sabato 10 settembre 2011

PLAN PER IL CORRIERE VIOLATO

Ho appena asciugata l’ultima lacrima del gran pianto per il Corriere stuprato. Mi ripeto ancora: come si fa a concepire sì osceno peccato?         Tappare la bocca al più grande quotidiano nazionale, al re dei giornali, buondio, come si fa!? Susanna, l’hai fatta grossa. Imperdonabile leggerezza o dissennata faziosità, sei entrata nella storia nazionale per il l’ingresso sbagliato. Mentre imploriamo l’elegante De Bortoli così indegnamente offeso, di accettare, nel suo magnanimo aplomb, la nostra umile solidarietà di lettore fedele, traslochiamo dal tono ludico a poche osservazioni serie.
         Cominciando con un senso di nauseata sorpresa per l’attitudine lecchina di certi leader sindacali degni di meno seria responsabilità: sollevare tanto chiasso, di ciarle dette e scritte, per un atto di solidarietà compatibile con più seria occasione è stata l’ennesima conferma di un’ostilità preconcetta verso la concorrente sindacale. E l’implicita condivisione di una colossale bufala: il diritto all’informazione violato. In un Paese dove l’unico “problema” dell’informazione è la sua diluviale straripanza la mancata deroga della Cgil ai lavoratori del Corriere è meno di un’estiva puntura di zanzara. I signori Bonanni e Angeletti (accidenti ai nomen omen), salvo rarissimi casi, hanno nel Dna politico la vocazione a contrastare le iniziative della concorrente Cgil. Anche sparando sublimi Kazzate. E’ stata forse impedita l’edizione on line? Trasferire un titolo da un dato giorno al successivo è questo orrendo disastro aziendale e delitto sindacale? O, addirittura, vulnus di civiltà?
         Ma godiamoci qualche scampolo delle barbute esternazioni dei leader sindacali al lecca-lecca. Ecco il Bonanni dello storico lunedì strombettare, fiero e solenne: “E’ molto grave quello che è successo per il Corriere della Sera. E’ lesivo della libertà di informazione. Negli scorsi scioperi la Cgil aveva mantenuto l’equilibrio, invece questa volta ha minacciato l’uscita del quotidiano. L’unico a non uscire”. Nel sacro fuoco dell’indignazione, il passionale ha ceduto anche a qualche improprietà verbale: se il Corsera è stato l’unico quotidiano a non uscire, quel “minacciato” è debole al confronto con un rigoroso impedito. Anche se quell’unico è falso. Al primo assalto Bonanni, coraggiosamente, fa seguire il secondo, fregiato dai nomi colpevoli: “Camusso, come si vede con la vicenda del Corriere, invece vuole imporre la sua opinione. Dopo l’accordo del 28 giugno scorso è tornata nelle braccia di Landini”. Tra braccia e cognome, sembra che l’onesta Susanna se la intenda con uno sconcio talebano! Più sfumato Angeletti, se, per il “caso raro” incrimina “un clima teso oltre misura”, con “troppa contrapposizione e poco dialogo”. Con inevitabili “scontri tra diritti”, in fattispecie, “quello allo sciopero, da un lato, e quello all’informazione dall’altro”. Fatto deprecabile, “soprattutto se il diritto all’informazione viene sacrificato a danno di coloro che sembrano prospettare idee diverse”. Indi, il botto finale. “A Lei,dunque, caro De Bortoli, che ha dovuto subire le conseguenze di questi contrasti, va la solidarietà mia e della Uil tutta”. E la Camusso, come si muove in tanto clamore? Diremmo, con eleganza e determinazione. Puntando sul secondo sostantivo, eccone il testo, vibrante di quella fermezza-sfida che sarebbe stata bene nelle parole dei due maschi sopra onorati: “Il direttore de Bortoli ha ragione quando dice che sono pochi i giornali non usciti oggi [martedì  6 ], lo prendiamo come monito per essere più presenti nei giornali”. Il full stop è preceduto da questo secco memento: “lo sciopero è un diritto dei lavoratori”
Agli autori degli attestati di solidarietà a De Bortoli direi soltanto una parola, se ne valesse la pena: vergognatevi. Per aver montato una quaestio degna della veneranda Scolastica e del suo massimo campione, Tommaso d’Aquino, una quaestio (e querelle) di pure sonorità verbali in un momento di sventure reali per l’Italia. Anzi, per la sua parte senza difesa contro disoccupazione, carovita, tasse “semoventi”, governo incompetente, politici-casta e maggioranza di ingordi egoisti complici di ricchi e benestanti, teneri con gli evasori (braccati più a suon di stentorei annunci e verbose ciarle che di fatti e contatti) e con gli speculatori più o meno mascherati. Governo capace, infatti, di annunciare e subito rinunciare, a valle di sudici pigolii e ripulse criminali dei ceti-bersaglio, a un mini-prelievo di solidarietà, perfino di un prelievino del 5, poi del 3 % dei redditi da signori viziati e corazzati nel più turpe egoismo. Redditi da 300 mila euro in su! Quando si sarebbe potuto cominciare dai cento o novanta. Et altro non ci appulcro - diremo, in amarezza, col Poeta).
Anzi, sì: prendiamo in prestito da Dario Di Vico la domanda finale dell’editoriale Mettete un punto: “Che fine ha fatto il dimezzamento dei parlamentari?”
Pasquale Licciardello
         

sabato 3 settembre 2011

CACCIA AD OSTACOLI


Caccia a Gheddafi e ai figli casa per casa: è un sonante titolone del Corriere della sera (26 agosto). Indi trarrem gli auspici. Cominciando col rammentare che tre mesi fa titoli altrettanto trionfali (eppur meno venatori) davano Gheddafi per vinto finito spento. O appena giù di lì. Ora non giureremmo sulla medesima taratura del notizione (ma sì, un tale scoop merita la promozione al…sesso.forte!), tuttavia, come sfilarsi di dosso l’ingombrante pastrano di quel precedente? La guerra libica, questo lercio abuso criminale spacciato per medicina democratica e umanitaria, ci ha ammannito tante di quelle bufale da rendere impervia l’accettazione d’amblé anche delle notizie meglio confezionate.e tambureggianti. Né l’excursus di occhiello e catenaccio aiuta quel boccone rancido a scendere per la gola. Suona il primo: “L’annuncio dei ribelli: l’abbiamo circondato, ormai è in trappola”: ed ecco l’abbaio dello sbruffone. Al quale si accoda la più grande meraviglia del secolo, il nostro premier delle sorprese, sempre pronto a cogliere occasioni d’ impicci fregoliani. “Berlusconi: aiuti economici al nuovo governo”. Meno risibile il catenaccio, che risponde al titolone, capovolgendone, in parte, la prematura iattanza: “Ma il Raìs in un audio: ripuliremo Tripoli, la Libia non è di Francia e Italia”. Che sono parole, forse, di puro azzardo, ma suonano bene contro il sinistro tambureggiare di missili infami aureolati di menzogne cubitali, ma capacissimi di seminare vittime civili. L’articolo di Lorenzo Cremonesi inizia con questo scampanante avallo del titolo: “A Tripoli continua casa per casa la caccia a Gheddafi. Quando i ribelli hanno annunciato di averlo trovato e messo in trappola, il Raìs ha risposto con un audio diffuso dalla tv in cui ha chiesto ai suoi di ripulire la città e affermando” quanto riferito sopra. E qui siamo a parole da leader, qualunque altra cosa possa rivelarsi, domani, il Raìs Proteo. Che qui non si vuole affatto santificare, ma soltanto rendere più credibile del ritratto mediatico ostilmente polarizzato. L’omaggio finanziario di Berlusconi al Consiglio nazionale provvisorio libico durante l’incontro col suo presidente Mahmoud Jibril consiste, per il momento, nella promessa di scongelare “fondi libici per un totale di 350 milioni di euro”. Più “aiuti e garanzie di sostegno umanitario”.
         Mentre i macellai Nato discutono sul modo di dividersi la proverbiale pelle (per intendere la ghiotta carne-petrolio-gas) dell’orso ancora vivo e libero, il Corsera affida a Massimo Nava il compito della descrizione del libico futuro democratico a gestione-protezione Nato. Ed ecco l’editoriale dipingere Il Paese che verrà. Il primo capoverso ha l’aria dell’introibo prudenziale: “Con la sola eccezione della caduta del Muro di Berlino, non si ricorda[no] un crollo di regime, in ogni angolo del pianeta, senza una coda di violenze e di più o meno lunga instabilità. E’ dunque prematuro parlare di futuro democratico per la Libia del dopo Gheddafi. Ciò che è certo, in queste ore convulse, fra l’euforia dei fuochi d’artificio e la pena di decine di cadaveri per le strade di Tripoli, è che un’epoca si è chiusa.” E amen, per quelle decine comprensive anche di feroci bambini. Quali, poi, siano, alla luce dei futuribili, i vantaggi di questa chiusura è tutto da verificare per il molto democratico Occidente e per l’intraprendente manipolo di suoi eroici ghiottoni al petrolio, Francia-Sarkozy e Gran Bretagna-Cameron in testa, con dietro, e un po’ defilati, complici più furbi. Situazione adombrata da Nava in termini di onestà documentale: “Probabilmente, gli amici di ieri e gli ultimi alleati di oggi del Raìs scriverebbero un’altra storia, per contestare quella che, nei secoli dei secoli, viene scritta dai vincitori o presunti tali, da coloro che hanno cominciato una rivoluzione appunto per vincerla e da quanti hanno compreso, più o meno rapidamente, da quale parte stare”. A questo punto l’editorialista azzarda “alcuni dati oggettivi” che, invece, sembrano in debito di oggettività. “Il primo è che la fine della dittatura viene salutata dalla stragrande maggioranza della popolazione libica e non solo dai miliziani ribelli. Il secondo è che la caduta di Gheddafi rende meno sicuri altri dittatori, contribuendo a rendere irreversibile, sia pure fra molte incertezze, la primavera araba (durante la quale, è bene ricordarlo, non è stata bruciata una sola bandiera americana). Il terzo è che l’intervento militare ‘esterno’è stato deciso a sostegno di una rivoluzione in atto, che rischiava di essere stroncata nel sangue, spegnendo anche le speranze di milioni di giovani arabi”. L’autore non tace la problematicità dell’iniziativa Nato, non evita confronti con altre imprese con la stessa targa, o addirittura più vasta e di esito catastrofico, come “il tragico tentativo di esportazione della democrazia in Iraq”. Né si nasconde che “probabilmente [?] si continuerà ad argomentare sugli interessi petroliferi in gioco, sui calcoli elettorali di Sarkozy, sulle titubanze italiane, sulla non nuova contraddizione fra ideali generalizzabili e la loro applicazione pratica: limitata, non estensibile ovunque e in ogni stagione, come limitate sono per forza di cose le vicende umane”. Insomma, Nava cede alla umanissima tentazione del mea culpa, sed, e in sostanza riconosce la fatalità delle contraddizioni operative che inquinano anche le più altruistiche (!) ragioni della politica. Ma, invece di dare un chiaro benservito alle puritane illusioni fa l’acrobata dell’eterno alibi: meglio poco che niente. Commovente quando inciampa nel macigno titanico della Cina: “E’ al tempo stesso banale e triste ricordare che non è possibile mettere sotto embargo la Cina per la libertà del Tibet o che un attacco militare alla Siria innescherebbe scenari più complessi che in Libia”. E allora? Allora si crogiola a festeggiare i successi conseguiti dalle iniziative occidentali in accidenti (viva la cacofonia) diversi con una sfilza di “è un fatto che…” distribuiti su un ampio ventaglio, contro i disastri tipo Iraq. Tra tanti “fatti che” si celebra il tempismo della combinata Francia-Inghilterra, si festeggia il culo, pardon, la fortuna, di Barack Obama che succhia “il successo di una missione conseguito con costi e tempi infinitamente più ridotti della fallimentare operazione irachena”, si festeggia l’abilità di Europa e Nazioni Unite che hanno “saputo offrire una cornice di legalità e ottenere il via libera della Lega Araba”. E pazienza se quelle Nazioni Unite hanno sempre perso la faccia contro l’arroganza di un Israele che ha fatto sprezzante pipì sopra ogni loro condanna dei suoi criminali eccessi “auto-difensivi”contro palestinesi e arabi in genere (compresi i culmini biblici di Tell al Shatar e di Sabra e Shatila). Infine il realista Nava boccia la neutralità della Germania, “così rigorosa nel dettare da prima della classe le condizioni dell’economia europea, così timida nel comprendere che il futuro dell’Europa non è soltanto una questione di bond e tassi d’interessi”. E chiude, Nava, con un coerente sospiro di realismo deluso: “Eppure, proprio a Berlino, dovrebbe essere più facile sentire in quale direzione soffia il vento della storia.”  Con tanti inchini ai civili sacrificati da quel vento senza vista e con tanto ventre. Ecco, insomma, il meglio che la civiltà democratica dell’Occidente più o meno nostalgico di crociate sa dare alla Storia, inascoltata magistra vitae, fertile di stragi e deliri.
         Lo stesso numero del Corriere dedica il suo “Primo Piano (pag 11) al tema La battaglia di Tripoli. Gli scenari. Con un servizio sull’incerto destino futuro delle donne arabe, di Cecilia Zecchinelli (Se le primavere arabe tradiscono le donne) e una “memoria” nostalgica dell’ebreo Roger Abravanel (La mia Libia d’0ro profanata dal Raìs). La riflessione sul possibile futuro delle donne arabe gode di un realismo degno di lode sui tempi e le difficoltà dell’emancipazione: “ci vuole tempo, perché società dominate da religione e tradizioni ancora in gran parte rurali o beduine, con povertà e ignoranza diffuse, un passato (e presente in Egitto) gestito da militari escano dal tunnel del maschilismo.” L’autore ebreo rievoca la cacciata degli ebrei all’avvento di Gheddafi: un’operazione infame, ovviamente, e tanto più quando alla pura espulsione si aggiungevano carognate varie e violenze fisiche. E fa riflettere su come queste violenze siano state (e a Gaza siano ancora e quotidianamente) “applicate” dagli israeliani contro arabi dell’intero Medio Oriente, senza che mai un figlio di Sion o un democratico occidentale senta l’impulso etico di condannarle.
         Altra riflessione ci viene ispirata da un titolo del Corriere del 27 agosto, che più lugubremente chiaro non poteva essere: In Libia è l’ora delle vendette. L’occhiello suona:“L’Onu indaga su atrocità commesse dalle due parti. Centinaia di corpi abbandonati in ospedale”. Significativo l’incipit del servizio di Lorenzo Cremonesi: “L’ultimo nascondiglio di Gheddafi potrebbe essere a Sirte. La segnalazione viene da fonti dell’Eliseo. La Francia guida la caccia al Colonnello, mentre Nato e guerriglia libica coordinano gli sforzi per stringere d’assedio la città”. Come vediamo, il Galletto gallico è sempre in testa al corteo: se la coalizione si sbrigherà a catturare il Colonnello, la parte leonina del merito andrà a questo presidente miserello ma gonfio di pretese: come farsi grande, altrimenti, agli occhi della grande Carlà? E come prepararsi a diventare il prossimo inquilino dell’Eliseo?
A noi, poveri lettori senza stemmi e palazzi, suona più incisivo, nella sua brutalità, l’occhiello di quel titolone. Anche per il fatto (banalmente iterativo, nella storia remota o recente) che i media, sempre pronti a civettare con la faziosità, calcano la mano sui crimini della parte “non democratica” e minimizzano su quelli dei nostri, cioè delle forze democratiche per destino e “designazione”. Come appare anche dagli ultimi servizi su quella tragedia offerti dal Corsera del 31 agosto sotto titoli e titoloni. Ecco il principale: Ultimatum ai gheddafiani. “ Quattro giorni per la resa”. Anche questo “occhiello”, infatti, veicola informazioni di ardua garanzia su presunti massacri dei gheddafiani: “Nella caserma del figlio dei Raìs Khamis trucidati 80 prigionieri”. Notizia-bufala? Quanto meno sospetta.di.enfatizzazione. Più credibile il “catenaccio”: “L’ultima roccaforte di Sirte. Fosse comuni a Tripoli”. Interessante l’ultimatum del “governo rivoluzionario”: Ultimatum ai gheddafiani. “Quattro giorni per la resa”.Che più esteso suona: “Deponete le armi, accettate subito di trattare la vostra resa. Se non lo farete entro i nostri termini, saremo costretti ad agire per via militare e colpiremo determinati, inflessibili”. Inutile ricordare che la iattanza “democratica” dei ribelli succhia tutta la “coraggiosa”energia dall’impegnatissima garanzia targata Nato. La quale al momento non bada a certi sintomi di flessione religiosa che, a successo ottenuto, potrebbero svilupparsi in senso islamista. Non sarebbe la prima volta che una rivoluzione nata libertaria e democratica (specialmente per impulso giovanile) sia degenerata, più o meno presto, in nuova e più perniciosa tirannide, quella pretesca, appunto. Inquietanti sono già gli eccessivi sorrisi del  leader ribelle Mustafà Abdel Jalil ai sacerdoti in occasione della fine del Ramadan. Gheddafi un despota? Sì, ma con una sua strategia di equilibrio tra regioni e tribù e scalini sociali che ne ha garantito per più di quattro decenni un potere amato o rispettato dal pur vario popolo nella sua maggioranza. Intanto il portavoce della Nato a Bruxelles, colonnello Roland Lavoie, dichiara: “Potrebbe ancora avvenire che la città [Sirte, estrema roccaforte gheddafiana]. cada senza sparare un colpo. Abbiamo assistito negli ultimi giorni a interi villaggi pro Gheddafi che, una volta circondati, si sono arresi in modo relativamente indolore”. Auguri. Una curiosità laterale: un articolo di Maria Teresa Natale sullo stesso Corsera (Quei software occidentali usati dal regime denuncia, in sostanza, la stretta collaborazione mercantile tra Gheddafi e le potenze del democratico Occidente. Tutte, nessuna esclusa. Anzi, l’aggettivo incollato agli affari sa di restrizione benevola, visto che le forniture al Raìs comprendevano sofisticati prodotti elettronici usati dal regime per spiare gli oppositori. Scandalo? Ma no, ordinaria amministrazione del business universale.
Ultimissime da Repubblica on line: “Road map per la nuova Libia “Costituente in 8 mesi, elezioni in 20” Nuovo audio di Gheddafi: Che promette “Guerriglia estenuante”. Il Raìs respinge ogni (umiliante) accordo di resa. Si prepara l’assalto finale. Gheddafi Wanted è un nuovo ruggito del leone “liberatore”. Un leone a dipendenza straniera e insidiato dall’islamismo totalizzante. Che a tanti democratici di oggi farà rimpiangere il diavolo Gheddafi, un laico non privo di colpe, ma immune dal veleno del fanatismo religioso. Il quale, intanto, ha provveduto a mettere in salvo la famiglia. E a confondere i tagliagola che gli danno la caccia. L’espressione non sembri eccessiva: c’è già chi grida “va ucciso”. Ma la caccia continua ad essere ad ostacoli. Rinnovati e riciclabili.
Pasquale Licciardello

martedì 23 agosto 2011

TEMPESTA CONTINUA


Aspettiamo il sereno, e continua la tempesta. Ad ogni segnale di meteo in evoluzione pietosa si accende la fiammella della speranza, ma non si fa in tempo a sospirare un “finalmente” che la bufera riappare, grintosa più di prima. Quello che non cambia (se non per minimali dettagli retorici) è il coro dei commenti mediatici, l’orchestra dei distinguo, dei pareri tecnici, nella gara a chi pretende di offrire migliori farmaci per la sempre più costernante patologia del cosiddetto sistema.
Ecco alcuni titoli del quotidiano di opposizione più coriaceo e costante, La Repubblica, versione on line (10/8/2011,ore 19,30): “Wall Street in caduta, Milano chiude a -6,6%. Timori sul debito francese, affondano le banche. Borse europee a picco, Parigi annuncia piano antideficit”, eccetera. Assaggini di testo. “La giornata. Perdite pesanti su tutti i mercati. Piazza Affari crolla con i titoli finanziari”. Consob, “Vendite allo scoperto nei limiti”. “I rumours sul possibile down grade della Francia scatenano il panico. In rialzo spread Btp-Bund.” In tanto sfracello, qua e là s’insinua un pigolio di speranza, quasi tirato per la coda:.“Bene l’asta dei Bot”. “La Fed non alzerà i tassi fino al 2013”. Naturalmente affiora anche il capino dell’esperto che ci spiega Chi allontana gli investitori. Ecco in campo Carlo Clericetti: “Gli Investitori disertano piazza Affari” La colpa? E’ “dell’immagine italiana all’estero. Le troppe incertezze sul futuro del Paese e sulle decisioni del governo tengono lontani gli acquirenti dal mercato azionario” E butta giù un’accusa al vetriolo: siamo “Commissariati”. Addirittura! Ora, non è che la metafora catastrofica sia del tutto sfasata con la sostanza del dramma reale, ma non si può obliterare la circostanza che siamo dentro gli incontrollabili vortici di una bufera generale, estesa dagli Usa a tutta l’Europa. In tale ampiezza di contesto come si potrebbe legittimare un restringimento polemico siffatto? Lo sappiamo: homini sumus, nihil humani a me alienum puto: a cominciare dalla tentazione di accusare sempre il nemico per i nostri guai. Non bastano le sue responsabilità reali?
Tremonti, il ministro-mago, ha una ghiotta occasione di sfogare la sua sempre meno mascherabile vena sadica. A stento frena il ghigno dei suoi diktat: dobbiamo, sentenzia, “ristrutturare la manovra”. La quale, non essendo il candidato a tanta ristrutturazione, un vecchio casale, ma il destino matematico della nostra carne, costerà lacrime e sangue. Un sanguigno politico della c.d. Prima Repubblica definiva la politica un coktail di sangue e cacca (ma lui chiamava la cacca col nome proprio). Tremonti non è meno immaginoso, anzi il suo Titanic egalitario è già stato promosso a parabola storica, ma predilige immagini meno plebee. Lacrime e sangue, dunque. Si potrebbe impetrare dagli Oscuri (timida immagine personale della dismessa Provvidenza) un tasso di rassegnazione patriottica, quanto penitenziale. Ma, ahinoi, a tanta virtù cristiana si oppone la malignità subdola dei manovranti. La manovra, infatti, onora un vecchio codice truffaldino: “paghiamo tutti, per pagare meno”, la cui lettura corretta suona questa fregatura: paghiamo tutti perché paghino, in realtà, solo i poveri. Non che i ricchi non siano costretti a disturbare il pingue portafoglio, ma il loro “obolo” non gli sposta un capello dal cranio, mentre quel pagare dei poveri (dai piccoli borghesi, che pareggiano al limite il bilancio, ai miserabili che non hanno alcun bilancio) rade fino al cuoio capelluto. Per non dire di un fenomeno di recente evoluzione: tentare di far pagare due volte chi ha già pagato, per esempio, la bolletta dell’acqua, chiedendo la ricevuta vecchia perfino di 10-15 anni! Caso accaduto, ripetutamente, in un ramo della parentela, e insomma in questa Sicilia dai primati storici così spesso negativi fino al paradosso. Ancora più raffinata, in chiave di sadismo amministrativo, è la pretesa di far pagare a chi non ha soldi bastanti a garantirsi ogni giorno colazione e cena gli errori contabili dei funzionari delle Agenzie del Welfare. Quando, poi, la Lega s’intigna con la sua recitata indignazione -tipo: “Esclusa ogni patrimoniale”- non si vede il volto popolare di quel no paseran, considerato che una patrimoniale sui beni dei miliardari dell’Italia liberista e carogna non sarebbe che un doveroso, quanto opportuno, atto di probità. Mentre tassare di più le rendite sul Debito sovrano livellando pescecani e poveri diavoli al di sotto dei 200.mila euro di capitale raccolto a briciole sarebbe (sarà?) l’ennesima vigliaccata temeraria di questa classe politica pletorica, bugiarda, ciarlona, incollata al suo particulare. E sia detto, ovviamente, con rispetto delle minoranze (non proprio affollate) degli onesti e capaci, militanti nelle file delle opposizioni più marcate e decisamente popolari (al di là delle ufficiali qualifiche e nomenclature).
Nell’ottica di quel rispetto, si comprende bene perché la Camusso, segretaria della Cgil, attacca (ma quasi con delicatezza) il recente incontro governo-parti sociali come “non all’altezza”. Il premier annuncia un consiglio dei ministri. con obiettivo “Pareggio di Bilancio entro il 2013 e nella Costituzione”. Una furbata (direbbe Di Pietro), quella coppia, data-Costituzione, per giocare la solita partita truccata dei grandi annunci seguiti da zero fatti o micro-iniziative. Ma ora c’è lo smottamento generale, cui fa drammatica eco la serietà di Gianni Letta, sottosegretario e consigliere del principe: “Scelte rapide, è precipitato tutto”. A ridosso del consolante annuncio, ai sindacati non resta che lo sforzo minimale di un auspicio-monito:“Ci vuole equità”. Più diretto e deciso, il pur alleato Bossi, a nome dell’intero Carroccio, si dichiara “contrario a interventi contro pensionati e realtà produttive”. Certo, dal dire al fare, poi, c’è di mezzo il proverbiale mare. Attendiamo. Sperando in qualche spiraglio.
Che arriva, “scampanato”, da titoli come i seguenti della Repubblica on line (11/08/2011, ore 19): “Borse, l’Europa riprende a correre, Milano vola con le banche, più 4,1%”. Ma lo spiraglio, che respira corto, non previene l’inevitabile “scontro su Tremonti” e le sue ricette tossiche: “Tasse su rendite, libertà di licenziare”. Così il tremendo superministro, dritto e affilato dietro una maschera malriuscita di emotività solidale. E se si volesse ricordargli la drammatica realtà sociale tradotta in cifre sul Corsera dello scorso 16 luglio, lui farebbe spallucce, infastidito del doversi ripetere: “è forse colpa mia? Sono forse il custode di mia sorella Società in sofferenza di povertà?” Ché di questo si tratta, come canta in lacrime già il titolo: “Povertà per 8 milioni di italiani. La soglia critica dei 990 euro. Con l’occhiello che dettaglia queste lacrime:“I più poveri tra i poveri”sono tre milioni. Cifre dell’Istat. Recita il testo, correggendo in parte il titolo in augendum: “Ci sono quelli che l’Istat chiama i ‘più poveri tra i poveri’, e sono oltre tre milioni di italiani, un milione e 156 mila famiglie, il 5,2 per cento della popolazione e il 4,6 per cento delle famiglie. Sono quelli che vivono in condizioni di povertà assoluta, quelli che […] non riescono a procurarsi ‘l’insieme di beni e servizi considerato essenziale per uno standard di vita minimamente accettabile” Ebbene, cosa inventa Tremonti per sanare questa violenza disumana non dichiarata (forse perché, da parte delle vittime, non ci sono ancora grida e spari)? La supermanovra da 45 miliardi e mezzo distesa sul letto di un triennio, con tutti gli abusi su “i soliti noti” destinati a pagare sempre, per dirla con Scalfari. Il quale, nel suo editoriale della domenica, definisce la manovra “una schifezza”, illustrandone le storture, le furbizie, le reticenze a vantaggio dei Paperoni e a scorno dei pulcini del ceto medio--popolare. E chiede pure, il vampiro di Transilvania GiulioTremonti, l’una tantum di solidarietà ai percettori di redditi superiori ai 90 mila euro lordi l’anno. Non si stenta a capirlo, visto che appartiene alla categoria dei paperoni. Lo si capisce pure quando del suo monumentale reddito si serve per pronunciare la sua (pretesa) inattaccabilità dal virus dell’ingordigia border-line, o palesemente (fiscalmente) scorretta. Ecco sue storiche esternazioni:“Ho guadagnato molto, ero il primo contribuente della Camera. Ma ho sempre mantenuto uno stile di vita sobrio, e non ho mai avuto bisogno di favori”. Per sì luminosa evidenza, dunque, con la vicenda incardinata sul dinamico signor Milanese lui non c’entra niente (ripete), ma i fatti dissero (e van ripetendo) il contrario. Non risparmia neppure le iperboli ricattatorie, il Riccioluto: “Chi mi attacca danneggia il Paese”. Il quale, già di suo, si scopre bersaglio elettivo di chiare manovre speculative. Dati i mal nascosti sfrigolii tra lui e il premier, non sembra un eccesso di ostilità moralistica intravedere in quella “precisazione” sul Paese minacciato una chiamata di correità antipatriottica per don Silvio. Ma vediamo alcuni punti della supermanovra. “Tassa straordinaria sugli assegni d’oro e minore indicizzazione al costo della vita. Sulle pensioni più ricche scatta, dal 10  agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014 un prelievo straordinario del 5% sugli importi superiori a 90 mila euro lordi l’anno e fino a 150 mila euro, del 10% per la parte eventualmente eccedente. A formare l’importo concorrono anche i trattamenti di pensioni complementari. Inoltre si riduce per il 2012 e il 2013 l’adeguamento degli assegni all’inflazione” Et altro non ci appulcro, diremo con padre Dante.
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Interrotta lo scorso11 agosto, riprendiamo oggi, 20, la stesura di questo sfogo anti-nevrosi, constatando la non auspicata conferma al suo titolo poco allegro. Da quella data non è passato giorno senza titoli, e annunci mediatici di schietto allarme in crescendo, e altrettanto drammatici resoconti commenti analisi tecniche e proposte pedagogiche per una lotta vincente alla deriva drammatica delle economie europee. Ma invece di segnali incoraggianti (che non fossero fuochi fatui) si è avuta una specie di fatalità dell’inarrestabile. Che sembra prevista da un titolo del Corsera del 4 agosto: Niente tregua, Borse e Bpt giù .Ma il primo allarme del presente “aggiornamento” grida da questi titoli della torinese Stampa del 19 agosto. Titolone di taglio centrale, caratteri “ciclopici”: Borse, panico da recessione [titolo in senso stretto]. ‘Morgan Stanley taglia le stime della crescita mondiale. Male bancari e industriali. Petrolio a picco, l’oro su valori record’ [occhiello]. “L’Europa brucia 300 miliardi, è il peggior crollo dal 2009. Milano maglia nera” [catenaccio]. Gian Enrico Rusconi, nell’editoriale cupo già nel titolo, Governare senza crescita, fin dal primo capoverso suona le annunciate campane a lutto:“Come si governa una società senza più crescita? Una società che verosimilmente non avrà più crescita nel senso e nella misura in cui gli economisti e i politici l’hanno intesa sino a ieri? La classe politica dirigente europea non sembra essere in grado di rispondere a questa domanda cruciale”. “Europea”: dunque nemmeno la tedesca? Nemmeno “lei”. La famosa Angela Merkel, cancelliere dei miracoli, già vacilla, incalzata da certo nervosismo dei suoi elettori e del partito, allarmati, gli uni e l’altro, dalla crisi non meno degli altri soggetti europei, a dispetto del vantaggioso confronto delle rispettive economie. Insomma, la bufera minaccia anche la roccaforte tedesca. Del resto, la visione politica che l’ha ispirata rimane angustamente limitata, cioè “schiettamente conservatrice, sia pure nel senso nobile della tradizionale democrazia cristiana tedesca”

A sua volta il Corsera del 20 rinnova l’allarme: “Un’altra giornata pesante per i mercati. Piazza Affari in coda: perso quasi il 2,5% [occhiello] Borse, Milano soffre di più [titolo] Bruxelles rilancia gli Eurobond. No di Merkel e Sarkozy [catenaccio]. Questi due polli sapienti, galletto e faraona! Il tandem dei responsabili al di sopra delle comuni sofferenze e delle altrui limitazioni “euristiche”, pretende di tenersi fanaticamente lontano dai comuni leader politici. Recita, nei fatti, l’oraziano odi profanum vulnus et arceo? Ma, abusando del latinorum, Cui prodest tanta boria?.Incipit e primo capoverso del testo corseriano: “Borsa ancora in caduta in tutta Europa. Milano chiude con il risultato peggiore. I mercati finanziari scontano i timori di una nuova recessione che potrebbe partire dagli Stati Uniti”. Questo pantano emozionale ingrassa i beni rifugio, e principalmente il coriaceo oro: la quotazione del quale “ieri ha raggiunto il nuovo massimo storico: 1877 dollari all’oncia”. L’“analisi di una storia” ci propone un giudizio stagionato di Massimo Gaggi, Lehaman e noi. Una crisi in quattro anni. Gustiamone un assaggio: “Da Ben Bernanche a Umberto Bossi. Quattro anni di una crisi estenuante che pochi hanno capito nella sua dinamica e nelle conseguenze –una crisi che purtroppo non ci lascerà tanto presto —possono essere raccontati anche così, ponendo ai suoi estremi due facce assai diverse”. Ma siccome il nostro discorso si è gonfiato troppo, rinunciamo a ri-degustare qui la ghiottoneria gaggese lasciando spazio alla disperazione del nostro Stato maltrattato, che pensa quanto annunciato dal seguente titolo: Vendere uffici e caserme. Il piano per fare cassa. Testo-sommario: “Le dismissioni del patrimonio immobiliare dello Stato e la revisione del contributo di solidarietà per tener conto della composizione del nucleo familiare sono le ultime proposte per risanare i conti pubblici”.
Intanto, la Chiesa, generosa com’è, sul filo del Vangelo, ci dà una mano con la voce del cardinale Bagnasco che definisce “impressionante” l’evasione fiscale italiana. Ed è stata l’accensione del proverbiale fiammifero dentro un pagliaio: i blog gli hanno ricordato che santa madre Chiesa non paga tasse al nostro Stato, sprecone e lecchino, per un bel gruzzolone di miliardi. Infuria, intanto, la fiera delle esternazioni sulle ipotesi di novità nella manovra in cantiere, mobilizzando la platea politica maggiore e minore, dal Parlamento alle salette dei piccoli comuni. E la proposta di dimezzare l’operosa legione dei parlamentari “scuote il Palazzo”. Dietro la “scossa” crepita una realtà pelosa (di egoismo brado): “Metà dei parlamentari ha il doppio incarico e diserta l’Aula”. Non bastassero le rogne serie, si mobilitano anche le città della Lega a rompere l’anima ai signori governanti e al non più invulnerabile Bossi. Dice il Corsera citato: “Parte dal Veneto la rivolta dei sindaci del Carroccio”. Ed è un “classico”: appena si accenna a parlare di risparmi con tagli, enti e prebende minacciati intonano il canto della lacrimante e minacciante Protesta. Sì, è la solita, classica, monotona storia: “Non nel mio cortile!”.Intanto don Peppino De Rita ci regala uno dei suoi pungenti editoriali per lamentare l’implicito del titolo: Parti sociali, timide idee . Ovvero: “Più tavole che proposte”. Ne riportiamo soltanto il rombo dell’incipit: “Nel recente convulso accavallarsi di annunci, fenomeni e disinneschi della crisi finanziaria, non tutti i soggetti collettivi, politici come socio-economici, sono riusciti a capire e difendere le proprie filosofie di sviluppo e al limite i propri interessi. / In particolare, un soggetto è apparso in grande difficoltà: il mondo che chiamiamo ‘forze sociali’, quell’insieme cioè delle organizzazioni che rappresentano i diversi interessi imprenditoriali, sindacali, categoriali. Non si è vista traccia di una loro idea, iniziativa, proposta, mentre il governo era obbligato a inventare e correggere una molteplicità di ipotesi e interventi. Eppure erano state le forze sociali a segnalare l’urgenza di muoversi; era stato il presidente dell’Abi, Mussari, a redigere un drammatico documento” sul rischio che correvano (e corrono) le banche: di essere travolte dal caos dei mercati di titoli. E perfino quello di essere svendute. Il benemerito Mussari ha raccolto un bel bouquet di firme autorevoli per la sua meritori difesa. Sia lode al merito. Cosa che non si può dire della maggioranza politica al governo, incapace di sposare .“l’idea di ripetere l’indimenticato, mitico 1992-93”
Un attacco assai più demolitore ai nostri governanti (un nostri allargato all’intero Occidente!) viene dall’editoriale, non insolitamente furioso, di Ernesto Galli della Loggia, su “La debolezza delle leadership”, dal titolo sonante, anzi scampanante: Governanti del nulla Ne riportiamo l’incipit, che poi è un lungo capoverso: “Nonostante gli sforzi di Merkel e Sarkozy per apparire due veri statisti, o l’impegno di Obama per apparire un presidente capace di tenere tutto sotto controllo, le opinioni pubbliche occidentali si rendono sempre più conto che in realtà, oggi, nessuno dei propri governanti tiene sotto controllo un bel nulla. E tanto meno riesce a immaginare una qualche via d’uscita da una crisi che ormai sembra avviarsi ad essere di sistema. Proprio nel momento peggiore della sua Storia postbellica l’Occidente, insomma, scopre di essere nelle mani di leader privi di temperamento, di coraggio e soprattutto di visione.”.Giudizio duro, dunque, ma anche ponderato, equanime, realistico? Non è questo il luogo per una dissezione anatomica tignosa, ma, a volo di uccello (speriamo, della pace!) diremmo che lo si può condividere all’80-90%. Una motivazione? Le differenze tra l’una e l’altra personalità non scavano solchi profondi.
Intanto, la tempesta continua a rombare già dai titoli. Eccone alcuni dal Corsera del 21. Manovra, i punti di Berlusconi  Occhiello: Unioncamere: 88 mila posti persi nel 2011. Allarme per le giovani famiglie indebitate (occhiello). Pensioni, prelievo, Iva: “Niente rigidità, decida il Parlamento”. Questo “catenaccio” veicola la voglia-necessità del premier di apparire liberale, democratico, istituzionale. E’ la sua solita tattica: quando non può ottenere il totale, il Berlù si accontenta del parziale: L’importante è “regnare”. Ecco un sommarietto dell’articolo: “Ipotesi Iva su di un punto e pressing su Bossi per le pensioni. Così il premier Silvio Berlusconi [ce n’è forse un altro?] intende cambiare il decreto. Palazzo Chigi avvisa: niente rigidità, decida il Parlamento. Intanto la crisi stringe sempre più le giovani famiglie: solo 3 su 10 risparmiano. E per il lavoro si annuncia una ripresa difficile. Unioncamere infatti lancia un nuovo allarme: nel 2011 previsti 88 mila posti in meno”. Alleluia!
Pasquale Licciardello

domenica 21 agosto 2011

LETTERA APERTA A MATTEO COLLURA


Caro Matteo,

mi sono appena riletto la tua affettuosa e-mail del 27 luglio, e la riproduco a migliore intelligenza della presente. replica al tuo silenzio.
Caro Pasquale, gli amici comuni ti potranno dire quante volte ho chiesto di te e quante volte ti ho mandato i miei saluti. / Credevo di averti fatto avere il libro su Pirandello, e perciò mi sono chiesto come mai non avessi avuto un tuo riscontro. Te lo farò avere oggi stesso. / Leggerò il tuo “romanzone” con l’aiuto informatico di qualche nipote (io non vado al di là delle email). / Se hai voglia di dare un’occhiata a un mio articolo su Agatha Christie, è uscito oggi sul “Corriere” (pag. 38)./ Un affettuoso saluto e auguri per la tua salute. Matteo  MCollura@rcs.it.
Ho letto, sì, il tuo articolo su Agatha Christie, e l’ho apprezzato (anche nelle sue citazioni). Ma ora dimmi: cosa è accaduto, da quel dì di letizia, all’inizio del tuo ingrugnito silenzio punitivo? La chiave che ne apre il burbero scrigno penso stia dentro quel Romanzone. Nel duplice senso: perché l’accrescitivo e non il normale sostantivo? Donde sbuca quel “leggerò”ecc.?. L’“ingrossamento” è tutto mio: un mio giocoso, pudicamente auto-canzonatorio. E mi spiego: il racconto in questione (autobiografico la sua parte) è piuttosto lungo. E, starei per dire, anche largo. Nel senso che si occupa di molte cose: amore politica religione pensiero cultura attualità varia. E altro bene “umano troppo umano”. In tanto fervore presenzialista mi capita di risvegliare e accogliere certa mia valutazione non positiva della famosa (per altri famigerata).sortita di Leonardo Sciascia contro I professionisti dell’antimafia. E qui, penso, sta la molla del tuo fragoroso silenzio (a meno di ignoti sismi di vario genere): quella mia valutazione ripete un giudizio da me dato alle stampe in replicata varietà di modi e situazioni: la “sparata” di don Leonardo è stata un’avventatezza autolesionistica, un colpo di testa quasi inspiegabile, un intervento da niente e da nessuno stimolato richiesto auspicato (salvo oscure e ignote motivazioni personali che languono nel buio documentale, ma lo escluderei). Dunque, Matteo ha letto, nel Romanzone, quell’antica “stroncatura” della scivolata leonardesca e gli si sono accesi nel sangue gli spiritelli dell’intolleranza accecata. E addio Pasquale, Pirandello, i saluti by our friends” e la stagionata amicizia e stima reciproca.
Sottosuolo di tanta rovina? Semplice: un rigurgito di sensibilità infantile, cioè di quella tale permalosità che non riesce a distinguere un giudizio scrupolosamente motivato da uno sgorgo di gratuita insofferenza. Sensibilità che, a sua volta, si radica dentro una storpiatura dell’emotività che presiede alla ponderata valutazione di una persona una produzione culturale un’intera vita di militanza letteraria, e via elencando. Tale storpiatura consiste nell’involuzione dell’affetto-stima in sostanziale adorazione. E quindi, nella enfatizzazione dell’amico letto e riletto, studiato, raccontato da “biografo ufficiale”, e via salendo (su una scala, per esempio, che ha per gradini un eccellente plurimo successo editoriale). In siffatto processo che cosa accade di tanto grave e grosso? Niente di più (ché non si può) né di meno (eppur si potrebbe!) che la deificazione dell’Uomo (qui la maiuscola è inevitabile), la sua metamorfosi in idolo: cioè, in una realtà virtuale di perfezione impeccabile, senza macchia, infallibile sovrumana e via fuggendo (dall’effettuale machiavelliano). Con la naturale conseguenza che nessuna critica all’idolo viene sobriamente valutata come espressione di una stima più problematica che una idolatria fanciullesca.
Sfortunatamente per le sorti dell’amicizia, io non trovo, ancora oggi, nulla da rinnegare in quell’appunto. Tanto meno ne avvertivo il pungolo quando giudicavo severamente (nel romanzo) quei giovani che, dopo avere, a suo tempo, infierito contro l’idolo infranto Leonardo Sciascia, scendendo fino all’insulto dissennato, tanti anni dopo gli davano ragione. Salvo uno di loro, “affetto” da sofferente ma non alienabile coerenza da me apprezzata (non amo i lecchini di ritorno). Che cosa contestavo a Sciascia se non una contraddizione palesemente sgorgata dagli inferi? Lo scrittore impegnato, la guida di tanti giovani, il testimone più autorevole contro la peste mafiosa e lo Stato fellone suo complice saltuario (ma non perciò meno scandaloso) sente il bisogno-delirio di prendersela con presunti “professionisti dell’antimafia”? Ma in che mondo siamo? La sorpresa per me e i miei simili (di circostanza) scaturiva, lacrimando, dalla stima e dall’affetto per questa guida morale impiantata sull’eccezionale capacità narrativa. Chi erano, secondo l’infastidito scrittore-osservatore, quegli strani professionisti? Forse il sindaco palermitano Leoluca Orlando, fragoroso di scorta e di affollate esibizioni e sfilate socialmente e pedagogicamente fertili, ma di nessuna incidenza pratico-operativa? E quale carriera poteva sospendere, il buon sindaco, a quel simpatico impegno etico e socio-politico un po’ folcloristico? In ogni caso, che razza di professionista si poteva leggervi? Un professionista più credibile era, certamente, il giudice Borsellino, un altro era Falcone: ebbene, caro Matteo, non ti si accende un focherello di pentimento dentro le viscere frettolose pensando a quale straordinaria carriera hanno realizzato quei due professionisti veraci? A me le date del 23 maggio 1992 (assassinio di Falcone) e del 19 luglio dello stesso anno (eliminazione, altrettanto clamorosa, di Borsellino) ancora mi bruciano come due ferite mai passate in giudicato di obliviosa guarigione. E non soltanto per la tragica fine di quei due eroi (sì, è il meno che si possa dire dei due professionisti) ma anche per l’infamia del tutto anomala delle complicità oscure che hanno consentito quelle due tragedie nazionali e insieme nazionali vergogne per un’Italia così remota dalle retoriche di certi ambienti politici. Se, poi, aggiungiamo all’orrore del duplice delitto la sua inevitabile pluralità di bersagli innocenti, (le scorte più la moglie di Falcone) la puzza del bubbone morale nel corpo dello Stato attossicato di tradimento sistemico cresce a dismisura. Che c’entra lo Stato?, diranno gli eventuali giovani lettori, ancora ignari delle perfidie della Storia reale. Ci trasi, eccome, carissimi, per le evidenti innegabili complicità istituzionali di certe sue componenti abilitate alle operazioni sporche e agli inconfessabili tradimenti delle sue leggi e Costituzione. E’ lo Stato fellone e para-mafioso (senza l’assistenza del quale quei delitti non sarebbero stati possibili, stante la strategia precauzionale di Falcone e del suo amico e collega. E’ un vero peccato che Sciascia non sia vissuto abbastanza per vedere la tragedia personale e pubblica di quelle due professioni. La tesi che uno scrittore, un intellettuale debba esprimersi quando gli ditta dentro, prescindendo dal contesto socio-politico e relative emergenze in atto, non regge, caro Matteo. Eppure tu l’hai sostenuta. Davanti ai faraglioni di Aci Trezza (ricordi?), in quell’unica e per me indimenticabile occasione di agape amicale promossa dalla tua liberalità riconoscente. Allora non replicai, per ovvie ragioni di rispettosa cortesia.
Mi duole, dunque, di rinnovato dolore, che l’amico intellettuale, e scrittore di buon successo non tolleri che altri amici di Leonardo (ma non suoi biografi) valutino il suo illustre ispiratore diversamente da lui in una circostanza precisa e circoscritta. Che, tra l’altro, non gli giovò presso la migliore intellighentsia italiana, e non soltanto. Una conseguenza del tutto prevedibile, questa, dato il momento storico che l’Italia attraversava: una gioventù in reiterante mobilitazione di sfilate e cortei contro la mafia, e non soltanto a Palermo, la città martire dello strapotere assassino e delle complicità di servizi segreti (deviati, sì, ma certo non per ispirazione autonoma). Uno Stato fellone, mobilitato a difesa dei capitali insanguinati e relative banche senz’anima: ti sembra un caso che i due eroi fossero due emeriti ficcanaso che il naso professionale stavano ficcando, da Palermo e ancor di più, forse da Roma (quando la cupa ostilità dei colleghi giudici e del Csm mobilitati a fermare il guastafeste nazionale  costrinsero Falcone ad accettare l’offerta del Partito Socialista per un posto di prestigio al ministero della Giustizia) nei conti bancari italiani ed esteri, seguendo il metodo del giudice svizzero Carla Dal Ponte, con la quale per il poco tempo rimastogli, i due amici collaborarono. Dopo il fallito attentato alla’Addaura Falcone sapeva che stava conducendo una lotta contro il tempo, e moltiplicò gli sforzi, in collaborazione con la Dal Ponte. Ma non senza l’amarezza di sentirsi incompreso anche da vecchi amici che gli rinfacciavano quella soluzione come se fosse difeso da lui quello spostamento voluto e programmato, ormai, da troppe teste e pance, dell’economia, della politica, della magistratura: parte invidiosa, questa, parte complice più o meno “dentro le segrete cose” delle superiori urgenze mammoniche di sua santità bacata lo Stato democratico nato dalla Resistenza.
La cosa dolorosamente strana è che a suggerire l’indagine bancaria ai “professionisti dell’antimafia” (veri) era stato proprio Sciascia, se non ricordo male fin dal Giorno della civetta. Epperò, a questo punto mi solletica un altro sospetto: e proprio sui “rapporti” fra Sciascia e la mafia. Non credi, caro Matteo, che l’emotività del tuo illustre biografato fosse un tantino “confusa” towards the Mafia? La combatteva? Certamente, ma con une arrière-pensée, o sentimento ambiguo di curiosità e ammirazione estetica (nel senso forte). Dopo tutto, don Mariano Arena non esce troppo male dal Giorno della civetta, e quella sua classificazione degli antropoidi in Uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quacquaracquà deve avere affascinato Sciascia. E poi, non gli piacque, forse, intervistare qualche “zio di Sicilia”? Può darsi che in questo sotterraneo di emotività oscura Leonardo coltivasse, insieme con una certa cauta diffidenza verso le forze dell’ordine, un mezzo sentimento di ammirazione per certi capimafia veri uomini e non capricciosi assassini. Per la diffidenza verso le Divise dell’Ordine sociale se ne può rincorrere la radice nella sua biografia: poté ispirarla la vicenda del maresciallo dei carabinieri che fece torto al padre. Né siamo in grado di valutare la coda lunga delle emozioni suscitate dal suicidio del fratello (collegato a quel torto delle divise?). Nel primo grande successo editoriale, comunque, si gioca alla pari tra il boss don Mariano Arena e il capitano dei Carabinieri Bellodi: entrambi si riconoscono apice di quella classifica: uomini. Nessuno scandalo, ma un richiamo alla rischiosa ambiguità di certe emozioni e valutazioni. Specialmente se fatte in un clamante articolo sul maggiore quotidiano nazionale. E con la regia del molto discutibile Piero Ostellino: ottimo direttore, forse (ma quasi non direi, a giudicare dal famigerato titolo) però anche uomo di passioni sfrenate. Fino al ridicolo. Nel novembre 2003 questo accigliato superliberale reagì a un sondaggio promosso dalla Commissione Europea su quale Stato, minacciasse di più la pace nel mondo, con questa dichiarazione: “Ebbene, lo dico senza esitazione, io da questa Europa non solo non mi sento per niente rappresentato, ma non voglio nemmeno averci a che fare. Perché me ne vergogno come europeo, come italiano e come cittadino del mondo” Ci fermiamo qui, tacendo il resto della mira nota (direbbe Dante nel suo Paradiso),.e cioè del meraviglioso canto (dei beati). A cosa reagiva il mirifico campione di così limpido liberalismo incapace di sopportare un innocente sondaggio rituale? All’esito dello stesso: “il 59/% dei 77.515 cittadini europei indicò Israele come lo Stato che più minaccia la pace nel mondo, scegliendo fra 12 stati, tra i quali figuravano Corea del Nord, Iran, Pakistan, Iraq, Usa…”. Niente di strambo, dunque, a sospettare che l’infelice titolo sui famigerati professionisti sia merito di questo limpido campione. della sacra Libertà (di opinione come d’impresa) che si confessa fanatico del santo Israele, l’intoccabile erede del genocida Mosè.
E qui chiudo, caro Matteo, scusandomi per la dilatazione non programmata dello sfogo, e nel rimpianto di un’amicizia perduta per la mia schiettezza fraintesa e severamente punita. Un’amicizia alla quale tenevo. Accetta, comunque, il mio saluto e i miei auguri per un futuro di rinnovati successi e soddisfazioni.
Pasquale

giovedì 11 agosto 2011

PAUPER UBIQUE JACET


"Il povero è a terra in qualsiasi luogo ": così Ovidio. La sentenza latina ne attrae un’altra, “connazionale”, e non meno stentorea: Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames? Questo è Virgilio. Che tradotto liberamente suona: "Cosa non costringi gli uomini a fare, o esecranda fame dell’oro?" Iniziare così un articolo politico non è una gran trovata, ma qui non si propone un distillato di politica. Tanto meno di economia. O di etica pubblica. Magari una vaga sintesi delle tre specialità. Più corretto ancora sarebbe parlare di personalissimo sfogo di rabbia a stento repressa. O mal controllata.
         Tema-imput dell’occasione, il tanto atteso discorso del premier in Parlamento sul tema “crisi finanziaria”. Deludente, al punto da ispirare una sorprendente sorpresa in un navigato commentatore politico come Sergio Rizzo. Il quale, in un editoriale del Corsera  del 4 scorso (Le attese deluse) confessa fin dal titolo di avere sperato in una specie di miracolo: che il Barzellettiere impunito mettesse la testa a posto e (oh miracolo!) fosse diventato capace di onorare fatti ed evidenze, per brutte che fossero (e a maggior ragione essendo tali). Homo credulus, allora, l’ottimo Rizzo? Diciamo  scusabilmente speranzoso, in forza di circostanze eccezionali. Invece, il famoso messaggio alle Camere del premier millanta, ut semper, e l’onesto osservatore da “rizzo” diventa “riccio”, si chiude, cioè, secondo quel modulo metaforico. Lamenta, infatti, drammatico (e immaginoso): “Dunque la casa continua a bruciare senza che nessuno metta mano all’estintore. Dal discorso in Parlamento del presidente del Consiglio era lecito aspettarsi di più. La decisione di parlare solo dopo la chiusura dei mercati poteva far supporre perfino qualche clamorosa sorpresa. Invece niente. Neppure una timida ammissione, verso un Paese che arranca nel pantano della crisi bombardato da quelli che chiamano speculatori, di avere sbagliato qualcosa. Semmai il contrario: i guai sono del mondo intero, a cominciare dai più bravi (gli Usa). L’Italia è solida, le sue banche sono solide, i conti pubblici stanno meglio di quelli altrui, il nostro sistema pensionistico è invidiato da tutti. Dulcis in fundo il governo resterà al suo posto fino al 2013”. E scusate se è poco. Ma ora, en passant, diciamoci una piccola verità: un attore simile non suscita pure uno sgorgo di ilare ammirazione? Applausi, bis, eccetera. Il Paese (dicono i soloni di merito e quelli d’intrallazzo) è mezzo liquido e sempre più si scioglie, e lui, il prim’attore, impavido, ti spiaccica in faccia (quando ci vuole, anche la cacofonia suona giusta) la selenica pretesa che esso-lui è solido, solidissimo. Tutto qui il messaggio d’incoraggiamento al Mercato? Con culmine “in quel hic manebimus optime ? Che ha tutta l’aria di un improbabile conforto: niente paura, ci sono qua io, il mago delle soluzioni.difficili. Ghe pensi mi.
Niente maghi, con il presidente Napolitano, personalità forte ed onesta, capace di dare segnali chiari in gesti e sollecitazioni sobrie, rispettose dell’evidenza. Ma quanti hanno dato la risposta pratica, oltre che verbale, alla sua esortazione per un’azione di coesione nazionale all’altezza della crisi che ci azzanna? E che sembra avviata ad allargarsi e incrudelire, specialmente verso i Paesi deboli. Era soltanto una minaccia, ieri, oggi è già una realtà. Precisamente, una realtà in progress, che sta seminando panico e sconforto a varie latitudini, facendo invecchiare drasticamente i consigli di De Bortoli (editoriale del 3 scorso): “Il minimo che si possa attendere oggi è l’indicazione di un percorso concreto. L’ascolto delle richieste delle parti sociali. L’assunzione di alcuni impegni precisi che non si potranno disattendere. E se ciò accadesse, allora sarebbe opportuno che il premier ne traesse le doverose conclusioni dimettendosi”. Un consiglio surreale, naturalmente, quell’invito a dimissioni che Berlusconi non darebbe neanche sotto tortura. Né ci possono stupire le fantasie verbali del suo complice (e neosegretario del partito) Angelino Alfano, condannato a dargli sempre ragione. Lecito stupirsi, peraltro, di quella panacea che si tira in ballo ad ogni soffio di ipotesi cliniche per madama l’economia malata: le privatizzazioni: “privatizzare e liberalizzare con decisione”, suona De Bortoli. E subito dopo un altro consiglio, questo, sacrosanto, (e più vicino all’auspicato passe-partout, anche se difficile, fino all’irrealtà): “ridurre drasticamente il costo della burocrazia e della politica”. Come dire a politici e burocrati, insaziabili roditori: accogliete il sottinteso imput virgiliano e dimostrate di non essere succubi del mostro aureo. Da lustri e decenni si sventola il problema dell’eccessiva presenza e costo di burocrazia e politica scaglionate su vari livelli (due fatalità coriacee, burocrazia e politica, che ostentano, spocchiosamente irridenti, la validità perenne di quell’antico esclamativo). “L’adozione di misure eccezionali, anche se dovesse comportare sacrifici per imprese e famiglie”, che sarebbero accettati, scommette De Bortoli, “a fronte di una ripresa degli investimenti e di prospettive meno incerte sul versante della crescita”. E qui spunta il solito motivetto: “interventi più incisivi sul mercato del lavoro e sul sistema previdenziale”, compensati dai solidi investimenti e occasioni di lavoro “per i giovani”. Insomma, sacrifici per chi vuole lavorare, ma profitti garantiti per le sante imprese: il ricattino è trasparente, e il motto ovidiano sugge l’ennesima conferma. Leggiamo la conclusione del’editoriale “E si ascoltino le parole del presidente Napolitano, unica fiaccola nel buio estivo della nostra politica”. Non si avvertite un certo stridore? Napolitano ha restituito allo Stato un bel gruzzolo di milioni rinunciando a certi regolati incrementi del suo stipendio: quanti politici e pezzi grossi hanno seguito il suo esempio? E se taluno concede rinunce, fa ridere Gian Antonio Stella, che ne sventola la ridicola esiguità (tipo 0,3 e vicinanze!).
         Comprensibile che il lugubre Marchionne monocolore (e ricattatore dalla minaccia facile) condivida siffatta aritmetica previsionale: non rifulge, forse, l’indiscutibile esempio americano? Meno denaro nel salario, più ore di fatica-sfruttamento e meno minuti di salutare riposo-pause e un lavoraccio si trova. A rinnovata gloria virgiliana di spudorati miliardari (e, certo, anche a lecita consolazione di piccoli e medi imprenditori non bulimici). Quanto più opportuno, tuttavia, denunciare lo scandalo degli stipendi-monstre chiamandolo col nome giusto: violenza patogena sugli indifesi alla fame (o giù di lì). Intanto la crisi cresce, i titoli dei grandi e piccoli media cartacei e telematici suonano a distesa un allarme dietro l’altro: Choc sulle Borse mondiali, Milano crolla: Ecco un titolo del Corsera (venerdì 5 agosto). Se aggiungiamo occhiello e catenaccio la finestra allargata allarga l’allarme: sul primo: “Indici in tilt: Wall Street a picco. Piazza affari cede il 5,16%. Nuovo record per lo spread Btp-Bund. Trichet: l’Italia acceleri il risanamento”. Sul secondo, ahimè, solo parole in vetrina, di promesse e programmi dal futuro incerto o pencolante, come tutti quelli del premier e della sua orchestra istituzionale. “Piano del governo in 8 punti entro settembre.”, eccetera. Nei servizi si leggono frasi da massimo allarme: “Una vera e propria bufera sui mercati mondiali, Wall Street in testa. Quella di ieri è stata una giornata nerissima, che ha colpito in modo particolare l’Italia”, “Sempre più alto lo spread con il bund decennale tedesco”. L’editoriale (di Daniele Manca, titolo Obbligo di reazione) non è meno denso di ovvio allarme: “Un’America intimorita da una possibile ricaduta in recessione. L’Europa che ha risposto balbettando alla crisi greca, e ammettendo che anche un Paese dell’area della moneta unica poteva avvicinarsi al fallimento. Una Banca centrale europea che solo ieri ha deciso di attivare misure anticrisi per aiutare i Paesi in difficoltà comprando i loro titoli di Stato”.Un risveglio, non solo tardivo, ma anche incapace di evitare la divisione interna all’Eurogruppo, “con il voto contrario della Bundesbank tedesca. Vale a dire del Paese al quale sono legate le sorti dell’euro”. Pessimo esempio, che ha ingigantito “il malessere sotterraneo che da qualche settimana percorre le Borse mondiali” trasformandolo nel “crollo” di cui stiamo consumando gli amari e acerbi frutti. Situazione, dunque, che impone misure drastiche, pena la condanna “a una marginalità difficile se non impossibile da recuperare in futuro". Un indice severo della gravità della nostra posizione è il già segnalato spread, il differenziale dei tassi di interesse tra i nostri Btp (alti) e i Bund tedeschi (bassi). Con l'aggravante che la Spagna di Zapatero è riuscita ad abbassarlo "dai 54 punti del primo luglio agli 11" del 4 agosto, mentre il nostro gode ottima (e pestifera) salute. Quanto alla reazione così poco solidale della solida (lei sì) Germania della Merker, si può anche capire la riluttanza ad aiutare i nostri imprevidenti governanti (dalla parola copiosa ma di fatti magra). Capire, non  applaudire: dove se ne va, così, il senso dell’unità europea?
Situazione fedelmente, quanto severamente, "recensita" dai mercati, questi mostri senz'anima e gonfi di auri sacra fames . L'auspicio del Manca è che uno scatto di resipiscenza attiva nei responsabili riesca a realizzare l'indispensabile: l'anticipo del pareggio di bilancio e l'ascolto dei "preziosi consigli forniti dalla Banca d'Italia", senza lasciar cadere gli stimoli del Presidente Napolitano. Altro che "il piano del governo in 8 punti entro settembre"! I mercati non sono pazienti samaritani, e le parti sociali a ragione pungolano: "misure subito, basta scappatoie". Né conforta, su questo terreno, il vecchio (e cinico) detto, “compagni a duolo, gran consolo”. Nel suo “confronto” (rubrica redazionale) “Noi e gli altri”, l’articolo di Alberto Alesina (Debito e tagli. Quello che l’America non dice) riassume in termini rudi la situazione: “Nel 2008 nel pieno della crisi finanziaria si diceva che ‘la politica avrebbe salvato il mondo’. Forse lo ha fatto ma sicuramente oggi la stessa ‘politica’ sta trascinando  Europa e Stati Uniti in un baratro. L’indecisione dei leader americani e europei ha trasformato una crisi fiscale partita in Grecia in una crisi sistemica. L’inadeguatezza della risposta politica in Italia ha fatto il resto per il nostro Paese. Sarà difficile convincere i mercati con annunci tardivi fatti da un leader screditato”. Questa stilettata di via Solferino al Cavaliere non è robetta di ordinaria routine, e misura meglio di lunghe analisi gli umori del Paese responsabile. Una paura che invoglia a saltare barriere di prudenza e fair play anche “in alto loco” mediatico. Perfino a rischio di gonfiare l’allarme. Dal canto suo Gian Antonio Stella sfrugulia (non insolitamente, ma qui forse con qualche punta di sarcasmo in più) i nostri non eccellenti politici (Ponti e vacanze. I record degli onorevoli): “Uffa la crisi planetaria! Travolti da un’ondata di proteste, letteracce, ironie, commenti, moccoli e invettive, i ‘furbetti del pellegrino’ hanno dovuto fare retromarcia: invece di cinque settimane e mezzo [sic] di vacanza, ne faranno ‘solo’ quattro e mezzo”. Poveracci!
         Il Corsera del 5 ospitava un'analisi di Massimo Gaggi (Quel panico mai scomparso), che comincia con questo lungo flash drammatico: "Il panico è tornato a dominare i mercati di tutto il mondo di fronte allo spettro di una devastante crisi di liquidità in Europa e la constatazione che l'America non ha più munizioni per reagire. Il film della giornata di ieri è pieno di storie di speculatori, operatori disorientati, reazioni irrazionali". Non meno in allarme rosso l'analisi del suo collega Marcello Messori, che denuncia "Il disinteresse per la crescita" e attacca senza sconti la compagine governativa: "Il governo ha manifestato attenzione alle proposte, in molti casi sensate, delle parti sociali, ma l'incontro di ieri non ha segnato quel salto di concretezza che la situazione del Paese imporrebbe. Un'azione che il presidente del Consiglio e il suo esecutivo appaiono incapaci di realizzare". Insomma, tutti gli interventi non fanno che sviluppare la presa d'atto della realtà pesante del mercato: "Una vera e propria bufera sui mercati mondiali, Wall Street in testa. Quella di ieri è stata una giornata nerissima, che ha colpito in modo particolare l'Italia".Incollato alla foto della situazione drammatica, rosseggia di fiamma viva l’immancabile giudizio critico sulla politica e l’azione scadente del governo. Con il pimento, tra l’altro, delle Scintille pubbliche tra il premier e il superministro, affidate ai tasti estrosi di Sergio Rizzo, capace, per l’occasione, di sfoggiare un divertito sadismo: “Mai si era visto Silvio Berlusconi correggere pubblicamente e perentoriamente il ‘genio’ (parole sue) Giulio Tremonti, e mai il ministro dell’Economia correggere altrettanto pubblicamente il presidente del Consiglio”. Da parte sua il Berlù non si lascia scappare l’ennesima occasione di insultare la magistratura: “Show di Berlusconi: anche le toghe frenano la crescita”. E naturalmente, respinge ogni accusa.
         Il 6 agosto sembra portare qualche sconto al pessimismo d’obbligo. Titoli del Corsera: Manovra anticipata, riapre il Parlamento. Berlusconi: pareggio di bilancio già nel 2013”. “Il governo annuncia la riforma del lavoro” E altro modesto risveglio. Che, tuttavia, non alleggerisce la situazione generale, interna ed estera: “Borse ancora giù. Nuovo record negativo dei titoli di Stato, superata la Spagna”. Mentre la Bce preme sull’Italia, il premier parla ai leader europei “per uscire dall’angolo. Da Van Rompuy a Cameron, Merkel e Sarcozy. In questo modo la crisi è internazionalizzata. ‘Nulla è da addebitare alla responsabilità di uno dei governi” (Andrea Garibaldi,I timori dell’isolamento in Europa). Una mossa di evidente rilievo dimostrativo è la lettera a quattro mani inviata a Palazzo Chigi dal presidente della Bce, Jean-Claude Trichet e dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi: “suggeriscono al governo le mosse da compiere per bloccare l’attacco dei mercati”. Un vibrato editoriale di Sergio Romano (Bene ma non  basta ) usa il bisturi della franchezza per misurare la gravità della situazione generale, giudicare le misure decise dal nostro Esecutivo, calibrare sull’oculato interesse immediato il comportamento dei mercati, e soprattutto non risparmia accuse precise alla nostra classe dirigente e politica. Eccone un passo: “Se la classe politica, tanto per fare qualche esempio, avesse decurtato sensibilmente i propri benefici, rinunciato all’indecorosa pretesa dei rimborsi elettorali, e messo subito le aziende municipalizzate di fronte all’obbligo morale di tagliare le prebende dei propri consiglieri, i sacrifici chiesti alla grande massa degli italiani sarebbero stati più facilmente accettati; e i mercati avrebbero capito già da qualche settimana che il rischio delle loro scommesse sarebbe stato maggiore”. Ma l’evidente inceppamento di ogni tentativo di scaricare da queste vestali della politica mammonica fosse pure soltanto una significativa porzione degli indegni privilegi, poggia sopra solidarietà rocciose. Scrive Romano: “Conosciamo la resistenza delle lobby, delle corporazioni, delle baronie, delle clientele, tutte pronte a dare battaglia per non perdere nulla di ciò che hanno indebitamente conquistato”. Ma tanta conoscenza non basta a serrare in petto una conclusione non del tutto pessimistica, anzi “spiragliata” verso un chissà legato a un filino di oscillante speranza: “Sappiamo che non vi è partito insensibile ai propri immediati interessi elettorali. E sappiamo infine che molte riforme, necessarie al nostro futuro, non sarebbero mai state fatte se non ci fossero state imposte dall’Europa. Ebbene, in questo Paese del particulare, delle rendite di posizione e dei diritti intoccabili, la crisi può diventare un’occasione straordinaria. Se affrontata con una lucida strategia politica e sostenuta da un solido accordo con le parti sociali, può servire a rimuovere i blocchi stradali che ostruiscono il cammino del merito e della concorrenza, può rendere il Paese più attraente per gli investimenti stranieri, può dare all’Italia la scossa di cui ha bisogno per ricominciare a crescere”. Lo sperare, se non alieno dalla lucidità diagnostica, non è peccato: facendo forza al nostro stagionato pessimismo, ne raccogliamo un filino.
         Domenica 7 agosto. Sul Corsera sfolgora, non allegramente, questo titolone: Bocciatura storica per l’America. “L’agenzia di rating: Paese meno affidabile a causa delle divisioni politiche. La Casa Bianca: errori di calcolo” “Declassato il debito. Schiaffo da Pechino: basta, trovate soluzioni”. L’editoriale è di Mario Monti, e ha un titolo storicheggiante, IL podestà straniero, evocazione del personaggio che veniva chiamato a dirimere questioni locali in epoca comunale e vicinanze: “Mercati, Europa e governo italiano”. L’ispirazione scampana all’incipit: “I mercati, l’Europa. Quanti strali sono stati scagliati contro i mercati e contro l’Europa da membri del governo e della classe politica italiana! ‘Europeista’è un aggettivo usato sempre meno. ‘Mercatista’, brillante neologismo, ha una connotazione spregiativa. Eppure dobbiamo ai mercati, con tutti i loro eccessi distorsivi, e soprattutto all’Europa, con tutte le sue debolezze, se il governo ha finalmente aperto gli occhi e deciso almeno alcune delle misure necessarie”. E’ dovuto alla doppia pressione dei due fattori citati il non fulmineo risveglio dell’orchestra stonata governativa. Da questa ovvia constatazione alla tentazione di cedere a quel di più di ottimismo che nessuna scienza previsionale può concedere il passo non è lungo. E Monti lo fa, pronto a cogliere ondulazioni nei due fenomeni complessi, Europa  e Mercato, lo è elettivamente di più a lodare i due complicati robot di pur vibratile carne vorace, perdonandone le non sempre prevedibili insorgenze egocentriche (un ego personale e plurale), così sovente difficile da domare e far rientrare negli alvei corretti. Nessuno scandalo, ciascuno dei mortali (per dirla in lingua classica) ha le sue preferenze e le proprie debolezze. E l’esclamazione virgiliana brilla della sua eterna fiaccola di verace sospiro.
         Al momento di licenziare questo scrittarello (8. 8. Ore 20) la situazione Usa.-Europa oscilla tra segnali negativi e positivi, ma i primi sommergono i secondi: S&P affonda Wall Street. Le Borse europee tornano al crollo verticale, Milano perde un altro 5,26%, e così via  (Cina ringhiante compresa). Riusciranno i “nostri eroi” a salvarci? Forse. Ma prima bisogna trovarli. Intanto, mentre la Somalia agonizza di fame e nel pianeta la mortalità infantile sfida vittoriosamente l’opera e l’anima dei filantropi sul campo, il motto ovidiano sta godendo l’ennesima conferma. Per esempio, gli ospedali non fanno più il Day hospital.
Pasquale  Licciardello

venerdì 5 agosto 2011

LE BARUFFE CHIOZZOTTE DELLA POLITICA

L’Inimitabile per eccellenza della politica nostrana, nonché premier coriaceo, dichiara che teme per la sua vita e quella dei figli perché l’ex amicissimo Gheddafi, il raìs dello storico baciamano (chiarimento per i ragazzi: è stato il Cavaliere a baciare la mano del “tiranno” libico) ha decretato e gridato vendetta tremenda vendetta a giusta (anzi soltanto perfida) ritorsione contro il tradimento dell’amico italiano, tante volte fastoso ospite nel Belpaese e poi,.con vile, e ingiustificato, voltafaccia, componente attiva nella “sporca guerra” della malconsigliata Nato contro un legittimo signore e saggio statista e il suo popolo. Le prove di tanta minaccia? Tutte da scoprire: per ora ci dobbiamo accontentare della parola del premier, cioè di un campione europeo di frottole a tutt’oggi insuperato nella pur lunghissima e frastagliata storia nazionale. Al massimo della fiducia consentita dal soggetto, possiamo soltanto immaginare una certa ansia, (più o meno alimentata da bocche interessate al brivido mediatico), scaturita dalla sua fellonia spinta, appunto, fino alla partecipazione attiva all’aggressione Nato.
         Tremonti, l’inattaccabile monumento vivente dell’onore italiano in fatto di ministri e ministeri, l’uomo delle competenze tranquille e delle severità inflessibili, nonché delle dotte citazioni (e dei favolosi guadagni) anche lui è finito nel tritacarne del pettegolezzo e delle scorrettezze. Lo prende di petto nientemeno che Sergio Romano, colonna del Corriere della sera, autore di limpidi elzeviri e titolare della corrispondenza con i lettori. Uomo di coerenza e decisione, Romano non si dice soddisfatto (placato, dirà in cuor suo Tremonti) dalla prima risposta del superministro, e lo incalza. Tremonti dice che ha cambiato alloggio (dalla caserma della Finanza alle comodità di un’ospitale dimora privata dell’amico Marco Milanese) perché nel primo si sentiva spiato. Spiato dalla Guardia di Finanza? Incalza Romano. Scherziamo? Precisi, il signor ministro, chiarisca, entri nei dettagli, il caso ha troppo peso per lasciarlo sospeso (a semplici cenni in veloce fuga). La Finanza che spia il suo capo e ministro è un bel rebus, degno di ogni approfondimento, si accomodi, o si scomodi, l’Eccellenza e dia numeri meno vaghi. e reticenti: per esempio, se il signor ministro era sicuro di questa irrituale attenzione spionistica ha fatto la sacrosanta denuncia alla magistratura? E così via. Il ministro ripete, aggiungendo un flebile mea culpa, assistito da istruzioni per il corretto uso: posso avere sbagliato (oppure, manzonianamente, “posso aver fallato”) commesso una leggerezza, “comunque nessun nero e nessuna irregolarità” . “Ho commesso illeciti? No. Errori? Sì”, compreso quello di non aver lasciato prima la casa:“L’avessi fatto, avrei evitato tante speculazioni” (così in una lettera al Corsera). E, ad abundantiam, aggiunge una spiegazione non precisamente signorile: perché avrei dovuto incantarmi alle sirene del pubblico denaro quando, di mio, sto più che bene? Non sanno, lor signori, che le mie dichiarazioni dei redditi sono milionarie ed erano miliardarie quando regnava la vetusta regina Lira? E ripiega sull’errore, la leggerezza. Si attendono ulteriori sviluppi. Che arrivano, puntuali come i tornado ai Tropici, mentre la talpa giudiziaria scava nuovi buchi e gallerie in ripresa di “colloqui” col ministro testimone. La cui posizione, di conseguenza, si rannuvola sempre più, tra menzognucce, reticenze, mezze verità sulla famigerata casa, il cui affitto il ministro pagava solo in parte. Stralciamo un passo dalla confessione del Di Lerna ai giudici: “Lorenzo Cola (consulente di Finmeccanica che lo aveva coinvolto nel giro degli appalti, anche lui ancora agli arresti domiciliari) mi disse che Proietti era il soggetto che Milanese gli aveva descritto come ‘il tipo che mi dà 10.000 euro al mese per pagare l’affitto a Tremonti’”. A sua volta Milanese ha dichiarato, a gioia di un regolare verbale, che “Tremonti gli dava 1000 euro a settimana, così raggiungendo metà dell’affitto fissato in 8.000 euro mensili”. E la storia si complica: Proietti si vanta di essere stato lui “a far avere a Milanese un appartamento del Pio Sodalizio dei Piceni”, al quale costui aggiunse “quello di via Campo Marzio”, la cui ristrutturazione, valutata, in prima stima 200.000 euro, costò, in realtà, 50.000 euro. E siccome il birbante Proietti era riuscito ad ottenere che la prima enfatica somma fosse scalata “dal canone”, il risultato fu che la ristrutturazione la fece “a titolo gratuito”. Deduzione logica della Sarzanini: “Tenendo conto che il canone annuale è di complessivi 96 mila euro, se Proietti dice il vero, per due anni quell’appartamento non è costato a Milanese e a Tremonti neanche un centesimo”. Ancora rogne e fango, dunque. E passiamo al “ricatto” che Cola avrebbe fatto a Tremonti, secondo il loquace Di Lernia: “Gli disse che se non confermava Guarguaglini alla presidenza di Finmeccanica avrebbe svelato le sue porcate e quelle del suo consigliere”. E scusate se è poco. Lo è tanto…poco, che amici e consiglieri (anche non gallonati) scendono in campo a soffiare (o gridare) consigli e suggerimenti, mentre la magistratura s’impiccia delle dichiarazioni tremontine sul presunto spionaggio (addirittura con pedinamenti!). Intanto il meteo politico va a burrasca sopra il capo del ministro, e il governo non gode di migliore salute: tra spine della speculazione a bersaglio Italia, malumori e baruffe più o meno chiozzotte all’interno della compagine (stavo per distrarmi dai tasti che volevano scrivere compagnia!), sospetti e ardori spenti tra Pdl e Lega, e altro malocchio che tacere è bello, la precarietà sembra la cifra più adatta a leggere il futuro del governo. Con buona pace del premier che annuncia un messaggio (o un più modesto discorso di circostanza) alle Camere.
Tornando al sempre caldo caso Tremonti, l’amico Berlusconi, come la prende questa disavventura del suo ministro e già amico? Pubblicamente esibisce parca e tacita (troppo tacita) solidarietà, in cuor suo è probabile che ne goda: è stato così rompiscatole, l’amico, con la sua serietà-severità! Fino ad accendere baruffe con lui, invano eminente numero uno della compagine esecutiva. Forse il ministro conserva un po’del moralismo di quand’era deputato del Patto Segni – avrà pensato don Silvio. Certo è che pare difficile dissentire dalla “raffigurazione” umoristica di Giannelli. Vignetta di ieri, primo agosto: un Berlusconi al ristorante, un Alfano in cravattino (entrambi a mezzo busto) che domanda (nel titolo) “Il signore desidera?”, e il Berlù che ordina un “Tremonti alla milanese, impanato e fritto”, due Tremonti a figura intera su due piani verticali, il primo sopra un letto, il secondo dentro un padellone sul fuoco, avvolti nella classica nube del desiderio figurato.
A proposito di consigli (non richiesti), il moralista Giuliano Elefantino Ferrara, in un’intervista al Corriere, si dice sorpreso del comportamento di Tremonti (evidente l’idealizzazione precedente la sorpresa!), e, generoso com’è, distribuisce pareri e consigli: ha peccato di “ingenuità e sciatteria, ora è necessario che si scusi”, anzi che “dia le dimissioni”, ma altrettanto conveniente è che “Silvio le rifiuti!”. Infatti, “questa vicenda non fa comodo a Berlusconi. La corrosione del ministro dell’Economia non conviene al governo”. Ipse dizit. Ma intanto il caso è tutt’altro che chiuso o avviato a chiusura. Il citato Corsera ostenta un Tremonti grande tra due titoloni poco idilliaci: Tremonti e il caso Capaldo, io completamente estraneo (estraneità non ancora dimostrata), il secondo: “Milanese si accordò per gonfiare i lavori fino a 400 mila euro”. I pm. Patto in cambio di appalti. Baruffe più fragorose coinvolgono altri nomi e personaggi raccolti attorno alle vicende di mazze e mazzette sugli appalti Enav e Finmeccanica. Il sommario del Corsera citato condensa l’ampio servizio di Fiorenza Sarzanini (pg. 3) in queste righe gonfie di palpiti: Nei verbali accuse a cinque politici (titolo). “Tommaso Di Lernia, il costruttore agli arresti per aver pagato la barca a Milanese in cambio di appalti, accusa altri tre politici di centrodestra e uno dell’Udc di aver preso tangenti per l’assegnazione delle commesse di Enav e Selex. Uno di loro è Aldo Brancher. Gli altri nomi sono ancora secretati. Di Lernia parla anche del ministro dei Trasporti Altero Matteoli come ‘politico di riferimento per le aziende che operano a Venezia’”. Ulteriori espansioni dei casi aperti rompono gli ultimi freni e le baruffe inveleniscono ben al di là delle goldoniane chiozzotte, liberando malumori e risentimenti che sciolgono lingue svelte e perfino biforcute: un vero gioco al massacro delle reputazioni meno sospettabili. Ne piovono ancora per Tremonti. Un titolo del Corsera (2 agosto) recita: Critiche e nuove difficoltà. L’isolamento del super ministro: Sopra il titolo, un occhiello-allarme: “Fronti aperti” [in rosso] “Il cavaliere non esclude la possibilità di assumere l’interim dell’Economia”
         Dopo, e dietro, le piogge a grandine sulle teste della florida Destra, troppo inclini al gusto del denaro facile e al disprezzo delle noiose regole, ecco un rovescio anche sopra una testa di sinistra, sopra un Penati di lunga e (alla pacifica apparenza) limpida carriera, che pesa sul groppone del “commilitone” e segretario Bersani. Tangenti, regalini, concessioni e licenze per lavori pubblici ben compensate in varietà di doni e finanziamenti al Partito un tempo comunista, oggi, di gradino in gradino, disceso al semplificato Partito democratico (en passant, nomen banale e di cattivo gusto: imita lo Straniero e offende gli altri partiti: che, non siamo democratici noi?) con trucchi, “triangolazioni” e finzioni varie. E qui si scatena un coriaceo moralista di fresco conio, e ispirazione, che non la perdona neanche ai santi, non accoglie attenuanti e chiarimenti, va giù a testa dritta e corna di toro, livellando al peggio ogni trasgressione, anche minima e di problematica conferma documentale. Specialmente quella dei suoi ex compagni: stiamo schizzando il profilo legnoso di Antonio Polito, un Savonarola inflessibile. Che, come tale, non si dichiara soddisfatto da nessuna ammissione e chiarificazione di Pier Luigi Bersani, da nessuna -per dettagliata che sia-, spiegazione e correttezza comportamentale. Un test di cotanta vocazione può essere il suo editoriale sul Corsera del 27 luglio, tema “Il Pd e la questione morale”. Titolo: Quel che Bersani non ha scritto. Scritto, dove? In una lettera sul Corsera, in cui il segretario Pd enuncia a chiare lettere che la presunta “diversità genetica” del Pd, ed ex Pci  “non esiste più”, e viene sostituita da una auspicata “diversità politica” affidata a regole rigorose “contro la tentazione di rubare” (che servirebbe per tutti i politici, a prescindere dalla diversità di militanza). A cominciare da una legge sulla “responsabilità oggettiva: chi sgarra perde i soldi pubblici” Per un lettore non prevenuto contro questi peccatori si accontenterebbe di questa pacata essenzialità, ma non Polito. Che, tignoso, attacca: “Detto questo, Bersani si ferma ben al di qua di ciò che servirebbe per restituire al Pd l’onore politico compromesso dai casi Penati, Pronzato e Tedesco. Nella sua lettera manca infatti ogni accenno autocritico”. Ma una lettera non può dare fondo all’intero universo comunicativo. E “accenno autocritico” può benissimo “presenziare” restando implicito e sottinteso. Quanto ai suggerimenti di Polito sull’esclusione dei politici da cariche aziendali in enti pubblici, be’, se ne può’convenire, ma perché avrebbe dovuto occuparsene Bersani in una lettera circoscritta a temi ben delimitati? Quanto alla domanda retorica seguente, niente da obiettare: “E non sono forse migliaia gli enti e le aziende pubbliche i cui cda esistono al solo scopo di assicurare poltrone e affari ai partiti?” Niente, salvo sottolineare in negativo l’enfasi di quel migliaia e di quel “solo scopo”. Articolo di spalla sulla “questione morale” (Corsera del 29 luglio), clamante fin dal titolo perentorio, Quel che non torna nella difesa di Bersani. Non tornerebbe la sua presentazione, da ministro, dell’imprenditore Gavio al compagno Penati, nel 2004 presidente della provincia di Milano. Striderebbe, a suo pignolesco dire, questa autodifesa: “Il ministro delle attività produttive conosce tutti i principali imprenditori italiani. Li conosce, non li sceglie”. Manco avesse consumato un omicidio! Era obbligato a prevedere la dubbia correttezza del Penati? Bé, non ha imparato ancora a essere indovino.
         Pasquale Licciardello