sabato 31 ottobre 2009

Susanna, frammento 43


Sabato, 23 settembre
Ore 23,30
Dopo due ore e mezza di degustazione televisiva. Il punto fisiologico. Salute. Palpitazioni cardiache. Trafitture in zona mediastino-intercostale. Ronzio alle orecchie. Naso intasato (peggio del lavandino – che lo è ancora una volta). Rimedi? Eccoli: sigarette, dispiaceri affettivi, tensione nervosa. Veglie: forzate e volontarie. E altro bene farmacologico. Sentimenti: si svolge l’infezione della “gelosia” amicale. Inutile nasconderlo: ce la sentiamo di brutto, tanto mia moglie che io. Io, poi…
Forse è meglio commentare il pasto televisivo. “Studio Uno” è un piatto ricco e gustoso. Gli ingredienti ci sono tutti: da Mina alle gemelle Kessler, da Dorelli a Panelli, dagli ospiti (Sordi, Gassman, Walter Chiari... ) ai balletti (“Che gambe”!), da Nino Manfredi a Bobby Solo, e compagnia bella, nessuno “sgarro”, e soltanto qualche caduta di tensione qua e là. Ma è anche vero che come allucinogeno deviatorio funziona poco: troppi rimandi alla “perfida” Assente. Come ascoltare guardare gustare Mina senza saettarmi nella magia di quella sera sul lungomare di Siderato? senza bruciare nell’accensione di quell’estasi che ce la rapì durante l’esibizione della cantante adorata? Come sentire la voce calda e un po’ nasale di Jonny Dorelli senza svegliare ore di presenza nella casa di lei, intenti, io e Rina, insieme a una parte della sua famiglia (di solito: l’irrequieta Tina, la madre stanca, qualche sorella in transito, il “cacanido” Giacomino-peste); o il tranchant “ghe pensi mi!” di Tino Scotti, o qualsiasi altro “brano”, sketch, scampolo e personaggio di una puntata qualsiasi dello stesso spettacolo? E smettiamola qui, o finirò con lo scivolare ancora più in basso. Ad ogni modo, tanto di cappello alla squadra dello show: Falqui,Wertmüller, autori e registi; Lelio luttazzi e gli altri musicisti e suonatori. E insomma a tutti gli operatori in campo.
Ma così torno al Tema. Ed eccolo di nuovo qua, il Tema. In metafora e in viva carne di ricomposizione mnestica da flash improvvisi. Insomma: non mi riesce di stare saldo su una scelta: o parlare in maschera o spiattellare a… maschera nuda. Tanto, nel guazzabuglio che si viene a pasticciare, ciondolando di qua e di là, questo quaderno non potrà rifugiarsi che in luoghi a rischio minimo e improbabile: vi saranno scivolate sopra chissà quante allusioni bucate.
Ma possiamo parlare pure in chiave amicale. Dopo quello che abbiamo fatto per lei, l’atteggiamento di Susy è (l’ho già scritto?) come una specie di tradimento. “Vi sarò sempre vicina. Non cambierò mai. Non mi sposerò per starvi vicina. Vi aiuterò, vi assisterò quando avrete bisogno”: queste frasi risuonano alla memoria acustica in tutta la loro carezzevole assurdità. Le diceva Susy a mia moglie. La quale ripete che non legherà più con nessuno: non vuole altre delusioni. La prima, in questa terra “bella e amara” (per dirla con uno dei suoi figli più entusiasti ed esuberanti), è stata la rottura con la famiglia La Mela; se n’è consolata, ma ne aveva sofferto meno, perché responsabile, in buona parte, la sua insofferenza per gli eccessi “confidenziali” della sorella Silvana. Questa, con Susy, sa ben più di tosco, e non sarà facile consolarsene. Oh, Susanna!
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Intanto, guarda caso, ieri si è verificato un fatto che fa pensare agli inizi della sua amicizia con Susanna. E’ venuta a trovarmi Didia, compagna di classe di Susy, l’alunna che, dopo Susy, mi ha mostrato più affetto filiale (e qualcosa di più). Siccome io non ero in casa, s’è intrattenuta qui con mia moglie. Hanno parlato per circa due ore, aspettando me, che non rientravo (ero a una riunione d’istituto straordinaria). Didia ha chiesto a Rina di darle del tu, proprio come fece, a suo tempo, Susy. E fu così che la grande Assente cominciò a conquistare la simpatia della pur diffidente Rina. Ora il caso si ripete con Didia. Ma le circostanze divergono per altri versi. Didia abita lontano da qui: dal suo paese, Monasterìa, a Zefiria ci sono circa trenta chilometri. Non è facile frequentarsi con tanta separazione in mezzo. Ad ogni modo, Rina starebbe più guardinga. Così mi ripete. A proposito, ti confido, quaderno, che non ho potuto evitare a Didia il rinvio alla sessione di settembre per le scienze. Ma è stata una scelta sua: per mancanza di tempo, mi confidò, aveva sacrificato quella materia. Altro flash memoriale: Lella La Mela non aveva mai chiesto a Rina di darle del tu: donde, una certa riserva mentale verso di lei, rimasta sempre un poco in ombra rispetto a Susy. Fin dai primi tempi della nostra frequentazione.
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M’è riuscito di lavorare, oggi, in due riprese, nelle ore meridiane e nel pomeriggio, a due articoli in cantiere: uno su Banfi, l’altro su l’Heidegger di Pietro Chiodi. Destinazione di entrambi, la rivista di Volpicelli, I Problemi della pedagogia. Potessi concludere e spedirli domani! Ma so già che non ci riuscirò. Due giorni pieni di seguito? E quando mai è andata così liscia col mio passatempo cultural-pubblicistico? Oggi, comunque, è stato un giorno soddisfatto.
Il che non mi salva da certi ritorni di fastidi nevrotici. Continua ad agitarsi, per esempio, come sfondo emozionale delle mie nugae esistenziali, il fantasma vago della morte. Il fenomeno è più frequente durante il poco tempo del riposo diurno post-prandiale. E’ la vecchia esperienza del “sentirsi” già finito, con appena un’apparenza o residua traccia di vita in chiave di burla tragica. Uno stato intermedio tra essere e non-essere, un fluttuare fra insidenza e lontananza, una corporeità rastremata in denso variante ectoplasma. Ma vedo che non riesco ad esprimere la particolare “sensazione” che mi angoscia. Esprimere: bella pretesa!
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Chi si separa e chi si unisce, così la vie écoule. Ci consoleremo della mia separazione dalla Presenza evaporata in fantasma con l’unione, o riunificazione, dei due partiti socialisti? Che magra consolazione sarebbe, se pur fosse accessibile. Ma come credere alla durata di tanto coniùgio quando tutto suggerisce diffidenza e severità di giudizio? La “nostra” unione è durata quasi tre anni, se la trasferiamo al primo anno della conoscenza scolastica; quella di socialisti e socialdemocratici quanto durerà? Alle prossime elezioni l’ardua sentenza.
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Ragazze tentatrici, stamattina, agli esami di maturità riparatori. Una mi ha stretto addirittura il braccio con la sua bella mano sinistra accompagnando il gesto a uno sguardo acceso di ambigua disponibilità (dio, che occhi! E di iride gattesca, poi.). Un’altra mi si è strusciata addosso con le sue solide prominenze femminili. Ahimé, maliziose attentatrici! Siete belle, lo so. E quanto mai appetibili. Lo vedo. Ma no, non sono disponibile. Per tante ragioni. Una migliore dell’altra (o peggiore). Dimenticavo: non si tratta di alunne mie, ma dell’altro corso che “rappresento”. Le mie sono più sicure della funzione protettiva del loro professore. Le altre, un po’ meno. E allora... Si combatte con le armi che Natura ci ha dato. Le vostre, carissime, sono di sicuro effetto, ma lontane, in questo caso, dal traghettare emozioni in azioni. Vi aiuterò, certo, ma non potrò fare miracoli. Grazie, comunque, degli assaggi.
Vaghe piume di sospetto salgono da questo accidens inatteso: che svolazzino, nell’aria disponibile della chiacchiera zefirese in chiara fama di pettegolezzi, voci “calunniose” sulla sensibilità del professor Paolo Assaggi al fascino del gentil sesso? La calunnia è un venticello...

4 ottobre,
ore 7

“Se vuoi andare, vai, io non ti fermerò… l’amore viene e va…Io non capisco come…se mi volevi bene… perché m’hai lasciato…Non ti diverte più volermi bene...dici che stiamo troppo insieme… e te ne vai… Sogni amori da fotoromanzo…”. Canzoni alla radio. Ora vi si mescolano strilli di mio figlio, che mi chiama come sull’orlo d’un baratro: papà papà papà papà… Canzoni: “Se tieni un poco a me, amore, ascolta…” “Papà papà papà…” “Se busserai alla mia porta, sta certo amore che ti aprirò…Io t’amo, e poi la vita è corta,… se tornassi io ti aprirei…” “La Gazzetta, La Tribuna, giornali…”. Altri strilli: passa il giornalaio ambulante, sotto le finestre, sulla strada fresca del mattino sereno. “Un santo al giorno, a cura di Piero Bargellini. San Francesco d’Assisi… il giullare di Dio… morì sulla nuda terra…lasciò tre Ordini fiorenti…”. Compro la Gazzetta dello Stretto, sfoglio, cerco: Niente. Non c’è il mio “Nietzsche”. Disappunto. Colazione col bambino a lato. Che parla, e parla: “Quando finiamo di mangiare mi porti all’asilo, nell’asilo non ci sono le suore?” “No, oggi no”. “Domani?”, “Sì, domani”. “Non ci vengo all’asilo domani”. “Vedremo. Intanto pensa a mangiare”.
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James Joyce, pagine autobiografiche. Nel coktail in corso, mettiamo anche lui.
“Questa volta, come mai prima, il suo nome strano gli appariva profetico. Tanto fuori del tempo appariva la grigia aria tiepida, tanto fluido e impersonale il suo stato d’animo, che tutti i secoli erano per lui come uno solo […]Un uomo in forma di falco, che vola verso il sole, sopra il mare: una profezia dello scopo che egli era nato a servire, e che aveva seguito attraverso le nebbie dell’infanzia e dell’adolescenza: un simbolo dell’artista che rifoggia nel suo laboratorio dalla materia inerte della terra una nuova creatura, ascendente, impalpabile, indistruttibile?[…] Che cos’erano, ora, altro che bende cadute dal corpo morituro la paura in cui aveva camminato notte e giorno, l’incertezza che lo aveva circondato, la vergogna che lo aveva avvilito, interiormente ed esteriormente: che cos’erano altro che bende, sudari del sepolcro? /La sua anima era sorta dalla tomba dell’adolescenza, rigettando i suoi lini mortuari. Sì! Sì! Sì! Avrebbe creato superbamente dal fondo della libertà e della potenza della sua anima, simile al grande artefice di cui portava il nome, una creatura viva, ascendente e bella, impalpabile, indistruttibile. […]”

Deliri e altre juvenilia perdonabili al cospetto di un riscatto di tutto rispetto (cacofonia voluta). Intendo, “Ulisse” e i racconti, i Dublinesi, non certo Finnegan’s wake, mega-esempio di ingegno e tempo sprecati, macroscopico test di funambolismi linguistici ed ermetismi semantici esteticamente insensati e culturalmente sterili (salvo momenti di relativa “pacatezza”- e sia pure sempre tanto “enigmatica” : Anzi, “enigmistica” . Scriverò mai un saggio sul Joyce migliore? Ai posteri l’ardua... O la facile sentenza? Ma trascritti, quei voli lirico-titanici su queste pagine rigate, con penna biro a inchiostro verde, perché? Perché ingranano con il mio subbuglio interno: vi sento un’ironia punitiva e cattiva. Sulle mie aspirazioni letterarie. E le relative “espirazioni”
Tornando al Finnegan’s wake. L’unica “giustificazione” esistenziale è il divertimento che ne deve aver tratto l’autore. Difficile misurare con quale dosaggio sadico: di sicuro, una quantità superiore, e di tanto, a quella iniettata nel già sadicissimo Ulisse. Ho cominciato ad assaggiarne l’inizio più volte e me ne sono ritratto nauseato a poche pagine dal “proviamo!”. Magari quando sarò vecchio (“se di vecchiaia la detestata soglia”, ecc.) leggerò un saggio sull’ultraermetico testo per sapere quali e quante allusioni plurivalenti vi sono. Naturalmente, il sadismo di cui si parla qui appartiene al genere traslato-sublimato in dimensione interiore: emozional-traspositiva.

Ore 7, 45. Questo strano convergere allusivo di suoni e rumori, parole di canzonette e frasi di letteratura; di voci innocenti e strilli di strada; di sentimenti imbavagliati ed emozioni trafitte (sulla punta aguzza dell’inganno patito); questo piccolo impasto caotico ha avuto libero corso per distrarmi da altro, da “quell’altro” che rode.
*
Ieri abbiamo trascorso una giornata quasi intiera con il professore Dell’acqua e la moglie, nostri ospiti. Abbiamo pranzato al ristorante dell’albergo Panda di Buffalino (un altro dei paesoni costieri della Calamagna jonica), dove il presidente della nostra commissione ha alloggiato per la durata dell’intera sessione estiva degli esami zefiresi. Abbiamo mangiato bene e con modica spesa. Certo, per un riguardo al nostro ospite e signora. Un beneficio di riflesso per me. Clima di sentita cordialità conversevole (le donne e signore con più generoso slancio e molteplicità di temi). Prevalente, l’argomento esami e compatibile contorno. Siamo rientrati a Zefiria verso le quattro meno un quarto, e preso il caffè al bar “Arcobaleno”, di cui mi sono antipatici proprietario e personale. Vi abbiamo incontrato gente che ci ha fatto perdere tempo. Prima, un mio ex alunno. Ci vede fuori del bar, me e il professore, in attesa delle nostre mogli intente a consumare il gelato all’interno, e sente il dovere-bisogno di fermare la macchina accosto al marciapiede. E via con i “come state professore?”, e “bene, grazie, e tu?” Presento Dell’acqua: “Il professore, lo conosci?” “Oh, carissimo professore, non vi ricordate di me? Se ho preso il diploma di ragioniere, nel ’61, per il 95 per cento lo devo a voi!” Io, touché: “Ah, dunque voi siete stato presidente di commissione all’istituto tecnico di Siderato nel 1961: quell’anno, 1960-61 io vi avevo insegnato inglese seconda lingua.” “Come, inglese? Che c’entra con la filosofia e la pedagogia?” “Ma come, presidente, non conosce l’estrosa inventiva dei nostri generosi legislatori?” “Già, è vero: in Italia si sono fatte leggi per una sola persona, per esempio la nipote di un ministro.” “Vera o posticcia. O anche per l’amante più o meno palese.” “Ma lei, l’inglese...?” “Studiato quattro anni al liceo scientifico, tre all’università, e praticato sulle spiagge di Taormina” “Ah, ah! abbiamo fatto anche il latin lover!” “Oh, poca cosa, quanto al lover, ma insomma! Naturalmente, ho insegnato la lingua da supplente annuale” “Naturalmente. La sua titolarità di ruolo riguarda le discipline filosofiche, no?” “Certo. E data appena da quest’anno. Anche se il concorso è stato bandito due buoni anni fa.” Intanto si ferma un’altra conoscenza scolastica, con la coda di altro estenuante bla bla bla memoriale (si sente che sono di umore un po’ acido).
Si va a casa nostra, e vi sostiamo ancora una mezza oretta chiacchierando. La signora torna a parlare di Susanna, chiede notizie, con sobria reticenza le diamo sulle vacanze pugliesi di lei, fratre auctore, e sulle reiterate promesse di suo imminente ritorno. Poi la presidentessa ripete gli apprezzamenti estivi sulla bellezza rara di Susy. Forse (ma no, senza forse) nel tono del nostro parlarne, e più ancora in certa silenziosa accoglienza dei suoi elogi, affiora un alito di delusione per la “misteriosa scomparsa” della ragazza, tanto beneficata. Ancora meno incerta la sensazione che la signora avrebbe riempito volentieri un altro segmento del suo tempo con oblique investigazioni su quell’assenza così ingombrante. Quasi certamente, la sua discrezione ci ha risparmiato una sincera comprensione della signora e magari una replica del vecchio sermoneggiare sulla mutevolezza dell’animo umano e la facile ingratitudine che ne rampolla.
Infine accompagniamo la coppia al liceo classico della cittadina, dove ci attende il preside Gurrero, che ci intrattiene in Presidenza, con caldo caffè e pettegolezzi di scuola. E passano ancora quaranta minuti. Indi, saluti e baci. La signora Dell’acqua svampa di un’ultima fiammata d’affetto per Rina, rimpiangendo che ci siamo conosciuti così tardi, rammaricandosi di non potere sostare più a lungo con mia moglie. La quale, un po’ imbarazzata, ricambia come può effusioni e promesse di rivederci appena possibile. Inutile dirti, quaderno, che la signora ha sparso a piena e convinta fonetica i consueti commenti-complimenti sulle grazie di Rina: per tutta la durata del piccolo tour.

Stesso giorno.
Ore 12, 15.

Sulla Gazzetta letteraria di oggi un carteggio-chicca tra Giuseppe Villaroel e Adelaide Bernardini, la “sposa bambina” di Luigi Capuana distrae il pensiero dal grande cruccio. Le lettere del poeta bruciano gli occhi più del rosso inchiostro che le trascrive su queste pagine: tale è la piaggeria, la fregola lecchina del giovane adulatore rampante. Eccole, alcune di quelle frasi tutte miele e incenso, rivolte alla poetessa per giungere all’autorevole marito plurititolato.
Soave scrittrice, Ella non mi negherà la sua validissima collaborazione, anche in nome [...] della mia ammirazione profonda verso la sua opera [...] Voglia essere cortese porgere i più rispettosi miei ossequi al venerando Maestro Suo nobile consorte” (Lettera del 18. lu. 1910). Nobile Signora, Ella sarà anche cortese farmi ottenere dall’illustre Maestro un di lui breve scritto. Anche pochi periodi. Ella può tanto, ed io confido molto nella Sua cortesia e nella bontà del Maestro [...] (Data?).
Eletta Scrittrice, Ricevo la Sua gradita qui a Larderia nella solitudine dei castagneti interminabili che chiudono – solenni templi vegetali – nelle loro ombre profonde l’anima del silenzio e del mistero. Immagini Ella me raccolto in uno di questi enormi templi della natura col pensiero ed il cuore rapiti dalla Sua lirica meravigliosa. Le confesso che Ella non è mai riuscita a trascinare l’anima sino al delirio come in questo splendido volume di versi. Opere egregie e imperiture Ella aveva dato sin oggi, ma non opere che il lettore potesse fare, per dirla con Ada Negri, suo sangue e sua carne (22. 09. 1911).
Il 30 dicembre 1911 Villaroel augura alla “eletta Scrittrice” trionfi splendidi per il nuovo anno, a Lei e al venerando Maestro. Passano gli anni, la musica cambia poco o niente, refrattaria alla “maturazione del tempo”:
Illustre Scrittrice,[...] Ho letto e riletto le Sue veramente belle e profonde poesie e ho tratto motivo di uno straordinario godimento intellettuale. Questa mattina ebbi l’onore d’una visita dell’illustre Suo consorte [...] (06. 01. 1914).
Eccetera eccetera, sempre su questo registro. “Crescendo”, come accade anche ai ritardatari, don Peppino migliorò, certamente; ma queste involontarie “confessioni” oblique della giovinezza impaziente e adulatrice restano preziose per misurarne anche la schiettezza e la profondità future: che sono quelle del buon letterato di media stazza, ignaro di assorta sintassi e scarso di innovatrice creatività. A proposito, Villaroel è morto quest’anno.
Lo scampanio adulatorio del Villaroel me ne ricorda un altro, allogato in un altro autore sicanico, più robusto del conterraneo, ma altrettanto ambizioso e incline all’uso dello stesso strumento. Stiamo parlando di Vitaliano Brancati, che nella sua giovinezza rampante sciupò tempo e intelligenza adulando il Duce in acerbi romanzucci gonfi di esaltazione enfatica: L’amico del vincitore, Everest e simile broda. Non solo: si appostava agli angoli di certe vie per cogliere l’occasione di poter salutare quel numero Uno. Salvo, poi, a regime declinante, fare marcia indietro. Ma spostando solamente il vizietto: adulando Croce, come l’unico riscatto dell’italietta fascista. Peccati di gioventù? Sì, certo, ma illuminanti nell’ottica di una “critica fisiologica” alla Gulizza. E sia detto senza togliere meriti all’autore del Dongiovanni in Sicilia, del Bell’Antonio e di altre buone scritture. Buone: ma quanto distanti dalle vette leopardiane manzoniane dantesche, e via esemplando e dosando?
*
Sullo stesso foglio, nell’ottava puntata di quell’interminabile, insulso, fantasioso pseudo-saggio di un tale Pietro Degli Apostoli sul Novecento magnogreco sono citate queste parole di Giuseppe Tedeschi su Lorenzo Calogero, il poeta di Melicuccà morto nel ’59 “misteriosamente” (e scoperto di recente): “Tutto ha contribuito [alla sua morte], il suo carattere introverso e psicastenico, la sua estrema ricettività del tragico, la sua diffidenza patologica, l’insonnia perenne, il disordine psichico e fisico in cui da diecine di anni viveva, la impressionabilità e la tendenza al pessimismo, al maudit e ai testi di questa natura, un po’ la sua natura di decadente e di lettore dei grandi testi del decadentismo romantico.” Alcune (non pochissime) di queste parole potrebbero essere state scritte per me. E qualcuna delle seguenti, stesso contesto: “Era come era, decadente e vittimista, un caso patologico, un pavido, un non impegnato...”. Parole taglienti, peraltro, queste ultime, che accendono repulsione e tentativi di rivalsa sull’autore. Ma, almeno fra noi, vero quaderno? dobbiamo accoglierne l’eco nel nostro interieur: non foss’altro, come solletico d’allarme. Fastidioso, certo, ma forse anche utile. Quanto all’autore del giudizio su Calogero, be’, è evidente una certa “boria”, da sano che giudica il malato. Giudica e manda, con la nonchalance sprezzante dell’engagé tutto preso (forse) dal sol dell’avvenire (del quale, tuttavia, conviene conteggiare nuvole e nembi di certissimo inciampo). L’ennesimo fanatico? Forse no, ma certo un illuso della categoria “Rifaremo il mondo”. Noi, si parva licet, siamo più modesti: non siamo disimpegnati, come sanno i cinque lettori dei nostri articoli politici; siamo timidi e introversi, ma non pavidi né inibiti alla Jean Jacques o da altro “caso patologico” (per esempio, Baudelaire, che non era, neppure lui, un divoratore di folle). Quanto al pessimismo, che già ci viene attribuito, come fare, quaderno, a convincere i nostri amici ed estimatori impensieriti, che la nostra chiaroveggenza non è pessimismo ma lucidità? Confortata, oltre che dal nostro amico-maestro Gulizza, dal prof. Rama e da pochi altri amici lontani, come quel limpido campione della “ragione lucida” che risponde al nome glorioso di Albert Camus (per tacere del “mostruoso” precursore Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro di Recanati). Infine, un appuntino al Tedeschi, inutilmente prolisso e ripetitivo: il giudizio su Calogero avrebbe guadagnato da una più raccolta densità verbale alleggerita da ripetizioni sterili.

5 ottobre. Ore 12

Che silenzio assordante dall’astro lontano: né luci né suoni. Non sospiri di ripensamenti, non chiarìe d’aurora rifiorente dalla cupa notte. E allora, che fare, sopra queste righe deserte, se non distrarsi dal gran vuoto? C’è ancora sul tavolo di questo similstudio in attesa del mite pasto centrale il foglio della Gazzetta letteraria di questa settimana: raccogliamovi altri giudizi sul buon Lorenzo indennizzato post mortem. Sorprendiamo il “portentoso” Leonardo Sinisgalli in un volo lirico: In questi giorni una grande bizzarria è venuta a gettare nuova luce sulla natura della poesia e sui portentosi risultati delle sue irriproducibili operazioni. Il demone dell’analogia, della similitudine tiene in soggezione un uomo da oltre venti anni[...] I libri di Calogero, specie gli ultimi due, dovrebbero finalmente restituire ai nostri critici la fiducia nei poeti. E ora una presa in diretta del nuovo Immaginifico, così poco dannunziano, insomma una sua “tipica” poesia:
Ma non m’interessa più della vita / Oggi mi curo della morte. / Fra poco e alla svelta morrò / perché anche tu con me sul lago / verrai domani. E la pelle è adunca / o si screpola appare sbadiglia. / Con te tergiversare non vale una lunga pena. / Poco mi interessa ella; / ora vergine sbadiglia / e il sangue è fluido o fila medesima cosa. / Tu come giunco fresco / un narciso hai messo alle nari.
Che dire? Ah, il demone dell’analogia! Com’è facile abusare del titillamento cortocircuitale. Non è banale, no, il vibratile Calogero, ma, nel suo tipico, un poco unermesslich, scarso (a volte privo) di misura. Fino al nonsense non voluto, quasi meccanicamente indotto. Ma certo questa composizione non s’accuccia fra il meglio della sua varia e vibratissima produzione diseguale.

Domenica, la cerimonia per il conferimento del “Premio Calamagna”. Gulizza, che fa parte della giuria, mi ha invitato a Sanvilla. Ma avrò da fare domenica 9 ottobre (se sarò ancora in questa frivola vallis lacrimarum). Uno dei premi è stato assegnato al molto rispettabile scrittore tedesco Heinrich Böll (del quale non ho letto ancora nulla). La notizia lo ha raggiunto sul treno che lo portava a Mosca. Felicitazioni.
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Ore 13. Oggi, per la prima volta dal 9 agosto, rivediamo Tina, la sorella minore di Susy. Passeggiava in bicicletta e s’è fermata davanti alla mia finestra aperta sulla via Massaua. Abbiamo parlato un po’, lei dalla strada io dallo studio, ma solo “del più e del meno”: non le ho chiesto di Susy. Poi l’ho invitata ad entrare in casa. Dove s’è fermata a conversare con mia moglie. Il piccolo ha provato a impegnarla nei suoi giochi, ma con modesto successo. Lei, precoce in tutto, s’è fumata, sponte sua, una mia sigaretta, pregandoci di non dirlo ai suoi. Neanche Rina ha chiesto di Susy. Facciamo i sostenuti, per dirla in gergo. E certo Tina, che non è di mente tarda, capisce il sottinteso del nostro risentimento verso la sorella misteriosa. Al commiato, le abbiamo affidato i più convenzionali saluti per la famiglia.

Ore 13, 40. Canzoni alla radio. A domani, amore,/ a domani, come sempre...(Mary La Foret). Verrò e ti porterò via con me[...] Non so più vivere senza di te [... ] Lo so, sbaglierò / se dopo tanto tempo / tu non mi amassi più [...] Lo so... ma ormai la vita mia è nelle mani tue[...] Verrò e ti pregherò perché / un’altra volta tu ritorni a me. / Verrò e ti porterò via con me [...]. (Gene Pitney)

Dio, come sono caduto in basso. Che miseria questo masochismo alla canzonetta. La dolciamara tortura di carezzare la piaga con gli artigli vellutati di sciocche canzonette popolari (ascoltate al transistor, en attendant ma femme en train de sortir, o tra un’occupazione pratica e l’altra) riempie, a modo suo, il Grande Vuoto. Ma è un modo, tutto sommato, alquanto derisorio.

L’ombra dell’ironia avvolge inutilmente le parole grosse, le frasette drammatiche. Vogliamo convincerci, quaderno, che si può scherzare sul “masochismo alla canzonetta.” Procediamo come se un pudore residuo ce ne distanziasse. Oscillando, insomma, tra il bisogno di dire chiaro e il freno del timore di occhi ostili sul chiaro dire. E perché, poi, le canzonette sarebbero sciocche per essenza e statuto? Se calzano come fossero offerte intenzionalmente al nostro bruciore affamato, non possono essere sciocche. Non del tutto. Né mancano, riscontri personali a parte, rispettabili prodotti, in quel molteplice cantiere canoro. Sia per i versi che per le note, col top nella sintesi felice. Rara, codesta, è vero, ma non impossibile: il genere, da Celentano a Mina, da Peppino di Capri a Sergio Endrigo, da Fred Bongusto a Buscaglione (per fermarci ai primi nomi caduti in punta di penna) offre un nutrito florilegio di quella sintesi, e buoni esempi di parole non sciocche. Ma vedo che ho ricordato più i cantanti che gli autori (di parole e musica): mi è più facile. E ho taciuto sugli stranieri, non per discriminazione.
Questa radiolina Philips a transistor è il regalo più azzeccato che abbia ricevuto da molto tempo a questa parte. Mi ci ascolto le lezioni di lingue straniere, il giornale radio, le rubriche varie... E le canzonette sciocche che ingranano col digiuno dolente. E perciò non sono più sciocche. (repetita iuvant?)

A che serve il sole se non scalda più? Non conta niente il [parola sfuggita] ... A che serve il mare se non ci sei tu[...] A che serve questa bella vita senza te? [...] Non mi importa... Vorrei che tu tornassi...Il resto già lo so, non conta niente[...] Io rinuncerò a tutto se tu torni con me [...] Non sopporto più che tu mi sia lontana /Io senza di te non sono niente...

Non sembrano scelte apposta? Apposta per grattare la ferita aperta? E sia pure con qualche inevitabile sfasamento enfatico: chi potrebbe dire mai “Io rinuncerò a tutto se tu torni a me”? E dimmi, quaderno, perché sento il bisogno di distinguere precisare distanziarmi dalle frasi troppo impegnative? Dalle parole totalizzanti? Tutto, Niente: che lessico metafisico. Sempre, Mai: Crono se la ride sopra questi avverbi tranchant. Rimane, nella sua modestia empirica, il fatto che l’Assenza artiglia le viscere, brucia d’arsura la gola, comunica il senso di una mutilazione.
*
Oggi si è fermata ancora Tina, che passava per la nostra strada. E neanche stavolta le abbiamo chiesto di Susanna. La novità è che ha preso lei l’iniziativa di parlarne. E, nientedimeno, per annunciarne l’ormai prossimo rientro. Dice che comincia a sentire l’effetto delle cure e che si sente meglio. Salvo complicazioni ─ aggiungo io. “Saremo felici di salutarla, cara, se vorrà venire a trovarci.” Lo dice mia moglie, lo dico io, lo diciamo insieme simultaneamente, come se recitassimo un precedente accordo. Vedi comunanza di sentimenti. E risentimenti. Stavolta niente sigaretta: meglio caramelle. Ha portato un po’ in giro il bambino sulle strade vicine sgranocchiando le caramelle al miele. Che si saranno detti? O piuttosto, che cosa avrà saputo dire lei al bambino confuso da quella strana latitanza inspiegabile?

13 ottobre, ore 6

Mi ha svegliato alle quattro un sogno traboccante: lo voglio “appuntare” su queste pagine.
Stavo con mia moglie, e probabilmente il bambino era con noi, in un luogo curioso, fatto di strade bianche, spazi vuoti, aiuole, forse anche un praticello cittadino. Sembrava una zona di periferia, tutta pianeggiante, con larga visibilità. Stavano con noi delle ragazze. Una era Lidia Codesposi, una mia alunna di IV E, cioè una compagna di classe di Susy, e soprattuttto sua intima amica. Arriva una macchina sulla via parallela alla nostra, si ferma all’altezza del nostro gruppo. Tra noi e la macchina in arrivo c’era uno spiazzo biancastro, vuoto, immerso nell’ “idea” che non fosse percorribile da qualsiasi motore: un marciapiede? O qualcosa del genere. La macchina era una Millecento, forse; di colore avana, mi pare, con qualche striscia marrone. Però non era il modello che porta quei colori, era del tipo più recente. Piena di occupanti: vi si scorgevano figure femminili, dietro i vetri mezzo appannati degli sportelli: certo, delle ragazze. Ne scesero alcune. E d’un tratto sentii ─ ma non so come, né da quale voce di ragazza ─ che con quella macchina arrivava Susy. A rimemorare, non sono più sicuro nemmeno che qualcuno l’abbia detto. Probabilmente, sì, ma molto oniricamente, senza puntelli di logica empirica. Guardai attentamente la macchina, cercai di vedere bene le ragazze che scendevano. Una la individuai subito: era Nuccia Speciale, ancora una compagna di classe di Susanna, e una compagna amica. Entrambe queste ragazze sono state davvero buone amiche di Susy: le vedevo spesso insieme, andavano a trovarla a casa nei momenti di crisi, studiavano, a volte, in gruppo. O magari ora con l’una ora con l’altra. Lo scorso anno era prevalente la frequentazione con Speciale, quest’anno con Codesposi. Io guardavo, dunque, in direzione della macchina. La Codesposi, che mi pare badasse al mio bambino, si voltò a guardare me e la macchina. Sentii il nome di Susy pronunciato da non so chi. Ma non udii “Susy”, o “Susanna”, udii “Renate”. E non ci trovai nulla di strano: mi parve il nome giusto, assolutamente. Tanto che postillai, rivolto a non so chi in particolare, che giusto oggi era santa Renata. E guarda un po’, Susanna-Renata tornava da Taranto per festeggiare l’onomastico. Chi l’aveva detto? Come lo sapevo? Mistero. Ma confrontai la notizia dell’inatteso ritorno di Susy con un’altra, che la doveva escludere: Susy aveva scritto ai suoi che sarebbe tornata da Taranto soltanto dopo la prova scritta di ammissione al Magistero. Che sarà il 12 novembre.
Ma da dove sbuca fuori questo bel nome, Renate? Dai caldi ricordi dell’estate di quattro anni fa: Renate è il nome di una bella bionda tedesca che, inspiegabilmente (non aveva trovato di meglio?) mi aveva concesso le sue ben nutrite grazie turistiche in quel di Taormina, malgrado il marito presente. O forse col suo evoluto consenso. Sì, è più probabile l’evoluto consenso. Tanto facilmente il buon Arthur si lasciava distrarre dal mio amico e collega complice Orazio Sorbeto. Ora sua maestà il Sogno applicava la sua logica nient’affatto dicotomica, pasticciando tra due realtà galanti accomunate, sì, da varie qualità e condizioni, ma di fatto molto lontane, nel prevalere delle circostanze discriminanti.
Intermezzo: mi pare di ricordare che di Renate ho già parlato su queste pagine. Devo controllare. Ma perché, poi? Con tante ripetizioni, una di più che fa?
Susy non scendeva dalla macchina. E mi pareva naturale, data la mia presenza per lei imbarazzante. Meno ovvio mi appariva il contegno di Rina: come mai così serena, senz’ombra di cruccio in volto? Dov’era finito tutto il suo risentimento verso l’ingrata amica? Pensai: se non si mostra offesa dal suo comportamento, forse immagina che Susy ritenga più opportuno fare così. Ma perché? – mi chiedevo. C’erano stati forse dei pettegolezzi sui miei rapporti con lei? Si erano risaputi in famiglia? Forse Susanna riservava le effusioni per quando fosse venuta a trovarci in casa? Ma sarebbe, poi, venuta? Oppure si considera già fuori della nostra amicizia? Tormenti, insomma, anche nei sogni. E stavolta come nella realtà: alimentati da quello strumento di tortura impareggiabile che è il silenzio. Il silenzio dell’invocato, della persona amata: che c’è di peggio? Quello di Dio ha portato alla disperazione devoti e mistici. Susy non è Dio né la Vergine Maria (vedi gragnola di maiuscole ad hoc), ma quale persona amata non replica, in piccolo, e in misure varie, la potenza della divinità? Vecchi ricordi mi assalivano: conoscevo quella tortura fin dalla prima adolescenza.
Ci staccammo, io e mia moglie, dalle occasionali compagne, e ci avviammo. Ma il bambino, c’era o no con noi? Nel ricordo mi pare come se ne avvertissi, in sogno, una presenza diminuita, evanescente: voleva dire qualcosa? Che l’egoista Eros era predominante anche sul figlio, sulla carne della mia carne, pur così amata? Passammo vicino alla macchina posteggiata, e ancora piena di ragazze quasi in attesa di un evento. Infatti: una di loro aprì lo sportello e si sporse: sbilanciando il corpo, una gamba si distese fino a toccare il suolo col piede destro. Ed era lei, Susy. Inattesa in quel gesto tardivo come un sole in quella sera crepuscolare. Sì, una specie di miracolo.
Susy va incontro a Rina (seguo l’evento sbalordito e ammirato). Rina, visto il gesto di Susy, si ferma (ma c’era il piccolo?). Io ammiro, sì, ma proseguo, sostenuto (ero solo o con Giampiero? Forse col piccolo). Devo fare dimostrazione di risentimento: non ero più che giustificato? Proseguendo, mi fermai a una certa distanza da loro e vidi che si scambiavano rituali baci sulle guance. Continuai a camminare, lento, impegnato nella parte che recitavo, ma felice dello sblocco, di quel silenzio avvelenato che s’infrangeva. Una bella litigata, al dunque, valeva molto più che quella tacita blindatura formicolante di pensieri inaccessibili. Camminando, costeggiavo un muro, dietro il quale s’intravedeva un giardino pubblico (una copia dei giardinetti di Zefiria, dove tante volte ci eravamo incontrati, io col bambino e lei felice di portarselo dietro e comprargli dolci o giocattoli  ma dov’era, ora, Giampiero? Com’è che nel ricordo non vedo la sua figuretta mobilissima?)
Rina sta ancora con Susy: parlano fitto, vedo. Entro nel giardino. D’un tratto fu buio pieno. Penso di aspettare mia moglie, o entrambe (sarebbe venuta all’incontro Susy?) dentro il giardino. Ma c’erano tanti viali, diverse uscite: pensai che probabilmente non mi avrebbero visto, ci saremmo persi. Torno sulla strada e svolto l’angolo (un angolo apparso giusto in quel momento). Dietro l’angolo c’erano loro due, Susy e Rina, che, vedendomi, interrompono il loro conversare. Dico “buongiorno”. E lei, pallida, risponde, rivolta a mia moglie: “Con il professore dobbiamo parlare, poi...” . Capivo: era un’allusione alla lettera piena di rimproveri e rinfacci che la mia cattiva consigliera, la rabbia, mi aveva dettato, che io avevo scritto e improvvidamente spedito. Ma della quale (pur essendo trascorsi ormai vari giorni dall’invio) non mi sentivo affatto pentito.
“Cos’hai da dire?”, risposi in tono di sfida. Sono stato anche troppo discreto e cavalleresco, tutto sommato. Intanto, per avere indirizzato a te personalmente la lettera, senza farla passare, come le altre volte, per le mani di tuo fratello. E poi, ti ho detto soltanto la metà di quello che avrei potuto, e potrei, dirti... O forse devo pensare che i tuoi nuovi parenti, o tuo fratello in persona, ti controllino la corrispondenza?” “Nessuno me la controlla... Ma, quello che mi avete scritto, secondo voi, lo meritavo?” “Te l’ho detto: secondo me, meritavi di peggio” “Sì, vero? E va be’!” – Come mai così mansueta? – mi chiedevo. “Hai pure il coraggio di reagire?”– infierivo.
“Ci dicevi che non avevi voglia di andare a Taranto, e invece ne avevi una gran voglia. Sei partita per restare dieci giorni, e sei rimasta due mesi.” “E debbo tornarci subito, se è per questo” “Ecco, vedi? Ci scrivevi di essere malata, di avere l’esaurimento, il cuore a pezzi... Che il medico ti aveva proibito fumo caffé e alcolici, che non riuscivi a leggere una pagina intera perché ti prendeva subito il mal di testa. I tuoi, tutte le volte che ci incontravamo, ci ripetevano la stessa storia: doveva venire ieri, o domenica, o stasera, ma ha dovuto rimandare perché s’è sentita di nuovo male, ha avuto un attacco di emicrania, palpitazioni di cuore e chissà che altro; ma verrà la settimana prossima. E poi, per caso, e per bocca dell’innocenza, cioè del tuo fratellino, venivamo a sapere che saresti rimasta fino a dicembre, perché ti eri iscritta al magistero e studiavi con la tua cognatina, tanto brava e preziosa... Dov’era andato a finire l’esaurimento? Dicevi di avere rinunciato al concorso magistrale perché il medico ti aveva ordinato riposo assoluto: come mai l’impedimento non esiste per gli studi universitari? Sono più leggeri? Perché, mi sono chiesto, ci siamo chiesti, tante volte, queste bugie-paravento? Era così difficile dire la verità, scusandoti, magari, per i continui ritardi e rinvii del rientro? Dopo tutto, non dovevi mica dare conto a noi delle tue scelte post-diploma? Bastava solo essere sinceri...”
Susanna era sempre pallida (ma come facevo a vederla così bene in viso, se era già buio?). Cercava di difendersi, ma io incalzavo (alla faccia della cavalleria). Mia moglie parlava poco, oscillando tra il consenso alle mie, e nostre, buone ragioni (tante volte esaminate insieme, specie durante gli spostamenti in macchina da un paese all’altro per le nostre povere sortite serali) e la compassione per l’amica malamente strattonata dal marito, forse troppo aggressivo. Una cosa è criticarla, anche aspramente, ma in remota assenza, altra e più spinosa averla sottomano in trepida carne sensibile agli strali. Intanto mutava il paesaggio. Sempre buio, ma ora non eravamo più in luogo pubblico. Dove ci aveva spostato il capriccio di sua divinità mercuriale? C’erano marmi intorno a noi, ma anche piante. Susanna riempiva come poteva gli scarsi spazi liberi che lasciava la mia arringa da sofferto accumulo: parlava poco, con mezze frasi, e sempre con lo stesso tono basso, quasi da pentita in imbarazzo. Diceva che aveva ceduto all’ultimo momento alle insistenze dei suoi; che aveva voluto, e dovuto, dar loro la soddisfazione di aver tentato, e che lei sperava, e sapeva, che non sarebbe riuscita a superare la prova d’ammissione al Magistero. Infine, insisteva nel ripetere che non ci aveva comunicato la notizia della decisione ultima per non darci inutili dispiaceri. E si doleva di avere dovuto assumere l’apparenza della bugiarda. Ma dov’eravamo? Quei marmi, quelle piante e fiori: un cimitero? Ne avevo la sensazione. Vaga, intermittente, ma ricorrente con una sottintesa continuità. “Chiacchiere! Ti sei lasciata soggiogare dal fratellino ambizioso, che vuole la sorella laureata. Forse per riscattare una sua presunta inferiorità di fronte alla fidanzata, che sarà coronata del suggestivo titolo di dottoressa (in lettere, mi pare). Ma ce n’era bisogno? Lui è già tenente, ed in piena corsa per una carriera militare brillante. E ti sei anche lasciata influenzare dalla cognatina, che evidentemente ci sa fare nel tenersi stretto il bel fidanzato ufficiale di carriera. E tu, e i tuoi, avete dimenticato “come” sei arrivata al diploma, e magari vi siete convinti che quei sette fossero autentici, e tutto merito tuo. E invece io, che, dopo tutto, li ho più subiti che graditi (accidenti al collega impiccione che ha voluto strafare), me ne vergogno ancora. Ho messo l’affetto per te sopra ogni cosa e considerazione. Bell’acquisto, ho fatto: ho inquinato la mia reputazione di professore onesto e imparziale per offrirti la prova più sicura della nostra amicizia leale, e tu...”
Insomma, le ripetevo nel sogno quanto le avevo scritto nella famigerata lettera-requisitoria. Aggiunsi, anche, e Susy parve confermarli con le sue impacciate reticenze, i sospetti che sotto il “mistero” complicato dei rinvii e dei malanni ci fosse la semplicità “inconfessabile” (!) di un fidanzamento in cantiere. Ma perché tanto mistero? Noi, suoi sincerissimi amici, avremmo gioito di un evento simile, e augurato tanta felicità.
Questa parte dell’arringa onirica, più bugiarda del resto, non fu mascherata abbastanza neanche nel sogno. E temetti che Rina per prima fosse permeabile a qualche sacrosanto dubbio. Susy negava il fidanzamento, e fiaccamente accennava a corteggiamenti, ipotesi, intenzioni dei parenti e valutazioni in corso. Ripetendo, s’intende, che lei era refrattaria, per il momento, a simili impegni, e che alla nostra amicizia teneva sempre molto. Sì, molto! (ripeteva, replicando a qualche mia smorfia di scetticismo).
Che sogno lungo e complesso (ma dov’era Giampiero? C’era e non c’era. Sbiadiva...). E così integrato nella mia perdurante rabbia impotente. Come pure nel disagio del mio senso di colpa verso il piccolo. E, un po’, anche verso il resto della famiglia stretta. E (ma molto meno) della larga (che pure, sapendo, avrebbe sofferto la sua parte. Anche se in ovvia differenza da quella. Specie mia madre).


16 ottobre,
sera tarda

Si diventa permeabili a qualsiasi stimolo, a qualunque richiamo associativo. Fosse il più bislacco, il meno cogente. O coerente con la ricchezza emozionale e “pragmatica” del Caso che domina questi appunti. La paroletta “Vergine”, per esempio, che impatto potrebbe mediare e giustificare tra quel dominante e un libro di solida, copiosa cultura, sia pure “allegra” come “La vergini funeste” di Giancarlo Marmori (su “la donna fin de siècle”, stampato, quest’anno, da Sugar, e apparso il mese scorso nelle librerie di Zefiria?). Eppure quella parolinetta ha scatenato una piccola tempesta nel troppo sensibile meteo interiore. Che naturalmente mi ha messo in mano il libro ben rilegato, con congrua sopraccoperta “pitturata” (una delle “36 illustrazioni” inserite del testo). E l’ho pagato pure con lo sconto (benché fosse di prezzo modesto, 1800 lirette) al libraio amico. Naturalmente, ho cominciato a divorarlo subito. Con godimento piccato e intersecazioni di fiammate memoriali. Preparati, quaderno, ad ospitarne qualche assaggio nel prossimo futuro. Protesti? Obietti che la mia vergine non ha nulla a che vedere con le funeste qui in ballo? E chi lo nega! Ma certe consonanze di potenzialità oscure sono nel bagaglio genetico del “mistero” femminino. E infine, che importa? Godiamoci questo grasso pasticcio di sensi sesso sadismo masochismo esotismo feticismo satanismo e quant’altro il mister Hyde del nostro selvatico Es comporta e trasporta. Con la doverosa premessa di un elogio meritato alla scrittura dell’autore: densa, agile, veloce, tranchant, infiltrata di citazioni in calzante fitness espressiva e comunicativa. Sia che commenti le riproduzioni di celebri quadri e pitture, sia che parli in teoresi di quel letamaio dorato del fin de siècle immoralistico ed esibizionistico, presente in tutta l’area della creazione estetica. Infatti tanto scialo di eccedenze erotiche non si trova soltanto nei romanzi del dichiarato decadentismo-immoralismo: il romanzo naturalistico non si tira indietro, dalla “Nana” di Zola al “L’Enfer” di Henri Babusse, dal Flaubert di “Salammbô” a Heinrich Mann del “Professor Unrat”, per diecine di casi, la tentazione del sesso satanico di genere femminile si slarga senza parsimonia.
Eccone qualche scampolo.”Poi Nana comincia a truccarsi [...] Il conte Muffat era ancora molto turbato, sedotto da quella perversa atmosfera di ciprie e di creme, preso da un folle desiderio di quella giovane dipinta, la bocca troppo rossa nella faccia troppo bianca, gli occhi aggranditi, cerchiati di nero, bruciati e lividi per l’amore”. Apriamo ‘L’Enfer’ di Barbusse: “l’epifania di Venere alla toilette è la medesima, si verifica nel piccolo santuario dove stagnano i suoi odori e dove regna il suo connaturato disordine, antitesi del logos virile. Lei è come intangibile, liturgica ... un uomo spia l’ignota della camera attigua, l’occhio alla crepa del muro che separa le due stanze, e una sera la sorprende mentre si spoglia. Alla luce del camino, e sempre più commossso, egli segue la progressione di questo suo svestirsi, sino al superstite pantalon: ‘Il pantalon ricamato era spaccato nel mezzo da una cupa, larga fenditura e il mio sguardo, fisso in quel punto, smaniava’ [...] Dal suo corpo esalava un profumo che mi riempiva tutto [...] il suo odore profondo, selvaggio, vasto, paragonabile a quello del mare – l’odore della sua solitudine, del suo calore, del suo amore e il segreto delle sue viscere’”. Fermiamoci un attimo, facciamo spazio al rimemorare doloroso e gaudioso del tempo che fu.
Do you remember, my dear middle finger, the Susy’s good smell, the intoxicating smell of her private parts? Un pizzico di feticismo non guasta, vero quaderno? Ma non sovraccarico come quello della “Jongleuse” di Rachilde, o della “Marthe” di Huysmans, “che si presenta come un genio miniaturizzato del grembo, larvale, infettivo”, “le labbra rosse come carne sanguinante, le gambe inguainate in calze di seta rosso ciliegia...tutta la sua carne attraente, turbevole, rabbrividente sotto le gale del peignoir...”. Il feticistico peignoir, “questa specie di scorza infiocchettata della nudità”, ricompare sovente nei testi del tempo. “Alla vista di Venere in peignoir, il Tannhäuser del tardo ottocento si turba puntualmente.” Vediamolo in “Bel Ami” di Maupassant ‘Lei si volse, sorridendo sempre, avvolta in un peignoir bianco ornato di pizzo; gli tese la mano, mostrando il braccio nudo fuor dalla manica largamente aperta [...] Un profumo leggero emanava dal peignoir, il profumo fresco della recente toilette”.

martedì 13 ottobre 2009

Susanna, frammento n. 42


Continuo il resoconto sintetico degli eventi pregressi dell’agosto tramontato.
Al ritorno da Ghera apprendiamo che un signore alto, giovane, snello, simpatico, con la lente, su una Millecento color miele, targata Lt (Liotria), ha cercato di noi. La notizia ci viene dal padrone di casa, che ha certificato la nostra temporanea assenza con impegni ospitali di comitiva bene assortita. Si tratta del cugino di mia moglie, Bruno Leonardi, insegnante di matemastica e scienze alle medie in quel di Roma. Aveva promesso di venire a trovarci, rientrando dalla capitale. E ha mantenuto la promessa nel giorno sbagliato. Ossia nel giorno affollato. Si presenta a sera inoltrata, verso le otto, dopo avere realizzato, gironzolando per il paese, una sua prima sommaria conoscenza, in attesa del nostro ritorno. Gli ospiti erano partiti poco prima. Lui resta a cena. Nell’attesa della quale, cominciamo il rito dei resoconti confidenziali. Durante il pasto, sui temi innocenti delle famiglie e del lavoro. Dopo, una mini-gita in macchina a Siderato, per presentare al nuovo ospite il vanto del paese, quel lungo e largo e variegato lungomare asfaltato di recente costruzione (già lodato in queste pagine). Lo percorriamo in tutti i suoi tre chilometri e passa, posteggiamo la macchina accosto al marciapiede sinistro e ne facciamo un tratto a piedi. Poi, la stanchezza di Rina e figlio, dopo la giornata campale, consiglia il ritorno in macchina. Sulla Giulietta azzurra, imprestata dal cognato, Rina e il bambino presto recedono in un sonno convinto. E il cugino, rassicurato da quella assenza morfeica, si apre alle confidenze galanti. Finalmente ha conosciuto la sua prima donna, vissuto la sua prima avventura. A ventinove anni suonati: quasi un primato da Guinness. Con una collega romana. E (o ma?) l’ha vissuta con mille trepidazioni e paure, prendendo tutte le precauzioni per evitare “complicazioni”. Fino a negarsi l’estremo pasto! Che forse la ragazza era ben disposta e pronta a concedergli (come “prova d’amore”?) – a consolazione di lui e libera edificazione laica di entrambi. Egli giura che la ragazza era vergine, e non ho motivo di negargli credito. Ma che, perciò? Una ventisettenne metropolitana, laureata, con stipendio, non sarebbe tanto emancipata da fare sesso in love senza garanzie impegnative per lui? Il timidone è persuaso del contrario: la formosa girl dalle vesti succinte era, dice, in cerca di marito. E fosse pure: ne sarebbe morta, se la congetturata impresa seduttoria avesse fatto flop? Le sarebbe pur rimasto un gustoso couplet di felice poesia carnale, un prezioso bacino di ricordi futuri. E che diamine! Mica lui è sposato e pater familias come il sottoscritto.
Sia detto, s’intende, dando per scontata, nel cugino, l’intera attrezzatura competente: abilità funzionale, qualità tissutale, resistenza al lavoro di rigorosa pertinenza. E quant’altro si attende e si auspica nel continente mascolino da parte della normale (o esigente) complementarità femminile: compresa una convincente cointeressenza affettiva.

Ritorno a Zefiria. Moglie e figliolino vanno a letto. Chiudo a chiave la casa ed esco col cugino a passeggiare per le vie sempre meno popolate e ben silenziose del paese notturno. Lui riprende e continua il racconto delle sue avventure e paure. Nel cielo sgombro di nuvole e vapori civetta una splendente luna quasi piena. Resto deluso perché non ho potuto presentare al cugino Susanna, che non è ancora ritornata da Taranto. Mia moglie vorrebbe combinare tra loro due. Forse anch’io – pronto a dolorose rinunce se la cosa andasse in porto. Ho presentato, intanto, Bruno al fratello tenente di Susy e a un suo cugino, ospite degli zii: ne ho avuto occasione passeggiando sul corso.
E’ mancato l’incontro fra Bruno e i parenti ospiti, partiti qualche ora prima del suo arrivo. Il lunedì ci lascia anche lui. Chi parte e chi arriva: lo stesso lunedì arriva il rappresentante della editrice Vallardi col primo dei dieci volumi della sua Enciclopedia. Pago la prima rata.
Avrai notato, quaderno, l’attrito fra l’incontro del tenente susannico sul corso zefirese e l’assenza della sorella, rimasta lontano, in quel soggiorno pugliese che deve esserle riuscito piuttosto gradito. Con buona pace degli amici in attesa del suo ritorno promesso col temporaneo rientro del fratello. L’accoglienza dei nuovi parenti dev’essere davvero allettante, se protrae oltre il previsto la permanenza della nuova componente della famiglia allargata.
*
Durante il soggiorno ad Akiskène sono andato, con moglie e figlio, nella campagna di Santa Stellaria. La campagna in generale è stato un mio precoce “pregiudizio”: entrambi i nonni mi ci portavano da piccolo. Il materno, complice la zia Melilla, sorella di mamma, cominciò a portarmi nella sua proprietà con indosso la vestina, che a quei tempi si usava anche per i maschietti fino a un paio d’anni d’età. Il secondo mi portava nella sua tenuta dai miei sei anni in poi. Il podere del materno nonno Beppe era parte del paesaggio di Santa Stellaria, zona ricca di terriccio lavico e pietra pomice. Era la ragione per cui familiari e gente del luogo chiamavano sciare tutti i poderi della contrada. Oltre al tipo di terreno, li accomunava la flora naturale e il genere di colture: macchia mediterranea, vigneti e fichi non mancavano in nessun podere. Variamente presenti anche gli alberi da frutta, dai susini a frutto bianco o nero, alle pesche di larga varietà e denominazione. Ginepro, sommacco, rovi e querce erano le piante meglio rappresentate della macchia. Su tutto il variegato verde dominava il ficodindia, pianta tenace e caratteristica delle zone sub-etnee, capace di attecchire e fruttificare negli angoli più improbabili delle sciare. La differenza tra i poderi stava nella loro estensione e nel tenore delle annesse abitazioni: quella di nonno Beppe era fra le più modeste. Per estensione e povertà di casale: una sola stanza, di media grandezza, dentro la quale si dormiva sempre al plurale, montando letti di dure tavole e materassi di crine su trespoli in ferro più antichi del podere. Vario il numero degli ospiti, ma sempre ben nutrito dalla famiglia numerosa. Durante il periodo di sfollamento, indotto dall’avanzata degli americani sbarcati in Sicilia nel luglio del ‘43, il volume degli ospiti s’infoltì di nuove presenze parentali. Si era creduto che la campagna restasse immune dai clamori e bollori della guerra in casa, e ci trovammo in piena zona operativa. I tedeschi in fuga resistevano ostinatamente proprio in una plaga che includeva tutta la campagna di Santa Stellaria, compresa la cosiddetta sciara nera: un foltissimo intrico di rocce millenarie e piante della macchia, querceti antichi, stretti sentieri e brevi spianate con fosse da carbonai. Batterie tedesche, prima, e poi americane, s’erano piazzate nelle strette vicinanze dello scarno abitato, dietro le nostre case. I grossi proiettili fischiavano sopra le nostre teste nelle opposte direzioni, la proletaria casa-stanza tremava scricchiolante a ogni fragore di spari e il misero tetto di tegole e canne pioveva briciole della sua magra sostanza sulle nostre coperte. Per l’occasione, noi bambini dormivamo sotto le robuste tavole dei letti a trespoli, sul pavimento di cotto, spalmato di coperte sovrapposte e troppo snelli materassini improvvisati. Là sotto, si pensava correttamente, si era protetti meglio da eventuali frammenti di soffitto o di muri, staccati dalle forti vibrazioni d’artiglieria. O da qualche scheggia deviante. Una notte intera, dalla sera al primo mattino, fu sconvolta dall’infernale scambio di contrapposte artiglierie. E trascorsa, dagli adulti, in piena veglia di angoscia pregante. Noi bambini fummo graziati dall’età e accolti, a un incerto punto del lugubre concerto, da un agitato, ma pur sempre benevolo Morfeo. Gli orinali a portata di mano per eventuali bisognini notturni.
Tempi drammatici, per i quali ancora oggi, e forse, stranamente, più di ieri, ci domandiamo quale ingorgo di cieche circostanze (le donne e i vecchi dicono quale miracolo, e di quale madonna o santo/a) ci ha salvati da quel pantano di fuoco. Madonne e santi, in verità erano ben rappresentati sul finto marmo del vecchio comò: in forma di figure col lumino devoto acceso davanti.
Brandelli di ricordi facevano ressa, dunque, nella mia memoria, stratificati dai tempi remoti della prima infanzia. L’esperienza di paure ed eccitazioni del periodo bellico ne formava il nucleo eminente e più vibrante di emozioni proustiane: la minima madeleine vicaria le risvegliava a vita attuale con rapida (e rapita) concretezza: un frutto, una bacca, un sasso, un acino di quell’uva fragola che, a pergolato, ricopriva lo spiazzetto di rossicce mattonelle sormontato dal rotondo muretto della cisterna (cioè, del pozzo d’acqua piovana pluriuso). Perfino un proiettile di mitraglia e una baionetta tedesca conservata come cimelio si sublimavano in più arcigne madeleine. E ora, a distanza di qualche anno dall’ultima visita, trovavo tutto cambiato nella ex-proprietà dei nonni, e in altre confinanti: non più le piccole approssimative geometrie rettangolari (lenze) di vigna-sciara cinturate di leggere pietrepomici (ma anche di pietre normali) e interrotte dai contorti fichi ultraramificati; spariti gli stessi amatissimi fichi e la varietà dei frutti, i due o tre alberi di pistacchio, la barriera colorita dei fichidindia coi loro cladodi spinosi (“pale”, in gergo) sempreverdi, e, al loro tempo, le variegate corone dei frutti dai delicati cromatismi e dal paradisiaco sapore; niente, o quasi, era rimasto del poetico guazzabuglio antico. Al suo posto si stendeva un agrumeto. La poesia povera e dolcissima del frastagliato disordine vegetale e spaziale (con le sue casualissime alture, fosse, anfratti, muretti confinari valicabili perfino da bambini…) era stata sfrattata a vantaggio di un prosaico ordine spaziale invaso da uno squallido agrumeto utilitario. Constatavo con raccapriccio lo scempio che lo zio Geppo, ultimo dei fratelli di mamma, aveva consumato sopra il corpo indifeso di quella selvaggia bellezza senza mercato. Ché qui stava il busillis (anzi, il  presunto  business): lo zio, in uno scambio compensato di eredità con gli altri due fratelli suoi e di mamma, e tra due sorelle, mogli una sua, l’altra, maggiore di due anni, del fratello Mariano, era rimasto unico proprietario del podere. Motore di tanto giro, la smania di cavarne un più solido utile economico. Con tanti saluti alla poesia delle loro e nostre infanzie, e tant’altro sterile ciarpame (a suo inespresso giudizio) da sognatori oziosi. Ironia della sorte, l’esperimento si può considerare fallito, così come si presenta oggi: il terreno vulcanico, fedele alla sua vocazione macchiaiola, se la ride della nuova irrigazione canalizzata (mai vista prima) e del terreno aggiunto al briciolato originario di millenaria scaturigine vulcanica, e produce limoni di scadente qualità non competitiva e di avara quantità.
Questo, l’oggi. Ma forse lo zio oeconomicus conoscerà altre e meno incerte variazioni impoetiche in un prospero futuro non lontano. Vedo segnali e avvisaglie di un ben più radicale sconvolgimento abitativo nella zona: vecchie case sono scomparse e nuove costruzioni, anche condominiali, si affacciano minacciose sui gloriosi resti della millenaria lirica di pietre arbusti e frutti di pretto consumo domestico. Il boom farà rumore anche in queste riarse contrade, fin qui tutelate dalla povertà decorosa nel loro splendore panoramico e nel clima saluberrimo. I Romani imperiali vi portavano, in mirato soggiorno clinico, legionari malati e feriti per l’eccellente qualità dell’aria: così assicurava il signor Carasso, un barbuto e canuto vecchietto del luogo, ex funzionario prefettizio, informato cultore di memorie storiche e collezionista di monete antiche. Fra qualche anno non resterà traccia del “vecchio mondo” della mia infanzia. O ne resteranno di miseri residuati negletti, a rimpiangere il georgico passato e rinfacciare l’insalubre presente aggiornato. Patetici malumori privi di senso? E sia. Ormai è scritto e lo lasciamo.
Omnia fert aetas, diremo con Virgilio. E non ripeteremo più, venendo qui, l’ottimismo di Livio: Hic manebimus optime.
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Ma intanto mi godo l’ancora ampio passato resistente alle minacce incalzanti del benessere postbellico. Di quelle neiges d’antan fa parte la vecchina che ho rivisto con grande emozione. La credevo morta da tempo, e lei vive: curva più di allora, secca e ossuta, porta ancora in giro per la parte accessibile della sua campagna aspra e generosa il peso dei novant’anni suonati. Questa cara personcina di antico impianto agreste, che rare volte s’è staccata da casa e sciara per raggiungere il paesotto vicino, comunica la sensazione strana di una metamorfica pianta della terra vulcanica che la ospita. Terra materna, rifugio sicuro dalle smanie e insidie cittadine, finché non fu, impensabilmente, stuprata dalle erinni di guerra. Quest’amabile vecchietta è tanta parte dei miei teneri ricordi stellariani: la zia Melilla mi portava da lei, nostra vicina e, soprattutto, fornitrice di spumeggiante latte fresco di capra munta sotto i nostri occhi (dunque, caldo: del profondo calore del suo corpo generoso). In certi flash memoriali di accensione spontanea, mi capita di rivedere, con icastica nettezza di forme e colori, la scenetta-madre della vecchina (tale, per me, nel ricordo) piegata in ginocchio a mungere la capretta in nostra presenza. Il piccolo evento era assurto alla dignità di rito, e del rituale aveva assunto la mistica circolarità: giorni e ore del nostro incontro, fissi dentro un piccolo “intorno” di minuti. La zia mi aveva addestrato a recitare una breve frasuccia ellittica, e la dicevo, con timido slancio, ogni volta che si andava dalla Comare, con l’ancora incerta pronuncia dei miei due anni e qualche scampolo di mese. Grande emozione, sì. Ho raccontato al mio bambino la storiella e lui ripeteva la frasina alla vecchietta, facendo il verso all’antico genitore infante. Ma Giampiero parla in lingua, e io ho dovuto tradurre l’antico sicanico infantile: “Comare Lucia, latte a Paoluccio”.
Stranezza della fisiologia, la mineralizzata vecchina ricordava benissimo quegli incontri. Lucida e di forte memoria, descrive i miei nonni: scomparsi da lungo tempo, la nonna nel giugno del ’40, quasi a scansare l’incipiente tempesta bellica; il nonno l’estate del ’54, a “miracolo italiano” incipiente e già visibile. Né ha dimenticato figure e nomi degli altri componenti della copiosa famiglia artigiana che veniva a villeggiare nella contrada. I due poderi, il “nostro” e il suo (più vasto e vario, con dimora grande e articolata, da abitazione anagrafica e non stagionale), erano separati da un paio di altri e dalla strada principale (ai mitici tempi della mia infanzia ignara di asfalto e case moderne). Ma si vedevano e potevano comunicare al di sopra dei muretti lillipuziani: bastava alzare un po’ la voce. A quest’ultimo incontro della nostalgia era presente l’unico figlio rimasto con lei per via di handicap: colpito da paralisi infantile, zoppica e “pensa meno”. Anche lui anziano, è un altro fantasma di quel lontano passato che riprende corpo per la magia dell’altrove mnestico.
Ecco, mi si sveglia ancora una scenetta antica, ma di un passato meno lontano. Negli anni universitari a me piaceva venire nella sciara a studiare. Facevo a piedi un lungo percorso, a quel tempo ancora poco disturbato dal traffico motorizzato, da casa mia al podere. Lungo il cammino, appena raggiunto il silenzio della campagna, leggevo e ripassavo, con qualche sguardo allotrio, di pura curiosità ambientale. Brevi soste segmentavano il movimento con pause di salutare riposo. La sosta più lunga si stendeva per qualche ora dentro la proprietà, ora degli eredi. In una di queste pause, all’ombra di un folto querceto a cavallo del confine fra il nostro e il maggior podere di una anziana coppia facoltosa e sterile (lei maestra elementare, lui cancelliere di tribunale) sento urlare l’handicappato: Aiutu, aiutu, i brianti, i brianti! Un urlo di schietto spavento, ripetuto, e accompagnato dal fruscio di piante spostate dall’incerta fuga dello zoppo atterrito. Poggio sul dorso muschiato del muretto divisorio di nudi massolini sovrapposti, il libro (poteva essere la Storia della filosofia di Nicola Abbagnano, edizione per i licei), mi alzo e cerco con scettico sguardo i “briganti” annunciati con tanto orgasmo. Vedo, a frammenti ritagliati dal folto delle querce, due giovani che attraversano, di fretta, la proprietà dei coniugi benestanti. E poco dopo, chiaro e intero, un mio compaesano, appena più anziano di me, che veniva in soccorso dello zoppo, scavalcando i muretti simbolici dei poderi interposti. I due intrusi erano scomparsi, allarmati dalle grida del poveretto e dal possibile indotto. Il compaesano, Pippo Sciutti, era un nostro amico di famiglia nonché nipote della vecchina, casualmente in visita alla zia. Rincuorato il cugino “offeso”, ci siamo fatta una breve rimpatriata. Risento ancora quegli urli disperati privi di causa reale, ma forniti di tanta realtà interna.
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12 settembre

Minicronaca serale. Sto leggendo La strada di Swann. Fra poco continuerò a letto la lettura. Sono le ore 23. Una splendida luna quasi rotonda, insinua il suo lucore dorato nella fessura della finestra frontale semiaperta. La brezza massaggia di linda frescura le mie spalle nude. La spalla destra è cosparsa di antimicotico: gli invisibili microfunghi sono arrivati al collo. Ho tentato di completare la recensione all’ultimo libro di Sciascia, ma non ci sono riuscito. Ai giorni successivi, dunque. Con impegno a maglie larghe, però, perché sono attratto da altre, e d’altro tipo, “distrazioni cliniche” (dal rovello maggiore). Per esempio, cerco di seguire il grande fermento che agita la Chiesa cattolica: con le eminenze progressiste e quelle conservatrici che frenano; con i preti operai, che inclinano verso un socialismo evangelico più o meno confessato; con i don Mazzi e i don Milani che leggono a modo loro (cioè, lacerando il sudario della mummia politico-mammonica della sacra Curia) quel Vangelo (le parti “giuste” di esso ircocervo) così elastico nelle manipolazioni mondanamente orientate. Leggo articoli e qualche saggio sulla mirabile “Teologia della Morte di Dio”, con un certo spasso e curiosità dialettica. E mi sforzo di “capire” sua santità Paolo VI tirato di qua e di là, costretto a correggere con un passo indietro ogni suo, pur cauto, passo avanti. Esempio: sui preti sociali, sull’ipotesi di matrimonio dei preti, sulle troppo strette convergenze e alleanze di fatto (ma pure di “teoria”) tra sacerdoti e pezzi di quel socio-comunismo ateo che pungola il Vaticano troppo ligio anzi protettore, al mammonismo pratico dei democristiani centristi, sempre pronti a scattare sull’attenti al minimo cenno della Casa bianca. Clero progressista e laici credenti orientati a sinistra puntavano su una eredità più grassa del “rivoluzionario” papa Giovanni e relatico Concilio aperturista. Capita di fare i conti con un certo avventurismo previsionale di taratura ingenuamente ottimistica.

18 settembre

Ore 21 e minuti trenta. Piove. Un tessuto di rumori con fili di differente grossezza, e nodi ora piccoli ora grossi: scrosci, stillicidi, sgocciolii ritmati come una musica triste con note festose frammiste. Lontano brontola (cercare un vocabolo meno usurato?) il tuono. Di tanto in tanto un fragore vicino si rovescia sopra i tetti in un bagliore sconfinato. Il suono fracassato di una macchina taglia, qua e là, il drappo regolare della musica acquatica. Ed ecco perfino il trillo dissonante (argentino?) di risate femminili: la graziosa figlia ventenne dei padroni di casa torna all’ovile con i suoi genitori. S’è appena spento il cigolio del chiavistello di là dalla porta del mio studio che dà sull’ingresso comune. Di che ride la formosa fanciulla da marito? Della pioggia, che forse li ha bagnati, privi d’ombrello (chi s’aspettava questa manna liquida improvvisa?) O ha messo i piedi in qualche pozzanghera, non insolita da queste parti?
Sopra l’aborto sfilacciato di questi luoghi comuni del lirismo prevedibile, a provocazione della pagina bianca insultata (a volte sembra di sentirne la voce: perché non mi lasci in pace con le mie righette parallele e il bianco innocente del mio vuoto?), la nuvola lenta dello stream of consciousness alle prese con la vigente difficoltà di esprimersi. Difficoltà molteplice, che al momento non dipaniamo.
Intanto prende rilievo pretenzioso la fantasia più assidua di questi ultimi giorni: l’idea del romanzo-diario, ragione e senso della mia esistenza in attesa perenne. Ragione posticcia, fasulla; senso frustrato dagli eventi, anzi dai miseri fatti. Quante volte avrò scritto che sono una promessa mancata? E anche ripetuto che il mio tempo organico è una successione aperta di errori replicanti intervallati da casuali e rari colpi a segno. In una recensione di Giorgio Manganelli al Golem di Gustav Meyring (L’Espresso, 11 settembre) incontro questa frase: “Ebbe tutta la vita la vocazione degli errori irreparabili…”. Non s’intona al caso mio? Esagero? Va bene, magari solo in parte, ma, sì, s’intona. Così metto un nastro erudito alla mia cocciuta impotenza.
Non mi riesce neppure di gustare questa Mercedes filtrata: ha un sapore ostile, stasera. Forse gli Gnomi cosmici mi vogliono ricordare che dovrei smettere di fumare. Impresa difficile, però, per gli imbranati nervosi come il sottoscritto, che se n’è fatto un rito condizionante. Né ho voglia di recitare lo Zeno Cosini dell’eterna ultima sigaretta.
*
Siamo stati in Sicania dal venerdì pomeriggio al sabato pomeriggio. E abbiamo fatto una puntata nella “Milano del Sud”. La quale non è mai stata pulitissima, ma ora è sporchissima. Anche la gente è peggiorata: sempre più incivile, nervosa, meno tollerante e comprensiva verso gli anziani. Scene disgustose, di giovinastri al volante che inveiscono contro vecchietti prudenti. Ma anche vecchi sgarbati e commesse che li sopportano male.

Ho strizzato la cicca dentro il portacenere ramato a forma di bracierino, e le spire del fumo si dissolvono sotto l’occhio furioso della lampada da tavolo. Forse pretendevo di scrivere una bella frase. Ma sarà “bella” questa, del Golem? “Come se ci potesse essere qualcosa di più meraviglioso che sentirsi mancare la terra sotto i piedi!”. Mi suona falsa. Una frase da letterati: coraggiosi fino alla spavalderia con le parole, ma alla prova dei fatti, più pavidi che spavaldi. Con qualche eccezione? Si capisce, ma le eccezioni, si sa, confermano le regole.
Et in Arcadia ego, suppongo. Infatti, mi solletica un’idea spavalda ricorrente. Trascrivo un passo da una pagina rinnegata che rileggo. L’impotenza è cattiva. Io arrivo a contemplare senza sgomento, anzi con una punta di nascosta (?) voluttà il lampo di un’umanità dissolta da una pantoclasi nucleare. Del resto, non sarebbe una bella esperienza metafisica?
Ecco, l’ho scritta e riscritta. Postilla integrativa, correttiva: naturalmente, vorrei che nessuno soffrisse più di tanto. Una fine istantanea, una cancellazione anteriore a ogni possibile balzo di coscienza. Insomma, una cosa impossibile. Doppiamente. Perciò la frase, o l’idea, è soltanto un sintomo della biochimica acediosa di questi giorni, vuoti di una certa presenza. Un vuoto polarizzante più di un campo elettromagnetico. Come ben sappiamo, quaderno.
L’atrabile, poi, si scontra con la bile gialla e stagionale (secondo il Corpus Hyppocraticum) e mi rende ipercritico. Se m’imbatto in una arbasinata divento feroce. Eccone una, appena letta, sull’Espresso: uno sproloquio “luccicante” su Palazzeschi. Ne trascrivo un brano:

Metro e Pigalle, garzoni di caffè e un ‘flic’ tutt’altro che ‘chic’, ‘topettes’ frettolose e vecchi allegri ‘cocus’: negli schizzi italo-francesi Palazzeschi fa delle gaiezze sentimentalmente fumiste di oggi o di cinquant’anni fa con un giuoco luccicante di ‘sandwich au jambon’ e ‘coca-cola americain’, pernod e gelati e pacchetti di sigarette e biciclette a motore: a spese di portinaie e maschere di teatro e vedove nere e satiri al Bois e dame col ‘pliaut’ che attendono in fila l’abominio di Fedra e la fragilità di Manon, la disperazione di Tosca e le trame di Dalila, in un frullo d’acqua di Colonia e clochards canterini…

Riemergo dall’apnea e imploro: Albertino, non potresti moderarti un poco? Ricordati dei Sette Savi: “Nulla troppo”. “Ottima è la misura”. O, se preferisci, onora Aristotele (e la sua mesòtes), ascolta Orazio e il suo est modus in rebus… Tu sei fuori misura, privo di modus (e di ratio).
Albertino, Albertine, Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore. E dei fanciulli.
Settembre, andiamo. Sì, andiamo a pascolare. C’è tutto un gregge di ferite interiori in attesa di pascolo, e non mancano erbe di ricordi, intermittences du coeur, rimpianti, retroattivi pentimenti. E tant’altro per soddisfare il gregge.

20 settembre

Divago, faccio ammuina, evito lo scoglio che punge e ferisce. Esito a dire pane al pane e sconto la ritornante paura d’essere sorpreso da chi non deve leggermi e sorprendermi. Questo su cui scrivo da ieri l’altro è un nuovo quaderno, e non so ancora se devo agganciarlo al carro del precedente o lasciarlo più libero e meno blindato. Indi, prudenza. E ritorno al cifrato e all’allusivo. Salvo contrordine (più o meno pensoso).
Intanto continuo a gironzolare intorno al busillis. Toh! E’ ancora sul tavolo l’Espresso aperto sulla pagina con l’articolo arbasiniano. Ne ho riletto una parte, e la prima impressione si imprime di più. Ma si può prendere sul serio uno che scrive così? Va bene la sua erudizione, quel conto in banca mostruoso di conoscenze, memorie, letture, contatti culturali, viaggi, spettacoli e quant’altro: ma la vera sintassi è ben altra cosa. Dico sintassi nel senso di Gulizza: profondo sentire in denso dire. Donde la distinzione, fatta dal critico tra parola e sintassi, la prima inclinante verso lo scintillio verbale e il ridondante esornativo, la seconda verso la fitness lessicale e la sobrietà espressiva. Applicata al divo D’Annunzio, la distinzione “rivela” un “poeta della parola, non di sintassi” E sia pure della “parola gemmata in su le carte”. Giudizio che condivido, nel mio piccolo, quasi completamente. Dove il quasi suggerisce una mini-rettifica: il vate d’Abruzzo (e di Roma-Parigi) largheggia in parola e “risparmia” sulla sintassi, ma non si può dire che ne sia privo, o quasi. Più artista che poeta? Certo: ma dove matura alla poesia riesce anche grande (vedi Alcione, ma non solo). E certe pagine e intuizioni (specie le biotrofiche) sono piene di sintassi. Testo di riferimento massimo, il Notturno (rapsodicamente, anche altrove. Per esempio, nelle Novelle della Pescara, in alcune di esse).
Arbasino è un poeta-artista della parola, anche lui, ma meno grande del Pescarese, e assai più colto (o piuttosto erudito). Lo sfarfallio citatorio, il narcisismo esibizionistico non fanno sintassi più delle parole-gemme dannunziane. Quanto al critico, l’articolo, o piuttosto apologia, in questione ne dà la misura. Leggiamone un altro pezzetto, che sposta al peggio il passo già trascritto. Palazzeschi è un compatto trofeo di meriti assoluti: “Non ha fatto delle guerre assurde, non ha lodato dei personaggi ridicoli, né quindi ha pianto per decenni sul latte versato. Non ha combattuto battaglie stupide. Non s’è affannato a correr dietro alle mode più insensate [senti chi parla!] in ogni stagione, da rinnegare come cravatte smesse ad ogni ‘vague’ successiva. Soprattutto non ha predicato sistematicamente in nome di convinzioni sbagliate, vere oppure finte, ma egualmente, periodicamente, puntualmente contraddette. / Semplicemente, ha scritto parecchi bei libri. Gli saremo grati per sempre del loro incanto”. Palazzeschi è certamente meglio, e non poco, di Albertino; ma che razza di critica è quella che non soppesa e distingue, non scevera e seziona, ma prende in blocco? L’estroso, ironico, “delizioso” e burlesco autore del “Codice di Perelà” è un monolito di perfezioni senza vuoti? Non conosce momenti di stanchezza ripetitiva, o inventiva? Qualche prolissità, magari? Una o due “scelte sbagliate”? Lasciamolo credere allo scampanante Arbasino dai troppi sonagli. Il quale, da ignaro e supponente enfant terribile della ditta Nuove Lettere Italiche, non ha il minimo sospetto che il suo panegirico, appena capovolto, possa sembrare scritto da un critico serio su di lui. Arbasino combatte battaglie stupide, loda personaggi ridicoli, corre dietro alle mode (che, si può scommetterci, rinnegherà fra qualche anno, anzi supererà, verso nuovi fulgori e destini). E soprattutto, non ha scritto nessun libro veramente bello. Di che cosa gli saremo grati? Non più che di qualche quarto d’ora di spasso digestivo, presto annegato in uno sbadiglio. Magari legato, lo spasso, a certi “reportage” parigini. Quanto a densità espressiva (precondizione della vera sintassi), basti il giudizio citato per vedere quanto ne sia lontano: ripete la stessa cosa in più chiavi, o piuttosto parole, ma con l’aria di approfondire e innovare.
*
Intanto Susy non torna. Ed eccoci allo scoglio che punge e taglia. Non la vedo dal 9 agosto. E doveva restare a Taranto dieci giorni soltanto. Ancora un caso, un insospettato caso di ingratitudine e di corta memoria: così mia moglie inclina a pensare, con amarezza e delusione. Dopo quello che ha fatto per lei. Unendomi a Rina nella solidarietà, nel ruolo di amico come lei di amica, non posso darle torto. Invano tento di giustificare la troppo lunga assenza dell’ingrata: le sue ragioni, a volte, sembrano pretesti.
A volte, soltanto? Lei accampa motivi di salute, e la famiglia avalla, convinta. E ci saranno, senz’altro, ma il sospetto che si gonfi la cosa, esagerando i malanni, scivola facile facile dentro le nostre meningi di amici delusi. Disposti, magari, a concedere dilazioni e ritardi, ma ben motivati e sinceramente confessati. Susy ha fatto delle buone conoscenze nuove? Deve rimanere ancora qualche tempo lì per coltivarle, accoglierne inviti all’indugio affettuoso? Niente di più naturale, legittimo, ben pensato e benissimo fatto. Ma perché nascondercelo? Così, accoratamente, ci ripetiamo nelle conversazioni tra noi, amici “traditi”.
Delusi, traditi: vogliamo aggiungere, giacché ci siamo, anche pugnalati alle spalle? Non si sta esagerando? Forse, quaderno, forse. Epperò difficile riesce resistere al Tentatore che insinua, allude, congettura dentro le nostre mieline. Noi, del resto, sappiamo di qualche ostacolo inconfessabile alla puntualità, pur dilatata, del ritorno; e alla trasparenza leale delle informazioni. Vero, quaderno? Se le nostre ipotesi colgono nel segno, come dire, a noi, che un simpatico collega del fratello tenente corteggia Susy con “intenzioni serie” e del tutto apprezzabili in prospettive di eventualità coniugali? Visto che quel noi riverbera direttamente sul più assoluto me. E, se non un collega del tenente, potrebbe trattarsi di uno della cognata in fieri, laureanda in lettere prossima al traguardo. O di un parente di lei, magari già laureato, o addirittura in servizio.

Inutile almanaccare. L’idea che anche lei, come tante, raggiunto lo scopo (il diploma) “si sia scordata” di chi glielo ha assicurato a prezzo di notevoli sacrifici (materiali e, soprattutto, morali) si insinua, mal respinta, nei nostri cuori. Lei ha scritto due lettere e mandato varie cartoline illustrate con poche righe e saluti conditi di baci. Ma può, questo gruzzoletto, bastare a placare la nostra fame di lei, mia e di Rina (ciascuno a suo modo)? Nella prima lettera diceva che stava male e non si divertiva; nella seconda, al seguito della nostra risposta affettuosa alla sua prima, scrive che disturbi cardiaci l’hanno portata dal cardiologo, e che visita e, soprattutto, elettrocardiogramma segnalano un’infiammazione miocardia di origine reumatica. E fin qui, niente di incredibile. Idem per la proibizione medica del fumo, degli alcolici, degli eccessi fisici. No, niente di incredibile: tutto verosimile. E quasi tutto plausibile. Perché quasi? Ma perché fra le rinunce ce n’è una poco comprensibile: perché rinunciare al concorso magistrale? Era partita convinta di dovervi partecipare, potendo contare anche sul mio aiuto per lezioni ed eventuali segnalazioni in commissione. La malattia e relativa cura non montano ostacoli insormontabili davanti a un percorso di preparazione razionale e alieno da qualunque surmenage. Dunque, perché questa rinuncia, così malmotivata? Ma è, poi, una rinuncia o non piuttosto uno spostamento di sede? Perché dovrebbe rinunciare al tentativo? Forse affronterà il concorso in Apulia piuttosto che in Calamagna: rinunciando al nostro soccorso, ma non ad ogni aiuto. La cognata in marcia, o la famiglia, col suo latino pater, avrà bene le sue opportunità.
*
La lettera, dulcis in fundo, mescola alle tristi, notizie liete, e perfino un tantino euforiche: “serate di sogno” fra signore eleganti con mariti benestanti, mogli di colleghi del fratello, le quali la “costringono” a dargli del tu; e altre godurie. Questa confidenza sul tu odora di allusioni al rapporto tra Rina e lei: mia moglie le dà del tu, lei alla moglie del suo professore, dà del voi. A chiedere a Rina il tu è stata Susy, l’inverso non ha avuto luogo. Rina non si “precipita” in queste cose: meglio aspettare, stare a vedere, misurare i pro e i contro. Ora è tentata di dire che ha avuto ragione a non concedere subito. Io, comunque, non ho intenzione di incoraggiare Rina a farsi ricambiare il tu (casomai dovesse ritornare, e dovessimo frequentarci ancora. Casomai: che ambigua parola).
Doveva ritornare oggi, ma ha rinviato ancora la partenza. Per l’ennesima volta. Vedi, quaderno, che c’è puzza di bruciato? E, se il bruciato è, come gli indizi suggeriscono, l’uomo, che cosa possono augurare gli amici a una bella ragazza ventenne e fremente? Che l’uomo sia un bel giovane, innamorato, “sistemato”, e smanioso di elevare il tenero viluppo alla sacralità e legalità del matrimonio benedetto da Santa Romana Chiesa Cattolica e Apostolica. Questo, dagli amici per l’amicizia. Né Rina sarebbe men che sincera, in questo augurio: la sua delusione emana tutta dall’aura di mistero e geloso segreto che s’è voluta creare intorno alla faccenda: non aveva, Rina, il diritto di essere informata dall’amica tanto beneficata degli sviluppi sentimentali del suo soggiorno pugliese? Questi sono i concetti-pretese che animano i discorsi di Rina, e con Rina, in questi giorni, tutte le volte che il pensiero va a Susy assente. Il che può accadere per l’arrivo di una sua lettera, o per l’incontro con taluno dei suoi familiari.

martedì 6 ottobre 2009

Susanna, frammento 41


9 agosto

Qualche spillo per alcuni fatti che scappano. Nove giorni intensi, agitati da mali vari. Mia moglie malata: un giorno con febbre, anche alta, alcuni con mal di stomaco e diarrea (l’altro volto, ironico e crudele, della bellezza femminile, così spesso angelicata dalla poesia). Da ieri anche con le regole: è a terra. Altro viluppo di affetti agitati, mia sorella Valeria, (maggiore delle quattro), è la più inguaiata fra le creature del nostro microcosmo. L’ingessatura del bacino lesionato le ha provocato una piaga, come da bruciatura. L’indolenza attendista della famiglia Assaggi (della quale partecipo con pieno diritto) ha atteso che la piaga cominciasse a incarognirsi in cancrena. Per fortuna mio fratello, che ha più senso pratico degli altri, si trova sul posto, in vacanza, e si è accorto del guaio. Ha affrontato il “professore”, padrone e direttore della clinica, e lo ha costretto a intervenire senza perdere altro tempo. Il tanghero, autore anche dell’ingessatura, aveva minimizzato la cosa per scansarne (ma come?) la responsabilità: lui non fa errori. Invece ne ha commesso uno balordo, non badando alla cinghia di cuoio che premeva troppo sulla zona interessata. Dolorosa, l’esportazione della carne morta, già apparsa. Il luminare opaco assicura che la paziente è ormai fuori pericolo. Mio fratello è di altro parere: durante il servizio militare di leva ha fatto l’infermiere e ne ha visti, di casi simili. Siamo tutti in ansia. Domani andremo in Sicania, a trovare la realtà di queste nere notizie.
Valeria, minore di me di tre anni, è stata fin da piccola, la mia prediletta. Mi somiglia nel fisico e nel temperamento; la sua piaga la sento un po’ nel mio corpo. Per qualche tempo ho nutrito un certo rancore verso di lei, perché mi ha “tradito”, sposando un giovane a me, per vari motivi, non gradito.
*
L’altra sera siamo andati in macchina verso Roccabella, noi tre più Susanna. A un certo punto, mia moglie viene aggredita da un bisogno inderogabile. Sono costretto a cercare una via secondaria praticabile per la necessità imperiosa. Incalzato dalla fretta, lascio la macchina sul ciglio della nazionale, lato destro; ben visibile, data la posizione della strada, ma non abbastanza lontano da una svolta. Per giunta, senza luci di posizione. Una Cinquecento sbadata e più veloce del giusto, per poco non le sbatte contro. Il conducente, un giovane, che veniva nello stesso senso mio, oltrepassata la nostra, si ferma, scende, si avvicina. Nel medesimo straccio di tempo due camion con rimorchio e una quantità di berline di varia cilindrata si materializzano sul nastro d’asfalto per bloccarsi subito dopo intorno alla mia (che è, poi, la Giulia di mio cognato in prestito). Noi si usciva dalla stradina campestre, o piuttosto dal suo imbocco, dove Susy aveva atteso con Giampiero che si compisse, un po’ più avanti sulla stradetta campestre, l’evento liberatorio di Rina. E da quel punto avevo sofferto la movimentata scenetta stradale. Precedendo le due donne e il bambino, mi ero avviato, di fretta, verso la Giulia per spostarla. Mi accompagnarono le proteste dei camionisti, forse contenute al di qua delle invettive feroci dalla visione improvvisa delle due donne, nel frattempo giunte ai margini stradali e dentro il campo visivo dei poco delicati probabili ex carrettieri. Il proprietario della Cinquecento si avvicina mentre io manovro, a spostare la Giulia, guarda la targa, scrive. Sento odor di lite, ma il tizio, presa la targa, svicola, pacifico. Altro effetto “grazie-Venere”? Probabile, anche questo. Dato il sospiro di sollievo sul presente concluso, riprendiamo il nostro viaggio verso Roccabella. Rina svuotata del molesto superfluo e Susy testimone attiva badavano a cucire risposte al piccolo, incuriosito e turbato, sull’intero accaduto.
Io a contrastare, in interiore homine, ancora un effetto dissonante: quell’irruzione fisiologica irriverente in mezzo a tanta bellezza evocatrice di soprammondi poetici. Sentivo il ghigno della materia irriducibile, indocile mescolatrice di opposti: un memento, del piccolo dio ironico contro le tentazioni iperuraniche ricorrenti. Il dio-corpo, il senza-scampo: nel (cosiddetto) bene e nel (cosiddetto) male, nel bello e nel brutto. Nell’afrodisiaco odore della gardenia e nel puzzo depressivo del prodotto catabolico deiettivo. Ave Bios, capriccioso tiranno!
L’indomani mi informai nella sede della polizia stradale di Siderato, dove abbiamo un poliziotto amico, molto rispettoso, un ex alunno di mio cognato. Niente paura, dice: il tizio che ha preso la targa potrebbe essere un funzionario della polizia, se non era un anonimo cittadino che ha voluto spaventare e non colpire. Nel primo caso le costerà al massimo tremila lire di multa. Attendo novità.

Giorno 3 mi arriva una lettera di Eugenio Garin. La prendo dalle mani del postino con grande emozione. Mi ringrazia, gentilissimo, della recensione alla sua Storia della filosofia italiana (che gli avevo spedito in ritaglio), e mi parla un po’ di sé, dei suoi studi, dell’evoluzione del suo pensiero. Mi scrive, tra l’altro, che, pur non rinnegando questa Storia, oggi, non la scriverebbe più così. Gli ho risposto tre giorni dopo. L’ho ringraziato, a mia volta, per il tempo dedicatomi, ho fatto un po’ di ammuina circostanziale, e ho concluso con un invito sommesso a indagare meglio la dimensione biologica dell’uomo in nome di un umanesimo meno storicista, cioè meno antropocentrico e “maiuscolaro”. Che è quanto basta per chiudere la corrispondenza. Sono quasi certo, infatti, che non replicherà. Cosa potrebbe dire un uomo plasmato di humanae litterae e crociani ponzamenti, eredo-idealista anche nel nuovo storicismo attento a Marx? Un pensatore e storico del pensiero, che propone una “filosofia come sapere storico” quale approdo teoretico supremo di una vita di benemerite ricerche storiografiche di fama internazionale?
Ieri, una lettera di Vittorio G. Rossi. Dal cielo dell’erudizione accademica alle acque oceanico-terrestri dei racconti gradevolmente popolari, con una leggera polemica contro le astrazioni maiuscolari. E’ stato, dice, “in avaria”. Ma si riprende.
Ieri sera, accompagnamento funebre del senatore Calarùtti, morto ieri l’altro. Faccio le condoglianze alla moglie e al figlio Manuele, mio ex alunno all’istituto tecnico commerciale di Siderato, dove ho vissuto il mio primo anno di insegnamento statale, come supplente annuale di Inglese – seconda lingua. E naturalmente “appongo” la mia chiara (nel senso di perfettamente leggibile) firma sul “registro” apposito, messo a disposizione dei visitatori nell’androne del bel palazzone di famiglia.
Orgia di generose bugie ed esagerazioni nei discorsi degli elogiatori: ottimo medico, cittadino esemplare, benefattore dei poveri, energico difensore delle giuste cause in Parlamento e fuori. Tra le poche verità, la maggiore è la bontà generosa dell’anziano medico. Vivo anche il senso dell’amicizia e alieno da qualsiasi tentazione di superbia nobiliare. Quanto all’eroe battagliero e facondo, una “barzelletta” che le male lingue (di sinistra?) raccontano in giro la dice lunga: “Il senatore era piuttosto taciturno durante le sedute senatorie. Una volta alzò la mano per chiedere la parola, e il nobile Consesso stupì e si dispose all’attesa della novità. Ma il senatore chiedeva solo il permesso di andare al bagno”. Malignità di paese, con varianti personali. Taluno, infatti, sostituisce quella “richiesta” con un’altra: la preghiera di chiudere le finestre per il freddo, o di aprirle per il caldo, a seconda della stagione coinvolta. Forse anche le piccole rivalse “plebee” contro il Palazzo (e le retrostanti proprietà). Non ignoravano, in famiglia, le mie simpatie politiche (non ne facevo mistero a scuola), ma non fecero pesare mai la loro “diversità ideale”, tutta inclinata sulla democrazia cristiana e retroterra vaticanese. L’elezione del dottore Calarùtti, del resto, è un tipico caso di noblesse oblige: la famiglia voleva quel blasone politico sullo stemma ereditario e la società clerico-moderata del luogo sponsorizzò il medico per opporre un proprio uomo al prevalente blocco delle sinistre, sempre vincente alle amministrative, fin dal 1948.
Sincero il rimpianto di molta gente, di ogni ceto e posizione politica. Ricordo le serate del periodo natalizio passate in casa sua giocando a carte con la famiglia, e il gruppo di amici e parenti, alcuni dei quali miei alunni dell’ultimo anno (come Manuele). Una volta sono stato anche a pranzo, quando ancora ero solo (e scapolo) a Siderato. L’anno dopo, fui con mia moglie, e loro rinnovarono l’invito, ma Rina era intimidita dalla prospettiva di trovarsi fra gente altolocata in una situazione che imponeva l’osservanza di precise regole. Così ho declinato ragioni di salute per scusarmi di un garbato rifiuto. I disturbi di Rina, allora al quarto o quinto mese di gravidanza, non erano inventati, ma esagerati, certamente: per l’occasione.
Caro senatore Calarùtti. Nonché sfortunato, con la famiglia intera. Altri lutti, infatti, l’avevano colpita: l’ultimo, pochi giorni prima. Era morto uno dei generi, il marito della figlia maggiore, fulminato da un infarto. Aveva appena cinquant’anni. Era un esponente di spicco del commercio oleario sideratese. La vedova e i figli non soffriranno per ristrettezze economiche, ma per mutilazione di affetti, sicuramente. La vedova, ovviamente, anche per le conseguenze fisiologiche di quella mutilazione: bella donna, ancora piacente e formosa, chissà a quale futuro si avvia. Mi chiedo quanto possa avere influito il grave lutto della figlia sulla morte del medico senatore.
Pioggia di morti, in questi giorni, in paese. Ma, sconosciuti o appena conoscenti, lasciamoli alla pietà del silenzio.

10 agosto,
ore 14, 45

Un bicchiere di birra colmo davanti, una sigaretta in bocca. Il tavolo lindo, sgombro di tutto, un nodo di tensioni intorno alle viscere, una grande smania di parlare, e magari urlare. Di “risolvere” e tagliare. Stiamo per partire alla volta della Sicania. Andremo in macchina. Al paese ci aspetta una cornucopia di guai, e problemi: da sorella maggiore a mamma e sorella minore fidanzata, un bel malloppo.
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Ma voglio continuare il resoconto del passato prossimo. Ieri, nove agosto, dalle ore 18,30 in su. Verso quell’ora ci piomba in casa Susanna. Furibonda, un diavoletto per capello, gli occhi saettanti, una cipria di pallore in volto. Un’altra lite col fratello tenente. A sentire Susy, il tenente istruttore crede di potere istruire sempre, e specialmente in casa, dov’è il fratello maggiore e più autorevole. Lei, Susy, la conosciamo, vero lettore del tremila? E dunque a che pro ripetere che è insofferente di qualsiasi autorità che si presenti nuda di cerimonie e riguardose delicatezze? Che è un po’ (un po’ troppo?) selvatica, nervosa, scattante. Più o meno sempre: ma in questo periodo con più lena e impulsività, perché turbata, indispettita per nascosti motivi. Il fratello le “faceva la predica”: le raccomandava di comportarsi bene, di vestire decorosamente, di non portare i pantaloni, di moderare la spontaneità, a volte crudamente sincera, del linguaggio. Eccetera. Ohibò! Ma a chi crede di parlare l’istruttore? Lei sa benissimo come comportarsi, non ha bisogno di lezioni. E poi, insomma, dove sta per andare, in una reggia, in un palazzo ducale? Chi è, finalmente, questa fidanzata del fratello, e chi sono questi nuovi parenti così temibili per una provincialotta di scarsa pratica sociale? E’ una laureanda, lei, la futura cognata? E’ una buona famiglia borghese, il suo ambiente domestico? Embé? Insomma, è scontro: la specialità di Susetta. Che balza fuori casa, scende “a precipizio” (“per poco non mi sono rotta il collo”) le scale, copre a passo di bersagliera la non proprio brevissima distanza tra la sua casa e la nostra, ed eccola qua: bella di furore e di conflitti non risolti (né risolvibili sui due piedi).
Conseguenze. Niente festicciola stasera. Pericolo per la gita a Taranto e il previsto soggiorno presso la fidanzata-bomba del fratello, scopertosi “ammodino”. Ma forse c’è sotto qualcos’altro. Che non si vuol far trasparire. Forse la festa non era gradita al tenente. Certo, non lo era alla madre, che sta male, con un molare “in ebollizione”. Lo aveva fatto capire ieri sera. Poco male, per la festuccia saltata. E poi Susy ha i suoi reconditi motivi. La capisco. Anche il mio quaderno. Le offriamo occasione di sfogo, distrazione, relax minimale: viene con noi a Siderato. Dalla sarta, con Rina e Giampiero. Poi sul lungomare. Sempre bello. E, a quest’ora di incipiente crepuscolo tardo-estivo, poco affollato. Lo sarà molto fra un paio d’ore, quando noi saremo già a casa (anche per il pasto di mezza sera del piccolo). Sullo sfondo del mare pacificato, poche battute, in un contrastato brevissimo tête à tête, mi “assicurano” dei reconditi motivi: riluttanza, dice, ad allontanarsi per tanto tempo da me. Riluttanza al soffrire? Al farmi soffrire? Piano. Piano, Paolino: non prendere subito per oro colato quel che potrebbe non esserlo. Temo ti sia montato un poco la capa tosta. Lei è attratta da questo viaggio, ma forse anche un po’ impaurita dall’ignoto che l’attende. Le raccomandazioni del fratello sul buon comportamento serbando potrebbero innervosire anche un temperamento aggressivo come il suo.
A casa (nostra) l’empito degli umori ingorgati capta esili valvole di sfogo e scarico. Fuggevoli bacetti furtivi, niente di più, tra uno spostamento e l’altro di Rina alle prese col bambino intento al consumo alimentare capriccioso. Ma meglio del niente assoluto. E tu, grumo d’innocenza saltellante, perdonami ancora una volta di usarti a paravento dei paterni mini-furti galanti.
Poi arriva il tenente. Si fa la pace, con la mediazione mia e di Rina. Un ghignetto coboldico mi stuzzica il cervello col pensiero-piuma dei Küsse e touches appena filati fra il gramo sottoscritto e la sister bella del bel tenente. Si parte. Fra un’ora tutti a casa di Susy. E ci siamo. Banalità conversatorie, a maggioranza “clinica”: il molare della mamma concede una mezza tregua, frenato dagli analgesici, ma non demorde completamente. Poi l’idea del rinfresco, tra dolci e bibite. Nello stesso contenitore cronale del piccolo simposio, un altro timido dialogo by feet and legs. Che però, nel prosieguo delle ciarle, si sbilancia, si fa sempre più concitato, audace. Fino a una sciocca temerarietà, la rischiosa intraprendenza di intreccio betwin fingars, complici gli estivi sandali. Ah, il lungo concitato fanciullesco dialogo denso di muti pensieri! Com’è che certe fisiologie non maturano mai? Penso a me stesso ─ avrebbe detto l’amico Camus.
E viene il tempo del genitore, che arriva sul tardi, a chiusura del negozio compiuta. Il pater familias gran lavoratore, ma discutibile esempio di paternità. Il concitato di cui supra continua, spinto da una specie di ebbrezza a dimidiata coscienza-vigilanza. Finché, d’improvviso, non lo blocca un lampo di avvertita prudenza: l’estremità esploratrice viene ritratta e si toglie ogni causa seconda alla possibile deflagrazione. Mi avrà capito, Susy? Penso di sì. Non era in vista alcun altro pretesto di lite muta: unica musa, la risvegliata coscienza prudenziale. Ed ecco un fiore di compostezza che nessun presente ha apprezzato, non avendone colto l’assenza nei torridi (per noi) minuti dello spericolato duetto podalico.
Alle ore 0, 30 si ritorna a casa. Il commiato è un tripudio di saluti e baci generali. Anche Rina ha avuto-dato i suoi al bel tenente: un casto assaggio labbra-guance, certo. Ma, anche qui, meglio di niente, vero? A volte un piccolo, innocente contatto epidermico, faute de mieux, sa gratificare, a suo modo. Ah, poter leggere dentro quel plurimiliardario caos ordinato delle mappe neuronali! Leggere e trasferire in un video segreto di puro consumo privato.
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Ore 15. Fra poco si parte. Si torna alla famiglia estesa, ai suoi guai, alle sue sofferenze. Alla sua routine interrotta dal caso Valeria.
Domande retroattive martellano lobi frontali e sotterraneo limbo encefalico. Mi chiedo: perché quella sfida? Contro tutto e tutti. Come mai non mi ha fermato, o almeno frenato, il pensiero del bambino, di mia moglie? Ma di lui, sopra ogni altra cosa. Si può deragliare, dunque, fino a questo punto? Per amore. Per quel viluppo di biochimica ormonale che diciamo amore. Questa specie di fame trasferita (per dirla alla Gulizza). Che brividi. E che torsioni al fegato. Ancora oggi, a pensarci. E non penso tanto alla schermaglia podalica, in domo puellae, rischiosa, sia pure, ma non troppo; sì a ben altre “entrature”, più intrusive e in proporzione spericolate. Insomma, memento odoris. Fulmineo l’ingresso, e troppo breve l’indugio nell’umido valvare, ma un po’aspro il moto di toccata e fuga nell’esplorazione strozzata (che le abbia fatto male?). E in quali angoli di casa nostra? In quali tempi? Angoli disertati per veloci minuti dalla “padrona” di casa, lei impegnata con l’innocenza capricciosa. Poi la sua conversazione con l’innocenza parlante, là dietro, nel rifugio cucina. Che gaudio, certi furtarelli. Ma anche quali timori e tremori, al sospetto che “qualcuno” potesse sorprenderci. Sarebbe bastato un oggetto caduto sotto il tavolo…
Homines sumus, non dei. Chi meglio di lui lo sa e può dirlo? Petronio, Satiricon: suggestioni. Eppure, un certo odore “divino” emana dalla sua morte piena di dignità e romana fierezza. Penso a Nerone e ai suoi molti calchi storici. E, per connettivo contrasto, a Seneca: ma non tanto per l’uguale fine post-congiura, quanto per le “Lettere a Lucilio”, che in questi giorni mi è capitato di leggere, a spizzichi. Fossi capace di accoglierne consigli e memento sulle insidie della passione!
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Zefiria, 30 agosto

Mezz’ora di scrittura veloce per una somma “aritmetica” di fatti in fuga.
Giorno 10, sera. Dopo il viaggio, con le sue sudate fatiche agostane (strade piene di traffico, attese ai traghetti, smanie termofobiche del bambino, eccetera), abbraccio generale con i parenti stretti, meno mamma e sorella Valeria, entrambe, dolorosamente, in clinica, col batticuore.
L’indomani mattina, a Liotria, clinica Scaccia, per visita a Valeria. Commovente incontro, con lei e con la trepida mamma, rimasta tutta la notte al capezzale dell’inferma. La tenera corresponsabile della mia non richiesta presenza nel mondo discutibile non finiva più di baciarmi (come un figliuol prodigo ritrovato. Ma l’avrò scritto altre volte). E siamo ritornati anche la sera, con mio fratello. Così i giorni successivi, dodici e tredici. Guardo la ferita di Valeria sotto le reni: un cratere spaventoso. Ci vuole un bel po’ di tempo perché si riformi la carne, dicono. Intanto, sto male pure io: mal di gola in crescita e brividi di freddo per tutto il corpo. Giorno 14. Accompagno mio cognato alla stazione: riparte per Zefiria, calamitato dai suoi molteplici impegni (inclusi quelli galanti a varie punte, c’è da credere).
Verso le quattro mi metto a letto con febbre alta e forti dolori alla gola. E’ stata un’imprudenza uscire di nuovo per servire il cognato. A letto resto quattro giorni, con febbre ostinatamente alta e forti dolori laringo-faringei. Faccio chiamare il medico, il vecchio amico Melo Grosso di dodici anni fa. Mi prescrive sigmamicina. Perché proprio lui, dopo anni di lontananza spaziale e, soprattutto, affettivo-relazionale? Forse perché altri amici mi hanno deluso. Forse, anche, per un improvviso fiotto di nostalgia irriflessiva. Dopo tutto, non c’era stata frattura tra noi, solo un morbido, ma tenace distanziarmi da un soggetto diventato troppo invadente, poco discreto (come si fa ad aprire senza bussare porte interne quando si sa che in casa ci sono giovani sorelle dell’amico ospite?) Ci siamo fatta una specie di rimpatriata. Al quinto giorno finalmente riesco ad alzarmi, la febbre calata, ma lo stomaco rovinato dagli antibiotici. Né solamente il sensibile sacchetto gastrico, ma l’intero serpente enterico, fino al retto, dove fiorisce un dolore malvagio ad ogni evacuazione. Che sono frequenti, e infallibili, appena il cibo transita per il piloro. Il tessuto anale è gonfio e rosso, le vene emorroidali, sotto e dentro la mucosa, turgide da scoppiare: difatti, nel pulirmi, scoppiano volentieri. Per pochi giorni di cura antibiotica! Forse le dosi erano eccessive, forse l’antibiotico usato mi provoca intolleranza. Vai a saperlo. Intanto, quest’avventura clinica lega un altro futuro ricordo negativo al paffuto Melo, medico curante d’occasione. Nemmeno a Zefiria ho a disposizione genî clinici, ma vigilano meglio sul professore in servizio nelle superiori del paesotto: il (piccolo, ma non insignificante) peso sociale funziona anche in questo tipo di relazioni.
La sera, piacevoli visite di mio padre. Serene conversazioni su temi vari. Con prevalenza di quelli familiari e problematici. Lo zio Marino, sposo dell’unica sorella di papà, accusa strani dolori alle spalle e disturbi vari, perfino episodi di vomito. Sono in corso accertamenti. E io temo un secondo viaggio agli inferi ravvicinato, dopo quello, ancora bruciante, di zio Silvio. Papà scivola volentieri anche nei ricordi lontani. Ho l’impressione che lo stato di malattia mi renda “più piccolo” ai suoi occhi. Cioè, come riavvicinato all’infanzia o adolescenza. E il mio ego umiliato (quelle continue scariche dolorose, a ogni pasto, subito dopo, colazione, pranzo o cena che sia!) allenta i freni, si lascia un po’ andare a ricordi e rimpianti. Si “rimpicciolisce” di suo accanto al genitore “molle”.
Arrivano anche cartoline illustrate. Due sono di Susanna, che se la spassa a Taranto con fratello e cognata e famiglia di lei. La portano in giro, le fanno conoscere altra gente “bene”, organizzano incontri di amici, viaggi nelle zone turistico-monumentali dell’Apulia; eccetera. Così si apprende da una telefonata della sorella Tina, che, per conto della sua famiglia, chiede notizie su mia sorella Valeria di cui conoscono la brutta avventura. Una cartolina è di Didia: affettuosi baci a tutti, un mucchietto speciale per Giampiero. La piccola, imponderabile Didia, innamorata di ...Giampiero: a quanti chili sarà ridotta nel suo corpicino fatto in economia? Un lampo di “pensiero” sul drappello sororale della Casa: cinque sorelle cinque, di cui lei è l’ultima arrivata. Ma io ne conosco solo tre. A quest’ora avrà detto “sì” a Rinaldo.
Poi arriva mio cognato da Zefiria, e mi porta una lettera della ricordata Didia e un vaglia della Gazzetta dello Stretto (per gli ultimi tre articoli): somme ridicole, ma tant’è: quella è gente senza rossore in faccia, direbbe mia nonna buonanima. Sono miliardari e tirchi da morire. Di noi collaboratori in fregola di cultura, approfittano, sapendo bene che saremmo disposti anche a pagare noi pur di essere pubblicati. E meno male che io ho là dentro il santo protettore. Torna da Roma anche mio fratello, sempre per la sorella malata. Di lui ricordo la lite con la direttrice della clinica poco prima di partire per la capitale. Finisco col litigare anch’io, ribadendo le minacce di denuncia in caso di ulteriori complicazioni. Lei si schermisce e, non senza alzare la voce a sua volta, scarica la responsabilità sul primario-proprietario. Il quale ha capito l’antifona e sta in allerta, spiegando anche il massimo delle sue non eccelse capacità cliniche per sanare la ferita. Ma il più dipende dalla reattività del corpo.
Mentre stavo a letto con la febbre ho ripreso e finito di leggere Le furie, di Guido Piovene, e oltre la metà di Una vita violenta. Il Piovene “furioso” è meno tortuoso, meno cavilloso, meno moralisticamente cerebrale e cattolico del giovane autore noviziale. “Lettere di una novizia”, però, rimane anch’esso un testo gradevole, a suo modo, e per certi versi, ma con l’handicap delle estenuanti lungaggini sottese da quei rilievi. Pasolini è realista fino all’iper fastidioso. Manierista, esibizionista, polemico, con la pretesa di fotografare il fascino orroroso del mondo borgataro romano (e, in allusiva estensione, non solo quello). Ma la novità della scrittura e della visione incuriosisce fino al godimento (beninteso, saltuario). Scriverò, forse, un lungo articolo su “Pasolini profeta del corpo”. E sottolineo forse. Il Pasolini “violento” l’ho finito qui, a Zefiria. Dove ho continuato pure il godimento del romanzo-rivelazione di Strati, “Tibi e Tascia”. E scrivo godimento senza esitazioni e riserve di peso: quei dialoghetti vivi, scoppiettanti, così veloci e incisivi, sono una vera goduria. La psicologia dei piccoli “selvaggi” della campagna sudica (direbbe il mio amico Zicàra, studioso del dramma storico meridionale) vi è tutta spiegata, con penetrazione attenta e cauto realismo. Inutile scriverti addosso, quaderno, che Tascia mi ricorda qualcuno a noi vicino, molto vicino. Anche se attualmente lontano. Troppo lontano.

Giorno 19. Partenza per Zefiria. In folla. Siamo: noi tre, il fratello di Rina e il mio, mia sorella Lara (la piccola della nidiata prolifica), e, buon’ultima, la dodicenne nipote Vannina, figlia maggiore della sfortunata Valeria, (la quale, ormai, pare in via di centellinato ristabilimento). Gli ospiti elencati restano qui, da noi, fino a domenica pomeriggio (tranne il cognato, che ha la sua dimora indipendente). Sabato sera arriva, come da programma, il fidanzato di Lara. Resterà qui la sera del sabato e la domenica.
Domenica 20 agosto. Tutti al mare, in comitiva. Cioè, il nostro terzetto familiare, gli ospiti e il trio Carolui. Gli ospiti, con la migliore disposizione d’animo e di corpo, godono l’interminabile spiaggia, il mare calmo, il carnaio colorato. Un po’ meno la calura africana. Forse qualcuno s’è pure illuminato d’immenso, senza saperlo. Molte le immersioni delle ragazze e di mia moglie. Gioiosamente eccitato Giampiero, ormai in buona confidenza col liquido Nettuno, oggi propizio. Poco prima di mezzogiorno, partenza per Zòllaro, fascinosa contrada di montagna non lavica. La comitiva del mare al completo. Goduto per poco il paesaggio e il panorama: il tempo si guasta rapidamente, nembi-titani vengono su da oscure voragini d’imprevisto retromontano e, improvvisati falchi d’infera scaturigine, divorano lo sparso azzurro come tenere colombe indifese (ma guarda che baroccame di metafore). E poi ci pisciano in testa una frenetica pioggia di breve corso. Lasciando Zòllaro, le due macchine scendono verso Ghera la bella, Ghera la mitica, bomboniera di tesori architettonici e varietà di preziosi resti urbani distesi nel tempo lungo della molteplice storia. Ma la comitiva gusta appena la cattedrale con le sue colonne “individualiste” e scontrose, e poi viene risucchiata in interni banalmente borghesi di domestica dimora privata: siamo in casa di parenti della fidanzata del cognato (cugini dell’avvocato Carolui). La noia-rito delle presentazioni, mio cognato che recita la parte del fidanzato buon ragazzo (oltre che bello: unica qualità “morale” di non contestabile certezza); la fidanzata sempre attaccata a lui; le altre femmine impazienti di accorciare la visita. Ma si deve rimanere almeno una mezzoretta. E si mangiano delle buone pere di produzione domestica (hanno un esteso podere). I più giovani trovano modo di fare anche qualche giro di ballo. Naturalmente, non manca il twist, né Peppino di Capri.