mercoledì 30 dicembre 2009

Susanna, frammento 51


Mi s’impone un ritorno al mitico Sessantotto: una commemorazione ci tenta con un irresistibile servizio giornalistico sui figli di alcuni protagonisti dell’infuocata “kermesse” social-politico-culturale: una ribalta colorita e divertente, la molteplice testimonianza di questi figli degli allegri scalmanati presunti rivoluzionari epocali. Legnosi, i barricaderi, nel coinvolgere fanaticamente i loro pargoli, posposti sempre alle sirene della politica; vittime, quegli innocenti, di questa cervellotica intransigenza. Se ne può ammirare un duplice esempio nel libro e nel documentario di una figlia grintosa, Virginie Linhart. Il padre, Robert, scrisse un libro di successo, a ridosso del primo decennale, “L’Établi” (1978). Anzi “che fece epoca. E poi fu dimenticato”. E’ il “resoconto di un intellettuale andato a lavorare in fabbrica chez Citröen. La condizione operaia quarant’anni dopo Simone Weil”. Questo ebreo polacco sfornato dalla prestigiosa e molto selettiva Ẻcole Normale Supérieure, soffrì il riflusso post ’68 fino alla tentazione suicida. “Poi nel delirio della parola ideologica, perse la parola. O vi rinunciò. Fatto sta che ammutolì. Come un Hölderlin gauchista. Oggi è tornato a esprimersi. Ma a briciole. Dice poco. Sua figlia gli ha reso omaggio “scrivendoci sopra, a sua volta, un libro, ‘Le jour où mon père s’est tu’” e girando “un documentario di serena intensità: ‘68, mes parents et moi’ [...], nel quale ripercorre se stessa e le vite di altri suoi consimili, figli di marxisti-leninisti poi maoisti, senza dimenticare il femminismo”. Tutti questi figli, oggi quarantenni, hanno una sistemazione borghese: bancari, avvocati, economisti, impiegati... La cosa “ha tutta l’aria di una nemesi storica rispetto ai furori dei padri. E forse lo è”. Virginia non è severa con i genitori: le hanno trasmesso virtù positive, rigore morale, amore allo studio, e via elencando: “Non è stato facile avere genitori militanti [...] Ma in fin dei conti, non vorrei avere avuto un’altra infanzia”. Meno indulgenti gli altri. “Nel film sentiamo Samuel – figlio del noto architetto ex maoista Roland Castro – dichiarare: ‘Mio padre se n’è fregato di me. Io me ne fotto del 68’. /Tiè.” Una Juliette regrette: “per tutta l’infanzia ho sognato inutilmente una Barbie. Facevo colazione con biscotti e un bicchier d’acqua. Un giorno un’amichetta mi invitò a merenda: c’era cacao, pane, burro e marmellata. Quando manifestavo il desiderio di cioccolata mia madre mi dava della piccolo-borghese.” Non mancano cenni all’altra rivoluzione, l’unica riuscita: la sessuale. Leggiamo, della stessa Juliette, il dettaglio: “Ero io a tenere in ordine la casa. Tutti giravano nudi. Io mi chiudevo a chiave in bagno [...] Rientravo da scuola. In casa c’erano molte donne. Parlavano di clitoride. Io facevo i compiti”. Un altro figlio ideo-biologico del 68 aggiunge: “Mi chiamo Olivier Mao Carl Fabien. A scuola mi chiamavano Olivier. A casa Mao. Mia madre era femminista. Con le amiche discutevano di emasculazione [sic]. Me la sognavo di notte. Un incubo. E’ per questo che sono diventato omosessuale?” Di vetta in vetta: Alexandra ricorda la madre femminista ultrà (aveva imparato dal manifesto “Scum”, della famigerata Valerie Solanas, “quella che sparò ad Andy Warhol”) la quale scriveva “frasi del genere: ‘L’uomo è una donna incompleta’. Oppure: ‘Essere maschio significa essere manchevole, virgola’. Emotivamente limitato, punto’” (v. Marco Cicala, Au revoir Mao. I figli della generazione contro, che dichiarò guerra ai padri, Il Venerdì di repubblica n.1061) [nota del curatore (dei Quaderni di Paolo Assaggi). Il quale si meraviglia della sbalordita conclusione della brava (e un po’ canora) Cicala: “Nel luglio 2008 si fa fatica a comprendere come ...Soggiogare il cervello ai precetti di un micidiale dittatore asiatico...”!]
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Fine della divagazione e ritorno al privato personale. Quando mi giunse la telefonata del cognato con l’incontro susynesco inserito nel suo centro nevralgico era da poco in casa la sua prima bambina: contava già un paio di mesi. Gli sposi abitavano una villetta circondata di verde, con tre appartamenti, uno a pianterreno riservato ai suoceri, un altro al primo piano, elegante con un grande salone e mobilia fine, abitato dagli sposini; il terzo, al secondo piano, da completare, serve a ospitare parenti in visita. L’ubicazione è appena fuori centro-paese, a metà strada fra periferia e campagna circostante. La contrada è sempre la cosiddetta Zefiriade (ricca di memorie archeologiche quanto di ‘ndrina dalla sbrigativa “lupara”a. Aggiornata, magari, a kalashnikov).
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Prima di ritornare al culmine del settennio, non mi pare improprio e pleonastico ricordare come la presenza virtuale di Susanna nella mia vita non fosse mancata, neppure nei momenti più “occupati” (vuoi per impegni di lavoro che per distrazioni familiari o poveramente edonistiche). Neanche nei più drammatici. Rileggendo le agende-diario del settennio mi capita di incontrare sogni pieni di lei (ancora!) nelle situazioni più varie, sempre con incontri improbabili e in qualche misura ripaganti sul lungo silenzio nero della sua lontananza reale. Qualche mese fa rileggendo l’agenda del quinto anno da quella mitica maturità ho trovato, impensabilmente, poche righe dedicate a un sogno con Susy frammiste a righe drammatiche sull’agonia di zia Milla, sorella minore di mia madre, e mia seconda mamma “adottiva” (già richiamata in queste pagine). Ne trascrivo frammenti a più concreta intelligenza della confessione. E del suo sfondo ibrido di sofferenze lavoro e fantasie.

21 gennaio. La zia è tutta una rossa piaga, dai glutei all’osso sacro. Ma resiste. Non mangia, ma resiste. Si riesce a versarle in bocca (con lenta pazienza) appena un sorso d’acqua zuccherata, o succo di frutta, di tanto in tanto nel corso delle lunghe giornate di passione. Ondate di ricordi teneri e remoti si spezzano contro questo scoglio sordo di cellule necrotiche in rapida discesa verso l’indistinto. La zia Milla, la mia seconda mamma. Mi portava in campagna, nella cosiddetta sciara del nonno materno, che avevo ancora la vestina, allora in uso anche per i maschietti sotto i tre anni. Mi rivedo, piccolo e sperduto, tra grandi cladodi (pale, in dialetto sicanico) di fichidindia e aspre spalliere di pietra pomice. Sperduto fra cose troppo grandi ma fiducioso nella materna protezione di quella fatina attenta e vigilante. La quale, ultima delle quattro sorelle di mia madre, era una bella e prosperosa ragazza ventenne, ancora nubile a quel tempo, e come tale destinataria naturale del ruolo materno vicario. E lei in qualche modo si allenava alle connesse necessità e responsabilità. Mi accudiva con vivo trasporto, con vigilante tenerezza e flessibilità di interventi, mai, però, inquinati da severità o impazienza. In certi pomeriggi assolati mi portava all’imbocco della strada principale del piccolo borgo, allora tutta a fondo naturale di sabbia nera e pietrisco, e da lì il mio occhio fiducioso si perdeva nella lontananza tremolante dell’aria surriscaldata alla ricerca di un’incerta figura avanzante, che speravo fosse papà – il papà in visita dal paese lontano, tante volte promesso dalla zia in quell’attesa, in quello spazio caldo e vasto per me alieno e indecifrabile. Quasi rivivo la gioia perduta di quando la zia confermava il mio incerto riconoscimento balbettante un “papà” insicuro e problematico: “è papà, sì, è papà!” A completare la gioia, subito accesa di trilli e impazienze cinetiche, l’amabile zia aggiungeva un euforizzante “andiamoci incontro!” E si andava, su quella strada perduta, che la memoria restituisce così fascinosa, e così affocata nel sole africano di quella contrada sub-etnea. Il più delle volte, però, l’attesa tanto avida e protesa rimaneva delusa. Era una sofferenza, allora: la nostalgia della mamma carnale, della famigliola appena accresciuta dalla misteriosa nascita della sorellina, e secondogenita, il papà, così abile e sicuro nel sollevarmi fra le braccia robuste e giocare a lanciarmi “in alto”. Ma non era un dramma, con quella mamma vicaria così affettuosa premurosa generosa di doni e tempo ludico. Era “sempre” con me, la zia Milla. Ora io non posso fare nulla per lei.
Mi sovviene che ho già “deposto” questo amarcord in qualche pagina dei miei diari. Dilemma: che fare? cancellare o lasciare? Oscillazione riflessiva. Approdo: affidiamoci al proverbiale latinorum: repetita iuvant.

22 gennaio La zia apre gli occhi, sorride: uno strano sorriso remoto, quasi mistico. Ma non parla. Seguita a marcire. Lugubremente.
Poche righe private, nella pagina. Il cui resto è occupato da una lunga citazione di secondo grado: la definizione marxiana della merce presente nel libro di Fischer, Marx parla da sé, Longanesi, p. 100. Col lontano commentino mio: “Esempio di grande stile, oltre che di pensiero profondo”. E l’attuale postilla: la pagina, esempio spiccato di mélange personale.

23 gennaio Altro mélange. Un cenno alla zia agonizzante e il resto della pagina occupato da una lunga citazione dal saggio-testimonianza di E. Kuby, Praga speranza, pezzo forte del libro collettivo Praga e la sinistra, pp. 33-34. Eccone un frammento: “Il 21 agosto a Praga si sputò in faccia agli equipaggi dei carri armati, l’ho visto io. Si lanciò loro addosso della vernice, io l’ho visto. Si arrampicavano che parevano dei clown fuori dal loro carro armato già in preda alle fiamme, io li ho visti. Eppure non sparavano. Lo posso giurare”.

Postilla del trentennio:[Un libro che allora mi esaltò, offrendomi argomenti da contrapporre ai luoghi comuni della propaganda antisovietica. Ero stato fra i pochi a inserire l’intervento del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia nel ferrigno contesto tacitamente sotteso alla logica di Yalta e della Guerra fredda con i reciproci torti variamente compensati. E ricordare i ben più sanguinari interventi Usa in America latina e in estremo Oriente].1
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Sia detto con la debita ironia per i catoni zelanti nel condannare decontestualizzando gli eventi sul filo del vento ideologico del momento storico: per non fare nomi, tipo Enzo Bettiza, scontento della “riprovazione” del vecchio Pci saldato a Mosca, che il Fassino di 40 anni dopo voleva spacciare come “netta condanna” dell’ “invasione sovietica”. O tipo Bertinotti, che, nella celebrazione del quarantennio, pronuncia un j’accxuse degno di miglior causa: “La primavera di Praga non fu aiutata da chi doveva e poteva”, il Pci “si fece chiudere dalla realpolitik, dal tentativo di salvare le relazioni con l’Urss”! Quando si dice essere più realisti del re. Com’è più rispettabile l’antica, magari ingenua, “professione di fede” di Longo, segretario del Pci in quella torrida estate di tragici eventi: “Noi staremo sempre dalla parte del socialismo, dei Paesi e dei partiti che hanno realizzato il socialismo...” [Nota del curatore dei diari di Paolo Assaggi. Un quarantennio dopo. ]
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24 gennaio Stasera hanno portato la zia a casa in ambulanza: la danno per spacciata e hanno “concesso” a titolo di favore questo “trasloco”, che evita complicazioni burocratiche. Mia madre ha telefonato a mia moglie: “La zia è morta”. Rina mi informa. Scappiamo in macchina per la vecchia casa del nonno materno, ora della moribonda zia, casa vicinissima a quella dei miei. La casa, attualmente, è la fresca dimora provvisoria di due sposini, il figlio minore, Beppe, e la polposetta mogliettina dal viso grazioso. Entro, sapendo di trovare la zia già spenta. E invece, appena entrato, lei mi apre tanto d’occhi e mi guarda. Per un momento ho creduto a un abbaglio da straripamento emozionale. Macché morta: era ancora viva. Soprattutto in quello sguardo intenso e sorridente. In serata appare, addirittura, via via più sveglia, più reattiva: ci guarda, roteando gli occhi da rediviva, un po’ su tutti i presenti, ci sorride, si muove. Che strani guizzi di vitalità in quel corpo consunto! A culmine di tanto risveglio, a un certo punto tira fuori entrambe le braccia e con mani incredibili si stropiccia gli occhi, si liscia i capelli. Gesti inconsci, meccanici, d’accordo, ma gesti di vita, ancora, di vera spontanea vita, sull’orlo della tomba. Mia madre era convinta che il braccio destro fosse paralizzato: non l’aveva mai mosso durante questi lunghi giorni di funebre tristezza, dopo il suo rientro dall’ospedale.
Grosso problema: chi laverà le sue torture? La zia, da tempo, si fa tutto addosso, e ora, che è piena di piaghe da decubito, la cosa è diventata più greve. Come trovare una donna capace della bisogna? Capace, si capisce, non solo tecnicamente, per così dire, ma gastricamente, come “forza di stomaco” . E disponibile, senza meschini, ma comprensibili, disgusti e reticenze.

25 gennaio (Pagina cocktail se altre mai. Si apre con una citazione da “Oblomov” e si chiude con il martirio della zia: nel bel mezzo, si stende il sogno susyano. Ecco qua.)

“Anche oggigiorno, in mezzo alla fredda realtà senza fantasia che lo circonda, l’uomo russo si compiace di credere nelle attraenti favole dell’antichità, e forse per lungo tempo ancora non rinuncerà a tali credenze” (I. Gonciàrov, “Oblomov”, B.U.R, , 1965, p. 145). Ore 23. Sto vedendo “L’ultima spiaggia” alla tivvù. La stupenda Ava Gardner, la mia attrice preferita, mi ricorda Sa (Susy). Per taglio di viso, occhi, sguardo vellutato, fossette alle guance, movenze. Sa è soltanto più “leggera”, meno “corposa”, ma ne ha l’esprit, sensualità scattante compresa. Sa, l’intramontabile. Che ancora l’altra notte ho incontrato in Onirilandia. Deliziosamente disponibile, piena di giustificazioni e possibilità nuove, da sposa scontenta. Ah, l’ironica pietà dei sogni.
Stranamente, la Gardner è apparsa come l’originale di una copia felice a uno zio di Rina, lo sfortunato zio Tano, che una foto della nipote diciassettenne ha giudicato sempre somigliante alla diva. Eppure, “in carne” Rina e Susy sono due bellezze diverse. Giuochi della fotografia? Non basterebbero. Intanto io invidio Walter Chiari, quel bruttaccio seducente che l’ha avuta, la diva, beato lui.
Mi sovviene un termine di paragone più convincente, forse, per la “mia” Susy: la Rossella O ‘Hara di “Via col vento”, e cioè l’incantevole Vivien Leigh. Ma più che per i volti, diversi di una diversa bellezza sovrana (salvo, un po’ il nasino moderatamente all’insù), per il temperamento: vivace, civettuolo e poco domabile. Curioso particolare: il nasino delicato di Rina somiglia più a quello di Vivien che all’altro campione di plasticità, della concorrente. Tre nasi muliebri diversamente perfetti, con inevitabili somiglianze di dettaglio. Ultima coincidenza (senza rilevanza): l’età del film (tratto, com’è arcinoto, dall’omonimo romanzo di Margaret Mitchell, premio Pulitzer 1937, e diretto da Victor Fleming) è uguale a quella di Rina.
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Ho letto che stanno girando un seguito (sequel, in obbligato gergo) del monumentale Via col vento, vecchio di quasi settant’anni: chi sarà la nuova Rossella? Chi il nuovo Rett? Dove trovare una Vivien Leigh e un nuovo Clark Gable? Una certa curiosità pizzica l’attesa, anche se certi nomi circolano già. [Nota del curatore]
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E la zia muore. Il che dice poco. Bisogna aggiungere che muore stranamente. E’ piena di piaghe e non si lamenta: donde le viene questa anestesia. Che cosa può avere scatenato questa anomala produzione di endorfine? Che ci devono essere, dietro quel silenzio senza buchi di urla né di gemiti. Oggi ha tenuto tutto il giorno gli occhi aperti. Ho ancora “parlato” con una morta. Mi sento malissimo, sono tutto pieno di foruncoli: il corpo parla anche questo suo linguaggio diretto, perentorio, tanto più sobrio delle parole. Anche le più avare.
La mamma l’ha trovata – la donna, voglio dire, che baderà alla zia – E’ una giovane che poco tempo fa ha assistito due vecchietti ridotti come la zia. Dapprima non voleva accettare il nuoco incarico: troppo vicini, e opprimenti, i ricordi dell’assistenza ai due vecchi. Poi, commossa dalla faccia triste di mia madre, ha ceduto alle sue timide insistenze. Ma ha posto una condizione: che il marito non ne sappia nulla. Non gli piace che la mogliettina affondi le mani in certe materie. E si intravede anche un miglioramento nella loro situazione economica, se la necessità non preme più come al tempo dei vecchietti marci. Oggi, prima grande lavata globale. Mi dicono cose tremende. Che forse è meglio tacere. Non foss’altro, per non essere tentati, ancora, a sterili pronunciamenti contro “il male di vivere”.

26 gennaio Seguita il calvario della zia: immobilità, marcescenza, sporcizie, pulizie, fleboclisi. Non prende quasi nulla: solo un cucchiaino di succo di frutta, di acqua. Apre gli occhi, si muove, e sembra uno scherzo questo improvviso e lento emergere dall’immobilità assoluta. Stamane ha pronunciato una confusa parola: la rivolgeva a un pronipotino presente con la madre. Non che riconosca nessuno, ormai; solo che i suoni noti (e forse anche gli odori, per certe fisiologie più incisivi dei suoni) le risvegliano vaghe forme di “antiche” e note presenze, stimolando la sua reazione mimico-visiva, e talvolta anche vocale.

27 gennaio Pare che muoia e non muore. Sembra che la casa ritrovata le trasmetta forza di resistenza. Superstizione intorno a questa impressione di ritrovata forza vitale: che volesse tornare a casa sua? Che le abbiano fatta la fattura? Che abbia litigato con qualcuno che ora non la lascia “andare”? E via di questo passo e tono per tutto l’uditorio-parlatorio femminile presente: di parentela e di vicinanza in visita. Mi dà quasi un senso di sommessa letizia questo ritrovarla ancora viva ad ogni mia venuta nella sua casa. Viva, ostinatamente presente nella casuccia che la vide nascere, crescere, soffrire (quanto, porco ...! - censurato): per la cura vana e la successiva fatale morte della tenera madre precocemente devastata da un tumore rettale; per torture inflittele da due parti drammatici complicati da imperizia medica e resistenze dell’età non più fresca; per la perdita prematura di un marito adorabile, infestato da una sinusite tubercolare con annessi tormenti da suppurazione nei glutei iniettati di farmaci impotenti. E lei a subire e subire, per mesi, anni. Fino ad ammalarsi nel cervello, fino alla semi-demenza e ai relativi comportamenti strambi. E poi, da quel corpo irrigidito mi viene una sensazione strana, “metafisica”. Come di un ponte fra le due sponde reciprocamente repellenti, tra i due regni inconciliabili: la vita e la sua negazione, la vita e la morte. E’ viva, ma è morta. E’ presente, ed è assente. E si stenta ad accettare l’evidenza fisica della metamorfosi inesauribile: vita, morte, nuova vita, bassa, degradata, verminosa, ma vita tuttavia, nella sua cieca ottusità espansiva...
Viva la vita, dunque? Ma nemmeno per sogno. La connessa retorica degli ottimisti (chi altri potrebbero celebrare il “santo miracolo” della vita?) mi fa ricordare la drastica confessione di Schopenhauer: “Del resto non posso trattenerm qui dal dichiarare che l’ottimismo mi appare come un modo di pensare non soltanto assurdo, bensì in verità anche scellerato, come una derisione rivoltante delle inesprimibili sofferenze dell’umanità” (“Il mondo come volontà e rappresentazione”, I). E se, per caso, l’ho citato già in queste pagine, fa niente.

28 gennaio Continuo a fermarmi qualche minuto in casa della zia, la mattina, andando a scuola, e verso le due, ritornandone. Realpolia, la città del mio liceo, non è lontana, e il percorso comprende l’intera via dove sorgono le case dei nonni e la mia paterna. C’è sempre spazio per posteggiare la mia utilitaria sul lato destro (scendendo verso la città), tra le porte delle nostre case.
Il mio dialogo di silenzio con questo cadavere vivente continua ad alimentare la mia intraducibile meditatio mortis. Sono, per alcuni minuti al giorno, in una specie di dimensione intermedia: vivo in attesa di scadenza, sento la virtualità incombente della morte frugare le mie cellule come un disturbo fisico, biochimico. Immagino i processi disfattivi dentro la mia carne, e tento di rappresentarmi i moti molecolari (e sub) delle cellule che vivono e di quelle che si sbriciolano e finiscono nelle microscopiche cavità del brulicame lubrico. Mi saltano al cuore anche le immagini dell’eventuale “poi” e mi si chiude la gola in un raspo di pianto al pensiero della bambina priva del tanto invocato papà, sempre disponibile nel suo tempo libero dagli “inderogabili” (scuola e vario ingombro sociale): mi chiamerà mi cercherà e riceverà pietose bugie al posto di un’incomprensibile verità. Non riesco a sopportare questo pensiero.
Noto che ho usato verbi al futuro anziché al condizionale: bel sintomo.

29 gennaio Da quattro giorni non ingoia che qualche rara goccia d’acqua. Le piaghe, malgrado le cure, si estendono. Non me le fanno vedere, ma avrei una gran curiosità di guardarle, invece. Per cogliere fino a qual punto siamo materia corruttibile, marcescenza oscena, disgustoso liquame. Dove la corona lucente del pensiero suona in qualche misura come una raffinata perfidia, un’ironica burla. E poi, cercare la verità significa sempre fare esercizio di sadismo. Sublimato e spostato quanto si voglia, il nativo sadismo è la molla remota (e rimossa) dell’indagare, dell’andare dentro, del sezionare: operazioni strutturali della scienza, di qualsiasi scienza. Ma qui, dico in me, prevale la connotazione sadico-filosofica della scepsi. Mi tenta l’idea di pungere col bisturi della mia nuda lucidità visiva, col mio sguardo spoglio di bugie consolatorie, l’iperuranica sostanza dell’umana sublimità tradotta in tangibile poltiglia di umori in cancrena. De hominis dignitate. De dignitate et excellentia hominis, lo spirito è la vera, anzi unica realtà, l’anima semplicetta ospite del bruto corpaccio, sua prigione provvisoria, il bruco e la farfalla, “il corpo è spirito”, la Vernunft, il Geist, die schöne Seele, la res cogitans, la volontà libera, la sinderesi, l’apex mentis, ... Che comune denominatore per tanto gotha della mitologia umanistica maltradotta in nomenclatura e linguaggio! Brutte cellule che si sfaldano, galassie di molecole erranti, sistemi solari distorti di atomi persi in affannati modellini variabili, liquami, puzzo,... Giochi del Brutto poter che, ascoso,...
Ed ecco che improvvisamente, evocata dalla logica degli opposti, l’immagine di “lei” fende questo drappo nero e vi si accampa luminosa di sorridente, consolante vitalità, di scoppiettante joie de vivre. Addirittura più di quanto gliene abbia vista nella sperimentata realtà, dove la joie era sempre un po’ appannata nell’ombra delle ovvie paure di circostanza. E dei sensi di colpa inchiodativi dentro.

30 gennaio Stanotte mia madre l’ha vista morta più volte. Per la prima volta, poi, in questo calvario finale, s’è lamentata. E’ calata parecchio. Forse non supererà questa prossima notte. Le si è scolpita nel volto la maschera di una “moralità” medievale. Gli occhi, ormai da ieri, sono serrati e affondati in una macchia nera, la bocca aperta mostra le gengive sdentate, con tre soli pezzetti residui pendenti dall’arcata superiore. Una di queste punte, nei giorni scorsi, è affondata così profondamente nel labbro inferiore da bucarlo.

31 gennaio Ore 19, 50. E’ morta. Circa un’ora fa. Il suo corpo stremato ha continuato fino all’incredibile a divorare le misere scorte lipo-proteiche e ne ha trasformato il volto già bello in una mostruosità dragulesca. Gli occhi socchiusi lasciano vedere una sottile striscia di bianco con sopra una traccia di iride; le occhiaie sono due cavità bluastre, quasi nere; il naso affilato, come prosciugato nei suoi umori estremi, un pezzetto di osso mal coperto da secca epidermide; la bocca spalancata a ingoiare l’ossigeno scarso con sempre più inutile avidità; residui dentali scheggiati pendono dai lati dell’arcata superiore (molari, credo); la mandibola, già attratta ritmicamente, durante l’agonia, dalla mascella superiore in un vano sforzo di raggiungerla, ora pende distante da quella, la testa lievemente rovesciata e inclinata. Così s’è presentata nelle ultime ore, così si offre ora allo sguardo perplesso dei presenti. Una gorgone, un vampiro, un mostro dove le tracce dell’antica grazia e regolarità di tratti non sono però del tutto spente. C’è, come ho già scritto su queste pagine, un mistero, anche, in questa incredibile resistenza di un corpo rastremato da piaghe voraci, digiuno, e perciò autofagico, privo di funzionalità cerebrale relazionale. Data per morta domenica scorsa, muore stasera, alla stessa ora che la vide arrivare dall’inutile ospedale e ritornare nella sua vecchia casa restaurata, che, si direbbe, le ha prolungato la vita di una settimana. Quasi a concederle il tempo di “godersela” come poteva. Un tempo supplementare strappato alla famelica oscenità della morte. E lei pareva volerci restare e assaporarla il più a lungo possibile, la sua casetta d’una vita. Ho seguito il suo affanno degli ultimi minuti fino all’arrivo senza sponda. Quasi non credevo che si fosse fermato quel soffio ostinato a durare contro ogni apparente regola biologica, per giorni e giorni, fra allarmi continui e reiterate smentite.
I corvi sacri sono già al lavoro. Il parroco, che ha scandito le formule dell’estrema unzione sul ritmo di questo scorcio di agonia, s’è premurato di consigliare un impresario di pompe funebri suo amico. “Disinteressatamente, io consiglio... poi voi fate come credete. Io mi permetto di suggerire perché siete amici, è mio dovere consigliare il meglio...”. E via con la musica. Quale sarà la sua percentuale di consigliere amico? Amico del giaguaro, s’intende. Ma dov’è lo scandalo? E’ prassi universale. Ieri sera mi diceva, davanti al cadavere vivente della zia: “Sono stato a visitare dodici ammalati.” E li enumerò, con tanto di anagrafe, chissà ne conoscessimo qualcuno (com’era infatti). Ora – voglio dire dopo il suo “disinteressato” consiglio-suggerimento – capisco meglio il discorso di ieri sera. Aveva fatto il giro dei suoi clienti, un giro d’affari fra i suoi cespiti più garantiti. Magari qualcuno sarà talmente povero da costringerlo a versare ai superstiti della famiglia stretta il gruzzoletto dei “Fiori che non marciscono”. Ma nel totale il guadagno è più certo che lo stipendio di un vigile urbano. Diremo che la sua fede nel buondio è confinata negli angolini nebulosi della paura immediata? Che di Lui si ricorderà nei momenti di pericolo? Forse è così. Ma è altrettanto vero che le due modalità dell’appetire, la sacra e la profana, non riescono a presentargli contrasto. Non deve pur vivere, lui, che tanto si prodiga per i parrocchiani? E se nel momento del gran viaggio gli si affaccerà alla coscienza fiaccata qualche dubbio su quella perfetta concordanza, be’ pazienza: non ci sarà certo l’inferno per sì innocua piccolezza. Così fan tutti: e dunque?
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Posso chiudere questa pagina, quaderno, ricordando il sogno di questa notte? Sì, lei, ancora e sempre. Io le raccontavo della zia, lei mi compiangeva, diceva di volerla vedere. Come se abitassimo nello stesso paese, anziché a impercorribile distanza l’una dall’altro. Poi però ritornava sposata e lontana, ma in vacanza al suo paese di Calamagna. E io, come facevo, io, a trovarmi lì, così lontano dal lutto in corso, dal mio luogo di lavoro, dal mio paese sicanico? Miracoli dell’onirico, dove spazio e tempo stravolgono la sintassi della “condizione vegliante”. C’è una fase nebulosa del sogno, alla quale segue la presenza di Susy nella mia casa: lei e Rina a conversare da buone amiche. Scherzi del desiderio (anzi Desiderio: per una volta, ingrano la maiuscola: come dovuto omaggio al caso). Lei diceva a Rina che le cose non andavano bene col marito, che il suo matrimonio era a rischio rottura. Amenità dell’inconscio affamato. Alla fine, ci baciavamo. Ma castamente, da buoni amici: era la sua condizione. Il suo riconciliato rispetto verso Rina, l’amica ritrovata.
Malgrado il lutto, oggi ho dovuto onorare un impegno con il prof. Rama, che mi aspettava. Sono rimasto a casa sua dalle 12,30 alle 13,30 circa. Abbiamo parlato di Domenico Tempio e dei suoi studiosi, tra i quali l’amico Ciaccò; di Molière e delle sue intenzioni di dedicargli un saggio; dei miei scrittarelli e di tante altre cose letterarie. Mi ha dato un fascicolo della sua rivista e una busta da imbucare, contenente un altro fascicolo dello stesso numero e una lettera di presentazione del periodico per il direttore di Paese sera libri con preghiera di occuparsene su quel supplemento (al quale egli ha collaborato qualche anno fa, specialmente con articoli verghiani). Ho imbucato la busta sua e una mia, pronta da ieri, diretta alla redazione del Gazzettino d. g , con dentro un’ampia recensione a “Praga e la sinistra”, Una redazione “contratta” l’ho spedita a Ciaccò per la Gazzetta.
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01 febbraio Il funerale della zia s’è dovuto spostare a domani, perché il figlio maggiore non potrà essere qua prima delle ore 18 di oggi.
Ore 18. Il cugino (nonché mio figlioccio di cresima!) arriva e appena in casa esplode in un pianto dirotto. Ci sento dentro, misto al dolore naturale per la perdita, una specie di sordo rancore imprecisato: la madre è stata allontanata dalla sua casa, ricoverata all’ospizio, fra gente estranea e chissà con quali negligenze del personale addetto alle malate; nella sua casa s’è sistemato il fratello con la sposina in luna di miele, e la cosa potrebbe suonare sacrilega al figlio lontano: forse le prevedibili trascuranze dell’ospizio hanno affrettato la fine della cara donna sventurata? O, addirittura, chissà, l’hanno provocata? E verso gli zii che l’hanno ricoverata, niente da dire e pensare? Probabilmente, nel suo confuso dolore si mescola un po’ di tutto, e non è da fargliene colpa. Col tempo si convincerà che la madre diletta non era più gestibile in casa: le capitava di affacciarsi e chiamare dei passanti; forse scambiava qualche occasionale signore per il marito morto dodici anni prima; le capitava di portarsi sulla soglia anche di notte. Quante volte mia madre era stata chiamata in allarme dalle vicine per queste stranezze della povera demente! Carlo, il cugino dolente, certo avrebbe capito più tardi; ma ora bisognava lasciarlo al suo sfogo liberatore. E poi, chi può dirlo?, forse le mie ipotesi sono soltanto fantasie pessimistiche, e il poverino ha solo pianto quella perdita insostituibile senza taciuti rancori e inutili risentimenti. Forse. E’ la solita storia, di quel garbuglio che è il cuore umano.

02 febbraio La grande chiesa secentesca di santa Sofia brilla con tutte le sue luci (che non sono poche). I parenti in chiesa non riescono a riempirne neppure la metà della grande navata unica. La mia sofferenza per la perdita non brucia abbastanza da impedire al pensiero di vagare: soffriva tanto la povera donna, che la morte non può non essere vista e desiderata da tutti i parenti come grazia liberatrice. L’ambiente, per me non più sacro in senso stretto, resta tale per la piena di ricordi che vi palpitano dentro, incollati a ogni suo angolo. Guardo intorno, le colonne tortili e dorate, i grandi quadri alle pareti, i diversi altari minori (quasi ancillari) sui capaci fianchi, con i loro putti grassocci, il coro e l’altare maggiore, l’organo in alto, dietro le spalle dei fedeli, il pulpito laterale (sul fianco destro, guardando l’altare), e verifico che ogni particolare si lega ancora, in una memoria reviviscente, a qualche dettaglio della mia vita adolescente, e perfino dell’infanzia remota. Ogni nodo di quella materia santa risponde a un grumo mnestico rappreso sotto anni di “oblio” che il contatto visivo, oramai raro, scioglie e, parzialmente, rivitalizza, appunto. Il volto di fanciulle amate lampeggia nei flash risveglianti. Della prima fiamma, soprattutto: che mi bruciò a lungo. E soprattutto mi insegnò, durante il timido corteggiamento, cosa può essere paradiso: con un tenero sguardo complice e un breve distendersi di labbra a un dolcissimo, insperato sorriso. Un quasi niente, in sé, ma un evento sconvolgente per il ragazzo sensibile e innamorato che ero tra i sedici e i diciassette anni: mi comunicò felicità mai prima sognate. Né mai più dimenticate. Fu un segnale di apertura alla speranza, un pegno per un futuro non chiuso alle sue grazie devotamente vagheggiate, ma ancora lontane.
Poi lo sguardo si appunta sulla fiammella di una candela e ne sgorga una sorta di esercizio linguistico, quasi un riposo per non stancare i troppo vibranti ricordi sentimentali. Quanti verbi e frasi possono scaturire da una candela accesa? La fiamma tremola, palpita, ondeggia, s’irrigidisce, s’impenna, vibra, sussulta, s’appuntisce, si piega, si sfrangia, s’incurva, s’appiattisce, si allunga, ... Mistica lingua di fuoco. L’odore dell’incenso evoca vecchi pruriti sadici, ancestrali palpiti di ignaro erotismo infantile, quando immaginavo, del tutto innocente, di penetrare “dentro” la carne misteriosa (sempre celata) del corpo femminile, mentre ragazze e giovani spose cantavano inni sacri accompagnate dalle note di un organo, in quella chiesetta di campagna ancora in piedi e ormai usata parcamente per scarsità di preti. Chiesa della Madonna del Gelsomino: che nome gentile e profumato. Entrare nei corpi gentili: ma per mistiche vie non sessuali. Chi sapeva, in quel cesto di innocenza implume, la seconda e più intrinseca funzione di quegli organi?
E la zia dentro la bara, non più zia né persona, non più fulcro di affetti tenaci, soltanto un nulla strutturale e una prosciugata massa di carne in disordine metamorfico intollerabile alla sensibilità visiva dei vivi. Quella carne putrescente che scioglie lo spirito in umori fetidi. Che sconcezza la vita. E non c’è scampo. Non c’è parola, spoglia e dritta o gemmata in su le dannate carte, che possa riscattarci, veramente, dall’enorme offesa che la condizione organica ci impone. Che dire? E’ stato detto tutto, nei secoli e nelle civiltà. E a nulla serve tutto questo dire confessare denunciare. O esaltare a contrariis. La leopardiana (prima che foscoliana) illusione può ingannarci per qualche ora o minuto, favorire l’oblio rilassante, breve e ricorrente, ma nel fondo nulla cambia. Come sapeva bene, e con disincantata schiettezza diceva, il nano gigante di Recanati. La zia viva: mille volti, uno strano candore ostinato, la complicità dei semplici. Eppure, a suo modo, sensibile anche da quel lato dell’organica vita tenace. Perciò sofferente della lunga, crudele, precoce vedovanza. Magari perché congiunta a troppo lungo digiuno di vergine ignara. Poi i due parti penosi, e la lunga catena di sofferenze, in parte agganciata a quelle lacerazioni sanguinose. Ave, zia-mamma.
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L’altra grande perdita si chiama inattesa morte di Mimì Ciaccò. Avevo saputo di una sua crisi più violenta delle solite, e avevo telefonato, da casa, alla moglie Germana. Ne avevo ricevuto notizie rassicuranti. Una seconda telefonata partì da Ravenna, dove mi trovavo per un “Corso di aggiornamento” con tema suggestivo: “Letteratura e società”. Anche questo contatto telefonico era stato rassicurante: il malato migliorava, il peggio era passato; e via confortando. Avevo promesso una visita al mio ritorno da quella capitale del tardo Impero romano, che avevo trovato così affascinante (le buone notizie lasciavano sgombro qualche tratto di cielo per le “frivolezze” turistico-culturali tra Germana e me).
E allora come mai quella novità sconcia che si abbatté sulla mia spelacchiata teca ossea come un macigno balzatomi addosso da una pagina della Gazzetta dello Stretto aperta tra le mani di un passeggero sulla nave-traghetto? Che significava quel titolone “Mimì Ciaccò ci ha lasciato”, col suo codazzo di sottotitoli sull’agonia fatale di un uomo che stava migliorando e lentamente avanzava sulla via del quasi garantito ristabilimento clinico?
Una bomba adrenalinica, uno squasso di tremiti mi paralizzò per alcuni minuti. Poi cominciai a chiedermi che cosa potesse avere provocato quel crollo inatteso. Ma quale risposta darmi? E a che serviva farsi domande, rispondere con vaghe ipotesi e via piangendo? Ecco, l’unica cosa seria da fare era lasciare libero corso alle lacrime. Avrei appreso tutti i dettagli della sconcezza mortale l’indomani, quando sarei andato, con Rina, a trovare Germana e la salma dell’amico rapito nella città dello Stretto.
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Ed eccolo là Mimì, tradotto in corpo inanimato, composto nelle positure vestite delle regole fisse, gonfio, il viso nel cereo pallore canonico, quel volto che fingeva riposo, un’ombra di sorriso ironico sulle labbra. Che mi richiamava alla memoria altri morti, giovani adulti anziani. Ma giovani soprattutto. Primo dei quali, quel mio compagno di giochi e vicino di casa che, ancora vivo, aveva avuto il dono raro dei vermi nella carne già morta delle gambe piallate dal marasma cardio-circolatorio, eppure ostinate in una vana resistenza allo sfacelo imcombente. Lo stesso sorriso mesto e sereno, quasi di gratitudine per essere stati liberati dal lungo soffrire e dalle conseguenti vergogne senza riparo.
Tre volte mi dovetti allontanare dalla stanza dove stava l’amico Ciaccò “assassinato”: per dare libero sfogo alla pressione delle lacrime, in una stanza attigua, vicino, ma invisibile a Germana e alle amiche presenti (i ragazzi erano stati affidati ai nonni), tra le quali restava, ogni volta, Rina, mia moglie. Germana piangeva, ma con una specie di maturata rassegnazione. Mentre sono lì, telefonano dal giornale: chiedono un articolo di ricordo verace (non un “coccodrillo”) una commemorazione sincera, secondo i meriti dell’ottimo giornalista scomparso: conosce, Germana, qualcuno di fiducia che lo possa scrivere? Risposta-lampo della giovane vedova: “C’è qui chi lo può fare meglio di tutti, il suo migliore amico, prof. Paolo Assaggi”. Aggiudicato. L’avrei scritto, con ampia facoltà di “spaziare”, l’indomani avrei dovuto portarlo alla sede del quotidiano liotrico, La Sicania: loro avrebbero provveduto a dettarlo via telefono.
L’articolo uscì senza tagli e con scarsi, insignificanti, refusi. L’ultimo rigo dettava, con sincerità appena manierata: “E ora torniamo alle lacrime. Che non si possono stampare. Per fortuna”. Appena, sì, perché di lacrime ne versai ancora, perché anche il mio “nobile egoismo” soffriva, perché un amico un difensore un medium insostituibile mi veniva a mancare. E, soprattutto, perché pensavo ai suoi tre figli ancora bambini. Ma, se posso dirlo, il ricordo di un incontro lontano mi restituiva un rassicurante giudizio di Mimì su Germana (il contesto: i suoi ricorrenti timori di candidato a una morte prematura): “Per lei non mi preoccupo: è una donna forte, saprà difendersi, per sé e per i bambini”. Aveva ragione. Alla Gazzetta sono stati leali, l’hanno assunta, e lei ha imparato presto il mestiere. Doveva fare l’avvocato, il destino le ha assegnato un ruolo più “espositivo”, e perciò più gratificante: non è una timida, Germana, e apprezza la visibilità sociale. Ma il pensiero dei bambini mutilati del padre mi mordeva.

Quell’articolo di triste occasione fu il mio primo contatto collaborativo col giornale per eccellenza di Liotria (ma forse, già allora, dell’intera Sicania). Tre anni dopo sarei diventato un riconosciuto collaboratore delle pagine culturali (non senza occasionali “spalle” e corsivi di costume e ghiotte occasioni).

martedì 22 dicembre 2009

Susanna, frammento 50


Per attrito logico-emotivo, mi salta di nuovo alla ribalta di una Mneme affollata la famosa “Primavera di Praga”, col suo indotto di lunga carriera. Nel cui bagaglio si trova, fra le molte cose e persone finite nel tritacarne dei processi polarizzati, il suicidio del medico Sommer, avvenuto, ad aggiungervi tragici fiori, durante l’infelice festa di quella “Primavera”: era il medico che, su disposizioni superiori, somministrava ai prigionieri politici della prigione dove fu rinchiuso Slansky droghe (come mescalina, actevron e altre) che accendevano nei loro corpi “uno stato di indolenza euforica, confondendo il loro pensiero e indebolendone la resistenza”, mentre venivano “percossi e maltrattati al punto che parecchi di essi credettero di essere caduti in mano ad aguzzini fascisti”. Slansky fu il più eminente dei dirigenti politici cechi giudicati titini e impiccati (François Fejtö, Storia delle democrazie popolari dopo Stalin, trad. it. Vallecchi).
Ricorrono nomi, in questa vicenda, che toccano corde della sensibilità particolarmente reattive: uno di questi è Jan Palach, il giovane patriota suicida per fiamme da benzina (ma senza gridare “la fiamma è bella!”) in piazza San Venceslao, come protesta estrema contro la repressione troppo “pedagogica” operata dal Patto di Varsavia (o vogliamo semplificare dicendo Unione sovietica?). Era l’esempio dei monaci buddisti del Vietnam che contagiava certa gioventù generosa e troppo esposta a deliri idealistici (o magari ideologici). Quanto al nome massimo dell’avventura, Dubcek, non si può dubitare della sua buona fede. Ma nemmeno degli intrighi e delle manovre del civilissimo e ultrademocratico Occidente, tra banche disponibili a pingui prestiti di pura beneficenza redentrice, auspici e suggerimenti in sordina di ambienti vaticani e altra provvidenza capitalistica, vogliosa disponibilità interna di certe istituzioni praghesi, finanziarie e politiche. Come dire, quanto di meglio si potesse fare per scampanare l’allarme rosso alle orecchie dei “fratelli" del Patto, chiamandoli al “doveroso salvataggio” corale (e “morale”) del Socialismo assediato dalla lupesca Reazione tentatrice (come resistere all’abbondanza consumistica del Tentaore?).
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E come non ricordare la sconcia tragedia del “Settembre nero”, il tentato sterminio dei palestinesi ospitati in Giordania, mandante il sovrano del Paese, re Hussein, esecutore un generale dal nome fatidico (in trasposizione italiana), Majali? Non dubito di una certa spavalderia germogliata in alcuni di quei resistenti, che – si dice – mal tolleravano, a un certo punto della loro residenza ospitale, limiti e controlli del Paese ospitante. Soprattutto riferibili alle loro iniziative militari contro il rabbioso Israele, sempre lesto di mani ritorsive. Ma non c’era proprio nessun’altra soluzione che lo scontro micidiale tra “fratelli”? Da aggiungere che quel massacro fu preludio a un altro calvario per la Resistenza palestinese, i cui resti furono dirottati in Libano, in attesa inconsapevole di una maggiore rovina a tappe, culminata in una sorta di ritornante “Sacro macello della Valtellina”. A pensarci bene, alla luce dei misfatti successivi, sulla vicenda giordana è più facile credere a uno dei soliti giochi sporchi della politica che a una sanzione autonoma (nazionale?) per violata soglia di tolleranza. Insomma, la pressione israeliana sul re di Giordania perché cacciasse dal suo territorio quegli ospiti turbolenti. Pressione del genere ultimatum: o lo fai tu o lo facciamo noi. Con le prevedibili conseguenze sul tuo territorio, fra le popolazioni civili, e così via. Prendere o lasciare. E’ fantapolitica, questa congettura, o plausibile lettura di gesti e silenzi dello Stato prepotente? Anzi, più di gesti (azioni micidiali contro la Giordania) e parole segrete che silenzi. E forse qualche voce critica, che oggi ignoro (magari per dimenticanza) si è già espressa in questo facile senso.
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Feci in tempo a sfiorare un altro evento pubblico di rilievo. Incomparabile, certo, alla tragedia appena ricordata, ma con un suo spessore drammatico che ebbe, anch’esso, il suo tributo di sangue. Modesto, ma troppo vicino perché non lasciasse tracce profonde nella memoria collettiva e più d’una ferita negli affetti domestici dei colpiti. Oggi non saprei dire quante sono state le vittime della “Rivolta di Reggio”, né ho voglia di andare a controllare: ma ci furono negli scontri dei dimostranti con la polizia e l’esercito, incautamente mandati dal governo centrale a reprimere un sussulto di rabbia campanilistica che venne strumentalizzata dal Msi e dal torbidume circostante (non esclusi gli immancabili servizi segreti, risorsa sempre disponibile alla gestione delle sudicerie politico-mammoniche). Nacque come questione del capoluogo: ai reggini sembrava ovvio che fosse la loro città la naturale candidata a quel ruolo regionale; ma il ministro Giacomo Mancini, leader autorevole del Psi non ancora “craxiato”, pensò bene di eleggere a quell’onore la sua città natale, Cosenza, la bella slivellata ricca di memorie storiche patria del filosofo Bernardino Telesio (e anche, a maggiore gloria, di molti massoni e n’dranghitisti di tutto rispetto). E scoppiò l’incendio. Dapprima fiammelle di cortei urlanti ma composti, proteste murali, tentativi di mediazione: a questi primi segnali del peggio, seguì l’incendio divampato in tutto il suo sinistro fulgore nel luglio 1970 e aperto a sviluppi imprevedibili, nei giorni e le notti di quell’estate contesa alle piccole delizie dei bagni jonici. Fu rivolta popolare, all’inizio, complicata, via via, da rivendicazioni economico-sociali, ma diventò sedizione manovrata quando, l’impreparazione delle forze politiche democratico-socialiste e sindacali a capire in tempo, distinguendo, e quindi “modulare” l’intricato e complesso fenomeno, offrì l’occasione di appropriarsene alla destra nostalgica e alle sue frange giovanili ed extra-parlamentari, subito sorrette e adottate dai bisonti del padronato agrario più o meno latifondista. Come alludevo sopra, non mancarono gesti inconsulti dall’alto, a provocare l’esasperazione della protesta: la polizia manganellante ad libitum, dichiarazioni incaute di certe autorità nazionali, attenzioni interessate e coperte (interne e straniere: leggi, ambasciata Usa), sempre all’erta contro possibili scivolamenti verso la perpetuamente scomunicata vitanda sinistra politica. E via soffiando. Fino a quelle immancabili vittime di frettoloso piombo in divisa. L’altra parte sembrava non aspettare altro per scatenarsi e catalizzare i poco eroici furori dei dimostranti, prevalentemente giovani. I quali non ci pensarono due volte a improvvisare bombe molotov e altre “armi improprie”, non senza qualche proiettile “errante” di buia provenienza. E germogliarono i morti e i feriti, dell’una e dell’altra parte: fra i soldati e i poliziotti e, soprattutto, fra i dimostranti. E si andò avanti così, sino al febbraio 1971, rivelando nella parte più sensibile e reattiva dei giovani (studenti, per lo più) coraggio autentico e fermezza convinta. Fino all’azzardo sfidante, a volte.
Io seguivo gli eventi più caldi di quell’autunno (ben altrimenti caldo che quello sindacale e “proverbiale”) dal nuovo avamposto istituzionale, il liceo classico statale “Virgilio” della sicanica Realpolia. Al solito, “partecipavo”, e quella mini-primavera dei popoli stravolta veniva commentata con i miei allievi, parte dei quali (come già avrò scritto in queste pagine) di orientamento destrorso e alcuni iscritti alle sezioni giovanili del Msi almirantiano. Per fortuna, i ragazzi nostalgici erano quasi tutti concentrati in una sola classe della mia sezione A. Personaggi torbidi (e uno in particolare) si segnalarono, non solo per la virulenza degli attacchi giornalistici e murali all’incauto Mancini (e, in lui, all’intera sinistra) ma non ne voglio fare il nome in queste pagine. Si parlò, allora, anche di tentativi secessionistici, con un miscuglio di nostalgie borboniche e di indipendentismo rivoluzionario di ispirazione socialista. Quest’ultimo si sarebbe rivelato più decisamente a metà degli anni Settanta, con un misto di analisi storica severa ma ben documentata e proposte per un avvenire di libera Repubblica di un Sud popolare a economia artigianale e di piccole industrie. Velleitario “populismo”, sentenziaraono certe penne della galassia sindacale social-comunista. A proporlo sarà uno stimato collega e caro amico sideratese, docente di diritto in quell’Istituto tecnico commerciale. Ma la sua generosa utopia rimase un fenomeno di marginale minoranza. Tanto marginale da spingere l’autore e il ristrettissimo seguito nelle braccia (o, almeno, al fianco) del movimento neo-borbonico (peraltro, anch’esso fenomeno di élite intellettuali), rivitalizzato dalla rivolta (e dalle sue e strumentalizzate illusioni).
E la ‘ndrangheta, che ruolo svolse in quegli eventi? Se ne dissero tante, ma è da ritenere più verosimile un attendismo cauto e disincantato. In previsione, magari, di non improbabili offerte allettanti di provenienza istituzionale. Ma non oso insistere su ipotesi forse bisognose di ricerche accurate che non voglio né potrei fare.
Naturalmente, la rivolta offrì occasioni a interventi pubblici e pubblicistici di varia ispirazione e difforme serietà argomentale. Un testo rispettabile, benché dichiaratamente “di parte”, risponde a un titolo “nudo”, “Reggio Calabria [I moti del luglio 1970-febbraio 1971]” (Feltrinelli, 1972) e a un autore trentenne, laureato in lettere (università di Roma), tesi in sociologia: Fabrizio D’Agostini. Collaboratore dell’ “Unità”, direttore per un biennio di “Sindacato nuovo” (“la prima rivista unitaria del movimento sindacale”), redattore di “Rinascita”. E non so che altro negli anni seguenti. Già nella premessa, l’autore punta un dito cosciente e coraggioso contro i responsabili della distorsione reazionaria dell’evento: “La scadenza elettorale ha riportato alla ribalta quasi tutti i personaggi che furono tra i massimi responsabili del carattere eversivo della rivolta e che hanno continuato a operare indisturbati nonostante fossero stati imputati di reati gravissimi” E giù una sfilza di nomi, che risparmiamo alle nostre pagine, già sovraccariche di mali e mala gente. L’autore, mentre picchia duro sui personaggi che, solleciti unicamente del loro “particulare” (poderi e potere), utilizzano la buona fede infiammabile di certa gioventù e il malcontento di strati sociali dostoevskijanamente “innocenti”, drogandoli con “falsi orgogli e ideali”, o allettandoli “col ricatto e il clientelismo”; e mentre, nel contempo, denunzia gli “scarsi” “contributi di analisi e quindi di ricerca di soluzioni” (citando un libro dell’antropologo Lombardi Satriani), cotruisce, lungo tutto il racconto, un appello alle forze progressiste sulla “necessità di scelte coraggiose che determinino una svolta politica nel Sud, svolta che solo l’iniziativa del movimento popolare può imprimere”. Anche (aggiunge) per venire incontro a quegli studiosi “che si sentono isolati nella dura battaglia condotta nel Mezzogiorno e per il Mezzogiorno e che giungono anche a conclusioni politiche disperate e disperanti”. E qui cade a fagiolo un nome che l’autore cita tra parentesi così: “cfr. Nicola Zitara, ‘L’unità d’Italia: nascita di una colonia’”. Un pamphlet (rivelatore fin dal titolo squillante) che conobbe un buon successo negli anni Settanta. Naturalmente, stiamo ancora aspettando, dopo un trentennio (di buoni propositi, belle parole, sinceri entusiasmi, da una parte; e coriacea ostinazione del malaffare e nel culto di quel “particulare” dall’altra), quella auspicatissima “svolta”. E fa tenerezza, quasi, leggere, nel libro, le opinioni di tanti personaggi della politica, e le prese di posizione dei vari sindacati. Perfino le cattoliche Acli, pur dando ragione ai reggini sul diritto al capoluogo, “non ne fanno, però, una questione di vita o di morte, consapevoli come sono [...] che l’attribuzione del capoluogo da sola non risolverebbe i problemi” economico-sociali e culturali della provincia e della regione.
Per finire col parzialissimo ricordo degli eventi collettivi, un cenno al testé menzionato “autunno caldo”: la bella lotta sindacale che costrinse la dirigenza della vallettiana Fiat prima, e tutto lo schieramento padronale poi, a venire a patti con gli operai sovrasfruttati e infine ad accettare lo Statuto dei lavoratori.
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Fra gli eventi pubblici “minori” (e di tutt’altro segno) del settennio posso registrare il “prodigioso Woodstock 1969” e la morte del mitico Jimi Hendrix: a soli 27 anni, per overdose, a Londra, il 18 settembre 1970. Una vita bruciata dal dio dell’eccesso, lo stesso che gli aveva dato la gloria, che lo aveva incoronato re della chitarra rock, e scolpito icona di una e poi di più generazioni di giovani, ancora intatta, dopo trent’anni di carriera venerante. Sempre il piccolo dio dell’eccesso aveva suggerito al divino di mandare in delirio il popolo di Woodstock “incendiando in una folle celebrazione notturna la sua chitarra” dopo il favoloso mega-concerto. Ma questa bravata di distruggere la chitarra dopo i suoi concerti era diventata una spavalda firma delle sue performances, suo stile di vita. Ancora sua fosca divinità l’Eccesso, motore dell’intera biografia brutalmente troncata al culmine della gloria, aveva “metamorfosato” il guitto affamato degli slums di Seattle in idolo della giovinezza, prima di lingua inglese e presto mondiale. E sorvoliamo su altri significativi mini-eventi pubblici dello stesso mondo rock-pop e dintorni.
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Ma non sopra un altro, forse minore anch’esso, ma non minimo, e di (o “perché di”) impatto politico-culturale piuttosto clamoroso: si vuol dire del romanzo “Il Contesto” (novembre 1971), nel quale Leonardo Sciascia radicalizza quella lucidità esigente (e perciò sconsolata ) che, ignorando i divieti ideologici, esplora, senza rimozioni e polarità di comodo, tutti i nessi e gli intrecci relazionali possibili al controllo investigativo rigoroso di ogni evento eclatante. E ne viene fuori il “contesto”, per l’appunto quel reticolato di connivenze e complicità (tattiche o strategiche, palesi o inconfessabili) che coinvolge il potere politico legale, il mondo dell’economia, l’opposizione. Senza escluderne (anzi!), in certe regioni e latitudini politico-istituzionali, perfino la malavita organizzata, inserita, di fatto, con collusioni di vario raggio e livello, nel tessuto della realtà economico-poilitica. Il farmacista vittima di un errore giudiziario, che si autolegittima Vendicatore dell’ingiustizia e serial killer di alti magistrati, è il colpevole che l’ispettore Rogas individua correttamente, ma che le istituzioni, in perfetta complicità circolare, non vogliono né possono accettare, pena il fallimento di un loro torbido progetto di potere personale. Così Rogas diventa un corpo estraneo da eliminare, e viene spinto a improvvisarsi giustiziere: eliminando personaggi negativi (come fra Diego La Matina, l’eretico che “giustizia” l’inquisitore fellone, nell’altro racconto di Sciascia, “Morte dell’inquisitore”). Rogas uccide nientemeno che il segretario del Partito Rivoluzionario Internazionale, Amar, scoperto, dalle sue investigazioni, come associato al grande Complotto. Ed è subito scandalo a sinistra: spunta lo “Sciascia due”, il “cattivo” che tradisce lo “Sciascia uno”, quello che combatteva la doppia battaglia per la sua Sicilia e l’Italia tutta: contro la mafia e la cattiva politica democristiana largamente intrecciata con il potere criminale; contro l’imperialismo americano e per la difesa della giustizia sociale (e della giustizia senz’altro). Ed ecco il fiero attacco del colto Colajanni sull’Unità: “[…] la spiegazione della parabola di Sciascia va ricercata nel suo rapporto con la Sicilia. L’approdo alla tematica universalistica della disperazione cosmica e del potere incombente alla Kafka non è che il frutto della rinuncia a combattere la propria battaglia per la Sicilia. Altri intellettuali siciliani hanno percorso la stessa strada scegliendo il servilismo verso il potere: Sciascia sceglie la via dell’evasione e della giustificazione metafisica alla propria debolezza”.
Nell’aristocratica “risposta” del politico intellettuale (dal sonante nome troppo storico) si coglie il disappunto per quella consequenziarità investigativa forse troppo esigente, ma non sembra del tutto chiaro il nesso con la metafisica kafkiana. Se non, forse, come elitarie piume di quel disappunto che deve pur mascherarsi da severità razionale. Anziché rispondere a uno Sciascia disilluso dai tatticismi delle sinistre e dal fallimento del centro-sinistra con argomenti di schietto pragmatismo politico si svolta verso le astrazioni assolutistiche tutto-fare. In fondo, nel discorso giustificatorio del vice segretario del Partito Rivoluzionario, dopo la morte del segretario, “Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione… Non in questo momento”, risuona un vecchio dogma della politica rivoluzionaria: la rivoluzione prima della verità. Solo che il “non ora”, “non in questo momento” finisce con l’estenuarsi in un deluso attendismo del rinvio continuo e in una prassi del compromesso a rischio di complicità. Quello, appunto, che intendeva denunciare Sciascia. Da non politico, certo. Anzi, da “appestato” della verità. Inde, della giustizia. La posizione opposta e simmetrica a quella dichiarata da Pajetta quando dogmatizza, sereno e fiero: “Se c’è da scegliere tra verità e rivoluzione, noi scegliamo la rivoluzione”. Che è scelta rispettabile. Perfino eroica. Ma non quando la rivoluzione langue nel torpore drogato di una situazione internazionale bloccata che la spegnerebbe nella risposta militare dei piani Prometeo, nel caso disperato che la si volesse tentare. Ma il blocco legittima tutti i compromessi, le complicità di fatto, perfino le rinunce a tentare o a minacciare sfilando arrabbiati neri?
Peraltro, non si può tacitare il sospetto che un’intrusione autobiografica di remota possibilità incidentale abbia un po’ “inquinato” l’impianto narrativo dello scrittore e la sua anima ideologica ignara: tutti quei giudici “giustiziati” odorano di lontana rivalsa contro una giustizia ingiusta che aveva umiliato il padre di Leonardo a vantaggio del Potere colpevole (con e senza tonaca).
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Se ci è permesso riposarci dal serio drammatico e dal losco tragico, ricorderemo l’epopea degli hot pants che cavalca gli anni terminali del settennio. Il lancio di quella perfida riduzione della copertura femminile “meridionale” suscitò un fragore mediatico di scandalo moltiplicato. Il manifesto che presentava i mini-pantaloncini marca Jesus replicava un rumore già esploso al tempo del primo lancio dedicato ai Jeans con lo stesso marchio (di Maurizio Vitale). Manifesto di studiata malizia, sicuro di accendere fuochi promozionali di garantito impatto: il disegno presentava una sorniona zip aperta sul pube non rasato e un motto di implicito “sacrilegio”: “Non avrai altro jeans all’infuori di me”. La diabolica trovata diede i frutti programmati: condanna vaticana, indignazione della stampa devota (al dio di ostia, e magari di conto in banca), censura del Giurì, e perfino un intervento di un Pasolini...impiccione). Insomma, il successo previsto: che si volle replicare con un’idea altrettanto audace: la formosa fidanzata di Oliviero Toscani, Donna Jordan, stretta dentro i primi jeans in versione hot-pants, ancora marcati Jesus, due belle porzioni di chiappe en plain air, e la scritta-invito, pure stavolta con back stage imponente: “Chi mi ama mi segua” Se non era una santa frase evangelica, era pur sempre di bocca sacra, la frase di un re francese (si disse).
Rivedo la Brigitte Bardot di quei Settanta dissacratori e liberatori (e anche, ahimè, finto-liberatori) sculettare dentro hot pants con cintura di cuoio. E altre star dei vari firmamenti, con seguito di sculettatrici di modesta e nulla fama, ma di non meno persuasivi argomenti morfo-cinetici.
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Nel settennio rientra pure un evento-lampo, di cui ebbi notizia per vie indirette: un evento che, a volerci riflettere, non sembra estraneo al clima evocato dal Contesto. Ne trovo traccia nell’agenda-diario del ’72. Ecco l’appunto.

Strana sorpresa, stasera: il collega Beppe Bava mi telefona annunciandomi il prestito di un libro-fantasma contro Eugenio Cefis, presidente Montedison ed ex presidente Eni. Scritto da un fittizio Giorgio Steimetz, è uscito qualche mese fa presso un editore altrettanto misterioso, Agenzia Milano Informazioni (Ami), titolo Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente. Una sintesi biografica ricca più di ombre che di luci, con accuse velate, ma nemmeno tanto, che s’allungano dall’esperienza partigiana (in Val d’Ossola) dell’ambizioso personaggio alla rottura (anch’essa nebulosa e con sospetto d’intrighi) con Enrico Mattei nel’62 e alla successione in cima all’Eni. Il clou del pamphlet è l’insinuazione che dietro la morte di Mattei ci sia il suo zampino (o piuttosto zampone, rafforzato da oscure complicità altolocate, non solo nazionali). L’enigmatico autore, uomo bene addentro negli arcana imperii della petrolandia italiana infetta da non ignoti veleni, così caratterizza l’indole del suo bersaglio: “Ridurre al silenzio, e con argomenti persuasivi, è uno dei tratti d’ingegno più rimarchevoli del presidente dell’Eni”. Il libro è presto sparito dalla circolazione. Il che è un altro arcano della costellazione: un ricatto riuscito, cioè subìto e ben remunerato? Una raffica di quegli argomenti persuasivi addosso al fantomatico autore e al suo editore di un solo titolo? Fatto sta che il libro non si trova più in nessuna libreria di nessuna città, e nemmeno nelle biblioteche: un repulisti perfetto. Il mio collega ed amico ne ha avuto una copia da un personaggio politico poco esposto, ma parente e buon amico di Graziano Verzotto, senatore democristiano della corrente di Rumor, nonché responsabile n.1 delle pubbliche relazioni Eni in Sicilia e segretario regionale Dc al tempo di Mattei (del quale, ovviamente, era intimo).


3. febbraio

Ebbi il libro fantasma e ne feci parziali fotocopie. Nel corso dei primi anni Settanta ne lessi pagine incisive nelle terze liceali. Il caso diaristico si spiega con un precedente personale: si era discusso più volte del “caso Mattei” con Bava, anche lui insegnante di storia con inclinazioni progressiste, e si era più o meno d’accordo sul presumibile ruolo delle “Sette sorelle” nel mortale “incidente” aereo dell’ottobre ’62. Quell’incidente era troppo inverosimile, con tutto il rispetto a sua Potenza il Maltempo, per un leader del “calibro Mattei”: in un contesto di lealtà politico-istituzionale non meritava forse i controlli di sicurezza più rigorosi e la protezione meglio blindata? Il fatto era che (com’è ampiamente noto) Mattei aveva assunto piena, e quasi missionaria, funzione di “rompiscatole” agli occhi dei Creso (specialmente americani) del petrolio: non era stato più volte minacciato da quei paperoni? Il libro di Steimetz ventila altre ipotesi, che non sono, però, incompatibili con l’eventuale ruolo delle “sorelle” e con l’intrusione di compiacenti servizi segreti, internazionali e nazionali. Avuta la ghiotta primizia, Bava ritenne giusto farmene partecipe.
Quando, verso la fine del “nostro” trentennio, venne alla luce il romanzo postumo incompiuto di Pasolini, “Petrolio”, il libro-fantasma ritornò in primo piano come plausibile palinsesto dell’incompiuto. E si riaprì il caso Pasolini: delitto sessuale o politico? L’amico cugino e biografo pasoliniano Nico Naldini insiste sul sessuale ed esclude complotti e politica, ma la sua è una “fissa” priva di pilastri e paletti, al contrario dell’altra ipotesi, che gronda indizi e riscontri. Così, tra il film con Gian Maria Volonté e i nuovi documenti, il caso Mattei, diventato ormai Caso Mattei-De Mauro-Pasolini rinverdisce e cresce.
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Una crescita rigogliosa, non prevedibile al tempo in cui furono scritte le soprastanti pagine: se ne può vedere un resoconto “luminoso” nella 1a pagina Cultura del Corsera di domenica 7 agosto 2005: Paolo Di Stefano, “Il petrolio al veleno di Pasolini. Attraverso il romanzo incompiuto, un saggio propone una nuova chiave di lettura di un inquietante mistero” (occhiello) “Il caso Mattei, i sospetti su Cefis e la morte violenta del poeta” (catenaccio). Il saggio è di Gianni D’Elia, e si intitola “L’eresia di Pasolini”.Vi si legge, tra altre “finestre” nuove, questo dettaglio fulminante: “Le carte di Petrolio appaiono come fonti credibili di una storia vera del potere economico-politico e dei suoi legami con le varie fasi dello stragismo fascista e di Stato.” Postilla Di Stefano: “Quel che più colpisce è il fatto che Pasolini, lavorando alla stesura del magmatico Petrolio, aveva messo le mani su materiali introvabili e spesso molto riservati [...] Il Pasolini che il 14 novembre 1974 scrive sul Corriere ‘Io so. Io so i nomi dei responsabili...’ probabilmente sapeva davvero e non solo per intuito poetico”, ma in forza di “materiali scottanti” veicolati nei suoi archivi documentari da probabili “entrature privilegiate nell’industria e nel mondo della politica.” Segue l’esame di otto elementi a sostegno dell’ipotesi Cefis “desunti dal libro di D’Elia e via via verificati” [nota del curatore di questi diari di Paolo Assaggi]
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Insomma, un settennio denso di fatti e misfatti. Cioè, come tutti i periodi della maledizione storica. Ha ragione chi ha scritto (Joyce, nell’Ulisse) che “la Storia è l’incubo dal quale dobbiamo svegliarci” (ma come?). E nel privato? Quel che è sottinteso negli accenni precedenti. E qualcosa d’altro, che dirò.
Fra gli eventi privati, due spiccano dolorosamente, e sono due grandi perdite: la morte della zia Milla e quella di Ciaccò. Ne parleremo più diffusamente in altre pagine. Oggi mi urge tornare a Susy.
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Cominciamo col dire che giusto un anno dopo l’incidente mortale di Mattei ho cominciato ad avere come alunna Susy. Un anno ancora, e l’avrei distinta nel folto delle più appetibili della felice classe (ovviamente, già sbalzate, in blocco, dalla mia ammirazione estetica). Poco dopo l’uccisione di John Kennedy. Come ho già detto, il settennio fu un periodo di buio totale quanto a contatti diretti, anche soltanto visivi con Susanna e famiglia. Meno lungo il tempo del black out notiziario, coincidendo, l’ultima notizia con una “partecipazione di matrimonio” spedita dall’ufficio postale di Zefiria e pervenuta alla nostra dimora in quel paese. L’inatteso invio partiva dalla famiglia di Susy: i genitori ne annunciavano il matrimonio con un professor Nicola Capretti, lucano e, stando all’indirizzo, trasferito a Taranto per ragioni di lavoro. L’elegante cartoncino “partecipante” era indirizzato al “chiarissimo prof. Paolo Assaggi e famiglia”. Nel giorno della celebrazione matrimoniale, il sottoscritto mandò, a nome della riverita (e molto tradita) famiglia, il rituale telegramma di sentiti (ed elaborati) auguri per una vita coniugale ricca di sane e “meritate” soddisfazioni, sentimentali e professionali. Era l’inizio d’autunno dell’anno successivo alla “Bella estate”. Da quel giorno, un blackout totale, per quasi sei anni più o meno sfrangiati nei giorni finali. Fino a quel pomeriggio di piena estate che mi recò l’assoluto “inatteso” telefonico di notizie sulla deseparacida. A telefonare fu mio cognato, che l’aveva incontrata a Zefiria, sul corso, completa di pargole e sorella minore. Mio cognato non è prodigo di parole, e perciò non saprei ricostruire in via congetturale il tono dell’incontro. O piuttosto, i suoi particolari, essendo, il tono, di obliviosa cordiale sorpresa. Ma ci fu qualche imbarazzo, nell’uno o nell’altro termine del volatile rapporto? Egli mi disse soltanto che lei era ansiosa di incontrarci, me e la mia famiglia. Io risposi che tanto desire era ben riposto e corrisposto (narciso tradito, pensavo davvero di poter parlare al plurale? Parlare anche a nome di Rina?). Allora si può combinare, ponderò lui: voi (cioè, io e famiglia) dovrete venire qua per il battesimo della mia bambina; sarà l’occasione di un programmato incontro. Aveva il numero telefonico della famiglia originaria di Susy, presso la quale lei alloggiava, ospite dei genitori (felici di queste due nuove nipotine di fresco acquisto).
Venire qua: da dove? Dalla Sicania ferace, naturalmente. Dove il sottoscritto era da un paio d’anni rientrato, e dove aveva conosciuto due città e due licei classici come professore di filosofia e storia (finalmente arrivato al tipo di scuola meno frustrante per il mio insegnamento). Il qua, non occorre dirlo, era ancora la Calamagna (e il punto abitativo era la sua casa di Letizia Marina, un paesotto a pochi chilometri da Zefiria, dove il cognato aveva messo radici. Di affetti e lavori extrascolastici: leggi, lezioni private. S’era anche sposato, il cognato. Ma non con la fidanzata che gli abbiamo lasciato accanto nell’ultimo quaderno del diario interruptus. Quella lo aveva licenziato. E l’evento merita un résumé postillato.
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Lo aveva lasciato: cioè gli aveva procurato lo choc più traumatico che un dongiovanni Doc potesse subire. Forse soltanto un congenere (o un sub-specifico?) può cogliere tutta l’enormità della frase messa a suggello del capoverso precedente. Quella ragazzotta taciturna, quella posapiano cucita lo aveva lasciato. Lei, che era stata svegliata al sesso dal più scafato degli esperti, aveva osato chiudere la partita col maestro tanto amato. Amato, sì: come, a suo tempo (più o meno lo stesso che scandì la crisi del mio, e nostro, rapporto con la Susy in fuga dal suo passato prossimo) ebbe a dire e ribadire lo sbalordito Grande Respinto. “Mi ama, mi ama ancora. Lo sento quando la stringo tra le braccia, e lei piange. E più la stringo, più lei si scioglie in lacrime.” Ma allora, come mai?
Ecco un “come mai” ricco di succhi e implicazioni. Perciò responsabile di questo indugio a servizio dell’eventuale lettore del Futuro: per lui, improbabile ma non impossibile confidente, converrà approntare almeno la promessa e ristretta sintesi degli aventi a monte dell’imprevedibile spaesante clamorosa decisione della diciottenne testarda. Fra i difetti del cognato sprecadonne c’era (e forse c’è ancora) una vanità sfrenata fino all’ingenuità autolesionistica. Ossia, che sconfina nell’esibizionismo incosciente. Solo questa previa bozza di diagnosi può illuminare (sia pure di fumigosa luce catacombale) una serialità di atti e gesti che non possono non definire un comportamento coerente con oscure mozioni inconsce di fissazione genetica. Insomma, l’uomo (o l’immaturo ventottenne, gagliardo di muscoli e matematica) telefonava e riceveva telefonate dalle sue amanti occasionali dentro la casa della fidanzata ufficiale. Incredibile? Ma ci sono più cose, Orazio, fra la terra e il cielo di quanto non sappia la tua filosofia! Ora tu, lettore del tremila, dirai che il cognato era scemo. Troppo facile. Troppo frettolosa, come spiegazione. Diciamo, e correggiamo, che si comportava da scemo (a volte). Ma il come mai? impone un oltre, un perché. Perché si comportava da scemo, o stordito, o cretino, il fratello di Rina, cioè della ragazza e moglie e madre più assennata e pudica che si possa desiderare? Ed ecco l’ipotesi diagnostica anticipata calare in quel “perché” in attesa di sostanza. Escludo che il bel tomo potesse considerare la diciottenne svegliata così ciecamente ingenua, da non cogliere il nascosto di quegli approcci telefonici: egli stesso ne celebrava anzi, e ripetutamente, l’intelligenza “pacata e solida”. Contava sull’inesperienza di lei? Dopo averla svegliata? Non resta che accettare l’ipotesi più stramba all’apparenza, ma più radicale nel suo potenziale esplicativo. Egli voleva, nel suo fondo più infantile e rimosso e non confessabile, essere sorpreso dalla ragazza. Si dava tutte le apparenze della circospezione, ma lasciando buchi e fessure traverso le quali anche una monaca “sepolta viva” avrebbe visto e capito il gioco in atto dentro quelle telefonate. Il bellimbusto, trascinato dalla sua vanità esibizionistica, non calcolò i rischi cui esponeva il suo fidanzamento. Non immaginava neppure lontanamente una reazione così decisa da parte della fanciulla tradita: troppo calma, troppo selfcontrolled, dovette pensare, per concepire una risposta simile a un affronto tutto sommato veniale. Veniale, certo, nel suo giudizio auto-indulgente: in tutte queste “variazioni su tema”, il cognato non aveva mai lasciato respiro al benché minimo sospetto di pericolo per la “cosa seria”, la “decisione strutturale” – come a volte la chiamava – insomma, il suo fidanzamento ufficiale. Sì, Rosy poteva dormire tranquilla: lui mai l’avrebbe lasciata.
E qui s’impone l’ultimo passo nell’inverosimile. Non solo, dopotutto, veniale, l’affronto, e il retrostante peccato di incontinenza, ma addirittura, in un certo senso e modo, un regalo, un atto di omaggio alle qualità di lei, alle sue virtù fisiche e morali. Come dire, un pensiero grosso modo di questa aggrovigliata sostanza: vedi come sono desiderato? Vedi quante donne potrei avere? Io invece ho scelto te, amo te, e voglio te, solo te. Come compagna di vita, moglie, madre dei miei figli. Le altre? Passano e vanno. Passatempi. Cosa vuoi, mi cercano, mi stuzzicano, mi devi credere, sono loro che mi vengono dietro, io resisto, ma poi, sai com’è, uomini siamo, e siculi, mediterranei, un po’ di sangue arabo, di genetica disposizione all’harem... Ma loro non contano, lo vedi, io sono qua, io torno a te, loro sono assaggini di passaggio, tu quella che resta, solo tu. Sei il mio avvenire, la compagna scelta per la vita, la mia sposa che sormonta tutto e tutte.
Io non so che tipo di discorsi fece, o facesse, il bulimico nei momenti di intimità ante e post rottura. So che Rosanna constatò, sopportò, capì, meditò; certamente pianse, certamente tentò di dirsi “dopotutto me, non mi lascia, mi porterà all’altare, una volta sposato si calmerà,...”. Certissimamente esitò a lungo e ponderò ancora più a lungo le possibilità del suo futuro con un tal tipo d’uomo. Le sue riflessioni fiancheggiavano i fatti, i ripetuti ritardi di lui ai pranzi e alle cene, queste da mesi ormai quotidiane, quelli domenicali e festivi in genere. Quanti ritardi assurdi, inaccettabili neanche dal Giobbe più sottomesso alle prepotenze dell’Onnipotente. Ricordo l’irritazione del mite avvocato, padre di Rosanna, che si sfogava con me, invocava il mio intervento, s’illudeva sulla mia autorità e su quella di Rina, che potessimo indurre quell’anarcoide serial lover alla moderazione e buona educazione. E io gli parlavo, gli comunicavo il malcontento dell’avvocato, giudicavo con sobria ma inequivocabile severità, non tanto le sue scappatelle (mi mancava l’autorevolezza per poterlo fare senza ipocrisia: non mi avrebbe spruzzato in faccia un bel “da che pulpito”?) quanto le sue imprudenze. Tutto vano: lui prometteva prudenza, impegno a escludere telefonate in casa della fidanzata, e per qualche giorno la situazione pareva raddrizzarsi. Ma poi tornava ad inclinarsi: come evitare del tutto che le sfacciate amichette di passata gli telefonassero a quel numero se lui glielo aveva dato, se non ne aveva altri da dargli? Questa la sua difesa, questa sonata dodecafonica. Come se fosse stato obbligato a dare quel numero infuocato. Come se non potesse proibire alle sue passeggere di cercarlo a quel recapito out of bounds: incavolandosi, magari.
Gli parlava anche la sorella, con maggiore impeto e passione, e, con l’ovvia esclusione di ogni indulgenza per le sue stravaganze, come le chiamava lei. Passavano i giorni, le settimane, i mesi: non cambiava nulla, non cessavano i ritardi, non tacevano le telefonate in arrivo. Troppo sicuro del suo fascino, troppo self-centred, too self-confident, il nostro ragazzone irresistibile. Alla fine di un lungo calvario nella mente di Rosanna si accese la luce: una luce lenta, come il suo carattere dettava, ma progrediente, giorno dopo giorno, fino a una chiarità definitiva. Ella vide in tutta chiarezza il suo futuro di moglie: moglie di scorta, garanzia sociale, incubatrice di figli, tutto, tranne che partner esclusiva di un uomo troppo espanso, troppo disperso nei vasti orizzonti della tentazione non stop. E nel suo cervello lento e profondo maturò quella decisione irrevocabile che mandò in tilt tutte le nostre pretese previsionali, le nostre precedenti diagnosi sul suo carattere, le nostre attese. Insomma non ci fu verso di convincerla a tornare sulla propria decisione. Nessuna mediazione, nessun intervento, mio, di parenti suoi, madre, cognata promessa (Rina). Concesse a lui più d’un incontro a due, si lasciò abbracciare, pianse, lo convinse, con gesti e strette, che ancora era innamorata di lui, ma non mutò parere. Perché quel parere era il punto di arrivo di un sommovimento viscerale profondo, lento, sì, ma perentorio. Una certezza senza sbavature. Tutti gli esperimenti erano stati fatti, nel chiuso di quel cervello blindato, dalle esternazioni rade e ponderate. L’esito era sempre quello, drastico, rifinito, senza aloni di incertezze e dubbi. S’era costruito da sé, s’era scritto da sé, stronzata dietro stronzata del super Casanova originale.
Al quale forse rimase qualche scrupolo. Magari più d’uno. C’è il dubbio che abbia fatto con lei quello che io ostinatamente, e dolorosamente, mi ero vietato di fare con Susy. Io sono stato discreto, per tutto questo tempo, e non ho insistito con domande pettegole. Se le cose andarono come non soltanto io temo, fra i rimorsi del mio intemperante cognato ce ne dev’essere uno grosso. La cosa che può sembrare curiosa, ma non lo è poi tanto, è che l’avvocato, il padre di Rosanna, fu felice di questa rottura. Era come se quella figlia l’avesse ritrovata, le fosse stata restituita, sottratta a un lupo famelico prima che la sbranasse. L’aveva, forse, azzannata? Senza forse: non era il tipo da starsene con le mani in mano, quello. Dove potrebbe essere arrivato? E che importava? Era pur ben viva, forte, guarita. Sana. Libera. Da lui innanzitutto. Per suo padre, poi, che la ritrovava. E certamente, infine, Libera per un avvenire più luminoso.
L’amava, ancora, Rosanna, quando lasciò il fidanzato? Lui, abbiamo detto, ne era convinto. Noi pure. Ma in quella testa ben fornita di materia grigia, l’analisi spietata del suo comportamento la rese certa che l’uomo non era fatto per lei (mi ripeto, lo so, ma non so che farci: maiora premunt e le considerazioni estetiche rinculano). Anzi: non era fatto per nessuna. O lo era per tutte. Il che ritorna al primo senso e significato. Insomma, era un fimminaro senza riscatti possibili. Allora, non resta che dare un taglio netto. Si sanguina un po’, si piange, ci si macera, si perde qualche chilo di ciccia (in Rosanna ce n’era d’avanzo). E poi si pensa agli studi, all’avvenire. Magari, chissà, alla carriera. Se destino vuole, si troverà un altro: più alla sua portata, più degno di essere amato. Anche se il primo rimarrà indelebile nel ricordo più patetico. Non meno di quanto (questo possiamo dirlo, a dispetto d’ogni colpa e vizio) lo sarà lei in lui, e sia pure per motivi distanti da quelli dirimpettai e simmetrici di lei. Ah, l’orgoglio, l’orgoglio vulnerato così incisivamente! Così cinicamente, verrebbe fatto di dire (ove, come avrà pensato lui, si pensi al destino cinico e baro che punta al Grande Bersaglio). Chi lo guarirà, quali surrogati ne cicatrizzeranno la ferita, bruciante per mesi e mesi? Be’, è avvenuto anche questo: la vix medicatrix naturae ha fatto il suo non difficile dovere. Il che non vuol dire che Rosanna, l’innocente Rosy da lui iniziata all’amore e al sesso, l’intelligenza pacata ma solida, la ragazzona di bel viso bruno e seno prosperoso non abbia avuto una nicchia tutta per lei nell’amarcord più intimo e claustrale dell’uomo irresistibile tradito da... Da chi, da che cosa? Da una ragazzina gelosa, da lui stesso svegliata? Possibile? Dal destino cinico e baro, sopra evocato? Vabbé, ma incarnato come e dove, il cinico e baro, in quali oscuri personaggi della famiglia allargata, a parte la ragazzina iniziata al sesso?
Post scriptum. Non è che in questa congetturale ricostruzione sia stato offeso il probabile intervento paterno? Possiamo escludere che il padre, martirizzato da quei ritardi cronicizzati, offeso da quelle telefonate in seriale arrivo, abbia consigliato alla figlia lo strappo? E che lei, constatando la sofferenza paterna, ne sia stata commossa fino a trovarci un rinforzo nella riflessione personale orientata al distacco? Insomma, la decisione era maturata dentro di lei, ma forse la figura dolente e magari consigliante del padre può avere aiutato la ragazza, malgrado tutto innamorata, alla dolorosa rinuncia. La madre, invece, soffrì di questa separazione: non ci sono dubbi su questo punto.
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E chi ha scelto, e cosa, dunque, il bellimbusto para-dannunziano, come balsamo analgesico e farmaco cicatrizzante, come compagna di vita istituzionale? Per moglie, una sua alunna, per balsamo la pura e semplice ripresa, anzi la mai del tutto spezzata continuità seduttoria. Cioè, la già sperimentata e compromettente attività extra moenia. Giusto quella che aveva trascinato al fallimento il suo legale primo impegno di fidanzato. In entrambi gli eventi, ha lavorato più il caso che l’attenzione selettiva e programmante. Il Caso, ma spinto da una volontà altrui ben mirata e decisa, nel primo evento: l’alunna innamorata aveva preso un impegno, con se stessa e con le compagne di classe: Salvo Catania sarà mio. Con quelle compagne, tutte in sollucchero di tentazioni e speranze suggeritrici di mossettine e sguardi penetranti verso il ghiotto bocconcino di non facile presa. Non facile, perché così ricco di facili chances selettive presso il gentil sesso pedagogico. E mobilitò la famiglia, l’alunna determinata: i genitori e qualche zia (un paio, forse). Fu un successo appena contrastato dalla naturale resistenza dell’uomo ai legami senza ritorno, ma favorito gagliardamente da circostanze impreviste, eppure strettamente legate alla sua vocazione. Insomma, dallo sbocco inatteso, privo di precedenti comparabili, di una delle tante avventure galanti: un paterfamilias furens intenzionato a esplodergli chissà in quale parte del corpo uno o più colpi di pistola. Che aveva tentato, nottetempo, di forzare la porta della sua residenza di scapolo, forse sperando di coglierlo nel sonno. Ed era riuscito, fingendosi interessato a una civile discussione, a sferrargli un mezzo pugno in pieno viso attraverso il finestrino della sua Giulia bianca, quando, egli incautamente, si fermò al cenno del furens, ipotizzando una discussione civile, o almeno di sola sostanza verbale. E fu così che il carnefice-vittima si confidò, col padre incoraggiante dell’alunna in marcia di conquista. Il quale padre (un suo collega di matematica, nonché venerabile della versione massonica Grande Oriente d’Italia), in armonioso concerto con la moglie e al servizio della figlia, lo accolse nella sua vasta dimora per tante notti successive all’incidente (fino a che il minacciante non fu restituito alla ragione dagli autorevoli interventi di competenza). L’atmosfera creatagli intorno dai tre personaggi fu da fata Alcina e Giardino delle delizie. E matrimonio fu. Non senza un generico, e non consapevole, consenso del padre vedovo. Più un poco convinto assenso della sorella Rina. Un ghiotto argomento per un racconto cechoviano, che lasciamo cadere con rammarico. Diciamo soltanto che la scelta del cognato, una volta mostrata in giro la pulzella, suscitò critiche e meraviglia nella vasta parentela: troppo leggera, la sposina per tanto fusto; troppo piccolina, e non certo brutta, ma neppure una gran bellezza. Per colmo, afflitta da certi dolori periodici da sospetta artrite. Ma tant’è, l’impresa riuscì, e lui diceva di vederla carina e non ne misurava con giusto metro difetti e limiti. Le donne della tribù non ebbero dubbi, appena conosciuta l’improbabile vincitrice di quel difficilissimo terno al lotto: c’era sotto opera di stregoneria. Almeno una di quelle zie (o entrambe?) doveva essere una specie di fattucchiera, capacissima di preparare imbrogli e pozioni acchiappa-mariti.

mercoledì 9 dicembre 2009

Susanna, frammento 49


Mentre lascio immaginare, a chi nulla ne ha letto, quello che sta scritto in quel famoso e sacrosanto “Libro della Legge”, ricordo che di atrocità incomprensibili a una media sensibilità moderna è ricca la Bibbia, fin dal Genesi.
Nello stesso arco di Crono cade anche quel minore eppur grande olocausto che è stato il macello indonesiano: seicentomila “comunisti”, cioè operai contadini braccianti sindacalisti e altri civili, tutti disarmati e molti ignari di politica, sterminati, sistematicamente dal “democratico” Suharto (che esasperò l’ostilità “moderata” del presidente Sukarno), con la benedizione e il sostegno economico dei custodi verbali della democrazia planetaria. I quali, euforizzati dal macabro “successo”, si congratulavano col “vincitore” di tanta impresa, riempiendo i loro complici giornali di osceni capovolgimenti ideologici della verità fattuale spacciati per scrupolose corrispondenze e giudizi politici equanimi (da decenni “il più grande linguista del mondo”, l’onesto Noam Chomsky, non si stanca di smascherare tanta vergogna). E non entriamo nei dettagli, spesso orripilanti, di quelle esecuzioni massive, dove la vigliaccheria del tradimento si combina con la ferocia belluina e il “raffinato” sadismo, emulo del più efferato nazismo.
Tragedia minore anche il putsch dei colonnelli greci (21 aprile 1967) e la conseguente dittatura: minore, certamente, anche di quella indonesiana, ma nemmeno ignorabile in questa corsa fra labili quadri in fuga. Leader maximo del complotto e del regime succedaneo fu Papadopoulos, specialmente dopo il fallito tentativo golpista del re Costantino in esilio (dicembre di quello stesso anno). Uomo non certo tenero, eppure ampiamente superato in ferocia dal collega Dimitrios Joannides, che se ne sbarazzò e lo sostituì, a maggior gloria del magnifico Ordine torturatore e lagerista. E poi realizzò quel funesto colpo di mano sulla lacerata Cipro, a sfida dell’arcivescovo Makarios, che spaccò l’isola in due parti fieramente contrapposte, con scontri occasionali, conflitti più gravi e tanti morti tra greci e turchi. Questi ultimi, infatti, colsero l’occasione per occupare stabilmente un terzo dell’isola. Ed eressero un muro di caparbia durata: a tutt’oggi sta in piedi. Fu l’inizio della fine per la dittatura militare in Grecia: e pensare che Joannides aveva concepito l’infausta sortita “ciprigna” come una geniale trovata per consolidare il suo governo e salvare il resto della cricca in divisa dopo la cruenta repressione della rivolta studentesca del 1973 (gli studenti del politecnico di Atene) e le difficoltà internazionali che ne derivarono. Il ritorno della democrazia generò i processi ai golpisti, alcuni dei quali furono condannati a morte, ma senza perdere la preziosa testa: le condanne furono tutte tramutate in ergostolo. E siamo all’ennesima coincidenza con il settennio privato in marcia.
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Vi rientra anche il mitico rumoroso affascinante caotico Sessantotto, pieno di furori e speranze, ma non meno inconcludente, sul lungo periodo, di ben altre rivoluzioni finite, quelle, addirittura in tirannie e dispotismi. A questi eventi mi sono trovato in mezzo, in un modo o nell’altro, ma sempre, ovviamente, a distanza fisica di sicurezza. Nelle assemblee studentesche parteggiavo, anche se con spirito critico (e dunque, frenando la demagogia implicita in ogni entusiasmo giovanile), per le soluzioni veramente democratiche (o per loro realistiche e accettabili approssimazioni). Negli scontri (vibrati e magari al limite della rissa, ma sempre verbali) tra ragazzi di sinistra e missini (male informati, questi, ed eredi di genitori e nonni fanatici, piuttosto diffusi nei palazzetti e palazzoni della vescovile Realpolia) mediavo, senza arretrare di un passo dalle mie critiche posizioni “progressiste”. Garantendo a tutti libertà di parola, integravo lezioni di storia con escursioni periodiche nella cronaca politica più accesa , ma mi scontravo con una stratificazione ideologica familiare di quei giovani prevalentemente catto-fascistoidi. C’erano, poi, i cattolici di sinistra, più informati dei “reazionari nazionalisti”, ma anche loro (non tutti, ma tanti) illusi di potere realizzare il Vangelo nella società capitalistica assistita dagli Usa, superpotenza “alleata”, certo, e pronta all’uso della carota, ma meno che del bastone: vedi Piani Prometeo, e “strategia della tensione” a base di stragi (come la celeberrima e molto rivelatrice di Piazza Fontana, 12 dicembre 1969). E via tacendo, sulla sovranità limitata e l’umano-sociale costo di questa limitazione. Fin dallo sbarco in Sicilia del 1943: con i suoi eccessi aggressivi, i bombardamenti feroci e militarmente insensati, intorno a Palermo, Ragusa, Augusta (in uno dei quali furono maciullati trecento bambini), i suoi “errori” letali contro inermi civili (fino a sparare contro porte e finestre segnate a lutto, scambiando quel segno per insegna fascista!). E che dire della fucilazione di soldati italiani a braccia alzate o già accolti come prigionieri? Né fu solo l’eufemistico errore a coprire, per decenni, quello scoop di ferocia “liberatrice”. Altra rimozione di lunga vita, e diversa (magari opposta) colorazione politica, la bestialità giurassica delle foibe contro inermi italiani, semplificati in massa a puri fascisti destinatari di sacrosante ritorsioni contro le vecchie prepotenze del sepolto regime (discriminazione, assimilazione forzata, pulizia etnica sui resistenti e via con le solite glorie della storia).
Ci chiede nostra signora della lucidità: chi vincerebbe la gara di ferocia fra tanti sapientes bipedi in divisa molto civilizzati e ben forniti di pietà religiosa secundum quid? Un quid che accende flash di sconvolta memoria sulla maledizione scagliata contro il mite Spinoza: tentazione sommersa di ogni religione.
Ma torniamo all’America imperiale. E onoriamone pure la sistematica ingerenza neo-coloniale negli affari interni degli stati latino-americani: la coda del settennio fa in tempo ad agganciare l’ultima grande infamia di quel tormentoso segmento storico: la cancellazione della giovane, forse frettolosa, democrazia cilena, l’instaurarsi della dittatura di Pinochet, l’uccisione dell’Uomo onesto venuto a tentare la salvezza del suo popolo, il medico presidente Salvatore Allende. Una di quelle fiaccole, Allende, che s’accendono, a intervalli non brevi, nella tenebra affumicata della torva storia per rianimare la Speranza, e magari illudere i paria del pianeta maledetto che un mondo meno carogna sia possibile. Possibile, cioè, anche fuori dei proclami e delle sonanti parole seguite, tutt’al più, e più spesso, solo da magre elemosine, dove risplende, ma sempre di luce futura. Insomma, l’ennesimo caso di intervento “correttivo” degli Stati Uniti, questa sedicente democrazia ed effettiva plutocrazia delle mega-lobby e delle più ciniche multinazionali subcolonialiste, nelle vicende del loro abusivo Lebensraum continentale. Intervento che non ha mai badato a spese in fatto di vite umane “colorate”: in quelle “spese” rientrano i metodi risolutivi per spazzare via sindacalisti e attivisti vari, malati di strane pretese (come quella di difendere gli operai schiavizzati da magri compensi e orari da collasso): assoldare assassini ben pagati raccolti in formazioni paramilitari, comprare la complicità dei corruttibilissimi governanti locali e loro polizie. In questa gloria di tenebre mammoniche risultano coinvolti insospettabili nomi di fama planetaria, come Coca Cola, Nestlë, Mc Donald e compari-concorrenti (“denunciati” da rari ma onesti servizi televisivi). Non da meno i produttori di cancro a iosa, come Exxon e altri colossi petrolchimici, con le loro raffinerie allogate in mezzo a popolazioni-spazzatura, su terreni coltivati, presto sterilizzati dai reflui tossici e cancerogeni.
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Nella coda del settennio rientra anche il colera a Napoli e dintorni: dono del cielo. E della “napoletanità” poco igienica. Scoppiato sul finire del torrido agosto del ’73, l’epidemia smascherò le brutte facce della politica locale e nazionale, e cioè la subordinazione dell’interesse comune e generale a quello privato e particolare (sempre malconcepito); la connivenza, a diversi livelli, di troppi politici, locali e no, con la camorra; l’affarismo impudico e senza limiti, molto trasversale fra distinte categorie socio-professionali; l’assoluta mutilazione, in quelle coriacee sensibilità, della benché minima traccia di etica personale e comunitaria. Cominciando dall’alto: che cosa pensare di un ministro della sanità come Luigi Gui che va dicendo di avere “sentita alla radio” la brutta notizia? Dopo il settimo morto di colera! Mentre le folle “godono” lo spettacolo delle cozze infette che vagano in mare sulle miti onde di Margellina con annessi topi morti, i politici parlano, si riuniscono, promettono impegnando effusioni di facile parola. E una “dichiarazione di urgenza” del Consiglio regionale approda a una legge fantastica, ma destinata al non raro oblio che seduce le iniziative politiche italiane (specie nel profondo Sud): “Finanziamenti regionali per la costruzione, ampliamento e completamento di impianti per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani”. Fu previsto uno stanziamento di 30 miliardi. Dopo cinque anni non se n’era speso un miliardesimo. E quella legge è rimasta in qualche sperduto cassetto dell’ennesimo tavolo dimenticato. Facile prevedere che l’emergenza si riproporrà fra qualche anno o decennio, magari oltre il duemila. Quando non sarà possibile giocare col nome del vibrione Ogawa di quell’anno per sfottere i democristiani della corrente dorotea, trasformandolo in “o Gava”, perché al posto del “viceré doroteo” (nel frattempo probabilmente trapassato) ci saranno altri nomi di “viceré” a perpetuarne l’operosa memoria. Ma la monnezza sarà uguale. Anzi, peggio: ci si può scommettere. Il dna dell’ibrido popolo lo garantisce. Avremo la peste camorristica a dominare il solito giro di complicità politiche e variamente istituzionali: qualche prefetto, qualche ufficiale o maresciallo della gloriosa Arma, uomini della polizia, della finanza, dei vigili urbani. E perfino qualche mela marcia della magistratura di vario livello. Una volta, e forse più di una, ho scritto in un articolo che la nostra civiltà-società consumistica meriterebbe a pieno titolo un appellativo meno anodino, prospetticamente più drammatico: “civiltà dei rifiuti”. Alla salute delle passate e delle future malattie indotte dalla pacchia miliardaria di questa eco-delinquenza a molte teste e variopinte coperture, magari bipartisan. Alla faccia degli autentici cacciatori di malavitosi, che, non solo devono subire gli intralci tessuti dalle complicità istituzionali, ma ricevono anche carezze di calunnie e insulti vari da servi e sodali dei corrotti. E spiace constatare che il marcio lambisce, e in certi casi tocca e contagia, anche la variegata sinistra organizzata. E sia pure in misure e modalità assai meno drammatiche e devastanti rispetto al blocco delle cosiddette forze moderate e liberal-democratiche.
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I giornalisti di quell’anno rievocarono altri episodi di colera di epoche assai meno protette contro queste insorgenze poco fatali e molto umane. Quella del 1884 fece 7000 morti, la precedente, del 1836-37 (durante la quale morì Giacomo Leopardi, ospite a Napoli, dell’amico Antonio Ranieri), ne aveva prodotto ben 18.000. Il quotidiano di Napoli, Il Mattino, pubblicò la “lettera aperta” che la battagliera Matilde Serao indirizzò, in occasione del “colera 1884”, al premier di quel governo, il Depretis del “compromesso storico” d’epoca (passato nei libri di storia come trasformismo): “La strada dei Mercanti l’avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello; le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e smorta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio”
Indi, rivolte di folle esasperate contro le discariche, abusive o no, blocchi stradali, scontro con le “forze dell’ordine” e altra ordinaria celebrazione del disordine civile ignorato, anzi coltivato, in rebus, dall’alto.
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Ma prima di alcuni degli eventi richiamati, come accennavo, ci fu il ’68, il mitico 1968, anno di festosi furori e fragori, di allegrie espansive e di ritornanti malinconie, di drammi e farse. Soprattutto, di entusiasmi e illusioni. Molte realtà del Vecchio Ordine (come si diceva allora) crollarono sotto i colpi della Contestazione, e meritavano di crollare: l’autoritarismo blindato delle istituzioni formative, scuole medie e università, certa stagnazione culturale sempre in fregola di rinnovamenti e in realtà pronta ad appagarsi di alchimie verbali e verbalistiche acrobazie; certo umanesimo cristiano gonfio di ciarle pseudo-logiche, e l’altro, marxista-puro, che si pretendeva alternativo al primo, eppure entrambi insensibili agli stimoli della galassia fisiologica (dalla biologia molecolare all’etologia). Ma si credette (ancora una volta) a un “mondo nuovo”, migliore e duraturo: di democrazia partecipativa, di egalitarismo solidarista, di maoismo evangelico per gli uni, di maoismo ateo e anticlericale per gli altri, ma parimenti palingenetico. La Cina di Mao, il Grande Timoniere, brillava come fulgido astro sull’orizzonte ideologico dei giovani europei più accesi: un granitico “assoluto” di certezze redentrici contro le nefandezze del capitalismo imperialista. La Rivoluzione Culturale lampeggiava nei cieli azzurri con bagliori d’avvenire rossi di speranze, di resurrezioni, di riscatti per i diseredati del mondo. E di sangue, anche: ma in quel tempo di miti freschi e relativa esaltazione non si credeva al sangue repressivo, tantomeno a quello versato dalle “guardie rosse” troppo fanatizzate dal Verbo ispiratore: lo si accollava come spudorata menzogna alla perfida propaganda dell’ideologia avversaria. Il Libretto rosso di Mao si vendeva a milioni di copie, se ne aspiravano, più che leggere, le massime, i pensieri, gli insegnamenti: come voce di un nuovo e più attuale sacro testo (e i cattocomunisti, come spregiativamente vennero chiamati i credenti di “sinistra estrema”, non trovavano contrasti insanabili tra i due Vangeli). Quante parole grosse, che sventolio di maiuscole, in quei fervidi giorni, in quelle giornate di movimenti non stop al servizio dell’Idea. E della baldoria pensosa. Se la passarono male molti rappresentanti del Vecchiume contestato: dai preti conservatori ai baroni di cattedra, dai presidi di liceo “reazionari” ai dirigenti di azienda autoritari (cioè, la quasi totalità, rarissimi essendo gli Adriani Olivetti, specie in Italia, e gli esperimenti assimilabili a Comunità).
Non mancarono episodi di violenza ingiustificabili contro docenti universitari presidi professori. Né scontri con le polizie, sempre di mano lesta e manganelli pronti all’uso revanchista (o Pasolini candido, che difendevi le divise proletarie, dimenticando che spesso l’abito fa il monaco). E sempre difese, le polizie mazzianti, dal destrume europeo e italiota in particolare. Dal “Maggio francese” che aprì le danze ai suoi tardivi riflessi italiani e isolani, la lunga avventura ci coinvolse più o meno tutti. E io mi trovai ancora una volta al fianco dei giovani, giovane (e meno giovane) anch’io, ma con (la già dichiarata) disposizione mentale prudente verso la babele maiuscolara. Non era facile farsi accettare come mediatori e non passare per pompieri. Criticare, per esempio, certe semplificazioni di un Cohn Bendit, e fosse pure dentro un discorso simpatizzante. Tuttavia non posso dire di avere avuto guai e problemi seri con i miei studenti, sia degli istituti magistrali della Calamagna che dei licei in cui mi trovai a insegnare dal primo anno del mio rientro insulare. Ero schierato, e lo sapevano tutti, ma con il peso coscienziale di una vigilanza ostilissima alle menzogne semplificatrici e alle rimozioni interessate. Condizione davvero non comoda per chi vive in mezzo a giovani “catramati” di ideologie sostanzialmente dicotomiche. Non è difficile figurarsi come potessero venire accolte le mie riserve sull’ambigua “rivoluzione culturale” cinese, già allora sospetta, per me, di eccessi tutt’altro che indolori per gli opinabili bersagli di quel fanatismo ideolatrico. Ma resta meritevole di sorridente (magari di un sorriso amarognolo) indulgenza Chi potè lodare come “Formidabili quegli anni”: si potrebbe campare senza una qualche mitologia? Oggi quel signore è impegnato in cause meno rumorose, ma rispettabilissime: la difesa dell’ambiente, la lotta (non fanatica come l’altra) contro gli Ogm. E contorni. La fiammeggiante Capanna guerriera si è riassettata in comoda dimora borghese. O quasi. La lima del Tempo è spietata. E il dna anche peggio: se penso a certi rinculi (oggi a lauti stipendi ammazza-ideali, nel giornalismo cartaceo o elettronico privato o pubblico), l’ex leader rosso mi appare un modello di coerenza.
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Rileggendo la carrellata sopra “contratta” sul “mitico Sessantotto” ho avuto l’impressione di essermi alquanto scontata la mia partecipazione. Dopo tutto, guardavo con dichiarata simpatia l’esperimento maoista della rivoluzione culturale, quell’egalitarismo spinto fino all’uniformità forzata del vestire, quella fiducia in un vero rinnovamento pragmatico-assiologico (a scorno delle vaste ipocrisie del sedicente “mondo libero” e molto cristiano), l’aria di un’epoca nuova (almeno parzialmente). Le vittime prevedibilmente seminate dal gigantismo fanatico del Tentativo? Come accennavo sopra, non le negavo, ma tendevo a sovraccaricare l’innegabile vocazione menzognera della propaganda occidentale, quindi a “scalare” forse più del corretto le cifre iperboliche sbandierate da questo mega-produttore di falsità ad usum delphini (il delfino immarcescibile del taroccato paradiso capitalistico). Sarà un caso che già in Calamagna mi chiamassero (colleghi scettici, ma anche amici di fuori ) “il maoista”? Mea culpa, dunque? E sia. Ma secundum quid.1
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Il mitico Sessantotto fu anche l’anno di un’altra infamia: la strage di Città del Messico, il fuoco assassino di quel governo sugli studenti in pacifica dimostrazione contro le solite vergogne delle troppe e varie diseguaglianze sociali: dagli affamati indios e campesinos super-sfruttati (la versione “secolo XX” dell’antica schiavitù) ai possidenti latifondisti e miliardari degli intrallazzi con gli Stati Uniti neocoloniali. Era la “vigilia” della XVIII Olimpiade quando quell’ossimoro spudorato che “regnava” col titolo di Partito Rivoluzionario Istituzionale ordinò l’ennesimo massacro ingiustificato del secolo. E quel contrasto osceno prendeva di mira la sacrosanta protesta studentesca: troppi soldi per i giochi, mentre “fuori” si moriva di fame. Vecchia musica, quante volte ripetuta e finita sempre con piombo in faccia agli impiccioni che infastidiscono la buona coscienza capitalistica: c’è per nulla la nuova scienza sacra, l’Economia liberista, col suo santo Mercato e i suoi algoritmi da premio Nobel? In quelle luminose pagine si spiega come qualmente il meglio del peggio sia sempre e ovunque la (peraltro mitica) onesta libera concorrenza, produttrice di ricchezza per i capaci e (ma col tempo, un tempo lungo, magari) benessere per tutti. Peggio per i renitenti (e resistenti) alla conversione para-millenarista.
A riprova di tanta falsità e disinvolta ferocia decisa al delitto in difesa della Libertà maschera ideale e di quella reale e mammonica, due assassinii di rara chiarezza e infamia in quell’anno magico: quello del 4 aprile fulminò, a Menphis, in piena campagna per i diritti civili dei negri, Martin Luther King, l’uomo che aveva un sogno: I have a dream. Il dream si realizzerà, bene o male, ma non senza ambiguità e resistenze varie, e solo dopo molti anni di lotta plurale e crudele, fiammeggiante di molti crimini con vittime nere (nella produzione dei quali il primato spetta all’organizzazione razzista Ku Klux Kan, messa, sì, fuori legge, ma a lungo operante in clandestinità, non senza complicità tra certi presìdi della stessa legge). Unico frutto positivo della ferocia razzista fu l’attenuarsi dei contrasti fra il non violento King e l’alfiere e fondatore di Potere nero, Malcom X.
Il secondo omicidio eliminò, cinque anni dopo Dallas, cioè dopo l’incredibile assassinio del presidente John Kennedy), il fratello ministro della Giustizia e aspirante presidente, Robert, detto Bob: era il 12 giugno. Anche Bob aveva un sogno, in buona parte identico a quello del leader negro.
Di famiglia borghese, figlio di un predicatore battista, Martin Luther è un “privilegiato” del mondo escluso, uno che vive nella Auburn Avenue (di Atalanta). Battezzata il Paradiso Nero, ospita le “élites della razza inferiore”. Martin studia, cambia stato e città (nel 1948 si trasferisce a Chester, Pennsylvania), fa teologia, diventa pastore della chiesa battista, intraprende la lotta per i diritti civili, adotta il metodo gandhiano della nonviolenza: “siamo stanchi di essere segregati e umiliati. Non abbiamo altra scelta che la protesta. Il nostro metodo sarà quello della persuasione, non della coercizione…” . E’ del 28 agosto del 1963 la “marcia su Washington”, durante la quale pronunciò per la prima volta (forse) la celebre frase I have a dream.
Non conoscevo ancora Susanna, in quel mese e anno, ma l’avevo già alunna quando, l’anno successivo, al tenace missionario fu assegnato il Nobel per la pace. E l’avevo perduta da poco più di un anno quando King fu assassinato.
Molte sfilate pacifiche vengono trasformate in scontri violenti dalle provocazioni dei bianchi segregazionisti e della polizia. Molti arresti, tanto carcere anche per King. Che risponde con un irenismo sconfinante nella retorica evangelica: “Noi sfidiamo la vostra capacità di farci soffrire con la nostra capacità di sopportare le sofferenze. Metteteci in prigione e noi vi ameremo ancora. Lanciate bombe sulle nostre case e minacciate i nostri figli, e noi vi ameremo ancora…” Prende posizione contro la guerra nel Vietnam, e denuncia il degrado dei ghetti, “entrando così direttamente in conflitto con la Casa Bianca”. A Memphis partecipava alla marcia degli spazzini in sciopero. Stando sulla veranda esterna dell’albergo, fra i suoi amici, offriva un bersaglio fin troppo facile a chi aveva nel cuore la sua condanna capitale. Che fu eseguita con alcuni colpi di fucile sparati da un balcone di fronte all’albergo.
E si scatenò l’inferno in mezza America, con un bell’addio alla nonviolenza predicata dal leader assassinato. Sacrosanta autodifesa peraltro, di chi ha d’un tratto scavalcato la soglia di tolleranza-speranza. Il presunto assassino fu catturato a Londra, due mesi più tardi. Ma si dichiarò innocente e promise di rivelare il nome del vero colpevole. Naturalmente, non gliene lasciarono il tempo: cadde trafitto da acconce coltellate dentro la sua cella, la notte successiva alla sua promessa. La storia si ripete. E così, non si sa ancora chi sia stato il vero assassino individuale: quello diffuso e massivo è fin troppo noto. Sparpagliato su amplissimi spazi sociali, era facile imbattersi in qualche pensierino gentile, perfino stampato sulle vetrine dei negozi: “Segregazione oggi domani e sempre” “Mai un negro negli spazi dei bianchi”. E simili fioretti evangelici.
Fra i suoi pensieri-aforismi, alcuni sono degni della storia e della leggenda (magari previa tara dell’inevitabile bava retorica). Esempi: “Se un uomo non ha ancora scoperto qualcosa per cui morire, non ha ancora iniziato a vivere”. “Alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma i silenzi dei nostri amici”. Tanti i libri, saggi di riviste, articoli di giornali sul carismatico personaggio. E tra le canzoni dedicate a lui, ricordiamo “Pride. In the name of love”, degli U2. Tanta gloria postuma, e prossima alla santificazione laica, non obliteri il fatto che ancora a trentacinque anni di lontananza da quell’esecuzione feroce c’è chi maledice l’eroe nero e si compiace della sua eliminazione. Il razzismo è una patologia endemica, con fasi di latenza e fasi di riemersione (anche massiva). Mi sovvengono le parole finali della camusiana Peste: “Il bacillo della peste non muore mai, si nasconde fra le cartacce e i rifiuti, finché un bel giorno tornerà a far morire i topi sui gradini di una casa.” (citazione a memoria da controllare).
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Inutile ricordare che la mia “vigilanza” sul martirio del Vietnam era sempre sveglia puntuale documentata. Leggevo quanto potevo sull’argomento e di tanto in tanto si faceva “lettura del giornale” in classe (in tutte e tre le classi del liceo classico). In realtà, si leggevano e commentavano anche articoli di riviste, mensili e settimanali, e pagine di instant books. Alcuni di questi articoli li ho trascritti parzialmente nelle mie agende-diario.
Eccone un campione. Dal volume di Mario Lenzi, In Vietnam ho visto (“I grandi servizi di Paese Sera”, con prefazione di Enzo Biagi, Roma) trovo depositato sull’Agenda di quell’anno (senza le iperboli grafiche della titolazione suggestiva) brani tra i più significativi (ma per me lo erano tutti, in un’altalena di “più o meno” dalle oscillazioni tenui).

Prima di tutto l’uomo. Perché questo popolo è in grado non solo di resistere a un nemico tanto più forte, ma anche di contrattaccare. Un giusto rapporto con la vita e con la natura.

Di ritorno da Hanoi, giugno.  Tu stai leggendo e in questo stesso momento i bombardieri americani continuano il massacro. La tv dice che Nixon toglie i soldati dal Vietnam; ma per ogni soldato che ritira, manda un bombardiere. Nelle cronache ricorrono sempre gli stessi nomi di città: Hanoi, Haiphong, Nam Dinh, Nin Binh, Cao Bang, Thai Nguyen, e altri centri e villaggi che io ricordo non come nomi nella impersonale registrazione dei bollettini di guerra, ma come case, strade, negozi, cooperative, fabbriche; e donne e uomini come noi; e ragazzi come i nostri; e banchi di scuola, libri, letti, mobili, biciclette: le povere cose della vita di tutti i giorni.
Noi abbiamo spesso di questa guerra un’immagine sfocata o retorica. Non ci sono, nel Vietnam, bandiere al vento né squilli di tromba; ma città distrutte, case sventrate, ospedali a pezzi, ponti demoliti, tralicci contorti, binari divelti, chiese che non hanno più né campanili né altari; e morti, milioni di morti, in un paesaggio allucinante, una terra informe di acqua e fango, una giungla più una palude, sotto la nebbia, in un caldo asfissiante. E gli uomini, per sopravvivere, si rifugiano sotto terra, nelle fogne, con i ragni, i serpenti e i topi.
Noi continuiamo la nostra vita, siamo con la moglie, con i figli, con gli amici; al lavoro, alla partita o al cinema; qualche volta partecipiamo pure alle veglie per il Vietnam in piazza Navona e poi andiamo al ristorante dalle parti di via Ripetta. E laggiù, ogni ora, le bombe: trecento bombardamenti al giorno.

10. 01. ‘73, Non vogliono la guerra

Laggiù, a Hanoi, ho conosciuto un giornalista americano, che aveva avuto un permesso speciale dai vietnamiti. Ho letto, poi, le nobili e coraggiose parole che ha scritto sul suo giornale. Veniva con noi nel rifugio e ascoltava con gli occhi sbarrati i colpi sordi delle bombe che buttavano i suoi compatrioti. Una volta lo hanno portato a vedere le vittime di un attacco dei Phantom. Ha detto semplicemente: “Tutti questi bambini morti pesano su di me”. Piangeva. Ha aggiunto: “Ora vorrei essere vietnamita. Mi vergogno di essere nato americano”. La ragazza che lo accompagnava, Quynh Anh, gli ha risposto: “Non ti chiamerò americano. Ti chiamerò fratello. Non devi vergognarti. Noi amiamo il popolo americano. Noi crediamo che gli americani siano quasi tutti come te”

Quello che più mi ha colpito dei vietnamiti è il loro tranquillo coraggio, l’assenza di retorica. Non vogliono la guerra, non sono un popolo guerriero come i Gurka. Fanno la guerra da trent’anni, e la sanno fare, ma vogliono la pace. “Combattiamo  mi ha detto Hoan Tung, direttore del Nhan Dan, con una di quelle frasi che illuminano tutto, all’improvviso  perché non abbiamo altra scelta. La ferocia del nemico ci costringe a essere eroi. Non è colpa nostra se la nostra terra è in una posizione strategica, nel mondo, tra India e Cina, un balcone sui mari d’Oriente; non è colpa nostra se fa gola ai generali americani. Loro hanno molti Giuda, che per trenta denari ci dipingono come aggressori; ma è facile capire chi sono gli aggressori, perché la guerra si fa qui, tra le nostre case, e non negli Stati Uniti”
Non dimenticherò facilmente gli occhi che avevano i soldati di Nam Dinh. Gli stessi che poi ho visto affrontare con spietato furore un attacco dei Phantom, quando una ragazza dal viso pulito cantò per loro: “Mio caro, non tornare là, resta qui con me”