martedì 27 luglio 2010

SUSANNA, Frammento finale


Tra i timori di Paolo c'era quello "dell'ultima ora": egli temeva i "corvi dell'ultima ora". Quanto danno avevano fatto, nei secoli, questi falsi zelatori del Bene, alla reputazione di onesti atei. Anche al suo letto estremo sarebbero venuti, certamente. Non aveva, egli, a supremo scorno, allevato pure dei preti fra i suoi studenti del liceo classico di Realpolia? Ragazzi già segnati, con solchi profondi nella "carne dell'anima", da un imprinting familistico di lungo corso. Giovani irrecuperabili, diceva con amarezza. La sua pedagogia rimbalzava impotente contro corazze di condizionamenti refrattari ad ogni pressione della realtà, della verità, della decenza. Dio avrebbe chiarito il doloroso mistero di tanta sofferenza sparsa nel mondo, avrebbe reso accettabile, dopo la lunga attesa della luce chiarificatrice, perfino lo scandalo del supplizio degli innocenti assoluti, quei pargoli che Gesù rivendicava per la sua Parola di salvezza e Dio, quel loro dio supersadico, lasciava alla bestialità stupratrice e seviziatrice di homo necans fatto "a sua immagine e somiglianza". Sì, gli capitava ancora, vecchio e ben fornito di acciacchi, di scaldarsi su questo "scandalo infinito": del macello quotidiano dei bambini e del credere ciò malgrado. E non gli era concesso altro, al meglio delle scempie risposte, che gli scalcinati pseudo-argomenti del levita di Coelho.
I tre casi più coinvolgenti erano incarnati in tre giovani diversissimi l'uno dall'altro, eppure solidali nella "scelta sciagurata" (parola di Paolo) di servire la Grande Menzogna. Il più giovane era un corpulento ragazzotto "nato prete" ? come Paolo gli diceva, motteggiando, nei momenti di relax. Quale forza assoluta spingeva un figlio unico, osteggiato dai genitori, che avrebbero gradito dei nipotini piuttosto che ostie e sermoni ? ad essere così determinato? In realtà la madre, che aveva rischiato di perderlo in una gravidanza travagliata, aveva promesso al buondio che non si sarebbe opposta, se il ragazzo fosse nato e vissuto normale, a un'eventuale "chiamata dal Cielo". Perciò la sua opposizione era una recita di finta solidarietà col marito, che lo voleva sposato e genitore. Ma i preti dell'Azione Cattolica avevano lavorato bene, e su un materiale nativamente plasmabile. O che non raccontava alla madre che certe compagne di scuola lo insidiavano, ma invano poiché "Gesu era più forte di loro"? E Paolo un po' sorrideva, un po' ci si rodeva. Questo studente rifiutava ogni discussione, era privo di qualsiasi disposizione dialogica, e si chiudeva nella difesa più rozza: il ribaltamento puro e semplice, dunque insensato, delle obbiezioni altrui. Incluse quelle, pur così tranchant, del suo professore di filosofia. Meditava, Paolo, sulle "vie del Signore": quanto sono imprevedibili e tortuose, a volte. Nel caso in questione, erano state le gravidanze fallite precedenti quel pur travagliato parto.
Il secondo caso era un affilato cervello dialettico che reagiva alle spine del professore, e alla fine ribaltava le accuse col vecchio argomento che nessuno dispone della verità assoluta (un aggettivo repellente per Paolo). E si rifugiava nel formulismo paradossale, ritenuto di sicuro effetto: "la nostra è una disperata speranza". Bum. La sparata aveva pretese di ascendenze nobili: non risentiva delle sortite di quel campione del paradosso che risponde al nome di Severino Kierkegaard? E certamente si confortava anche alla precoce impudenza di Tertulliano: tardo emulo della sofistica più sbracata, il bel tomo sbandierava un "credo quia absurdum" che tagliava ogni possibilità di onesto discorrere. E quando Paolo gli ricordava che razza di strano "santo" fosse uno che allontanava i suoi fratelli in Cristo dai rudi spettacoli pagani con questo luccicante argomento: "Abbiate pazienza! Avrete spettacoli più ghiotti quando dal paradiso godrete dei dannati tormentati dai diavoili!".
Il terzo faceva ancora più rabbia a Paolo: era una specie di angelo carnale: biondo, occhi azzurri, capelli ondulati, figura snella ma solida, statura più alta che media: un vero bocconcino per le fanciulle della sua e delle altre classi del liceo, che infatti non lo ignoravano davvero (anzi, come diceva una sua collega di latino, "se lo leccavano con gli occhi"). Anche lui, fermo nell' "insano proposito", insensibile alle arti seduttorie delle accaldate girls, invano frementi fra banchi e palestre. Li aveva avuti come alunni per i tre anni del liceo classico il primo e il terzo (ora parroci entrambi, da non pochi anni), per due il secondo (che oggi ricopre un importante incarico in Vaticano). Nessuna meraviglia, invece, per un quarto caso: un mite figliuolo, incapace di concepire violenza, che ha scoperto la vocazione dopo la laurea in scienze naturali. Fa il parroco, ma la sua mitezza dà qualche problema allo spirito pragmatico della locale curia vescovile. Che però ha poco da scegliere: la crisi vocazionale è una realtà sempre più critica per la Santa Madre di molte ipocrisie e di qualche contingente buona pragmatica. Alla faccia delle adunate oceaniche sotto le finestre del papa e delle varie kermesse dei Papa boys.
Sia chiaro: non è che Paolo volesse distogliere quei ragazzi dalla loro fede e vocazione: avrebbe voluto soltanto risposte meno grezze, un possibilismo più ardito nello scottarsi alla fiamma delle molte, troppe evidenze contrarie alle mistificazioni liturgiche, agli orrori biblici, alla esosa, in gran parte orrenda e criminale storia della Chiesa reale.
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Un altro capitolo nella successione degli improbabili gratificò Paolo: fu candidato senatore nell'anno del Khaiman. La strepitosa vittoria-valanga del monstrum stramiliardario annientò la Sicania con un incredibile (incluso il ridicolo) boccone di tutti i seggi senatoriali disponibili nel maggioritario. Paolo aveva sempre rifutato proposte di candidatura: ma s'era trattato, prima di allora, soltanto di elezioni amministrative, comunali o provinciali. Ora i giovani del Partito Rivoluzionario Internazionale (PRI) del suo paese (in maggioranza suoi ex allievi al liceo classico realpoliese) avevano fatto il suo nome a un loro giovane deputato nazionale (già alla seconda legislatura) che stava cercando un rappresentante della cosiddetta società civile capace di convogliare voti sulla propria candidatura e dunque migliorare la situazione locale del Partito, non proprio brillante. Paolo trovava la cosa un po' stramba: a quell'età, non lontana dai settanta (anzi, vicinissima!), presentarsi a una campagna elettorale priva di realistiche possibilità di "vittoria" (strappare qualche seggio al Khaiman) per il piccolo partito che lo avrebbe presentato! Come altrimenti definire questa sfida "fuori tempo massimo" (come diceva lui)? Stramba quanto si voglia, era purtuttavia una tentazione forte: non aveva sempre desiderato, lui, un'occasione simile? Non aveva, anche nei suoi diari, lamentato l'assenza di una militanza politica "esposta" nella variegata stagionalità della sua vita sociale? Mi manca, soleva dire, l'esperienza dei comizi, il confronto con la folla, la massima sfida alla mia tendenziale timidezza di soggetto introverso. E invidiava amici e colleghi che l'avevano avuta, l'esperienza: sia pure per quelle competizioni locali che egli aveva sempre rifiutato. Per la verità, un paio erano state anche regionali, e di esse soltanto un caso era approdato al successo: con suo piacere, per la collocazione politica del collega, il fu Pci. Ne propiziava la stima di Paolo la chiara onestà e coerenza, l'intelligente preparazione culturale, la passione "umana" ben radicata. Insegnava le sue stesse materie, in una delle sezioni dello stesso liceo classico, nella vivace cittadina di Giarte, non lontana dal levante ionico, ricco di belle spiagge. Confermato dal partito, fece due legislature regionali complete, e subito dopo due sindacature quasi complete nella sua città. La quale non sfuggiva al prevalente destino delle comunità "sudiste", quasi tutte debitamente infestate dal cancro della combinata tripunte mafia-politica-mondo cattolico "deviato" (o poco attento alle insidie di Satana). Tanto più preziosa, perciò, la duplice vittoria del collega sostenuto da una pulita maggioranza di sinistra. Mi raccontava, il Tolano sindaco, le difficoltà varie che dovette affrontare. A lla fine, la sua onestà fu sconfitta dalla solita transumanza da un partito all'altro dei campioni del piccolo trasformismo affaristico. Di solito, la direzione di marcia portava al caravanserraglio del Kaiman, largo di ghiotti compensi, di varia stesura e sostanza, per i devoti del suo sacrario e i servi fedeli perinde ac cadaver. Ce n'era uno, fra costoro, che portava la fedeltà incastonata nel fatidico cognome: Conservo. Bene. Ora l'occasione sognata si presentava a Paolo. E nella sua veste più dignitosa: candidatura al nobile Senato della Repubblica: come lasciarla cadere? E non la lasciò cadere. Denunciò, lealmente, le personali difficoltà che potevano essere i suoi limiti, e accettò. Quasi sicuro della sconfitta, ma sereno per la caratura dell'impresa: sarebbe stato un successo anche una sconfitta moltiplicatrice di voti. E potremmo anche cassare il "quasi": residuo di coerenza nel rispetto dell'improbabile, castello esclusivo del divino Burlone che serpeggia in tutto questo racconto.
Le prime esposizioni furono al chiuso: conferenze divise fra più oratori, assemblee di iscritti, e simili occasioni. Ma vennero i comizi. Piccole piazze di piccoli paesi, poi rispettabili cittadine turistiche (fra queste, la più cara a Vitaliano Brancati), infine la grande Realpolia curializzata e la sua maggiore piazza, presidiata e strozzata fra chiesone e palazzo comunale, tutte eminenze dell'architettura barocca sicaniana. E in tutte le occasioni Paolo poté constatare de visu che l'era delle folle comiziali era davvero finita per sempre. La televisione aveva fagocitato i comizi di un tempo. Non solo, ma al rito venivano quasi solamente i tesserati del Partito, pochi erano gli esterni: osservatori della concorrenza, spettatori "neutrali", amici e parenti. E poco d'altro. Dove abitavano ex alunni liceali la loro presenza infoltiva un po' l'ascolto. Ma si trattava sempre di poche decine, raro che si arrivasse al centinaio. Una delusione? In un certo senso, sì. Ma ormai era in gioco. A compensarlo, però, intervenivano le televisioni locali con le loro interviste e i quotidiani regionali e provinciali più diffusi con i loro servizi, inclusivi di foto e mini-biografie. Gli toccò pure di fare una cosa che si era sempre rifiutato di fare: commemorare la Resistenza. Se il lungo rifiuto ostinato di prima era motivato dalla renitenza alla retorica mitizzante, quasi d'obbligo in quella sorta di rito, l'accettazione di quel tempo fu chiarita con la necessità di contrastare la moda del negazionismo o del livellamento fra le opposte sponde dello scenario storico: un prodotto dei "tempi nuovi", che andava diffondendosi con pelosa malizia ideo-politica. Magari con indagini decontestualizzate sulle vittime civili della lotta partigiana e sulle rivalità interne a quei gruppi armati contrapposti: un lavoro in cui sembrò specializzarsi un autorevole giornalista di sinistra moderata, vicedirettore di una famosa testata settimanale. Con conseguenze drastiche sulla propria carriera, fermata da ostilità interne al suo gruppo. Fra gli scandalizzati reattivi ospiti della stessa "famiglia" il più ostilmente sorpreso fu un vegliardo di accesi spiriti guerrieri, legato visceralmente alla Resistenza, "luogo" del proprio riscatto ideo-politico. Avrete capito che sto parlando di Giorgio Bocca.
Aveva confessato, Paolo, fin dalla prima conferenza che non avrebbe usato il politichese: il suo presentatore e mentore fu ben contento di esonerarlo da quel discutibile obbligo. E nel politichese incluse la stucchevole ripetitività dei soliti comizi di big e piccoli politicanti: lui inventava incipit e sequenze tematiche nuove per ogni occasione, senza lasciarsi inceppare dall'inevitabile fissità dei singoli temi dominanti. Non solo ogni argomento poteva essere presentato entro una prospettiva di volta in volta diversa, ma la stessa loro successione comiziale era suscettibile di variazioni ad infinitum; e nella successione si diversificava anche il rilievo concettuale del contenuto e la sua posizione oratoria. Val la pena di ricordare che in questa avventura potè godere la collaborazione del figlio, che suggeriva temi e scriveva promemoria. Per esempio, l'attacco all'articolo 18 del Contratto dei lavoratori: cavallo di battaglia, quel rifiuto, del Partito radicale. Il quale era rappresentato nel suo collegio, da un suo bravo ex allievo del liceo ginnasio realpoliese: divertente trovare professore ed ex alunno impegnati a contendere durante l'intervista ai candidati di una autorevole tevelevisione liotriese.
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Dagli appunti ereditati dal mio amico è facile supporre che egli contasse di trasferire in uno o più racconti la propria esperienza di candidato-oratore: gli incontri umani, le conoscenze interessanti (in positivo e in negativo), le vanità personali di certi "compagni", le gelosie e rivalità fra circoli e sezioni dello stesso comprensorio sub-provinciale e interprovinciale: ne aveva raccolto di materiale, Paolo, nei suoi taccuini. Ne avrebbe senz'altro ricavato succosi racconti, se Pathos e Cronos non avessero deciso il brusco (e brutale) stop alla sua permanenza fra le ombre della Caverna platonica. Riportiamo, almeno, un appunto della sua agenda dell'epoca: una confessione al suo mallevadore, Cancelli sulla meraviglia che avevano destato in lui le rivalità di cui sopra. "Immaginavo compagini di giovani 'duri e puri': come sospettare tanta vanità?" Il neo-amico e compagno lo rassicurava: "sono piccole increspature. Vi sono i duri e puri, e sono la maggior parte dei nostri ragazzi". Sarà, pensò, e non disse Paolo.
Tra i particolari narrabili, l'irritazione che aveva accolto la sua candidatura all'interno dei vari circoli del partito: quella scelta dall'alto non era stata digerita da quei giovani, e soprattutto dai capetti già toccati dalla Grazia di una elezione al consiglio di questo o quel Comune, o addirittura della liotrica Provincia: il partito aveva avuto, e ancora aveva, consiglieri provinciali. Il contemporaneo della candidatura di Paolo era un leonino compagno di liceo scientifico di suo genero. Carattere difficile. Quando Paolo ebbe sentore di quel disagio, chiese al suo onorevole sponsor se avesse discusso con i circoli e gli eletti locali la proposta della sua candidatura. Cancelli, assicurò che sì, certo, ne aveva parlato e aveva convinto tutti i piccoli dirigenti locali. Versione differente venne a Paolo da un suo ex alunno del liceo realpoliese, segretario di un circolo-sezione dell'hinterland subetneo: il deputato Cancelli, in qualità, anche, di segretario provinciale del Partito, aveva deciso tutto da solo. O più precisamente: avendo consultato i giovani di Akiskene sulla figura e il carisma del professore Assaggi, incassatone la migliore prsentazione possibile, aveva ritenuto superfluo parlare con gli altri compagni del distretto. A che pro? Non era lui, in tutta la vasta provincia liotrica, il personaggio più autorevole del popolo rivoluzionario? E dunque, lo lasciassero fare. Paolo trovava vagamente comica una situazione che, in fondo (non lo sapeva, forse?) si riproduceva dovunque si riunissero in collettivi bipedi parlanti ambosessi per pensare concionare decidere in questioni di qualsiasi natura, ma con maggiore carica passionale dove le questioni sono politiche: molte belle parole e ciarle sonanti sulle meraviglie della democrazia (dialogo perenne, libera valutazione e critica spregiudicata, decisioni a maggioranza, eccetera) e, in rebus, omissioni, deviazioni dai sacri sentieri e cornate di fatti contro i sacrosanti valori di carta e voce. Naturalmente l'ex alunno, ora segretario nella scuola media del suo paese, tranquillizzò i compagni sulle qualità del suo ex professore: "Sul personaggio, niente da dire. Anzi, tutto da ammirare. Tranquilli, dunque". Intervento salutare, che acquietò le acque agitate del laghetto rivoluzionario provinciale.
Quanto al Cancelli, deputato rivoluzionario per la seconda volta al Parlamento nazionale, nonché segretario provinciale di lunga carriera, con la sua condotta di ducetto imprudente (nonché protettore di un compagno con qualche macula contabile), si scavò la fossa politica. Dopo la sconfitta sotto la valanga kaimana, il congresso provinciale ringraziò l'onorevole, ne accettò le rituali dimissioni e lo mise sotto processo. Conclusione naturale: nomina a valanga di un nuovo segretario. Aveva lavorato troppo il compagno segretario e onorevole, che si riposasse dunque. Una tragedia? No, neppure un dramma: solo un certo bruciore: non è piacevole vedersi accantonato. Ma avrebbe esercitato da allora in poi il mestiere di professore di filosofia. La pensione, con due legislature all'attivo, era ben assicurata al suo lontano futuro. Naturalmente, la militanza non fu in discussione: Cancelli rimase nel Partito, disponibile al lavoro collettivo, eccetera. E, naturalmente, in sognante attesa del possibile reingresso nella "stanza dei bottoni".
Dettagli. La sconfitta (scontata) del piccolo Partito Rivoluzionario Internazionale non appannò il fatto che l'obiettivo programmato dai "lettighieri" (espressione non mia) della candidatura di Paolo fu pienamente raggiunto: i voti presi dal partito nel suo collegio (assai ampio) furono quasi il doppio dei precedenti. E nelle cittadine e paesi che lo conobbero come professore superarono perfino il raddoppio. Di questo buon esito fu dato atto ai giovani che avevano suggerito la candidatura paolina. Con soddisfazione del Cancelli.
Com'era ignaro della complicata prassi che accompagna la presentazione delle candidature (quante firme, a destra e a manca! quante autorità coinvolte!), così Paolo era all'oscuro dell'obbligo di comunicare a un'autorità panormitana le spese sostenute per la campagna elettorale e chiederne il rimborso. Non essendo stato doverosamente informato dal suo sponsor, gli toccò ricevere questa ringhiosa letterina al pepe:

Corte di Appello di Panormo. / Collegio Regionale di Garanzia Elettorale /Prot. 13 /015. //Il Presidente
Visto il verbale del Collegio di Garanzia Elettorale in data 18 ottobre 2001; Visto l'art. 15 comma 8 della legge 10 dicembre 1993, n.515;
DIFFIDA
Il Signor Assaggi Paolo
n. il 2/5/1932, Realpolia, residente in via Romana, 102, Akiskene, candidato alle elezioni politiche del 13 maggio 2001, a depositare la dichiarazione di cui all'articolo 2, primo comma, n.3 della legge 5 luglio 1982, n.441, alla quale dovrà essere allegato il rendiconto relativo ai contributi e servizi ricevuti ed alle spese sostenute (art.7 comma 6 legge n.515/93) entro il termine di giorni quindici dalla notificazione della presente diffida.
Panormo, 19 ottobre 2001
Il Presidente del collegio regionale di garanzia elettorale. Presidente della Corte, Carlo Rotolo. /Firma [scarabocchio sintetico].

E fosse finita qui! Macché. Sul risvolto del foglio col contenuto sopra trascritto, questa intestazione:
"Tribunale di Liotria. Sezione distaccata di Realpolia. Ufficio Notificazioni Esecuzioni Protesti"
Richiesto come in atti, io sottoscritto Assistente U.N.E.P., addetto all'Ufficio in epigrafe, certifico d'aver notificato e dato copie dell'atto che precede ai destinatari in esso indicati, al loro domicilio, per loro legale scienza e conoscenza, consegnandole come segue:
al signor Assaggi Paolo, via Romana, 102, Akiskene, nelle mani della moglie, cas[alinga], conv[ivente] [più altro illegibile]
Akiskene, 02. 11. 2001
L'Ufficiale Giudiziario,
D.ssa. Sebastiana Branco
Tribunale di Liotria
Sezione distaccata Realpolia

Al ricevimento della pomposa Diffida Paolo la presentò a Cancelli per riceverne lumi e conforti. Il distratto compagno onorevole, che aveva dimenticato di illustrare all'inesperto candidato questa parte arcigna della "gioiosa macchina di guerra" accolse l'allarme con sorridente nonchalance. E si assunse l'onore di scrivere la risposta. Un secondo appuntamento sotto la mole di un vecchio castello di copiosa storia tra terraferma e mare bastò a sollevare Paolo dall'impiccio della scrittura. Ma non dell'altro, della spedizione con tanto di avviso di ricevimento. Ecco il testo-risposta:

"Al Collegio Regionale di Garanzia Elettorale / Presso la Corte di Appello di Palermo
Oggetto: Dichiarazione delle spese sostenute e delle obbligazioni assunte.(art. 2, primo comma numero 3, Legge 5 luglio 1982, n.441)

Io sottoscritto Assaggi Paolo, nato a Realpolia (Lt) il 2/5/1932, residente ad Akiskene in via Romana n.72, candidato al Senato della Repubblica -Sicania, collegio 14 - nella lista del Partito Rivoluzionario Internazionale
Dichiaro
di non aver sostenuto alcuna spesa per la campagna elettorale per l'elezione del Senato della Repubblica del 13 Maggio 2001.
Sul mio onore affermo che la dichiarazione corrisponde al vero.

Liotria, 8 novembre 2001
Il candidato
Paolo Assaggi
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Manca, nel testo, il "Vaffa...!" che Paolo non potè scrivere in sì vibrato testo. Ridemmo insieme di cosiffatta manfrina. Nel nostro Belpaese non si è padroni nemmeno di imporre un risparmio di soldi al munifico Stato sprecone senza incorrere in seccature e sciupio di tempo. Ma quello che supera ogni decenza è il "titolo" della comunicazione, quel DIFFIDA tutto in maiuscole-stampa urlante al centro della pagina irta di cifre e riferimenti burocratofili.
Paolo, in realtà, qualche spesuccia l'aveva sostenuta. S'era fatto stampare da un amico dotato delle attrezzature necessarie un opuscolo dove spiegava "Le ragioni di una candidatura" (questo il titolo dello sfogo politico, anzi etico-politico). Un centinaio di copie furono distribuite nei circoli del PRI del territorio. La spesa fu limitata a un'offerta libera, che fu di 200.000 delle vecchie lire. Poi aveva pagato la benzina per gli spostamenti personali da una piazza e pase all'altro per i comizi. Aveva regalato 25 copie del suo ultimo libro di versi ai ragazzi del circolo akiskenico perché ne ricavassero, vendendole, qualche sommetta. E di piccole somme, intorno alle 50.000 ne dette qualche volta direttamente a quei ragazzi sempre in difficoltà. Suo figlio, poi, "comprò" una tessera di iscrizione al Partito versando 100.000 lire. Ma i manifesti elettorali e le stampe con i nomi dei candidati glieli forniva il Partito senza alcun peso per i candidati. Eppure lasciava una certa libertà sulla scrittura del testo: quelli di Paolo portavano in fronte citazioni letterarie: un pensiero di Orazio in coppia con uno di Leopardi coronarono l'ultimo manifesto. L'oraziano suggeriva, vanamente, come accade oggi: "Ci sia un limite al guadagno". Più numerose le citazioini testuali inserite nell'opuscolo. Il quale si apre con un contrappunto provocatorio già nelle citazioni sotto il titolo: una sorta di paradosso spocchioso tratto dal libro di Manlio Sgalambro, "Dell'indifferenza in materia di società"; e un lungo brano di Leopardi in marcia di collisione con quella spocchia ("Zibaldone", 17 febbraio 1821). Ed ecco qualche titolo dei paragrafi: "1. I sacrifici umani", 2. "Il dio Mercato". 3. "Fame nel mondo. Ovvero la strage non stop degli innocenti". 4. "Contrappunto: i Creso cristiani". 5. "Degrado ambientale". 7."Caimaneide. Ovvero: bulimia di un capo", 7.1. "Detti memorabili". 7.2. "Fatti ancora più memorabili". 7.3. "Edonismo caimanesco". 9. "A difesa degli indifesi"
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Tra gli appunti di Paolo ci sono varie citazioni testuali da diversi scritti e autori, con postille "di getto": si va dai volumetti come "La rivoluzione culturale giorno per giorno" a quelli stampati dall'Editoriale l' "Espresso" per i suoi trent'anni di vita e successi: "30 anni di Esteri", (2 voll, a cura di Antonio Gambino), "30 anni di costume", ( 2 voll. a c. di Umberto Eco), "30 anni di scandali" (a c. di Giampaolo Pansa), "30 anni di trame" (a c. di Giorgio Bocca), "30 anni di terrorismo" (a c. di E. Forcella), eccetera. Perfino le "Poesie" di Mao-tse- tung (allora si scriveva così), introdotte da Franco Fortini, commentate da Tsang Keh-Chia, tradotte da Franco De Poli (con puntuali e illuminanti note storico-culturali) per le edizioni rosse di Samonà e Savelli. Un altro volume targato Samonà e Savelli risulta letto e postillato da Paolo: "Riformisti e rivoluzionari nel maggio francese". Ancora qualche titolo: "I Muri di Parigi", collezione 'Libri contro', n.4, Marsilio editori. Fra gli altri libri letti, in toto o parzialmente (non sempre per sopravvenuta morte: lui aveva il vizio-passione di leggere contemporaneamente vari libri), fornitori di passi citati, risultano: Francois Ponchaud, "Cambogia anno zero", Sonzogno, 1977: drammatica presentazione della Cambogia liberata dai Khmer Rossi. Per finire, due altri titoli di attualità: G. Cipriani, G. De Lutiis, A.Giannuli, "L'italia dei misteri e delle stragi. Servizi segreti. Dal dopoguerra a Firenze (maggio 1993). Il testo integrale della sentenza del giudice Felice Casson su 'Gladio'", Editrice la rivista "Avvenimenti" (che Paolo comprava regolarmente). Un libro dell'Unità racchiude l'intervista a Luciano Violante di Giuseppe Calderola; titolo, "I Corleonesi. Mafia e sistema eversivo", luglio 1993.
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Una di queste citazioni testuali suona particolarmente strana. Strana per la fonte, un autore e un libro lontani dai suoi climi culturali. Ma, siccome il nostro amico non fa nulla per caso (anche se del Caso si serve, e spesso con gratitudine), un senso in questa citazione ci dev'essere. Noi (pluralis modestiae) crediamo di averlo trovato: lasciamo al lettore del Duemilatrenta lo spasso e il rovello di cercarselo da solo, se questa nostra ipotesi non lo convince. Ecco la citazione.

"Può sembrare bizzarro che Braquemart volesse in queste faccende opporsi al Forestaro, benché molto vi fosse di simile nel loro pensiero e nel loro agire. Tuttavia è un errore nel quale s'incorre di frequente di dedurre dalla simiglianza di mezzi anche una simiglianza del fine, e il credere a un'uguale volontà ispiratrice in ambedue i casi. Vi era diversità nel proposito dell'uno e dell'altro, poiché il vecchio ambiva popolare la marina di selvagge fiere, mentre Braquemart la riteneva terra per schiavi. Si trattava insomma di uno dei vari conflitti interni dei Mauretani, che non serve qui spiegare in ogni suo aspetto. Basti l'accennare che tra il definito nichilismo e la selvaggia anarchia vi è un profondo contrasto, e in una tale lotta si tratta di decidere se delle plaghe popolose di umani si debba fare un deserto o invece rinnovarvi la vita della foresta primitiva. Tutti i caratteri del tardo nichilismo definivano l'essere di Braquemart. Gli era propria la fredda intelligenza sradicata e incline all'utopia; la vita gli appariva, come sempre a questa specie di uomini, quale un meccanismo di orologio, ed egli vedeva nella violenza e nel terrore le ruote motrici di codesta orologeria."
ERNST JÜNGER, "Sulle scogliere di marmo", Edizioni Guanda, "Le Fenici Tascabili"
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Ed ecco la nostra (facile) ermeneutica. Come interpretare queste citazioni da un autore poco assimilabile al verbo "sinistro" (malgrado il suo famoso saggio sul "Lavoratore")? E che comparabilità ha trovato, Paolo, tra i protagonisti negativi di quel romanzo iperrealistico e allegorico (in senso anti-nazista) e gli arruffapopolo dello schieramento opposto al suo? Né il Kaiman né i suoi accoliti complici servi fedeli e alleati ben foraggiati avevano molossi scannatori da lanciare, irti di taglienti metalli, all'assalto sbranante dei nemici, come il Forestaro o Braquemart; né volevano desertificare un fertile territorio o introdurvi la foresta selvaggia. Però, suggerisce Paolo, la loro azione è comparabilmente distruttiva altrettanto: non miravano a stragi di corpi, ma a strazi di leggi e istituzioni democratiche sì. I loro molossi metallizzati erano piccoli uomini programmati per dare addosso a una eterogenea massa (ritenuta) decadente, cioè ignara delle effettive regole del vivere concreto: leggi ponderate, anche se in qualche parte migliorabili; magistrati con l'ambizione coraggiosa di fare vera giustizia anche contro la malavita organizzata e la politica corrotta; impresari onesti che non vorrebbero subire taglieggiamenti né da mafiosi né da ministri assessori e via eleggendo; e poveri vecchi malati e svantaggiati in genere, bramosi di una minimale attenzione reale ai loro problemi e sofferenze. Qui facevano stragi i referenti e gregari e compatibili alleati del kaimanesimo (tra i quali, un capo del Partito Tramontano, più vicino, lui sì, a un molosso vero che a un politico rifinito): avvocatoni e avvocaticchi, economisti nani di corpo e di testa, commercialisti riccioluti di grama virilità e mordace parlantina; impresari convinti che "con la mafia bisogna convivere" (intrecciandovi succulenti affari); e altro "Bene" incarnato. Un'armata brancaleone trasformata in esercito vincente dai miliardi kaimaneschi, portata al Parlamento per fare leggi ad personam e negare fatti ed evidenza di prove provate in difesa del grande Capo seminatore di rovine e dei suoi compari sdoganati o ripescati dalle pattumiere del marginalismo sconfitto.
Tutti eventi che Paolo paventava e denunciava come possibilità realistiche nei suoi comizi e conferenze. E poi nelle interviste televisve e del maggiore quotidiano insulare, Gazzetta di Sicania, edito nella capitale sicanica, ma con redazioni nei principali centri urbani. Quest'ultimo lo aveva invitato nella sua redazione di Liotria, dove una graziosa fanciulla lo aveva intervistato e fatto fotografare per un servizio di presentazione dei candidati locali al Parlamento in gestazione. Era venuto fuori un buon lavoro, e la foto non era male. Finalmente Paolo, lo studioso solitario e di popolarità provinciale, confinata in buona parte nel mondo scolastico, si sentiva imposto all'attenzione dei grandi media e varcava quei limiti da uomo pubblico. Lo commoveva anche vedere stampato il suo nome su tanti manifesti elettorali ed elenchi di candidati: i muri dei vari centri del vasto collegio elettorale erano tappezzati di quei manifesti. Vanitas vanitatum...? Certo. Ma quel pizzico di euforia presenzialista gli riusciva gratificante come una specie di compimento della sua maturazione virile.
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Paolo si ammalò di cancro. Fu operato, e sembrava che si fosse giunti in tempo a scongiurare il peggio. Accorciato nell'intestino grasso di trenta centimetri, la biopsia aveva escluso infiltrazioni e rischio metastasi. I primi due anni non rivelarono, ai controlli di rito, nessuna novità sgradevole. Il terzo spuntò una inattesa macchiolina al retto di sospetta natura metastasica. Il nuovo intervento si presentava con grugno insopportabilmente beffardo: si temeva di dover asportare l'intero tratto, con blocco della pervietà fecale, sostituzione del rimosso con la famigerata canalizzazione laterale, infine, last but not least, la chemioterapia. Paolo ricordò la nonna materna, morta di quel male infamante nel 1940 (dolorosamente in tempo - osservava - per salvarsi dai prossimi orrori della Seconda guerra mondiale. Ma questo, che c'entrava? La solita scivolata, pensò, verso la divagazione associativa!). Si prese qualche giorno per riflettere, ricordò meditò decise, lasciando passare due settimane. Durante le quali tacque della novità con Susanna, intensificò il movimento godereccio trascinando lei in un turbine di viaggi soggiorni spettacoli. Infine, comunicò la sua decisione "ai signori medici", ma in realtà al suo ex alunno, autore del primo intervento: corretto, tempestivo, cospicuo, ma purtroppo insufficiente a salvarlo dal mostro. Rifiutava la "battaglia chirurgica" e accettava soltanto l'esperienza della chemio, se la biopsia del prelievo istologico ne avesse rivelato, com'era quasi certo, la natura maligna. Passò un'altra settimana dall'invio del referto all'istituto di patologia del Policlinico universitario, lo stesso che gli aveva ridato serenità dopo la "prima mutilazione". E quando giunse il responso atteso con timore e tremore, non fu quello della prima volta: il carcinoma non solo era inequivocabile, ma non era più "intramucosa" e superficiale, ma già infiltrato per qualche millimetro e di grinta aggressiva. Conclusione, rimuovere, subito, tagliare e buttare ai cani; togliere e sostituire. Insomma, la devastazione che si teme in questi casi. Paolo confermò la decisione presa: netto rifiuto dell'oscena manipolazione, prova della chemio fino alla sopportabilità, attesa disperata ma auspicabilmente filosofica dell'esito inevitabile. Il settantenne Socrate aveva rifiutato una soluzione facile pur di evitare la vergogna di inseguire un residuo di vita raminga, e lui non sarebbe stato capace di negarsi, con un pizzico di stoicismo una volta tanto davvero applicato, allo scempio spregevole per evitare un equivalente scampolo di residuale "vita deprivata", e perciò altrettanto vergognosa?
L'ex discepolo ebbe il buon gusto di non annoiarlo con le postulazioni della sua fede religiosa: egli, bambino orfano di padre, era stato riplasmato in quella fabbrica di "cervelli perduti" che è un seminario religioso, e non c'era stato verso di bucare quella corazza di isolamento dalla realtà: né con la sua parola appassionata né con la spaventosa esperienza del suo singolare mestiere di tagliatore e ricucitore di corpi invasi dalla suprema dimostrazione quotidiana dell'inesistenza del suo buondio mitico. Ma sapeva che il suo ex professore non era un improvvisatore emotivo del "rifiuto totale", ma un convinto di lunga carriera e di radicale meditazione pluridecennale.
Dopo altri mesi di silenzio stampa (come celiava con qualche familiare e parente) Paolo dovette sospendere con Susanna la custodia di quel segreto vieppiù erosivo. Lei non ebbe bisogno di mistificare le lacrime che le sgorgarono all'annuncio. E che seguitarono a pioverle in grembo più quando si trovava sola che davanti a lui. Paolo non riuscì a subirne oltre l'effusione della prima fase della maledetta chemio. Fin dalla prima iniezione seppe che era un tasso di tortura non accettabile quel sentirsi demolire dentro: a quale scopo fare da cavia? ? ripeté a Susanna. A settantatre anni, doveva prolungare la vita di qualche anno per ospitare quello strazio? Rifiutò decisamente di continuare: vada come può o deve andare, sentenziò. Susanna, sulle prime, tentò di fargli "cambiare idea", ma egli ribatteva, sorridendo, che la sua scelta non era un' "idea". No? E come la chiamava, lui? Susanna traccheggiava, stava al gioco, a quella specie di competizione laterale: domandava, obbiettava, cercava rimedi contro la malasorte. Alla sua, soprattutto. Ma non insistette più di tanto, vista la fermezza di quella decisione (che lui chiamava viscerale). Si rassegnò alla speranza priva di garanzie. C'erano familiari che pregavano per lui. Forse anche il figlio, ma poco convinto. Nemmeno la figlia era molto convinta: sapeva come la pensava il padre e non era cieca al punto da dargli torto. Il mondo era orribile, come constatava lui, e lei era la trepida sposa che non aveva voluto "mettere al mondo altri candidati all'infelicità". Per questa rinuncia ostinata (se n'era lamentata Rina, a lungo) s'era esposta persino all'accusa di egoismo; ma la sua scelta non conobbe dubbi.
*
Si piangeva, intorno a quel vecchio ostinato, e si pregava. Le due movimentazioni dell'Inutile che di solito fanno coppia nelle immediate vicinanze del condannato a morte. Ma non lo siamo tutti? ? sorrideva Paolo, cogliendo qualche lacrima furtiva in questa o quella "persona cara". Gli dispiaceva particolarmente per i nipotini: avrebbe gradito poterli seguire ancora per qualche anno. A volte, quasi stordito, arrivava a dubitare dell'inevitabilità incombente: dopo tutto, si conoscevano casi di remissione spontanea del maligno. Un caso clamoroso era stato illustrato, molti anni prima, dal prof. Regitano, nell'aula di anatomia patologica della facoltà di medicina liotriana (Paolo vi bazzicava, con saltuarie presenze, mediate dal camice di un amico che lo autorizzava a usarlo quando non serviva a lui). Si trattava di un tipico caso da sfruttamento religioso: un uomo "operato" per cancro al colon e ricucito senza mutilazioni rivelate inutili da una larga diffusione di metastasi, che guarisce da solo. Il luminare non credeva ai miracoli, e si limitava a esporre il caso con un lieve commento sulle risorse misteriose della materia organica e la loro relativa imprevedibilità. Non poteva essere il suo caso? Ma rideva, poi, egli stesso di questi infantili cedimenti alla facile consolazione della (diceva) "improponibile speranza".
Per un certo tempo Paolo sopportò i morsi del male: resistere, godere i nipotini, aiutare chi potesse, leggere, scrivere, mandare ancora qualche articolo politico al quotidiano locale e al periodico politico-culturale del capoluogo imponeva questo ticket? E sia. Ma quando gli attacchi del male si fecero più frequenti e meno sopportabili decise di chiudere la partita. Aveva accumulato tante compresse di sonnifero e ansiolitico per questa eventualità: sarebbero bastate per quella soluzione pulita?
In tempi non lontani aveva considerato l'ipotesi di una sortita clamorosa: un suo ex allievo s'era suicidato buttandosi dal quarto piano. Non aveva, a giudicare dal "visibile", nessun valido motivo per farlo: medico specializzato, vincitore di un concorso per un comodo posto nell' "Azienda ospedaliera" più vicina al suo paese, trentacinquenne appena, tronca la sua esistenza con quel gesto eclatante. Altro particolare notevole: dopo avere raccolto la documentazione necessaria per entrare in servizio. Praticamente, alla vigilia del suo inizio professionale. Unico segnale di disturbo nella sua fisiologia, il temperamento introverso, la conseguente ipersensibilità, un certo mutismo a volte cupamente gravido di pensieri nascosti. Il caso aveva scosso la città, perfezionato il crollo psicologico dei genitori, impresso una traccia profonda nella memoria di Paolo. Che ruminava: perché non seguire quel suo infelice pupillo, in caso di necessità? Ma lentamente il tempo aveva maturato la soluzione preferita: perché infliggere quel supplemento di dolore alla figlia, tanto fragile e tanto amata? E lasciare questa altra eredità negativa al figlio, anche lui non troppo saldo nei suoi neuroni (ad onta della specializzazione)? Uscire in silenzio, doveva, all'occorrenza. Fare in modo che l' "anticipo" sparisse dentro l'ipotesi di un raptus mancino della malattia: un collasso naturale, una fine prevedibile, nell'economia del male che non perdona.
Ma era, poi, così facile sfuggire a una diagnosi di auto-avvelenamento? Contava, forse, sulla convenienza generale a non smuovere le acque, non diffondere dubbi sulle cause prossime del congedo inevitabile. Le sue riflessive perplessità, però, furono spente da un infarto fulminante. Inatteso, si disse, ma, a mio rimemorare sulla spinta dell'evento, Paolo era tutt'altro che lontano dal pensare a un possibile infarto del miocardio di sicura "valentìa" (ma sì, scherzava, all'occorrenza, anche su questo livello). Quando si toccava l'argomento cancro, lui diceva che sperava nel cuore: una bella strizzata e via. Mica il pace maker lo difendeva da quel facile esito. E i piccoli attacchi di angina pectoris non mancavano di rinverdire la speranza nei suoi momenti neri.
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Non mancò neppure qualche complicazione alla sua morte. Aveva lasciato delle disposizioni precise, affidate al sottoscritto e rese note anche a Susanna in due copie di videoscrittura. Nessuna esequie religiosa, solo cerimonia civile e trasferimento al cimitero. Negli ultimi tempi s'era convinto che non valesse la pena di creare ulteriori fastidi ai figli insistendo sulla cremazione: non praticandosi ancora nel vicino capoluogo della sua provincia, si sarebbe dovuti rivolgersi all'agenzia competente del capoluogo regionale, con lungaggini burocratiche e spese che non era il caso di infliggere agli eredi. Del resto, fu una manna anche per i preti locali, nessuno dei quali ignorava "le sue idee": come si sarebbero comportati? Cosa avrebbero deciso di fare? Si sarebbero consultati con la Curia vescovile di Realpolia? Negli ultimi giorni di resistenza, Paolo se lo chiedeva: il suo testamento toglieva d'imbarazzo anche i suoi figli e i loro coniugi, non solo i preti. Ma gli veniva il dubbio che la cosa potesse non riuscire gradita a qualche marpione della Curia o della parrocchia: un funerale religioso, magari preceduto da qualche visitina in pura amicizia al malato, non avrebbe potuto covare la soluzione finale della "bella immortal, benefica" di manzoniana memoria? Non avrebbe potuto essere sfruttato come indice di una conversione in extremis, funzionale (e di non poco, dato il personaggio, ben conosciuto nel vasto territorio multi-comunale del bacino scolastico liceo-ginnasiale) alla santa causa della Ecclesia triunfans? Aveva scritto, Paolo, anche il suo epitaffio. Sobrio al possibile suonava così: "Un giorno s'ammalò di Verità / e la servì con dura fedeltà. / Ma la pagò con la serenità". I tre endecasillabi tronchi furono scolpiti sul tetto di marmo della sua modesta tomba di famiglia.
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Finita la festa... Ma qui chi era lu santu gabbatu, se non la povera Susanna? Ancora una volta sola, ancora una volta "vedova". E ormai quasi vecchia, certo non in vena di ulteriori avventure. Forse, se io non fossi stato (quasi) serenamente sposato, padre di due figlie regolarmente accasate e apprensive madri, e nonno (quasi) felice di quattro nipotini a scala (due, maschietto e femminuccia, per figlia), dai tre ai dodici anni, avrei (ripeto, forse) proposto a Susanna (dopo tutto, i segni residui dell'antico splendore bastavano a consolare un anziano - per usare l'eufemismo ipocritello - come il sottoscritto) di farle compagnia stabile per il suo, per il nostro, resto di vita. Non ero l'erede naturale di Paolo Assaggi? Invece Susanna, dopo qualche settimana di indugi "assistiti" dai figli di Paolo, se ne tornò, sola, nella Capitale ("della Repubblica e degli imbrogli", pensò, e disse, Susanna, ricordando Paolo e la sua personale esperienza). Con la sua rassegnazione, la sua povertà, la sua canizie mascherata e incalzante, fra parenti poco interessati alla sua vita e sorte. Tranne le due figlie, sia pure in un rapporto mai del tutto liscio (si spera, migliorabile con il peggioramento della situazione materna). La maggiore delle quali quasi certamente le avrebbe dato ancora problemi, con la sua dolorosa vicenda pregressa, la ferita mai veramente guarita, e le ricadute nel male oscuro della depressione anoressica. Ma io sono sicuro che le due creature, alle quali, in fondo, lei ha sacrificato gran parte della sua esistenza tribolata, non le faranno mancare neanche qualche aiuto materiale, a integrazione della misera pensione sociale che ancora attende. Mi ha promesso di non dimenticare la nostra non lunga conoscenza e neonata amicizia riflessa: forse avrò ancora sue notizie. Un'ultima cosa, senza importanza, ma significativa nell'economia del privato personale. Anche Anna, mia moglie, ha commentato la vicenda con le parole di Rina, la (com'è strano scrivere la parola) defunta moglie di Paolo: Susanna, bella e sfortunata.
*
Di Paolo, mi dovrò occupare ancora (sua divinità Crono permettendo): o che non mi ha lasciato, l'ingordo prodigo, un mezzo baule (lui dice scrigno) di cartacce (così, con la solita, un po' pudica, civetteria, le chiamava)? Agende-diario, lettere di personaggi illustri senza merito e di meritamente illustrissimi, della letteratura e del pensiero (scrittori, filosofi, sociologi...) e libri-dono di alcuni di essi con dediche più o meno lusinghiere (un paio di queste, sostitutive di missive "vietate" da problemi di salute) inediti culturali e politici: saggi, articoli, abbozzi, appunti, note di costume. E, nel corpo folto delle Agende diarizzate, citazioni colte, spesso lunghe, da svariatissime letture: da alcuni anni, collocate in alto sulla pagina, come epigrafi alle sue cronache-pensiero ... Ne viene una specie di excursus critico indiretto e ramificato in varie direzioni tematiche. Fa di loro quel che vuoi, o puoi - mi disse e ripeté negli incontri degli ultimi giorni. Vedremo. Ma le forze, le forze!
Già, le forze declinanti: come un sole stanco al tramonto. Ma che pure non posso confinare nella devozione operosa al mio amico e fratello ideale. Ci sono tanti buoni libri da leggere, di ieri e qualcuno di oggi; e un bel po' di classici da rileggere. Ora, per esempio, sto centellinando quel "libro brillante, coraggioso e terrorizzante" (Arundhati Roy) che ha per titolo "Shock Economy". Vi trovo la Naomi Klein del "No logo" ("bestseller internazionale, tradotto in 28 lingue"), l'impavida indagatrice dei mali del mondo sbagliato, o capitalismo globalizzato criminalizzante, che avevo imparato ad apprezzare sulle pagine del settimanale "L'Espresso", al quale sono stato abbonato per decenni. E siccome l'amico scomparso mi ha contagiato la sua mania delle citazioni diaristiche, anch'io ho cominciato a trascrivere passi dei libri che leggo. Da questo ho trasferito pezzetti dell'Introduzione, ma anche il suo titolo ("Il fascino della tabula rasa. Tre decenni passati a cancellare e rifare il mondo") e l'esergo biblico, che è un pugno nello stomaco: della verità e della congiunta sensibilità etica. Eccolo: Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: "E' venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco li distruggerò insieme con la terra"( Genesi, 6, 11).
D'accordo con queste delicatezze, un passo del testo di Naomi suona: "La notizia che quel giorno stava facendo il giro del centro d'accoglienza era che Richard Baker, un importante membro repubblicano del Congresso nonché loro coincittadino, aveva detto a un gruppo di lobbisti: 'Siamo finalmente riusciti a ripulire il sistema delle case popolari a New Orleans. Noi non sapevamo come fare, ma Dio l'ha fatto per noi.' Joseph Canizaro, uno dei più ricchi costruttori di New Orleans, aveva da poco espresso sentimenti analoghi: 'Credo che abbiamo di fronte una tabula rasa da cui ripartire. E grazie a questa tabula rasa abbiamo di fronte grandi opportunità'. Per tutta quella settimana l'Assemblea legislativa statale della Louisiana a Baton Rouge aveva brulicato di lobbisti aziendali intenti ad assicurarsi quelle grandi opportunità: meno tasse, meno regole, mano d'opera meno costosa e 'una città più piccola e più sicura' - che in pratica valeva a dire radere al suolo le case popolari e sostituirle con condomini. A sentire tutti i discorsi su 'nuovi inizi' e 'tabula rasa', si rischiava di dimenticare il brodo tossico di macerie, rifiuti chimici e resti umani che distava solo qualche miglio di autostrada"-

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P.s. Ultimissime da Susanna (nel mese e nell'anno dello Tsunami asiatico: oltre 220.000 morti): la figlia minore, è incinta. Restia fino a poco tempo fa, e piena di paure, ora ha accettato la sfida, il rischio, le incognite della maternità. Ecco un altro gancio vitale per Susanna. Che però sente del duro a uno dei seni e rifiuta di farsi visitare: troppo sono stata tagliata, dice. Che incoerenza: la figlia "guarisce", le fa una nipotina, e lei si arrende? Non le credo. Aggiungerò ancora la mia parola alla persuasione delle figlie. Speriamo di convincerla.

F I N E

lunedì 19 luglio 2010

SUSANNA, Frammento 74


Nei mesi seguiti alla morte di Rina Paolo ebbe modo di valutarne l’importanza nella sua vita domestica. Presenza a volte irritante, per le ragioni non nascoste ai suoi diari, ma sul piano pratico insostituibile. La figlia non lo trascurava certo, ma non era e non poteva essere che un surrogato minimale della versatile madre. Del resto, pianta e rimpianta da entrambi i figli per la sua viscerale vocazione materna e la conseguente disponibilità operosa, perfino iperattiva, al servizio delle “sue creature” in difficoltà (anche quando fu ostacolata da carenze fisiche sopraggiunte con l’età). Specialmente dopo la nascita, a distanza di qualche mese l’uno dall’altra, di due nipotini: un maschietto dalla nuora, una femminuccia dalla figlia.
Erano stati, i due infanti, la principale ragione della riluttanza a partire che Rina aveva opposto alle insistenze dei figli. E fu la serrata pressione convergente dell’intera tribù (dal marito ai figli, dal fratello e cognata ai compagni dei figli) a vincere le sue resistenze. Ma naturalmente sul fondo di quel desiderio maturato in decenni di rinunce e rinvii indotti dalle diverse circostanze dolorose piombate sulla famiglia. E allora appariva pleonastico il senso di colpa di figli e contorno: avessimo ceduto alle sue riluttanze, oggi sarebbe viva. Non ce lo possiamo perdonare. Eccetera. La nota stonata del senno di poi. Ma anche la risposta emozionale inevitabile all’artiglio della malasorte.

Ma il tempo, com’è suo mestiere, passa levigando, appianando, smussando asprezze e pungenti rilievi. E fa germogliare risorse, se appena esistono le condizioni vitali. In Paolo esistevano. Con radici nel sogno dell’auto-racconto “complicato”, dell’intreccio, variamente casual, tra vita e letteratura, (anzi, cultura ), dell’illusione, cosciente, ma leopardianamente fenicea, di rubare qualcosa al saturnino mostro divoratore dei figli. E canaglie.
Naturalmente, informò Susanna della sciagura. Lei aveva sentito la notizia, ma non aveva fatto caso ai tanti nomi sconosciuti delle vittime italiane, e in mezzo a quel plurale ignoto aveva seppellito senza alcun sospetto il nome di Rina. La telefonata faceva seguito a un silenzio di mesi, e fu di sobrio lutto da entrambe le parti. La prossima volta fu Susanna a chiamare: con l’ovvia richiesta di notizie sulla salute e la vita mutilata del vecchio “amico”.
Come stava? Passabilmente. Cominciava a rassegnarsi? Certo, cominciava. Anzi, era già a buon punto. Davvero? Davvero. Il che non voleva dire che non soffrisse. Tanto? Aveva buttato il contatore Geiger. Cosa? Ah, lo scusasse: è uno strumento per misurare la radioattività. Paragonava il suo dolore a quella cosa? Era stato un caso: un flash della memoria involontaria, nel quale il suo dolore gli aveva ricordato quello di tutti i sofferenti del mondo, e questo allargamento universale gli aveva suggerito quel misuratore della principale iattura planetaria. Uno dei tanti circuiti precoscienti aveva assimilato, enfaticamente, il lutto alla radioattività. Nel flash, in verità, s’era illuminata la tragedia dei bambini che vengono mutilati dei genitori: recentemente, come sapeva, s’erano verificati molti casi. Il più vicino (nel doppio senso) dei quali, la sorte dei militari italiani mandati allo sbaraglio della Bosnia stuprata, colpiti a morte dell’ “innocuo du”, l’uranio impoverito, millantato inoffensivo dai fabbricatori americani. Il suo caso personale non c’entrava. Ecco tutto.
Insomma, lui (com’era ormai in uso dire) metabolizzava il suo lutto. E lei? Aveva raggiunto la rassegnazione, lei? Sì, l’aveva raggiunta. Quel che le era rimasto, diceva, era più il dispiacere in sé per la morte prematura di un uomo ancora valido che la pena personale per l’amico (non usava mai la parola amante) perduto. Non gli aveva detto che i loro contatti carnali s’erano diradati tanto da poterne evitare la memoria nei discorsi sui loro rapporti? Non ricordava, lui, di avere ricevuto quella comunicazione, ma qualcosa di simile, sì. Ne era contento per lei. Le figlie? Altalenando nel medio valore del “così così”. Sempre intenzionate a non darle nipotini? Così pareva. I disturbi ricorrenti di Claudia? Di mese in mese più rari e lievi: quella confessione straziante si era rivelata liberatoria e balsamica? Forse. Come la scomparsa di quel nonno. Ancora forse. Se ne rallegrava, Paolo, sempre attento alla felicità di lei. Felicità? Gli era scappata la parola grossa, ma senza una reale intenzione d’uso. Non ci facesse caso. Era un’iperbole di consumo corrente, e delle più appiccicose. Bastava un minimo di distrazione per cascare nel suo scempio campo d’attrazione. Lui odiava quella parola, non lo ricordava Susanna? Certo che sì, e quanto all’attenzione di Paolo al benessere di lei, anche questo Susy aveva sempre presente: era un fatto al quale si appoggiava la sua ostinazione di resistenza alle avversità. Così diceva, così ripeteva da anni, l’ex ventenne bella e sfortunata. E la cosa non era priva di un sussulto: che cosa aveva potuto fare per lei, di concreto, di fatti e non parole? Nulla, in sostanza. E pazienza.
Niente, insomma, in quelle prime telefonate, e in quei primi mesi, che nelle loro conversazioni si riferisse direttamente ai loro sentimenti e ai loro piani (si prenda anche questa parola sonante con discrezione) per il futuro. Pareva sottinteso che lei se ne restasse a Roma, vicino alle figlie, e lui, in mezzo ai suoi cari, nella Sicania vulcanica e ballerina (un sisma di quei giorni, privo di vittime, e con modesti danni, aveva riacceso la discussione sui terremoti possibili nella zona: si temeva un non lontanissimo big one di tipo californiano o giapponese).

Ma un bel giorno, dopo sette mesi dall’ultimo lutto, Paolo cominciò a lasciare spazio all’ipotesi di una loro convivenza per quel “residuo di vita e di futuro”. Se ne sviluppò un sondaggio cauto e timido, ma non rinunciatario.
“Ti sembrerebbe una cosa tanto strana se ti proponessi di stare insieme? Non abbiamo legami coniugali, niente ci impedirebbe di unire le nostre difficoltà e i nostri sforzi: per alleviare quelle e, sommandoli, favorire questi verso esiti gradevoli. Non è concesso sperare di vivere qualche pezzo di tempo meno gramo dell’attuale? Con qualche concessione ai non sopiti spiriti vitali?”
“Mi sembrerebbe piuttosto fuori stagione. Magari un poco criticabile. O molto, chi lo sa. Che ne direbbero i tuoi figli?”
“E le tue figlie? Se lo facessimo ora, ci criticherebbero, certo, gli uni e le altre; ma fra un po' di mesi ancora (diciamo, al compimento dell’anno dalla scomparsa di Rina, o poco più) credo che approverebbero. Diciamo, realisticamente, che potrebbero sentirsene sollevati, i miei: non avrebbero più l’assillo di una sorveglianza stretta sul vedovo anziano e acciaccato da accudire. E le tue sarebbero altrettanto contente. Più o meno per analoghi motivi. Vivendo qui, tra noi, avresti l’attenzione dei miei e tranquille loro. Che ne pensi?”
“Tu, i tuoi, li conosci meglio di me, io sto a quello che me ne dici tu. Quanto alle mie figlie, sono abituate alla mia indipendenza. Ne sarebbero liete”
“Sui miei ti puoi fidare del mio giudizio. Magari il maschio, ipercritico com’è, non mi approverebbe al cento per cento. Ma pensando che si tratterebbe della migliore amica della sua prima infanzia, ti accetterebbe come...matrigna”
“Uhh, che brutto nome!”
“Una matrigna fatina, mica strega, ripescata dal pozzo del passato remoto, così odoroso di bei regali per quel Giampiero di tre-quattro anni, così innamorato della sua Susyna. E dato che delle tue ex bambine garantisci, non vedo difficoltà sul nostro possibile cammino”
“Oh, sì, loro approverebbero. Intanto il pensiero del piccolo Giampiero quattrenne mi dà coraggio. Mi hai fatto rivedere quel vispo bambino che lasciava anche l’amatissimo padre per stare con me. Mi ricordo, sai: ‘papà, vado con Susy, sta tranquillo, poi mi porta a casa lei’”
“Il furbacchione. Il quale, poi, ti ha avuto a disposizione in virtualità di chiaro-scuri nelle due foto trasmesse al computer di casa mia. Certo, in quelle sei una splendida ragazza e non l’attuale matura signora strapazzata dalla vita.”
“Appunto. Come accoglierebbe questa vecchina rugosa tanto diversa da quella fanciulla graziosa che lo portava a spasso e lo viziava con i suoi regali?”
“Be’ l’ormai quasi quarantenne padre di un bambino della sua età di allora ha sul groppino la somma di tempo giusta per non aspettarsi miracoli nell’estetica degli altri e non pretendere di paragonarsi, neppure lui, a quel delizioso bambino”
“Sì, penso che sia come dici tu.”
“Un’altra cosa ancora: con te al mio fianco (ma che espressioni fruste vengono a volte sotto i tasti) avrebbe un altro pensiero a confortarlo: toglierebbe un peso alla sua consorte, che tra lavoro e figlio, di tempo ne ha poco. E voglia missionaria ancora meno. Sai com’è, tra nuora e suocera: e pesi da...”
“Sei convincente, sai?”

*
E fu così che circa un anno e mezzo dopo la scomparsa di Rina e due e mezzo dopo quella di Marco, Paolo e Susanna “si misero insieme”. Il “consiglio di famiglia” di lui non fece obiezioni e quello di lei era del tutto assente. O entusiasta: scegliete voi. Forse è meglio esplanare: le figlie di Susy se ne lavarono le mani. Avrebbero accettato la soluzione liberamente scelta dalla madre. Perché sapevano che, anche se avessero espresso dubbi, quella avrebbe deciso di testa sua? Probabilmente. Né mancarono di dirsi contente della sua scelta. Se avevano accettato la relazione con Marco, che non approvavano ma dovettero, piuttosto, subire, perché non avrebbero accettato quella, ben più “regolare”, con l’ex suo professore? Conoscevano, aggiunsero, la persona rispettabile che era il professor Assaggi, tanto presente nella giovanile esistenza materna. E, di riflesso, un po’ anche nella loro infanzia. Naturalmente, attraverso la progressiva presentazione della madre, più che dai ricordi nebulosi e frammentari degli incontri diretti degli anni Ottanta.
A questo punto potrebbe cominciare un altro racconto, ma l’ansia di chiudere questo tracimante coacervo incalza. E comanda soltanto poche pagine ancora: per un finale già nei fatti e una conclusione superdensa. Come dire che a condurre la danza sarà l’estremo taccuino del mio amico. Ecco le sue parole.
*
“Ancora una volta il Grande Ram della Vita ha scritto il software dell’imprevedibile e dell’improbabile. Due morti inverosimili, una combinata binaria giocabile all’un per mille di probabilità, una doppia sopravvivenza a prove clinico-chirurgiche di rischio letale; ecco che cosa mi pare lecito indicare dietro il “congiungimento”. Io e Susanna, Susanna ed io. Dopo trentacinque anni, la metà dantesca di un’esistenza umana. Non ho ragione di rendere omaggio all’Incredibile? Anzi: fino all’insolito spreco di maiuscole-segnacolo.
Vuoi sapere, agenda n.33, come ce la passiamo, dove viviamo, e come, eccetera? Tenterò un veloce compendio. Celebrammo, mesi fa, un non-matrimonio del tutto laico: cioè, dichiarammo semplicemente ai nostri figli che io e Susy ci saremmo fatta compagnia per il breve resto delle nostre vite. Avremmo messo insieme le nostre debolezze e ci saremmo scommessi in reciprocità di assistenza e conforti per tentare di farne una forza. Fisica e morale. O meglio, fisiologica e psicologica. Un esperimento? Diciamolo pure. La materia prima c’era: il nostro affetto (avevamo pudore di usare la parola grossa amore). Un sentimento di lunga carriera, sopravvissuto a tradimenti sofferenze liti sdegni silenzi di anni. Con alti e bassi, tempi lunghi di black out divaricanti e riprese di breve respiro. Per il resto, la pazienza, la tolleranza, l’assistenza sarebbero fiorite da quel terreno fertile di remota e salda consistenza.”
*
Perché, di fatto, non mancavano difficoltà che le avrebbero richieste: lei fumava ancora molto, e a lui, cardiopatico, il fumo era nemico. Massime quello passivo. E’ vero, Paolo s’era riservato il diritto di sfidare il nemico fumando la media di tre-quattro sigarette al giorno, ma sempre all’aperto, leggerissime, e distanziate. Susanna avrebbe ridotto le sue e le avrebbe fumate sempre in terrazza, in cortile, fuori comunque dalle stanze. Era solo un esempio, anche se il maggiore, del “contenzioso possibile”. Ma riprendiamo il taccuino. Alla parte che abbiamo compendiato in succinta spremitura del testo autografo segue questo “dialogo”.

“Ti vedo poco interessato, quaderno. Gradiresti qualche capitolo del “congiungimento” meno insipido, immagino. Magari dei particolari piccanti? Il fatto è che Crono ghigna sulle mie spalle: che vai ciancicando, a settant’anni, – mi sussurra – di sesso e letto di battaglia? Non è, non dovrebbe essere, il tuo, soltanto o quasi, letto di casti riposi e pudiche carezze senili?
E qui ti sbagli, Mentore peloso: al confidente dei miei dettagli (e delle mie frattaglie) posso garantire una ponderata pretesa del contrario. Il sottoscritto non è stato, mai, o soltanto in sporadiche e “succinte” occasioni, un ghiottone del sesso. Istintivamente ne ha usato con misura. Meglio: dosandolo a prevedibili capacità fisiche di non difficile riscontro. Qualche eccezione di “sballo” mi veniva subito e immancabilmente messa in conto (e fatta pagare) dal mio corpicino costruito in regime di parsimonia materna. Sapeva, il mio cervello giurassico, che non ero un dinosauro, e il cauto neopallio (scusami la terminologia) dosava le sue concessioni all’antenato irrazionale con oculata ponderatezza. E forse questo ha conservato discrete capacità fisiologiche al qui compiaciuto settantenne. Capito, caro Intrigante? Ho delle buone spinte e resistenze erettili, dolcissimi orgasmi lenti, più faticose ma anche più squisite e tenere esplorazioni preliminari e antipasti di gusto, starei per dire, intatto.
Non ti basta? Vorresti descrizioni operative, dettagli intrusivi, lessico esplicito? E quando mai l’hai avuto da me, vecchio gossipista? Non siamo mai stati degli Henry Miller, e nemmeno una Anaïs Nin. Nemmeno uno stravaccato Charles Bukowski: certe esplicitezze le abbiamo assunte dal disinibito Houellebeck, lasciandogliene, per così dire, la responsabilità tecnico-scientifica. Non abbiamo avuto mai abbastanza “coraggio” o nonchalance: ti sei, forse, corrotto nella vecchiaia?
Ti basti annotare l’onda di douceur che dilagò nel mio corpo quando, nudo, si strinse al suo in tutti i modi e le contorsioni possibili, e l’esplosione di incontinenza umorale quando potei varcare quella soglia che trentacinque anni prima m’ero costretto, contro la stessa smania di lei, a lambire soltanto. Allorché potei entrare in quel buio che per tre lunghi anni m’ero proibito in quell’era remota e (non) perduta, quando le forze della sensibilità erano verdi e brucianti gli spasmi della rinuncia (questa specie di auto-castrazione funzionale), quando... Ti basti registrare il cumulo di secrezioni convergenti, la tempesta umorale che squassò questo corpo appesantito quando dentro quell’umido segreto in piena e convinta offerta spinse senza più remore e freni il suo ridesto onore di maschio ancora valido, indennizzando la mia giovanile astinenza dolente.
Sì, lo so, ora ti prudono le righe di curiosità su di lei, sulla “divina” ventenne dei “favolosi anni Sessanta” (come scrivono gli editori in Cd di quelle canzonette), su quel che ne resta nell’inevitabile appassimento dell’erede che ha varcato da qualche anno la barriera dei cinquanta. Ebbene, ti sembrerà un’iperbole, ma ti do la mia parola: è un bel residuo, un avanzo che farebbe invidia al totale di certe anemiche adolescenti di bianca pelle e pallide gote. Susanna “invecchia bene” e i suoi cinquantasei anni, senza pretendere confronti con i venti e i trenta, conservano una reattività erotica più che rispettabile. O, se il termine ti suona troppo prosastico, caldamente godibile e altrettanto capace di personale godimento. Senza eccessi e senza avarizie, vale a dire compatibile con le mie risorse in equilibrata reciprocità. Che altro pretendere? Aggiungi un certo ludismo onirico che mi fa sognare, a volte, di stare, non con la ultra-cinquantenne, ma con la mitica ventenne, intatta nelle immagini memorizzate nell’hard disk via scanner, directory Documenti, file (sovraccarico) Foto.
Dove stiamo? Un po’ a casa sua, nella Capitale estiva, di più nella mia casa sicanica sul mare Jonio, che alla Sicania associa la Calamagna nell’abbraccio geografico e simbolico di una continuità emozionale mai rinnegata. Il “di più” si stende fra l’autunno e l’inverno, complessivamente più miti e meno piovosi che nel centro-nord. Nonché (e retoricamente?) “benedetti” dal “mare di Ulisse”, ancora e sempre palpitante di memorie mitiche, storiche e di varia (non solo truce) cronaca, tra faraglioni ciclopici siti archeo pervasivamente frequenti e discretamente frequentati da certo movimento turistico, ed anche da manifestazioni edonistico-culturali. Il che non guasta, se l’adolescente residuale che vibra ancora di passione greco-romana conserva un suo lucar dentro le galassie neuroniche del vecchio disincantato. La scopa elettronica del disincanto ha ripulito di molto ciarpame retorico quella passione cresciuta in precoci serre scolastiche, ma non ha cementificato l’innocente humus diserbato.

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Capitolo provvisoriamente finale

Voi tutti conoscete la selvaggia tristezza che suscita il rammemorare il tempo felice: esso è irrevocabilmente trascorso, e ne siamo divisi in modo spietato più che da quale si sia lontananza di luoghi. Le immagini risorgono, più ancora allettanti nell’alone del ricordo e vi ripensiamo come al corpo di una donna amata che morta riposa nella profonda terra e che simile a un miraggio riappare, circonfusa di spirituale splendore, suscitando in noi un brivido di sgomento...
Ernst Junger, Sulle scogliere di marmo
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Che potrei intitolare Breve la vita felice di Paolo e Susanna.
Se breve può dirsi il tempo di due anni e mezzo, pieni di passione e di avventure. Prima della catastrofe. Ovvero della “dipartita” di Paolo.
In questo lungo prima, dunque, Paolo e Susanna furono, direi, appunto felici, se non sapessi che il mio amico rifuggiva da quel termine (repetita iuvant?) come dalla peste retorica. Cioè dalla Menzogna. Come se fosse facile evitarla sempre.
Viaggiarono, cercando, nel variare dei luoghi, la varietà dei baci – come si diceva nei romanzi pudichi di un tempo lontano. A Venezia, dove Paolo era stato solo una volta, con la sua terza del liceo sicanico, in “Viaggio d’istruzione”, e Susanna non era mai stata, conobbero ore di ringiovanito abbandono. Galeotto catalizzatore di questo “risveglio di autunno” le mille seduzioni della maga adriatica, già Serenissima e imperiale potenza, e ancora scrigno di bellezze monumentali doppiamente “grandiose”, oltre che di incanti naturali. L’età di entrambi non prometteva tempeste dei sensi, ma quel clima di adolescenziale esaltazione, inevitabile per lui, agì da afrodisiaco contagioso e trascinò la coppia a qualche eccesso. E si stupì, Paolo, di quelle insospettate risorse del suo corpo, che era abituato a giudicare severamente. Si capisce, il (molto relativo) “troppo” di una notte veniva equilibrato dalla prudenza delle successive – almeno per una sequenza di due o tre. Né Susanna era più la focosa ninfa boschiva dei suoi vent’anni. O la complicata “Justine” che intitola il famoso romanzo di Lawrence Durrell (che Paolo leggeva negli ultimi mesi). Saggia e prudente in proporzione agli anni (anzi, decenni) accumulati dentro il suo già vibratile corpo così duramente provato da quei parti cesari e altra chirurgia invasiva, era lei la prima a suggerire moderazione al suo vecchio professore demi-amoureux. “Non lo dico per me” – spiegava, sorridendo protettiva – “che sono pronta anche all’ultimo viaggio, ma per te, che ancora hai tanto da realizzare” . Tanto? – pensava Paolo, poco convinto della sua costanza. E partiva il duetto su chi dei due avesse più da fare in questa valle di lacrime. O più da perdere nello strappo conclusivo. Paolo ricordava alla sua Susy (gli piaceva, di tanto in tanto, chiamarla in compact, come ai bei tempi della scuola) che aveva da godere ancora la gioia della “nonnità”, e lei replicava che le sue figlie, a quanto pareva, non avevano nessuna intenzione di generare altri infelici per la terra indegna. Dicevano proprio così, “per la Terra indegna”? “Proprio così, no: quella è una frase tua” – precisò Susanna. Non ricordava, Paolo, che la catastrofica valutazione gli scappava detta di tanto in tanto, durante la lezione di filosofia nella sua classe? Magari commentando qualche santo filosofo medievale, sordo e cieco, come tutta la categoria, “dinanzi agli orrori del mondo”. Vagamente, se ne ricordava il “filosofo triste”. Trovava tuttavia strano che due belle giovani spose non “soffrissero” il bisogno della maternità. Al che Susanna lo accusava, benevolmente, di distrazione: “Dimentichi la loro fallimentare esperienza di figlie abbandonate da un padre carogna. E il peggio che ha sconvolto la maggiore”. Paolo, in quell’accensione di coscienza rimemorante, si scusava, accusando l’egoismo dell’ “uomo felice”. Anzi, del vecchio scotomico di memoria e mezzo anchilosato nei sentimenti: non si sa che i vecchi diventano più egoisti?
Era Paolo, ad ogni modo, ad avere più legami con la vita: già nonno, con due amori di nipotini, maschio e femmina; e poi studioso in vena di novità, scrittore impegnato in un cantiere aperto, commentatore politico incazzato, e via elencando. Paolo frenava l’euforia “elenchistica” di Susanna, ma riconosceva, in interiore homine, che egli aveva qualche ragione più di lei per desiderare ancora qualche anno di attività lucidità curiosità “frugifera”. L’importante era che, ora, dopo l’incredibile ricongiungimento, avevano una specie di “dovere”, entrambi, di vivere alcuni anni. A compenso dei lunghi silenzi e le spente distanze che li avevano separati per decenni sparsi in discontinuità di periodi diversi. O almeno, di sperare in quegli anni del desiderio. La spietata vigilanza auto-critica di Paolo non mancò di segnalare quel “dovere” sfuggito all’autocontrollo antiretorico: la vecchia, giovanile passione camusiana riaffiorava ancora a vantaggio dell’enfasi che la sofferente maturità si illudeva di aver domata. E ricordò il giovanile romanzo “La morte felice” e i “Saggi” del Camus “africano”, tutto mare e sole, “gioia di vivere” e ricerca dell’equilibrio con la dura storia. Ricordò anche i propri pubblici interventi su di lui. Erano parte della sua avventura con Susanna, aveva scritto quegli articoli e saggi nel periodo di massima tensione della sua contrastata passione. Naturale, perciò, che la funzione associativa mescolasse le due esperienze anche verbalmente. Avevano, sì, “il dovere di essere felici”. E pazienza se il “filosofo triste” si contraddiceva in rapsodiche ebbrezze di obliviosa gioia compensatrice.
E di attendersi lunghi anni di verifica? Avevano anche questo “dovere”? Dovere o verbale trastullo, non furono esauditi. Ma quel biennio e la sua coda di mesi furono ricchi di esperienze variamente esaltanti. E, fra pene e perdite, conobbero soddisfazioni e rivincite. Paolo, soprattutto. Riuscì a pubblicare con un modesto, ma intraprendente editore, una versione ridotta e ampiamente affabulata di questa storia, nascosto dietro uno pseudonimo. Inaspettatamente, l’editore, per un fortunato scambio di favori, poté strappare una recensione positiva a un pezzo grosso del secondo quotidiano nazionale. La cosa incuriosì qualche concorrente, un servizio televisivo di medio livello ebbe risonanze locali presto dilatate per cerchi concentrici. Si accese, forse in seguito al servizio tv, un passaparola fra giovani lettrici eroticamente reattive, e qualche lettore colto stuzzicato dalle digressioni filosofiche ne accese un altro, rinforzando il successo. Che fu di consensi per l’originalità dell’impianto-impasto e la vivace flessibilità linguistica; ma anche di polemiche marcatamente ideologiche (ovviamente, con prevalente provenienza cattolica). In breve, il libro divenne un caso letterario e s’inserì nella gara, allora in corso, fra l’immarcescibile Camilleri e le nuove leve della narrativa divergente. Un bel successo, che Paolo avrebbe volentieri dedicato alla scomparsa Severina detta Rina: con quanta severa e instancabile costanza gli aveva rimproverato quella sua ostinata attività scrittoria accompagnata da così scarse gratifiche pecuniarie! Quale rivincita sarebbe stata! Non c’era più Rina, ma c’era Susanna: non gli bastava? Sì e no: Susanna non aveva mai incontrato quel problema, mentre Rina ne aveva sofferto lungo una buona parte della sua vita coniugale. Per Paolo sarebbe stata una bella rivincita e per Rina un tardivo, ma pur sempre appetibile compenso a decenni di frustrazioni. Le avrebbe comperato la casetta al mare: ormai i diritti d’autore glielo permettevano.
Insomma, un altro degli incredibili degli ultimi anni s’era affacciato nella esistenza movimentata di Paolo Assaggi. E in quest’ultimo, giocò il ruolo, prima appena sfiorato, di intervistato del giorno: non solo le televisioni locali e regionali, ma anche le reti nazionali se lo disputarono per qualche mese. E tutti a stordirlo di domande, pertinenti e impertinenti, di letteratura e filosofia. E, naturalmente, di fede e ateismo. E qui Paolo dovette adattarsi ai consigli degli intervistatori, a loro volta indottrinati dai direttori di rete e proprietari di network. Si lasciò perfino augurare di poter ritrovare la fede perduta: una gentile intervistatrice non più afflitta da urgenze giovanili, gli confidò in pubblico la sua attempata conversione e gli augurò che anche a lui toccasse tanta grazia. Paolo dovette fare buon viso a cattivissimo gioco (o giogo?), e anziché rispondere come gli dittava dentro, ringraziò e sospirò: Chissà! E si tenne dentro la nausea di quella mediocre commedia, sfogandosi, dopo, negli appunti privati. Non senza ripetere e ribadire l’atroce convinzione dell’inguaribilità umana dalla Grande Menzogna propiziatrice di delitti e massacri non stop.
*
Grande fu lo sconcerto di Paolo quando, al risveglio, constatò, con incredula difficoltà, che era stato un sogno, soltanto un sogno, tutta quella gloria letteraria, quel successo mediatico in rapida metamorfosi di ottime vendite e denaro sonante, di riscatto se non agli occhi di una Rina assente, per se stesso, unico neo del sogno, quella Rina svanita in mesto ricordo e non surrogabile con la Susanna di carne così estranea a quei lontani rinfacci coniugali. Un sogno, soltanto un sogno: ironico, sfottente, sadico, come i tanti che avevano popolato la sua esistenza largamente frequentata dall’immaginazione in ogni suo aspetto sorriso e ghigno.

Se la gloria letteraria, col suo codazzo di esiti mercantili, era stata solo un sogno beffardo, una sua porzione, piccola e diversa nella sotto-specie, fu realtà. Paolo vinse il primo premio di un concorso culturale: 5.000 euro, non era una gran somma, ma anche così modesta avrebbe fatto felice Rina. Il premio era stato iniziativa di una possidente della Sicania occidentale, che aveva fondato un'associazione culturale intitolata “Gli Amici di Diderot”, riuscendo a coinvolgere la Regione e la Comunità europea. L’associazione viveva il suo terzo anno di esistenza, con un discreto successo: aveva organizzato le sue conferenze, e il premio vinto dal mio amico era del secondo concorso. Paolo aveva presentato un volume che raccoglieva i suoi sparsi saggi sul poliedrico autore, da lui giudicato il più colto versatile geniale fra tutti gli autori del glorioso illuminismo francese. Insomma, che davvero fosse quell’“individuo unico” già riconosciuto e celebrato dal congeniale grandissimo Goethe. Dei saggi uno era, per estensione e trattazione, un vero libro, però pubblicato solo a puntate nella rivista del suo liceo Convivium, gli altri, molto più brevi (da dieci a venti pagine corpo 12 della rivista di Gulizza), illustravano singoli temi dell’immensa produzione diderotiana. Il volume era stato stampato a spese del suo Comune da un editore di Liotria per intervento di un ex alunno del liceo diventato assessore alla cultura di quella Giunta. Il concorso comprendeva tre premi, primo, secondo e terzo. Stupì parecchio quella sua vittoria, e non solo il diretto interessato che aveva partecipato su insistenza di ex colleghi e ex alunni, ma l’intera cerchia delle sue conoscenze e amicizie: come ipotizzare un premio per un autore così divergente dal clima prevalente nella sua città e in tutta la Sicania cattolico-politico-mafiosa (salve fatte le solite eccezioni ultra-minoritarie)? Il fatto era che s’era verificato un altro dei famosi inverosimili. Della commissione giudicatrice facevano parte altri due ex allievi di Paolo, del liceo di Realpolia. Sì, il venticinquennio di “professorato” in quel liceo “curializzato” aveva sparsi frutti di stima e perfino di riconoscenza fra gli ex allievi (“a prescindere”). I due della commissione erano, entrambi, docenti universitari, uno presso l’ateneo di Liotria (cattedra di Filosofia teoretica) l’altro in quello di Zancle (cattedra di Antropologia culturale). I due si batterono in difesa del loro ex professore e riuscirono a fare apprezzare gli aspetti nuovi che la sua critica testimoniava nel fertile pensiero in progress del Fondatore della proverbiale Enciclopedia. Uno di questi era una sorta di lampeggiante anticipo delle teorie trofologiche gulizzane. Per evidenziare questa sensibilità biologica del filosofo era stata preziosa, per Paolo, la tanto discussa operetta polemica “Il nipote di Rameau”, nelle cui pagine (inedite durante la vita dell’autore, a tutela della sua incolumità e libertà) la variabile trasversalità del tema lungo l’intera produzione diderotiana si addensa con particolare intensità. Ecco il protagonista inquadrato nel clima fin dalle prime pagine: “Triste o gaio secondo le circostanze. Sua prima cura, quando si leva al mattino, è di sapere dove pranzerà; dopo pranzo, si preoccupa di dove andare a cenare”. La sua lingua troppo libera lo ha escluso da una casa ospitale: che cosa rimpiangere? “Eravate trattato a manicaretti ed eccovi di nuovo ridotto ai rifiuti” Di qui l’“insopportabile” “disprezzo di se stesso” “Mille volte mi son detto: ma come, Rameau, ci sono a Parigi mille buone tavole di quindici-venti coperti ciascuna, e di tutti questi coperti non ce n’è uno per te!” La visione filosofica di Rameau non è meno intonata alla verità biotrofica universale: “In natura tutte le specie si divorano, tutte le classi si divorano nella società.” “E poi la miseria. La voce dell’onore e della coscienza è ben fioca quando lo stomaco reclama.” “Datemi retta, viva la filosofia, viva la saggezza di Salomone: bere buon vino, rimpinzarsi di manicaretti, spassarsela con belle donne, riposarsi su morbidi letti. Fuor che questo, tutto il resto è vano.”

Paolo non intende sovrapporre il personaggio all’autore: troppo evidenti le differenze tra un cinico artista e intellettuale “fallito”, ridotto quasi soltanto alla gioia dei pasti e del letto e la ricchissima personalità diderotiana. Ma non oblitera, come accade in tanta critica, la simpatia umana dell’autore verso quella figura di artista tradito dal talento e dalla società letteraria cinica e maldicente: è ben essa che lo costringe al parassitismo mordace. Né ha difficoltà, l’autore della “Passeggiata dello scettico”, a confessare direttamente: “Io non disprezzo i piaceri dei sensi. Anch’io ho un palato che gusta un cibo delicato o un delizioso vino.” Rameau non smania di frequentare certa gente, né sbava di piacere nelle conversazioni con quei discutibili letterati, ma vi è costretto e non può cessare di essere “un brigante felice tra briganti opulenti.” Non è bello fare il clown adulatore? Non lo sarà, ma non può ritrarsene.

“Chi altri può assoggettarsi a una simile parte se non il miserabile che trova lì, due o tre volte la settimana, di che placare gli spasmi degli intestini? E che pensare degli altri, quali Palissot, Fréron, Poinsinets, Baculard, che pure hanno qualcosa e le cui bassezze non si possono scusare con il borbottio di uno stomaco che soffre?” A reggere questo ruolo occorre ingegno, applicazione, “non vi si riesce in un sol colpo, ma vi si arriva a poco a poco. Ingenii largitor venter.” “Sembriamo allegri, ma in fondo siamo tutti di cattivo umore e con un grande appetito. Dei lupi non sarebbero più affamati, delle tigri non più crudeli. Divoriamo come i lupi dopo che la terra è stata ricoperta di neve, sbraniamo come tigri quanti hanno avuto successo”

La carrellata citatoria potrebbe prolungarsi ancora per pagine, concludiamo con un sospiro sociale, anzi con un soffio di sacra rabbia potenzialmente “sovversiva” (cioè, sacrosanta):

“Sono in questo mondo e ci resto. Ma se è nella nostra natura avere appetito – torno sempre sul fatto dell’appetito perché è la sensazione che mi è sempre presente – io trovo contro natura non aver sempre di che mangiare. Che diavolo di economia è questa: alcuni uomini rigurgitano di ogni ben di Dio, mentre altri, che pure hanno uno stomaco importuno come loro stessi, una fame altrettanto insistente, non hanno che cosa mettere sotto i denti. Il peggio è la soggezione in cui ci mantiene il bisogno…”

martedì 6 luglio 2010

SUSANNA, Frammento 73


Resa totale del vescovo pavido, e guai “firmati” per la Cadière, il fratello e il carmelitano onesto: “Instaurato il terrore, si potevano ascoltare i testimoni, due per primi, rispettabili e selezionati. La Guiol, nota fornitrice di donne a Girard; lingua abile e pungente, fu incaricata di scagliare la prima pietra, e aprire la piaga della calunnia. La Lauger, la piccola sarta che la Cadière nutriva e cui aveva pagato il tirocinio. Incinta di Girard, gli aveva gridato contro; qui lavò questa colpa [...] infangando la sua benefattrice, ma goffamente, da spudorata [...] poi vennero [..] le girardine [le donne di Girard] come le chiamavano a Tolone”.

E avanti con minacce ricatti mercato di coscienze bacate. I gesuiti in difficoltà “chiesero aiuto ‘in alto’”: temevano Parigi, i suoi tribunali, e ottennero la Provenza: quel parlamento avrebbe aiutato i benemeriti figli di Sant’Ignazio. La Cadière affidata alle orsoline, chiusa nella “cella di una suora pazza che sporcava tutto. Dormì nella paglia di questa pazza, in quest’odore spaventoso [...] Le diedero per guardiana e infermiera l’anima dannata di Girard, una conversa, figlia di quella Guiol che l’aveva concessa, degna in pieno della madre, capace di azioni sinistre”
Il metodo spiccio continuava a pieno regime: chi avesse intenzioni di testimoniare il vero, quindi contro Girard, veniva minacciato, comprato, sequestrato, allontanato. Così avvenne per le religiose che, pur minacciate dal corrotto padre Aubany di essere processate loro, e dunque torturate, solo in tre su quindici si erano dichiarate per Girard, “tutte elencarono fatti [...] che lo rovinavano senz’appello”. Ma ecco il colpo di genio:
“I gesuiti disperati presero una decisione eroica per assicurarsi dei testimoni. S’installarono in una sala di passaggio che portava al tribunale. Là, li fermavano, corrompevano, li minacciavano, e, se erano contro Girard, non li facevano entrare, e con la forza, impudenti, li mettevano alla porta [...] Così, il giudice ecclesiastico e il luogotenente erano ormai soltanto fantocci nelle mani dei gesuiti.”
La povera ragazza ripeteva le sue verità in “deposizioni schiaccianti”. I colti gesuiti “erano tanto furiosi, che gli dispiaceva non avere a Tolone il boia e la ‘questione’ [la tortura] “per farla cantare un po”. Era l’ultima ratio. E Michelet aggiunge un fregio alla civiltà cristiana che ammetteva la tortura: “I parlamenti ne usarono per tutto il secolo. Ho sotto gli occhi un fervido elogio della tortura scritto nel 1780 da un sapiente parlamentare [“Muyart de Vouglans, “Lois criminelles”], divenuto membro del Gran Consiglio, dedicato al re (Luigi XVI), e coronato da una lusinghiera approvazione di Sua Santità, Pio VI”.
Non c’è la tortura? Niente paura: c’è il fervido vino, ci sono le droghe: la Guiol usa la combinazione, veicolata da lusinghe menzognere e convincenti minacce, per ubriacare l’indebolita innocente. L’effetto prolungato per più giorni consentiva di usare la Cadière “in modo da impedirle di ritrattare la ritrattazione”. Ut erat in votis, la vittima indifesa capovolse le precedenti deposizioni veritiere e fece un’ “apologia di Girard”. Senza che gli illustri inquisitori cogliessero la stranezza dello stato psichico della giovane:
“Lo spettacolo singolare, vergognoso d’una ragazzina ubriaca, non li stupisce, non li mette in guardia. Le fanno dire che Girard non l’ha mai toccata, che lei non ha mai provato piacere né dolore, che tutto quello che ha sentito deriva da una malattia. Sono stati il carmelitano e i suoi fratelli a farle raccontare come realtà quanto non era stato che un sogno. Non contenta di discolpare Girard, incolpa i suoi, li rovina e gli mette la corda al collo” (p. 295).

Prima che l’effetto della pozione svaporasse, si provvide a somministrarle altre pozioni, “senza che ne avesse coscienza né ricordo.” In questo periodo, sei giorni dal 28 febbraio al 5/6 marzo, “avviene il fatto sconcertante, impossibile prima o dopo. Tanto schifoso e triste, per la povera Cadière, che viene detto in tre righe; né lei né suo fratello se la sentono di dire di più. Non ne avrebbero mai parlato se i fratelli, perseguiti anch’essi, non avessero visto che ne andava della loro vita”.
Qual è il fatto schifoso? Semplice, come la pulizia da ogni decenza: “Girard andò dalla Cadière. Si prese su di lei, ancora, insolenti, oscene libertà”. Intervallo stretto fra due impossibilità: la prima, coincidente col periodo di massimo allarme per il Girard, precede i sei giorni maledetti. In essi “Girard fu intimidito, umiliato, sempre battuto nella guerra dei testimoni che muoveva alla Cadière”. La seconda, inizia dal 10 marzo, “il giorno in cui lei tornò in sé, e uscì dal convento dove lui la teneva. La vide solo in questi cinque giorni, quando era ancora padrone di lei, e la poveretta, sotto l’azione del veleno, non era più se stessa”. Era piena di mali, la sventurata, e ne soffriva molto. Tra questi, un’ernia, “a tratti molto dolorosa”, provocatale dalle convulsioni, e collocata nelle parti intime. “La prova che Girard non era un criminale casuale, ma perverso, uno scellerato”, intento solo al profitto personale, la fornisce l’uso che di questa “piaga” fece: “Pensò che, se l’avesse usata, avvilita agli occhi di se stessa, non si arebbe mai più risollevata, non avrebbe avuto l’animo e il coraggio di ritrattare la ritrattazione”. Ed ecco questo monumento della più lurida viltà umana tirare in ballo, nel processo, quest’ernia, “scherzando libertino, e arrivò all’indegnità [...] di portarvi la mano”. Appena un cenno fugace dal fratello, al processo, “con vergogna” Da lei, un monosillabo di risposta alla domanda del giudice: “Sì”. La minaccia della tortura sempre in atto, un memento reiterato ad ogni esitazione: “I caritatevoli commissari le dissero che la tortura era pronta, lì accanto. Le spiegarono i cunei che le avrebbero serrato le ossa, i cavalletti, le punte di ferro”. L’infelice “era tanto debole di corpo che le mancò il coraggio. Sopportò di trovarsi faccia a faccia col suo crudele padrone, che poté ridere e trionfare, avendola avvilita nel corpo, ma soprattutto nella coscienza, facendola assassina dei suoi.”
La miserabile combutta dei “poteri forti” produsse il trionfo del Girard e la perdizione della santa trasformata dai titolari di quegli stessi poteri in creatura satanica, trastullo delle peggiori calunnie. Ma non poté impedire un sussulto di umana simpatia che mise in difficoltà la perversa macchinazione di quei poteri. La società, nei suoi vari strati, si appassionò al caso: “Tutti ne avevano pietà. Si trovarono due coraggiosi, Aubin, procuratore, e Claret, notaio, che le certificarono la ritrattazione della ritrattazione, documento terribile in cui lei racconta le minacce dei commissari e della superiora delle orsoline, soprattutto il fatto del vino avvelenato che venne costretta a bere”. Fu inviato “al ministro della giustizia” un appello che documentava un mostruoso “abuso di autorità ecclesiastica”: “le violazioni ostinate della legge” da parte di tutti i diabolici mestatori investiti del processo: giudice vescovile, luogotenente, commissari. Ma il guardasigilli d’Aguesseau, da mediocre Pilato, rifilò la scottante faccenda al parlamento di Aix: lo stesso che s’era rivelato docile strumento nelle arpionate mani dei gesuiti. E ricomincia il calvario della martire: polizia a cavallo per il trasferimento, come si trattasse di un vigoroso masnadiere e non di una svigorita malata incapace di reggersi in piedi. Ospitalità, ancora dalle garantite orsoline di Aix: “Lì si dimostrò la ferocia delle donne quando s’esaltano e perdono natura di donne”. Così, lo sdegno di Michelet. La superiora regalò alla sventurata “quattro ore di gogna” davanti alla canea di prezzolati mascalzoni, “la gente dei gesuiti, i bravi operai del clero...”. Ancora un onest’uomo che tenta di recuperare la giustizia e la pietà, l’avvocato Chaudon, ma invano. Tentò un accordo con i diavoli gesuiti, ma quei diavoli, di realissima carne e non di fantasia malata, rifiutarono l’offerta. “Allora si mostrò quello che era, un uomo di salda onestà, ammirevole coraggio. Espose, da dotto legista, la mostruosità delle procedure. Significava guastarsi per sempre col parlamento come coi gesuiti. Stabilì con precisione l’incesto spirituale del confessore, ma per pudore, non specificò fin dove era giunto il libertinaggio. Si vietò anche di parlare delle ‘Girardine’, delle devote incinte” da quel profusore di sperma, “fatto che tutti sapevano benissimo, ma che nessuno avrebbe voluto testimoniare”
Purtroppo, commise un errore: attaccò Girard come stregone. E il pubblico popolare la prese a burletta. Inutili i suoi testi sacri mobilitati a riprova del diavolo e dei suoi interventi nelle sporcizie umane. “E risero ancora più forte.” Gli intellettuali, i filosofi, compresi i libertini, non snobbarono la ghiotta occasione: si godevano questa “scenografica” rissa fra gesuiti e giansenisti, e per un bel po’ di giorni non badarono alla sventurata vittima dei pestiferi loyolani (p.300). Ma quando fu proposta per la giovane questo po’ po’ di pena: “Che la Cadière, prima messa alla questione [tortura] ordinaria e straordinaria, fosse poi portata a Tolone, e, sulla piazza dei Prêcheurs, impiccata e strangolata [...] i mondani, i libertini non risero più; fremettero. Non erano abbastanza frivoli da passar sopra a un simile orrore”. Grandi e commoventi le dimostrazioni popolari a difesa della Cadière, ma alla fine ebbero il solo effetto di ritardare la resurrezione processuale del Girard. “Il cardinale Fleury accontentò i gesuiti in tutto e per tutto. Ad Aix, Tolone e Marsiglia, mandò in esilio, bandì, mise in prigione. Tolone sopratutto era colpevole di aver messo il ritratto di Girard sulle porte delle “girardine” e portato in corteo il sacrosanto tricorno dei gesuiti.” E la povera Cadière, che fine fece? “La Cadière avrebbe dovuto, secondo la sentenza, potervi tornare, ridata alla madre. Mi azzardo a dire che non le permisero mai di rimettere piede sullo scottante teatro della sua città natale, che s’era dichiarata così fieramente per lei. Che ne fecero? Finora nessuno è riuscito a saperlo.” L’ipotesi di Michelet è tanto triste quanto credibile: i gesuiti “avranno atteso che la gente fosse distratta, pensasse ad altro. Poi l’artiglio l’avrà riafferrata, immersa, perduta in qualche sconosciuto convento, spenta in un in pace. Aveva solo ventun anni al momento della sentenza, e sempre aveva sperato di vivere poco. Gliene abbia Dio fatta la grazia.” (p.307). E si rammarica, Michelet (e noi con lui), che Voltaire si sia mostrato “molto superficiale su questa faccenda. Ride degli uni e degli altri; soprattutto dei giansenisti. Quanto agli storici Cabasse, Fabre, Méry, che “non hanno letto il Proces [..] si credono imparziali e schiacciano la vittima” (Testo usato per questa “dilatazione” storica: Jules Michelet, La strega, Bur, 1977, Introduzione di Franco Fortini, traduzione e note di Paola Cusumano e Massimo Parizzi).