martedì 22 dicembre 2009

Susanna, frammento 50


Per attrito logico-emotivo, mi salta di nuovo alla ribalta di una Mneme affollata la famosa “Primavera di Praga”, col suo indotto di lunga carriera. Nel cui bagaglio si trova, fra le molte cose e persone finite nel tritacarne dei processi polarizzati, il suicidio del medico Sommer, avvenuto, ad aggiungervi tragici fiori, durante l’infelice festa di quella “Primavera”: era il medico che, su disposizioni superiori, somministrava ai prigionieri politici della prigione dove fu rinchiuso Slansky droghe (come mescalina, actevron e altre) che accendevano nei loro corpi “uno stato di indolenza euforica, confondendo il loro pensiero e indebolendone la resistenza”, mentre venivano “percossi e maltrattati al punto che parecchi di essi credettero di essere caduti in mano ad aguzzini fascisti”. Slansky fu il più eminente dei dirigenti politici cechi giudicati titini e impiccati (François Fejtö, Storia delle democrazie popolari dopo Stalin, trad. it. Vallecchi).
Ricorrono nomi, in questa vicenda, che toccano corde della sensibilità particolarmente reattive: uno di questi è Jan Palach, il giovane patriota suicida per fiamme da benzina (ma senza gridare “la fiamma è bella!”) in piazza San Venceslao, come protesta estrema contro la repressione troppo “pedagogica” operata dal Patto di Varsavia (o vogliamo semplificare dicendo Unione sovietica?). Era l’esempio dei monaci buddisti del Vietnam che contagiava certa gioventù generosa e troppo esposta a deliri idealistici (o magari ideologici). Quanto al nome massimo dell’avventura, Dubcek, non si può dubitare della sua buona fede. Ma nemmeno degli intrighi e delle manovre del civilissimo e ultrademocratico Occidente, tra banche disponibili a pingui prestiti di pura beneficenza redentrice, auspici e suggerimenti in sordina di ambienti vaticani e altra provvidenza capitalistica, vogliosa disponibilità interna di certe istituzioni praghesi, finanziarie e politiche. Come dire, quanto di meglio si potesse fare per scampanare l’allarme rosso alle orecchie dei “fratelli" del Patto, chiamandoli al “doveroso salvataggio” corale (e “morale”) del Socialismo assediato dalla lupesca Reazione tentatrice (come resistere all’abbondanza consumistica del Tentaore?).
*
E come non ricordare la sconcia tragedia del “Settembre nero”, il tentato sterminio dei palestinesi ospitati in Giordania, mandante il sovrano del Paese, re Hussein, esecutore un generale dal nome fatidico (in trasposizione italiana), Majali? Non dubito di una certa spavalderia germogliata in alcuni di quei resistenti, che – si dice – mal tolleravano, a un certo punto della loro residenza ospitale, limiti e controlli del Paese ospitante. Soprattutto riferibili alle loro iniziative militari contro il rabbioso Israele, sempre lesto di mani ritorsive. Ma non c’era proprio nessun’altra soluzione che lo scontro micidiale tra “fratelli”? Da aggiungere che quel massacro fu preludio a un altro calvario per la Resistenza palestinese, i cui resti furono dirottati in Libano, in attesa inconsapevole di una maggiore rovina a tappe, culminata in una sorta di ritornante “Sacro macello della Valtellina”. A pensarci bene, alla luce dei misfatti successivi, sulla vicenda giordana è più facile credere a uno dei soliti giochi sporchi della politica che a una sanzione autonoma (nazionale?) per violata soglia di tolleranza. Insomma, la pressione israeliana sul re di Giordania perché cacciasse dal suo territorio quegli ospiti turbolenti. Pressione del genere ultimatum: o lo fai tu o lo facciamo noi. Con le prevedibili conseguenze sul tuo territorio, fra le popolazioni civili, e così via. Prendere o lasciare. E’ fantapolitica, questa congettura, o plausibile lettura di gesti e silenzi dello Stato prepotente? Anzi, più di gesti (azioni micidiali contro la Giordania) e parole segrete che silenzi. E forse qualche voce critica, che oggi ignoro (magari per dimenticanza) si è già espressa in questo facile senso.
*
Feci in tempo a sfiorare un altro evento pubblico di rilievo. Incomparabile, certo, alla tragedia appena ricordata, ma con un suo spessore drammatico che ebbe, anch’esso, il suo tributo di sangue. Modesto, ma troppo vicino perché non lasciasse tracce profonde nella memoria collettiva e più d’una ferita negli affetti domestici dei colpiti. Oggi non saprei dire quante sono state le vittime della “Rivolta di Reggio”, né ho voglia di andare a controllare: ma ci furono negli scontri dei dimostranti con la polizia e l’esercito, incautamente mandati dal governo centrale a reprimere un sussulto di rabbia campanilistica che venne strumentalizzata dal Msi e dal torbidume circostante (non esclusi gli immancabili servizi segreti, risorsa sempre disponibile alla gestione delle sudicerie politico-mammoniche). Nacque come questione del capoluogo: ai reggini sembrava ovvio che fosse la loro città la naturale candidata a quel ruolo regionale; ma il ministro Giacomo Mancini, leader autorevole del Psi non ancora “craxiato”, pensò bene di eleggere a quell’onore la sua città natale, Cosenza, la bella slivellata ricca di memorie storiche patria del filosofo Bernardino Telesio (e anche, a maggiore gloria, di molti massoni e n’dranghitisti di tutto rispetto). E scoppiò l’incendio. Dapprima fiammelle di cortei urlanti ma composti, proteste murali, tentativi di mediazione: a questi primi segnali del peggio, seguì l’incendio divampato in tutto il suo sinistro fulgore nel luglio 1970 e aperto a sviluppi imprevedibili, nei giorni e le notti di quell’estate contesa alle piccole delizie dei bagni jonici. Fu rivolta popolare, all’inizio, complicata, via via, da rivendicazioni economico-sociali, ma diventò sedizione manovrata quando, l’impreparazione delle forze politiche democratico-socialiste e sindacali a capire in tempo, distinguendo, e quindi “modulare” l’intricato e complesso fenomeno, offrì l’occasione di appropriarsene alla destra nostalgica e alle sue frange giovanili ed extra-parlamentari, subito sorrette e adottate dai bisonti del padronato agrario più o meno latifondista. Come alludevo sopra, non mancarono gesti inconsulti dall’alto, a provocare l’esasperazione della protesta: la polizia manganellante ad libitum, dichiarazioni incaute di certe autorità nazionali, attenzioni interessate e coperte (interne e straniere: leggi, ambasciata Usa), sempre all’erta contro possibili scivolamenti verso la perpetuamente scomunicata vitanda sinistra politica. E via soffiando. Fino a quelle immancabili vittime di frettoloso piombo in divisa. L’altra parte sembrava non aspettare altro per scatenarsi e catalizzare i poco eroici furori dei dimostranti, prevalentemente giovani. I quali non ci pensarono due volte a improvvisare bombe molotov e altre “armi improprie”, non senza qualche proiettile “errante” di buia provenienza. E germogliarono i morti e i feriti, dell’una e dell’altra parte: fra i soldati e i poliziotti e, soprattutto, fra i dimostranti. E si andò avanti così, sino al febbraio 1971, rivelando nella parte più sensibile e reattiva dei giovani (studenti, per lo più) coraggio autentico e fermezza convinta. Fino all’azzardo sfidante, a volte.
Io seguivo gli eventi più caldi di quell’autunno (ben altrimenti caldo che quello sindacale e “proverbiale”) dal nuovo avamposto istituzionale, il liceo classico statale “Virgilio” della sicanica Realpolia. Al solito, “partecipavo”, e quella mini-primavera dei popoli stravolta veniva commentata con i miei allievi, parte dei quali (come già avrò scritto in queste pagine) di orientamento destrorso e alcuni iscritti alle sezioni giovanili del Msi almirantiano. Per fortuna, i ragazzi nostalgici erano quasi tutti concentrati in una sola classe della mia sezione A. Personaggi torbidi (e uno in particolare) si segnalarono, non solo per la virulenza degli attacchi giornalistici e murali all’incauto Mancini (e, in lui, all’intera sinistra) ma non ne voglio fare il nome in queste pagine. Si parlò, allora, anche di tentativi secessionistici, con un miscuglio di nostalgie borboniche e di indipendentismo rivoluzionario di ispirazione socialista. Quest’ultimo si sarebbe rivelato più decisamente a metà degli anni Settanta, con un misto di analisi storica severa ma ben documentata e proposte per un avvenire di libera Repubblica di un Sud popolare a economia artigianale e di piccole industrie. Velleitario “populismo”, sentenziaraono certe penne della galassia sindacale social-comunista. A proporlo sarà uno stimato collega e caro amico sideratese, docente di diritto in quell’Istituto tecnico commerciale. Ma la sua generosa utopia rimase un fenomeno di marginale minoranza. Tanto marginale da spingere l’autore e il ristrettissimo seguito nelle braccia (o, almeno, al fianco) del movimento neo-borbonico (peraltro, anch’esso fenomeno di élite intellettuali), rivitalizzato dalla rivolta (e dalle sue e strumentalizzate illusioni).
E la ‘ndrangheta, che ruolo svolse in quegli eventi? Se ne dissero tante, ma è da ritenere più verosimile un attendismo cauto e disincantato. In previsione, magari, di non improbabili offerte allettanti di provenienza istituzionale. Ma non oso insistere su ipotesi forse bisognose di ricerche accurate che non voglio né potrei fare.
Naturalmente, la rivolta offrì occasioni a interventi pubblici e pubblicistici di varia ispirazione e difforme serietà argomentale. Un testo rispettabile, benché dichiaratamente “di parte”, risponde a un titolo “nudo”, “Reggio Calabria [I moti del luglio 1970-febbraio 1971]” (Feltrinelli, 1972) e a un autore trentenne, laureato in lettere (università di Roma), tesi in sociologia: Fabrizio D’Agostini. Collaboratore dell’ “Unità”, direttore per un biennio di “Sindacato nuovo” (“la prima rivista unitaria del movimento sindacale”), redattore di “Rinascita”. E non so che altro negli anni seguenti. Già nella premessa, l’autore punta un dito cosciente e coraggioso contro i responsabili della distorsione reazionaria dell’evento: “La scadenza elettorale ha riportato alla ribalta quasi tutti i personaggi che furono tra i massimi responsabili del carattere eversivo della rivolta e che hanno continuato a operare indisturbati nonostante fossero stati imputati di reati gravissimi” E giù una sfilza di nomi, che risparmiamo alle nostre pagine, già sovraccariche di mali e mala gente. L’autore, mentre picchia duro sui personaggi che, solleciti unicamente del loro “particulare” (poderi e potere), utilizzano la buona fede infiammabile di certa gioventù e il malcontento di strati sociali dostoevskijanamente “innocenti”, drogandoli con “falsi orgogli e ideali”, o allettandoli “col ricatto e il clientelismo”; e mentre, nel contempo, denunzia gli “scarsi” “contributi di analisi e quindi di ricerca di soluzioni” (citando un libro dell’antropologo Lombardi Satriani), cotruisce, lungo tutto il racconto, un appello alle forze progressiste sulla “necessità di scelte coraggiose che determinino una svolta politica nel Sud, svolta che solo l’iniziativa del movimento popolare può imprimere”. Anche (aggiunge) per venire incontro a quegli studiosi “che si sentono isolati nella dura battaglia condotta nel Mezzogiorno e per il Mezzogiorno e che giungono anche a conclusioni politiche disperate e disperanti”. E qui cade a fagiolo un nome che l’autore cita tra parentesi così: “cfr. Nicola Zitara, ‘L’unità d’Italia: nascita di una colonia’”. Un pamphlet (rivelatore fin dal titolo squillante) che conobbe un buon successo negli anni Settanta. Naturalmente, stiamo ancora aspettando, dopo un trentennio (di buoni propositi, belle parole, sinceri entusiasmi, da una parte; e coriacea ostinazione del malaffare e nel culto di quel “particulare” dall’altra), quella auspicatissima “svolta”. E fa tenerezza, quasi, leggere, nel libro, le opinioni di tanti personaggi della politica, e le prese di posizione dei vari sindacati. Perfino le cattoliche Acli, pur dando ragione ai reggini sul diritto al capoluogo, “non ne fanno, però, una questione di vita o di morte, consapevoli come sono [...] che l’attribuzione del capoluogo da sola non risolverebbe i problemi” economico-sociali e culturali della provincia e della regione.
Per finire col parzialissimo ricordo degli eventi collettivi, un cenno al testé menzionato “autunno caldo”: la bella lotta sindacale che costrinse la dirigenza della vallettiana Fiat prima, e tutto lo schieramento padronale poi, a venire a patti con gli operai sovrasfruttati e infine ad accettare lo Statuto dei lavoratori.
*
Fra gli eventi pubblici “minori” (e di tutt’altro segno) del settennio posso registrare il “prodigioso Woodstock 1969” e la morte del mitico Jimi Hendrix: a soli 27 anni, per overdose, a Londra, il 18 settembre 1970. Una vita bruciata dal dio dell’eccesso, lo stesso che gli aveva dato la gloria, che lo aveva incoronato re della chitarra rock, e scolpito icona di una e poi di più generazioni di giovani, ancora intatta, dopo trent’anni di carriera venerante. Sempre il piccolo dio dell’eccesso aveva suggerito al divino di mandare in delirio il popolo di Woodstock “incendiando in una folle celebrazione notturna la sua chitarra” dopo il favoloso mega-concerto. Ma questa bravata di distruggere la chitarra dopo i suoi concerti era diventata una spavalda firma delle sue performances, suo stile di vita. Ancora sua fosca divinità l’Eccesso, motore dell’intera biografia brutalmente troncata al culmine della gloria, aveva “metamorfosato” il guitto affamato degli slums di Seattle in idolo della giovinezza, prima di lingua inglese e presto mondiale. E sorvoliamo su altri significativi mini-eventi pubblici dello stesso mondo rock-pop e dintorni.
*
Ma non sopra un altro, forse minore anch’esso, ma non minimo, e di (o “perché di”) impatto politico-culturale piuttosto clamoroso: si vuol dire del romanzo “Il Contesto” (novembre 1971), nel quale Leonardo Sciascia radicalizza quella lucidità esigente (e perciò sconsolata ) che, ignorando i divieti ideologici, esplora, senza rimozioni e polarità di comodo, tutti i nessi e gli intrecci relazionali possibili al controllo investigativo rigoroso di ogni evento eclatante. E ne viene fuori il “contesto”, per l’appunto quel reticolato di connivenze e complicità (tattiche o strategiche, palesi o inconfessabili) che coinvolge il potere politico legale, il mondo dell’economia, l’opposizione. Senza escluderne (anzi!), in certe regioni e latitudini politico-istituzionali, perfino la malavita organizzata, inserita, di fatto, con collusioni di vario raggio e livello, nel tessuto della realtà economico-poilitica. Il farmacista vittima di un errore giudiziario, che si autolegittima Vendicatore dell’ingiustizia e serial killer di alti magistrati, è il colpevole che l’ispettore Rogas individua correttamente, ma che le istituzioni, in perfetta complicità circolare, non vogliono né possono accettare, pena il fallimento di un loro torbido progetto di potere personale. Così Rogas diventa un corpo estraneo da eliminare, e viene spinto a improvvisarsi giustiziere: eliminando personaggi negativi (come fra Diego La Matina, l’eretico che “giustizia” l’inquisitore fellone, nell’altro racconto di Sciascia, “Morte dell’inquisitore”). Rogas uccide nientemeno che il segretario del Partito Rivoluzionario Internazionale, Amar, scoperto, dalle sue investigazioni, come associato al grande Complotto. Ed è subito scandalo a sinistra: spunta lo “Sciascia due”, il “cattivo” che tradisce lo “Sciascia uno”, quello che combatteva la doppia battaglia per la sua Sicilia e l’Italia tutta: contro la mafia e la cattiva politica democristiana largamente intrecciata con il potere criminale; contro l’imperialismo americano e per la difesa della giustizia sociale (e della giustizia senz’altro). Ed ecco il fiero attacco del colto Colajanni sull’Unità: “[…] la spiegazione della parabola di Sciascia va ricercata nel suo rapporto con la Sicilia. L’approdo alla tematica universalistica della disperazione cosmica e del potere incombente alla Kafka non è che il frutto della rinuncia a combattere la propria battaglia per la Sicilia. Altri intellettuali siciliani hanno percorso la stessa strada scegliendo il servilismo verso il potere: Sciascia sceglie la via dell’evasione e della giustificazione metafisica alla propria debolezza”.
Nell’aristocratica “risposta” del politico intellettuale (dal sonante nome troppo storico) si coglie il disappunto per quella consequenziarità investigativa forse troppo esigente, ma non sembra del tutto chiaro il nesso con la metafisica kafkiana. Se non, forse, come elitarie piume di quel disappunto che deve pur mascherarsi da severità razionale. Anziché rispondere a uno Sciascia disilluso dai tatticismi delle sinistre e dal fallimento del centro-sinistra con argomenti di schietto pragmatismo politico si svolta verso le astrazioni assolutistiche tutto-fare. In fondo, nel discorso giustificatorio del vice segretario del Partito Rivoluzionario, dopo la morte del segretario, “Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione… Non in questo momento”, risuona un vecchio dogma della politica rivoluzionaria: la rivoluzione prima della verità. Solo che il “non ora”, “non in questo momento” finisce con l’estenuarsi in un deluso attendismo del rinvio continuo e in una prassi del compromesso a rischio di complicità. Quello, appunto, che intendeva denunciare Sciascia. Da non politico, certo. Anzi, da “appestato” della verità. Inde, della giustizia. La posizione opposta e simmetrica a quella dichiarata da Pajetta quando dogmatizza, sereno e fiero: “Se c’è da scegliere tra verità e rivoluzione, noi scegliamo la rivoluzione”. Che è scelta rispettabile. Perfino eroica. Ma non quando la rivoluzione langue nel torpore drogato di una situazione internazionale bloccata che la spegnerebbe nella risposta militare dei piani Prometeo, nel caso disperato che la si volesse tentare. Ma il blocco legittima tutti i compromessi, le complicità di fatto, perfino le rinunce a tentare o a minacciare sfilando arrabbiati neri?
Peraltro, non si può tacitare il sospetto che un’intrusione autobiografica di remota possibilità incidentale abbia un po’ “inquinato” l’impianto narrativo dello scrittore e la sua anima ideologica ignara: tutti quei giudici “giustiziati” odorano di lontana rivalsa contro una giustizia ingiusta che aveva umiliato il padre di Leonardo a vantaggio del Potere colpevole (con e senza tonaca).
*
Se ci è permesso riposarci dal serio drammatico e dal losco tragico, ricorderemo l’epopea degli hot pants che cavalca gli anni terminali del settennio. Il lancio di quella perfida riduzione della copertura femminile “meridionale” suscitò un fragore mediatico di scandalo moltiplicato. Il manifesto che presentava i mini-pantaloncini marca Jesus replicava un rumore già esploso al tempo del primo lancio dedicato ai Jeans con lo stesso marchio (di Maurizio Vitale). Manifesto di studiata malizia, sicuro di accendere fuochi promozionali di garantito impatto: il disegno presentava una sorniona zip aperta sul pube non rasato e un motto di implicito “sacrilegio”: “Non avrai altro jeans all’infuori di me”. La diabolica trovata diede i frutti programmati: condanna vaticana, indignazione della stampa devota (al dio di ostia, e magari di conto in banca), censura del Giurì, e perfino un intervento di un Pasolini...impiccione). Insomma, il successo previsto: che si volle replicare con un’idea altrettanto audace: la formosa fidanzata di Oliviero Toscani, Donna Jordan, stretta dentro i primi jeans in versione hot-pants, ancora marcati Jesus, due belle porzioni di chiappe en plain air, e la scritta-invito, pure stavolta con back stage imponente: “Chi mi ama mi segua” Se non era una santa frase evangelica, era pur sempre di bocca sacra, la frase di un re francese (si disse).
Rivedo la Brigitte Bardot di quei Settanta dissacratori e liberatori (e anche, ahimè, finto-liberatori) sculettare dentro hot pants con cintura di cuoio. E altre star dei vari firmamenti, con seguito di sculettatrici di modesta e nulla fama, ma di non meno persuasivi argomenti morfo-cinetici.
*
Nel settennio rientra pure un evento-lampo, di cui ebbi notizia per vie indirette: un evento che, a volerci riflettere, non sembra estraneo al clima evocato dal Contesto. Ne trovo traccia nell’agenda-diario del ’72. Ecco l’appunto.

Strana sorpresa, stasera: il collega Beppe Bava mi telefona annunciandomi il prestito di un libro-fantasma contro Eugenio Cefis, presidente Montedison ed ex presidente Eni. Scritto da un fittizio Giorgio Steimetz, è uscito qualche mese fa presso un editore altrettanto misterioso, Agenzia Milano Informazioni (Ami), titolo Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente. Una sintesi biografica ricca più di ombre che di luci, con accuse velate, ma nemmeno tanto, che s’allungano dall’esperienza partigiana (in Val d’Ossola) dell’ambizioso personaggio alla rottura (anch’essa nebulosa e con sospetto d’intrighi) con Enrico Mattei nel’62 e alla successione in cima all’Eni. Il clou del pamphlet è l’insinuazione che dietro la morte di Mattei ci sia il suo zampino (o piuttosto zampone, rafforzato da oscure complicità altolocate, non solo nazionali). L’enigmatico autore, uomo bene addentro negli arcana imperii della petrolandia italiana infetta da non ignoti veleni, così caratterizza l’indole del suo bersaglio: “Ridurre al silenzio, e con argomenti persuasivi, è uno dei tratti d’ingegno più rimarchevoli del presidente dell’Eni”. Il libro è presto sparito dalla circolazione. Il che è un altro arcano della costellazione: un ricatto riuscito, cioè subìto e ben remunerato? Una raffica di quegli argomenti persuasivi addosso al fantomatico autore e al suo editore di un solo titolo? Fatto sta che il libro non si trova più in nessuna libreria di nessuna città, e nemmeno nelle biblioteche: un repulisti perfetto. Il mio collega ed amico ne ha avuto una copia da un personaggio politico poco esposto, ma parente e buon amico di Graziano Verzotto, senatore democristiano della corrente di Rumor, nonché responsabile n.1 delle pubbliche relazioni Eni in Sicilia e segretario regionale Dc al tempo di Mattei (del quale, ovviamente, era intimo).


3. febbraio

Ebbi il libro fantasma e ne feci parziali fotocopie. Nel corso dei primi anni Settanta ne lessi pagine incisive nelle terze liceali. Il caso diaristico si spiega con un precedente personale: si era discusso più volte del “caso Mattei” con Bava, anche lui insegnante di storia con inclinazioni progressiste, e si era più o meno d’accordo sul presumibile ruolo delle “Sette sorelle” nel mortale “incidente” aereo dell’ottobre ’62. Quell’incidente era troppo inverosimile, con tutto il rispetto a sua Potenza il Maltempo, per un leader del “calibro Mattei”: in un contesto di lealtà politico-istituzionale non meritava forse i controlli di sicurezza più rigorosi e la protezione meglio blindata? Il fatto era che (com’è ampiamente noto) Mattei aveva assunto piena, e quasi missionaria, funzione di “rompiscatole” agli occhi dei Creso (specialmente americani) del petrolio: non era stato più volte minacciato da quei paperoni? Il libro di Steimetz ventila altre ipotesi, che non sono, però, incompatibili con l’eventuale ruolo delle “sorelle” e con l’intrusione di compiacenti servizi segreti, internazionali e nazionali. Avuta la ghiotta primizia, Bava ritenne giusto farmene partecipe.
Quando, verso la fine del “nostro” trentennio, venne alla luce il romanzo postumo incompiuto di Pasolini, “Petrolio”, il libro-fantasma ritornò in primo piano come plausibile palinsesto dell’incompiuto. E si riaprì il caso Pasolini: delitto sessuale o politico? L’amico cugino e biografo pasoliniano Nico Naldini insiste sul sessuale ed esclude complotti e politica, ma la sua è una “fissa” priva di pilastri e paletti, al contrario dell’altra ipotesi, che gronda indizi e riscontri. Così, tra il film con Gian Maria Volonté e i nuovi documenti, il caso Mattei, diventato ormai Caso Mattei-De Mauro-Pasolini rinverdisce e cresce.
*

Una crescita rigogliosa, non prevedibile al tempo in cui furono scritte le soprastanti pagine: se ne può vedere un resoconto “luminoso” nella 1a pagina Cultura del Corsera di domenica 7 agosto 2005: Paolo Di Stefano, “Il petrolio al veleno di Pasolini. Attraverso il romanzo incompiuto, un saggio propone una nuova chiave di lettura di un inquietante mistero” (occhiello) “Il caso Mattei, i sospetti su Cefis e la morte violenta del poeta” (catenaccio). Il saggio è di Gianni D’Elia, e si intitola “L’eresia di Pasolini”.Vi si legge, tra altre “finestre” nuove, questo dettaglio fulminante: “Le carte di Petrolio appaiono come fonti credibili di una storia vera del potere economico-politico e dei suoi legami con le varie fasi dello stragismo fascista e di Stato.” Postilla Di Stefano: “Quel che più colpisce è il fatto che Pasolini, lavorando alla stesura del magmatico Petrolio, aveva messo le mani su materiali introvabili e spesso molto riservati [...] Il Pasolini che il 14 novembre 1974 scrive sul Corriere ‘Io so. Io so i nomi dei responsabili...’ probabilmente sapeva davvero e non solo per intuito poetico”, ma in forza di “materiali scottanti” veicolati nei suoi archivi documentari da probabili “entrature privilegiate nell’industria e nel mondo della politica.” Segue l’esame di otto elementi a sostegno dell’ipotesi Cefis “desunti dal libro di D’Elia e via via verificati” [nota del curatore di questi diari di Paolo Assaggi]
*
Insomma, un settennio denso di fatti e misfatti. Cioè, come tutti i periodi della maledizione storica. Ha ragione chi ha scritto (Joyce, nell’Ulisse) che “la Storia è l’incubo dal quale dobbiamo svegliarci” (ma come?). E nel privato? Quel che è sottinteso negli accenni precedenti. E qualcosa d’altro, che dirò.
Fra gli eventi privati, due spiccano dolorosamente, e sono due grandi perdite: la morte della zia Milla e quella di Ciaccò. Ne parleremo più diffusamente in altre pagine. Oggi mi urge tornare a Susy.
*
Cominciamo col dire che giusto un anno dopo l’incidente mortale di Mattei ho cominciato ad avere come alunna Susy. Un anno ancora, e l’avrei distinta nel folto delle più appetibili della felice classe (ovviamente, già sbalzate, in blocco, dalla mia ammirazione estetica). Poco dopo l’uccisione di John Kennedy. Come ho già detto, il settennio fu un periodo di buio totale quanto a contatti diretti, anche soltanto visivi con Susanna e famiglia. Meno lungo il tempo del black out notiziario, coincidendo, l’ultima notizia con una “partecipazione di matrimonio” spedita dall’ufficio postale di Zefiria e pervenuta alla nostra dimora in quel paese. L’inatteso invio partiva dalla famiglia di Susy: i genitori ne annunciavano il matrimonio con un professor Nicola Capretti, lucano e, stando all’indirizzo, trasferito a Taranto per ragioni di lavoro. L’elegante cartoncino “partecipante” era indirizzato al “chiarissimo prof. Paolo Assaggi e famiglia”. Nel giorno della celebrazione matrimoniale, il sottoscritto mandò, a nome della riverita (e molto tradita) famiglia, il rituale telegramma di sentiti (ed elaborati) auguri per una vita coniugale ricca di sane e “meritate” soddisfazioni, sentimentali e professionali. Era l’inizio d’autunno dell’anno successivo alla “Bella estate”. Da quel giorno, un blackout totale, per quasi sei anni più o meno sfrangiati nei giorni finali. Fino a quel pomeriggio di piena estate che mi recò l’assoluto “inatteso” telefonico di notizie sulla deseparacida. A telefonare fu mio cognato, che l’aveva incontrata a Zefiria, sul corso, completa di pargole e sorella minore. Mio cognato non è prodigo di parole, e perciò non saprei ricostruire in via congetturale il tono dell’incontro. O piuttosto, i suoi particolari, essendo, il tono, di obliviosa cordiale sorpresa. Ma ci fu qualche imbarazzo, nell’uno o nell’altro termine del volatile rapporto? Egli mi disse soltanto che lei era ansiosa di incontrarci, me e la mia famiglia. Io risposi che tanto desire era ben riposto e corrisposto (narciso tradito, pensavo davvero di poter parlare al plurale? Parlare anche a nome di Rina?). Allora si può combinare, ponderò lui: voi (cioè, io e famiglia) dovrete venire qua per il battesimo della mia bambina; sarà l’occasione di un programmato incontro. Aveva il numero telefonico della famiglia originaria di Susy, presso la quale lei alloggiava, ospite dei genitori (felici di queste due nuove nipotine di fresco acquisto).
Venire qua: da dove? Dalla Sicania ferace, naturalmente. Dove il sottoscritto era da un paio d’anni rientrato, e dove aveva conosciuto due città e due licei classici come professore di filosofia e storia (finalmente arrivato al tipo di scuola meno frustrante per il mio insegnamento). Il qua, non occorre dirlo, era ancora la Calamagna (e il punto abitativo era la sua casa di Letizia Marina, un paesotto a pochi chilometri da Zefiria, dove il cognato aveva messo radici. Di affetti e lavori extrascolastici: leggi, lezioni private. S’era anche sposato, il cognato. Ma non con la fidanzata che gli abbiamo lasciato accanto nell’ultimo quaderno del diario interruptus. Quella lo aveva licenziato. E l’evento merita un résumé postillato.
*
Lo aveva lasciato: cioè gli aveva procurato lo choc più traumatico che un dongiovanni Doc potesse subire. Forse soltanto un congenere (o un sub-specifico?) può cogliere tutta l’enormità della frase messa a suggello del capoverso precedente. Quella ragazzotta taciturna, quella posapiano cucita lo aveva lasciato. Lei, che era stata svegliata al sesso dal più scafato degli esperti, aveva osato chiudere la partita col maestro tanto amato. Amato, sì: come, a suo tempo (più o meno lo stesso che scandì la crisi del mio, e nostro, rapporto con la Susy in fuga dal suo passato prossimo) ebbe a dire e ribadire lo sbalordito Grande Respinto. “Mi ama, mi ama ancora. Lo sento quando la stringo tra le braccia, e lei piange. E più la stringo, più lei si scioglie in lacrime.” Ma allora, come mai?
Ecco un “come mai” ricco di succhi e implicazioni. Perciò responsabile di questo indugio a servizio dell’eventuale lettore del Futuro: per lui, improbabile ma non impossibile confidente, converrà approntare almeno la promessa e ristretta sintesi degli aventi a monte dell’imprevedibile spaesante clamorosa decisione della diciottenne testarda. Fra i difetti del cognato sprecadonne c’era (e forse c’è ancora) una vanità sfrenata fino all’ingenuità autolesionistica. Ossia, che sconfina nell’esibizionismo incosciente. Solo questa previa bozza di diagnosi può illuminare (sia pure di fumigosa luce catacombale) una serialità di atti e gesti che non possono non definire un comportamento coerente con oscure mozioni inconsce di fissazione genetica. Insomma, l’uomo (o l’immaturo ventottenne, gagliardo di muscoli e matematica) telefonava e riceveva telefonate dalle sue amanti occasionali dentro la casa della fidanzata ufficiale. Incredibile? Ma ci sono più cose, Orazio, fra la terra e il cielo di quanto non sappia la tua filosofia! Ora tu, lettore del tremila, dirai che il cognato era scemo. Troppo facile. Troppo frettolosa, come spiegazione. Diciamo, e correggiamo, che si comportava da scemo (a volte). Ma il come mai? impone un oltre, un perché. Perché si comportava da scemo, o stordito, o cretino, il fratello di Rina, cioè della ragazza e moglie e madre più assennata e pudica che si possa desiderare? Ed ecco l’ipotesi diagnostica anticipata calare in quel “perché” in attesa di sostanza. Escludo che il bel tomo potesse considerare la diciottenne svegliata così ciecamente ingenua, da non cogliere il nascosto di quegli approcci telefonici: egli stesso ne celebrava anzi, e ripetutamente, l’intelligenza “pacata e solida”. Contava sull’inesperienza di lei? Dopo averla svegliata? Non resta che accettare l’ipotesi più stramba all’apparenza, ma più radicale nel suo potenziale esplicativo. Egli voleva, nel suo fondo più infantile e rimosso e non confessabile, essere sorpreso dalla ragazza. Si dava tutte le apparenze della circospezione, ma lasciando buchi e fessure traverso le quali anche una monaca “sepolta viva” avrebbe visto e capito il gioco in atto dentro quelle telefonate. Il bellimbusto, trascinato dalla sua vanità esibizionistica, non calcolò i rischi cui esponeva il suo fidanzamento. Non immaginava neppure lontanamente una reazione così decisa da parte della fanciulla tradita: troppo calma, troppo selfcontrolled, dovette pensare, per concepire una risposta simile a un affronto tutto sommato veniale. Veniale, certo, nel suo giudizio auto-indulgente: in tutte queste “variazioni su tema”, il cognato non aveva mai lasciato respiro al benché minimo sospetto di pericolo per la “cosa seria”, la “decisione strutturale” – come a volte la chiamava – insomma, il suo fidanzamento ufficiale. Sì, Rosy poteva dormire tranquilla: lui mai l’avrebbe lasciata.
E qui s’impone l’ultimo passo nell’inverosimile. Non solo, dopotutto, veniale, l’affronto, e il retrostante peccato di incontinenza, ma addirittura, in un certo senso e modo, un regalo, un atto di omaggio alle qualità di lei, alle sue virtù fisiche e morali. Come dire, un pensiero grosso modo di questa aggrovigliata sostanza: vedi come sono desiderato? Vedi quante donne potrei avere? Io invece ho scelto te, amo te, e voglio te, solo te. Come compagna di vita, moglie, madre dei miei figli. Le altre? Passano e vanno. Passatempi. Cosa vuoi, mi cercano, mi stuzzicano, mi devi credere, sono loro che mi vengono dietro, io resisto, ma poi, sai com’è, uomini siamo, e siculi, mediterranei, un po’ di sangue arabo, di genetica disposizione all’harem... Ma loro non contano, lo vedi, io sono qua, io torno a te, loro sono assaggini di passaggio, tu quella che resta, solo tu. Sei il mio avvenire, la compagna scelta per la vita, la mia sposa che sormonta tutto e tutte.
Io non so che tipo di discorsi fece, o facesse, il bulimico nei momenti di intimità ante e post rottura. So che Rosanna constatò, sopportò, capì, meditò; certamente pianse, certamente tentò di dirsi “dopotutto me, non mi lascia, mi porterà all’altare, una volta sposato si calmerà,...”. Certissimamente esitò a lungo e ponderò ancora più a lungo le possibilità del suo futuro con un tal tipo d’uomo. Le sue riflessioni fiancheggiavano i fatti, i ripetuti ritardi di lui ai pranzi e alle cene, queste da mesi ormai quotidiane, quelli domenicali e festivi in genere. Quanti ritardi assurdi, inaccettabili neanche dal Giobbe più sottomesso alle prepotenze dell’Onnipotente. Ricordo l’irritazione del mite avvocato, padre di Rosanna, che si sfogava con me, invocava il mio intervento, s’illudeva sulla mia autorità e su quella di Rina, che potessimo indurre quell’anarcoide serial lover alla moderazione e buona educazione. E io gli parlavo, gli comunicavo il malcontento dell’avvocato, giudicavo con sobria ma inequivocabile severità, non tanto le sue scappatelle (mi mancava l’autorevolezza per poterlo fare senza ipocrisia: non mi avrebbe spruzzato in faccia un bel “da che pulpito”?) quanto le sue imprudenze. Tutto vano: lui prometteva prudenza, impegno a escludere telefonate in casa della fidanzata, e per qualche giorno la situazione pareva raddrizzarsi. Ma poi tornava ad inclinarsi: come evitare del tutto che le sfacciate amichette di passata gli telefonassero a quel numero se lui glielo aveva dato, se non ne aveva altri da dargli? Questa la sua difesa, questa sonata dodecafonica. Come se fosse stato obbligato a dare quel numero infuocato. Come se non potesse proibire alle sue passeggere di cercarlo a quel recapito out of bounds: incavolandosi, magari.
Gli parlava anche la sorella, con maggiore impeto e passione, e, con l’ovvia esclusione di ogni indulgenza per le sue stravaganze, come le chiamava lei. Passavano i giorni, le settimane, i mesi: non cambiava nulla, non cessavano i ritardi, non tacevano le telefonate in arrivo. Troppo sicuro del suo fascino, troppo self-centred, too self-confident, il nostro ragazzone irresistibile. Alla fine di un lungo calvario nella mente di Rosanna si accese la luce: una luce lenta, come il suo carattere dettava, ma progrediente, giorno dopo giorno, fino a una chiarità definitiva. Ella vide in tutta chiarezza il suo futuro di moglie: moglie di scorta, garanzia sociale, incubatrice di figli, tutto, tranne che partner esclusiva di un uomo troppo espanso, troppo disperso nei vasti orizzonti della tentazione non stop. E nel suo cervello lento e profondo maturò quella decisione irrevocabile che mandò in tilt tutte le nostre pretese previsionali, le nostre precedenti diagnosi sul suo carattere, le nostre attese. Insomma non ci fu verso di convincerla a tornare sulla propria decisione. Nessuna mediazione, nessun intervento, mio, di parenti suoi, madre, cognata promessa (Rina). Concesse a lui più d’un incontro a due, si lasciò abbracciare, pianse, lo convinse, con gesti e strette, che ancora era innamorata di lui, ma non mutò parere. Perché quel parere era il punto di arrivo di un sommovimento viscerale profondo, lento, sì, ma perentorio. Una certezza senza sbavature. Tutti gli esperimenti erano stati fatti, nel chiuso di quel cervello blindato, dalle esternazioni rade e ponderate. L’esito era sempre quello, drastico, rifinito, senza aloni di incertezze e dubbi. S’era costruito da sé, s’era scritto da sé, stronzata dietro stronzata del super Casanova originale.
Al quale forse rimase qualche scrupolo. Magari più d’uno. C’è il dubbio che abbia fatto con lei quello che io ostinatamente, e dolorosamente, mi ero vietato di fare con Susy. Io sono stato discreto, per tutto questo tempo, e non ho insistito con domande pettegole. Se le cose andarono come non soltanto io temo, fra i rimorsi del mio intemperante cognato ce ne dev’essere uno grosso. La cosa che può sembrare curiosa, ma non lo è poi tanto, è che l’avvocato, il padre di Rosanna, fu felice di questa rottura. Era come se quella figlia l’avesse ritrovata, le fosse stata restituita, sottratta a un lupo famelico prima che la sbranasse. L’aveva, forse, azzannata? Senza forse: non era il tipo da starsene con le mani in mano, quello. Dove potrebbe essere arrivato? E che importava? Era pur ben viva, forte, guarita. Sana. Libera. Da lui innanzitutto. Per suo padre, poi, che la ritrovava. E certamente, infine, Libera per un avvenire più luminoso.
L’amava, ancora, Rosanna, quando lasciò il fidanzato? Lui, abbiamo detto, ne era convinto. Noi pure. Ma in quella testa ben fornita di materia grigia, l’analisi spietata del suo comportamento la rese certa che l’uomo non era fatto per lei (mi ripeto, lo so, ma non so che farci: maiora premunt e le considerazioni estetiche rinculano). Anzi: non era fatto per nessuna. O lo era per tutte. Il che ritorna al primo senso e significato. Insomma, era un fimminaro senza riscatti possibili. Allora, non resta che dare un taglio netto. Si sanguina un po’, si piange, ci si macera, si perde qualche chilo di ciccia (in Rosanna ce n’era d’avanzo). E poi si pensa agli studi, all’avvenire. Magari, chissà, alla carriera. Se destino vuole, si troverà un altro: più alla sua portata, più degno di essere amato. Anche se il primo rimarrà indelebile nel ricordo più patetico. Non meno di quanto (questo possiamo dirlo, a dispetto d’ogni colpa e vizio) lo sarà lei in lui, e sia pure per motivi distanti da quelli dirimpettai e simmetrici di lei. Ah, l’orgoglio, l’orgoglio vulnerato così incisivamente! Così cinicamente, verrebbe fatto di dire (ove, come avrà pensato lui, si pensi al destino cinico e baro che punta al Grande Bersaglio). Chi lo guarirà, quali surrogati ne cicatrizzeranno la ferita, bruciante per mesi e mesi? Be’, è avvenuto anche questo: la vix medicatrix naturae ha fatto il suo non difficile dovere. Il che non vuol dire che Rosanna, l’innocente Rosy da lui iniziata all’amore e al sesso, l’intelligenza pacata ma solida, la ragazzona di bel viso bruno e seno prosperoso non abbia avuto una nicchia tutta per lei nell’amarcord più intimo e claustrale dell’uomo irresistibile tradito da... Da chi, da che cosa? Da una ragazzina gelosa, da lui stesso svegliata? Possibile? Dal destino cinico e baro, sopra evocato? Vabbé, ma incarnato come e dove, il cinico e baro, in quali oscuri personaggi della famiglia allargata, a parte la ragazzina iniziata al sesso?
Post scriptum. Non è che in questa congetturale ricostruzione sia stato offeso il probabile intervento paterno? Possiamo escludere che il padre, martirizzato da quei ritardi cronicizzati, offeso da quelle telefonate in seriale arrivo, abbia consigliato alla figlia lo strappo? E che lei, constatando la sofferenza paterna, ne sia stata commossa fino a trovarci un rinforzo nella riflessione personale orientata al distacco? Insomma, la decisione era maturata dentro di lei, ma forse la figura dolente e magari consigliante del padre può avere aiutato la ragazza, malgrado tutto innamorata, alla dolorosa rinuncia. La madre, invece, soffrì di questa separazione: non ci sono dubbi su questo punto.
*
E chi ha scelto, e cosa, dunque, il bellimbusto para-dannunziano, come balsamo analgesico e farmaco cicatrizzante, come compagna di vita istituzionale? Per moglie, una sua alunna, per balsamo la pura e semplice ripresa, anzi la mai del tutto spezzata continuità seduttoria. Cioè, la già sperimentata e compromettente attività extra moenia. Giusto quella che aveva trascinato al fallimento il suo legale primo impegno di fidanzato. In entrambi gli eventi, ha lavorato più il caso che l’attenzione selettiva e programmante. Il Caso, ma spinto da una volontà altrui ben mirata e decisa, nel primo evento: l’alunna innamorata aveva preso un impegno, con se stessa e con le compagne di classe: Salvo Catania sarà mio. Con quelle compagne, tutte in sollucchero di tentazioni e speranze suggeritrici di mossettine e sguardi penetranti verso il ghiotto bocconcino di non facile presa. Non facile, perché così ricco di facili chances selettive presso il gentil sesso pedagogico. E mobilitò la famiglia, l’alunna determinata: i genitori e qualche zia (un paio, forse). Fu un successo appena contrastato dalla naturale resistenza dell’uomo ai legami senza ritorno, ma favorito gagliardamente da circostanze impreviste, eppure strettamente legate alla sua vocazione. Insomma, dallo sbocco inatteso, privo di precedenti comparabili, di una delle tante avventure galanti: un paterfamilias furens intenzionato a esplodergli chissà in quale parte del corpo uno o più colpi di pistola. Che aveva tentato, nottetempo, di forzare la porta della sua residenza di scapolo, forse sperando di coglierlo nel sonno. Ed era riuscito, fingendosi interessato a una civile discussione, a sferrargli un mezzo pugno in pieno viso attraverso il finestrino della sua Giulia bianca, quando, egli incautamente, si fermò al cenno del furens, ipotizzando una discussione civile, o almeno di sola sostanza verbale. E fu così che il carnefice-vittima si confidò, col padre incoraggiante dell’alunna in marcia di conquista. Il quale padre (un suo collega di matematica, nonché venerabile della versione massonica Grande Oriente d’Italia), in armonioso concerto con la moglie e al servizio della figlia, lo accolse nella sua vasta dimora per tante notti successive all’incidente (fino a che il minacciante non fu restituito alla ragione dagli autorevoli interventi di competenza). L’atmosfera creatagli intorno dai tre personaggi fu da fata Alcina e Giardino delle delizie. E matrimonio fu. Non senza un generico, e non consapevole, consenso del padre vedovo. Più un poco convinto assenso della sorella Rina. Un ghiotto argomento per un racconto cechoviano, che lasciamo cadere con rammarico. Diciamo soltanto che la scelta del cognato, una volta mostrata in giro la pulzella, suscitò critiche e meraviglia nella vasta parentela: troppo leggera, la sposina per tanto fusto; troppo piccolina, e non certo brutta, ma neppure una gran bellezza. Per colmo, afflitta da certi dolori periodici da sospetta artrite. Ma tant’è, l’impresa riuscì, e lui diceva di vederla carina e non ne misurava con giusto metro difetti e limiti. Le donne della tribù non ebbero dubbi, appena conosciuta l’improbabile vincitrice di quel difficilissimo terno al lotto: c’era sotto opera di stregoneria. Almeno una di quelle zie (o entrambe?) doveva essere una specie di fattucchiera, capacissima di preparare imbrogli e pozioni acchiappa-mariti.

Nessun commento: