di Gino Raya): unica, inattesa, goccia di gratificazione pubblica (o piuttosto di risarcimento) in quel mini-evento di ordinaria cialtroneria. Ancora mi chiedo come mai sia stata pubblicata la lettera. E per opera di chi. Qualcuno, in quel cafàrnao di nuovi Soloni e grilli parlanti, dovette accorgersi che la si era fatta grossa: non s’erano offese soltanto due qualificate firme del giornale, ma lo stesso quotidiano, sfregiato da quel sezionamento imbecille. Altra inevitabile domanda: in quale sacco gastrico ribolliva l’incomprensibile odio verso il binomio così seviziato?
E il suo paese natale, la sua piccola patria, Mineo, che tanto giusto onore tributa al grande Capuana (Monumento in piazza, fondazione, vie, ecc)? Cos’ha fatto per quest’altro suo figlio? Nulla, che io sappia: neppure, forse, intitolarne una via, una piazza, un vicolo. Non ci è capitato di vederne, nei nostri due approdi a quella attraente meta natalizia. Si vedono, bensì, i libri del Raya che si occupano di Don Lisi, tra le mille pubblicazioni esposte nel palazzo di famiglia; ma tutto finisce lì. Chi dicesse a quei distratti amministratori che per valore culturale e genialità Raya è molto più alto del maestoso monumento del pur bravo narratore e critico e professore e folklorista e burlone fotografo ex sindaco don Luigi, li farebbe sorridere di ironia e compassione. Diremo, “Ai posteri”? Ma quali? Quando? Risuonano le dolenti note del Leopardi che fantastica del Parini, o della gloria. Egli, però, l’Infelice di Recanati, da cenere, di gloria ne ha avuta da riempire il pianeta e i secoli. Raya si deve accontentare di una dispersa presenza in rete (in vari siti è possibile trovare i suoi libri), dove lo studioso italianista (e dantista in particolare) nel suo sito internet Literary gli rende giustizia inserendolo fra i suoi densi Profili letterari siciliani dei secoli XVIII-XX (in cui ospita perfino il modesto sottoscritto). Gli siano rese grazie: non è quanto spetterebbe all’Ostracizzato, ma il poco è sempre meglio del niente. Al relativamente poco dell’infaticabile Ciccia è doveroso aggiungere il nome di Paolo Anelli, precoce autore di un vibrante pamphlet sul “Caso Raya”: Il silenzio delle farfalle infilzate. Sottotitolo: “La danza della vendetta di Gino Raya” (Firenze, Atheneum, 1991). Una testimonianza che è sempre un piacere rileggere. Intanto chi avrebbe pronti, da anni, un paio di robusti saggi, non può pubblicarli: la pensione di prof. di filosofia nei licei non consiglia consistenti spese extra-domestiche. Quanto alla famiglia del Rimpianto, opaco silenzio sull’argomento.

Lettera al "Corriere" sulla tortura

Com’è strana la vita, a volte: chi avrebbe detto che le idee disinvolte di un rude generale dell’OAS potessero coincidere con quelle di un raffinato politologo d’accademia: era stato quel generale, infatti, a sostenere la liceità della tortura durante “La battaglia di Algeri” (per dirla con un celebre film). Al prof. Panebianco ha già opposto corrette obbiezioni il prof. Magris; ve ne aggiungiamo ancora un paio. Ha considerato, Panebianco, il rischio che il suo “compromesso necessario” possa riuscire una facile strada in discesa per ogni tipo di abuso? Un allarme-attentati qualsiasi, anche fasullo (o autopromozionale) potrebbe scatenare sequestri illegali e torture a gogò. E non lo sfiora il vecchio “dubbio” di Cesare Beccarla sulla efficacia di quello “strumento” de veritate pretenda? Un uomo sotto tortura spesso ammette colpe inesistenti e tutto quanto cerca il seviziatore pur di far cessare il supplizio. La storia (degli umani orrori) trabocca di simili casi: quante infelici innocenti confessarono di essere streghe al tempo beato di quella caccia, quanti ignari “passanti” si dissero untori nell’altra Storia felice della Colonna infame?
E chi ci darà mai la truce aritmetica delle confessioni stile Guantanamo, Abu Grahib e relativi cloni sparsi, a pagamento, ai quattro angoli del pianeta?

LETTERA DI GINO RAYA

Proseguiamo con la pubblicazione rapsodica del Raya epistolografo quoad nos. La lettera che offriamo oggi alla curiosità culturale dei nostri tre lettori è un buon test della mobilità di quel rapporto: mobilità intellettuale, ma anche pratico-conomiuca, di metodo editoriale, di polemica culturale. Il tutto, si capisce, su uno sfondo di solida amicizia, capace di reggere e metabolizzare dissensi e bronci da una parte e dall’altra. Sfrigolii, insomma, cui, come si vedrà, non manca spesso il pimento della battuta ridevole e dell’arguzia stemperante. Ne concreteremo esempi nel commento al testo epistolare. Che andiamo a trascrivere.

Roma, 23 apr. 1980 (1) o conto corrente?
Signor Padrino,
ricevo or ora la tua del 20, cosa rapidissima, mentre non ho visto il vaglia (1) di cui mi parli (ogni volta che ho ricevuto qualcosa del genere te ne ho dato pronta comunicazione). Poiché esco poco o nulla, ti scrivo in fretta perché spero in una visita, cui accollare l’incarico della presente racc. Racc. perché vi accludo l’assegno dei 500.000 (il maschile non sottintende i “liri” verghiani), perché pacta sunt non solo servanda, ma – per mia inguaribile mania – servanda illico et immediate.
Ti ringrazio delle note sulla Alienazione (ho trovato l’art. bell’ e dattiloscritto tra mie vecchie carte); quando vi tornerò su, cercherò di decifrare meglio la tua frettolosa grafia.
Il “piombo in piedi” non mi è fatto pagare dal tipografo; sì, salato, tutto il resto; perciò anche un minimo di risparmio ha la sua importanza (ma di questi argomenti io non parlo con nessuno perché il pudore della – sia pure relativa – povertà me lo vieta). Il tuo suggerimento, come sempre, è tuttavia gradito, sia che mi sia possibile tenerne conto, sia che no. Quando, però, questo suggerimento diventa insistente e tonante, come nel caso delle lettere liciniane e simili, devi pure rassegnarti ad essere chiamato Padrino.
“Tace sui miei artt. … Segno” ecc. Illazione arbitraria: li ho messi da parte perché non era ancora il momento di leggerli con la dovuta attenzione ecc. Possibile che anche tu non abbia per conto tuo una certa economia di tempo, di lavoro? Ti confesso, purtroppo, che – a parte il centenario scaduto – il dattiloscritto su Andreev lo credevo ugualissimo all’art. sulla “Sicilia”. De quo ti dissi una volta (suscitando il tuo improvviso ed emotivo disdegno) che uno scritto può essere “ottimo” per un giornale e non idoneo per una rivista cosiddetta scientifica.
De Burdinio, credi pure che la sua missiva non ha influito per nulla, sia perché la conoscevo prima di leggerla attraverso una ideale “scheda fisiologica” del medesimo, sia per la santità del segreto confessionale, che in me non ha mai fatto una grinza. /Ti ringrazio del volume capuaniano, che mia figlia tiene ancora a casa sua; ti prego di compensarne la spesa alla prima occasione.
Aff.te al “Don dei Do” s tutto rovescio
[Chiude scarabocchio che sta per] Gino Raya
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Commentino lacunoso. L’accenno ai miei suggerimenti e al relativo disappunto dinanzi alle ostinazioni del Raya direttore e padrone della rivista trimestrale Biologia culturale (già Narrativa nel decennio 1956-66) spiega lo scherzo del “Signor Padrino” iniziale e del “ ‘Don dei Don’ ” a tutto rovescio” del commiato. In fattispecie, il mio fastidio per le diecine di pagine della rivista dedicate alla riproduzione di lettere spesso di scarso significato culturale o fisiologico, dunque per me sciupate (salvo eccezioni). Non vale la pena di commentare lo scrupolo contabile dell’impeccabile “ragioniere”. Pretendere che io compensassi la spesa per il volume capuaniano (di cui non ricordo la natura) regalatogli e inviato tramite la figlia Nata era un po’ troppo per la mia fobia “tircheriale”. Non inquadro bene nemmeno la presenza del vaglia o contro corrente e dell’assegno di lire 500.000. La più alta probabilità è che sia tratti, nel primo caso, di un contributo al sostentamento dello scrittore Antonio Aniante, in gravi difficoltà economiche, e nel secondo di un rimborso per un anticipo di spesa in conto Raya. L’“obolo” (come scherzosamente lo si chiamava tra noi amici) per il vecchio Aniante veniva realizzato tramite la vendita di volumi rayani ai miei studenti, a prezzi ridotti e con piena libertà di adesione o dissenso. Devo dire che nessuno tra i miei studenti, maschi e femmine, rifiutò mai di acquistare questo o quel libro di Raya. E spesso più di uno. Le somme raccolte venivano spedite (per vaglia postale, per lo più) a Raya perché le inoltrasse all’amico di una vita. A volte incaricavo una delle ragazze o uno dei ragazzi di “fare il vaglia”. Ma anche se lo facevo io, una o più fotocopie delle ricevute venivano affidate a qualcuno di loro: per mia tranquillità verso le famiglie (che non avevano l’obbligo di conoscermi come mi conoscevano gli alunni). Naturalmente, alle somme ricavate dalla vendita agli studenti del mio corso si aggiungeva il mio personale contributo diretto, sempre mediato dall’acquisto dei testi rayani a prezzi di…liquidazione (ne conservo ancora tante copie, in attesa di poterle regalare ai pochissimi amici residuati dalla guerra di Crono). Il cenno ai “liri” verghiani allude alle distrazioni epistolari del Verga, che a volte faceva frettolose concordanze alla siciliana. Il tema alienazione interessò uno scambio di richieste sue e contributi miei: a quel tempo era ancora attuale. Andreev: il riferiemto è a un mio “servizio speciale” apparso sulla Sicilia il 19 novembre del 1979, in occasione del centenario della morte, col titolo Un tuffo nel vuoto universale. Io avevo dilatato il pur ampio testo “siciliano” (sei colonne dell’intera pagina) per una eventuale destinazione biologico-culturale: Raya aveva creduto che il dattiloscritto inviatogli ripetesse integralmente solo il testo della Sicilia. Il “de Burdinio” allude allo scrittorte, e mio amico, Francesco Burdin, del quale recensivo questo o quel romanzo sul quotidiano catanese e altrove. Si coglie nel cenno rayano un sospiro di diffidenza per certa letteratura narrativa. La “scheda fisiologica” era un metodo nuovo di fare critica: non solo nella sostanza argomentativa, ma perfino nella distribuzione visiva della valutazione plurale che quel metodo imponeva: diverse colonne intitolate ai vari aspetti della personalità in esame. Per esempio: Corpo, Cultura, Arte, Stile.

Lettera a Scalfari su Croce


Egregio Scalfari,
accolga con pazienza un piccolo bouquet di postille al suo ultimo “Vetro soffiato” Tre belle sorprese rileggendo Croce (07. 09. 06). 1.“Croce è stato tra i pochissimi filosofi che hanno espulso la metafisica dalla filosofia […] La posizione antimetafisica ha costituito il nerbo del pensiero crociano”. Mi pare che Lei faccia confusione tra assoluto e trascendenza: l’aggiustamento crociano dell’hegelismo (con la “ragioneria” dei distinti e conseguenti) non lo fa certo uscire dall’idealismo classico, e questo non è che il molteplice tentativo di immanentizzare l’Assoluto (tentativo, peraltro, variamente rinnegato, invecchiando, dai suoi concorrenti autori). Chi bazzica con l’Assoluto resta un metafisico della più bell’acqua. Controprova, i miti spacciati per laicissimi concetti mentre non sono che mere postulazioni del desiderio; spiritualismo assoluto, storicismo assoluto, e via celebrando. 2. I “pochissimi altri” filosofi indicati da Lei come campioni di anti-metafisica sono un mucchietto eterogeneo che richiede cernita e distinguo, ma nel suo insieme conferma l’equivoco di identificare assoluto e trascendenza (teologica: tecnicamente, la filosofia è ricca di altre trascendenze). Definire antimetafisici Bruno e Spinoza riporta all’equivoco. Lo stesso Nietzsche, vivisecteur implacabile di ogni trascendenza, non è immune da residui metafisici (il mito del Superuomo o Spirito libero, l’eterno ritorno, sono tracce metafisiche in un pensiero orientato sempre più verso la schietta realtà biologica). L’unico, del suo quartetto, a meritare il titolo di anti-metafisico può essere il grande Diderot, costruttore di un’idea integralmente biologica di homo sapiens (senza lasciarsi intimidire da quel sapiens al quadrato). Un altro possibile nome del suo “asterismo” (che però lei tace) è Leopardi . 3. E’ un titolo di merito avere “grande rispetto” per le religioni, questi catalizzatori amplificanti della distruttività umana responsabili dei peggiori massacri? Si può capire (non lodare) la psicologia religiosa (troppo incline al fanatismo, peraltro) dei “rozzi popoli che denno essere governati” (Bruno), ma avere “grande rispetto” per l’intellettuale credente (massime se filosofo) è un vero spreco. Perché non ricordare, invece, a questa specie di ossimoro carnale, che accettare la mitologia del dio onnipotente misericordioso ecc.dinanzi alla quotidiana strage di innocenti significa farsi complice di un orrore senza limiti? 4. La Storia come “storia della Libertà”: difficile sparare menzogna più tragica di questa maschera complice di quel carnaio immondo che la storia è da millenni e continua ad essere? 5. Dobbiamo occuparci anche dello stile crociano? Fluido, parco di tecnicismi, eccetera: ma come si fa a indicare un solo nome del Novecento degno di quel campione? Ne aggiungo solo due (ce ne sono altri): Concetto Marchesi e Gino Raya (quest’ultimo, maudit vitando per l’Accademia e la cultura dominante in genere). 6. Rilegga l’ultimo periodo del suo capoverso finale: in soli cinque righe Lei è riuscito a ficcare ben 5 (cinque) che pronome relativo: un primato di cacofonia. Ha voluto offrire un esempio di come non si deve scrivere? Non se la prenda: capita a noi anziani. Perciò dobbiamo rileggere e rileggere i nostri scritti prima di licenziarli.
Cordiali saluti
Pasquale Licciardello
p.s. Sono sempre nel suo libro nero?

UNA LETTERA DI GINO RAYA

Il Maestro proibito, alias prof. Gino Raya, segna uno dei suoi titoli di merito nella pubblicazione di lettere più o meno illustri: applicazione pratica di un radicato convincimento, che la conoscenza della produzione epistolare di un autore aiuti a meglio valutarne il corpus letterario alla luce del corpo (giusta i dettami della sua critica fisiologica). Detto altrimenti, e insomma nel linguaggio corrente, si tratta di relazionare temperamento e carattere dell’autore con la sua attività culturale (letteraria, filosofica, eccetera), in un gioco di rinvii fra corpus e corpo, fra scrittura e test epistolare. Si presuppone che nelle lettere l’autore si confessi meglio che nell’opera, riveli casi episodi dettagli biografici destinati a restare nascosti dietro le vetrine-maschere della produzione pubblica. L’epistolaro più largamente (e con maggiore attenzione critica) èdito dal Raya rimane quello del grande Verga (credo di non sbagliare se calcolo intorno all’80-85 % le lettere di Verga rese pubbliche dal Critico mineolo). Capita pure che un autore impegni il suo talento letterario in qualche lettera di maggiore interesse, magari in riferimento al peso culturale del destinatario.
Niente di più ovvio, dunque, che si tenti di applicare allo stesso Raya il suo “metodo”, pubblicando, di quando in quando, qualche sua lettera diretta al sottoscritto. Scelta, peraltro, non facile, data la mole dell’indotto epistolare sviluppatosi in un arco quasi trentennale di frequentazione collaborativa. Ma ecco la prima esemplificazione dell’impegno: una lettera densa, concreta e schietta (con spizzichi di arguzia), secondo lo stile letterario ed esistenziale del mittente.

Roma, 1-6-1980, ore 1980
Caro Don Pasquale, ti preparo il pacchettino nella speranzella di rifilarlo a Sessa, che verrà a votare. Io non voto, e oggi – con questa pioggia insistente, e rigurgiti invernali, e la melanconia di entrare nel mese del mio compleanno (o completo-anni?) – voterei, se mai, in maniera ch’è meglio tacere. Anche per non aumentare il peso a Sessa, sottraggo dal pacco di 20 “B.C”. quelle copie che posso sostituire col presente vol. più lettera. L’autrice mi fece una gran corte quando si stampava il libro; di qui la citazioine di noi due. Se credi di recensirlo, sii breve ed arguto.
Ho ricevuto la tua del 5 maggio e – da parte dell’ Eco d. stampa – i tuoi artt. su Stendhal e Abelardo; perciò ti restituisco lo Stendhal che tu, giustamente, desideri. Del Licciardello disegnatore non avevo idea né sospetto, e ne sono rimasto ammirato e sbalordito: lo Stendhal è magnifico. Il fatto che tu, poi, abbia accentuato l’incapacità “di impegni duraturi” e il “dilettantismo” di lui, ha certo dell’autoritratto, ma è sperabile che slitti nell’autocritica, la quale – nei limiti della genetica – potrebbe sempre sortire qualche effetto. Un segno di questo sarà (se sarà) il non incazzarti se io trovo ottimo un art. da giornale e non più ottimo lo stesso art. se destinato a una rivista (relativamente) . Altro segno, se m’inibirai ancora la lettura dei tuoi mss, vietando in anticipo ogni suggerimento.
L’ind .del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) è 4993 – Roma, piazzale Aldo Moro 7, ed è più indicato per chiedere sussidi documentando il ms prima della stampa. La Presid. del Cons. dei Ministri (a cui io non mi sono mai rivolto) premia, invece, i voll. già stampati, tra i quali una incredibile zavorra, certo per criteri troppo clientelari e arruffoni. Fa molto, costà, un certo Italo Borzi, di cui non so altro.
Ora, chiuso il pacco, lavorerò (sino alle 20, telegiornale; poi cena, per così dire, poi riposo; poi lavoro dalle 22,30 sino alle 24,45: così da qualche tempo) ad una biografia del Verga, cui sto dedicando un capitolo per ciascun anno della sua vita… Ne dovrebbero venir fuori oltre, ma proprio oltre, 1000 pagine, o le frazioni di quelle che l’autore ecc. Tante affettuosità a te e ai tuoi
Gino Raya

Poche postille chiarificatrici. Inutili, dove le parole abbreviate sono di ovvia integrazione-interpretazione, tipo: art. per articolo, voll, per volumi, ms/s. per manoscritto/i, e via. “B.C.” sta per Biologia Culturale, nome della rivista trimestrale, che Raya pubblicò per un decennio (1956-66) col nome di Narrativa e con l’altro (coerente con l’evoluzione del suo pensiero) fino alla morte (2 dic. 1987). Sessa è un comune amico e collega, cui Raya, quando capitava l’occasione, affidava, con maggior fiducia che alle patrie Poste, la trasmissione di “materiale pesante” a chi scrive. L’autrice cui si accenna è, quasi certamente, la prof. Maria Racioppi, poetessa e scrittrice. I miei due articoli ricordati apparvero sulla terza pagina del quotidiano catanese, La Sicilia, cui collaboravo dal 1974 (prevalentemente come operatore culturale, ma anche con pezzi di costume e critica sociale. Naturalmente, sia detto en passant, i testi stridenti con la vocazione catto-moderata del giornale venivano tacitamente “archiviati”). I disegni cui Raya accenna “ammirato e sbalordito” (aggettivazione rara, in quello stitico elogiatore!) sono i ritratti a penna dello scrittore Stendhal e del filosofo Abelardo: erano i primi che accompagnassero i miei “servizi speciali” della terza pagina (di solito, sei colonne per l’intera altezza). La mia discreta attitudine figurativa (feconda di esiti operativi nell’infanzia-adolescenza), delusa dalla totalizzante scelta “scritturale”, decise, un bel momento, di consolarsi disegnando, a volte, gli autori trattati nei miei “servizi”. Nel rilievo che io accordo alla “pigrizia” di Stendhal verso gli impegni di lungo corso e al suo “dilettantismo” Raya vede un tratto di indiretta confessione autobiografica, alludendo a certa mia incapacità (e un po’ anche allo scarso seguito che io davo ai suoi inviti a scrivere volumetti tipo i suoi L’arte come danza, e simili). E si/mi augura che io mi sforzi di guarire, almeno un poco, da quella tara (“nei limiti della genetica”; che però non perdona!). La biografia verghiana venne pubblicata a puntate su B. C. finché Raya visse, fu edita in volume, dopo la sua morte, dall’editrice Herder, a cura del comune amico e insigne latinista Antonio Mazzarino (Gino Raya, Vita di Giovanni Verga, Roma, 1990, pp.722).