domenica 13 settembre 2009

Susanna, frammento 40


27 luglio

Abbiamo fatto gli scrutini, in due tappe, per tutta la giornata. Con un incidens del tutto inatteso. Giunti a Susanna, il presidente della commissione, professor Dell’Acqua, come se nulla fosse, fa una mirabile rivelazione. “Dicono che questa ragazza sia l’amante del professore”. Il professore sarei io. Indicato con un cordiale cenno del capo e un roteare d’occhi luccicanti sopra un sorriso appena disegnato sulle improvvide labbra, subito serrate dopo la sparata. Ma non del tutto sgombre da quel residuo ridens.
Ed è subito festa: di postille interrogativi falsità finti moralismi ironie piccate e voraci complimenti. Insomma, pettegolezzi. Della più bell’acqua (scusa la battutaccia, quaderno: m’è scappata). “Come! – dicono – sposato, con tre figli, ed ha l’amante. Lei ha tre figli, professore?” “No, presidente, ne ho uno solo.” “E sua moglie, non è sempre stata con lei?” “E’ sempre stata con me, da quando sono a Zefiria.” “Dicono che se ne sta a Liotria, e che è arrivata solo in questi giorni.” “Ne dicono tante, presidente. Al novanta per cento, si tratta di fantasie sballate. Come tutte quelle che lei ha appena riferite.”
Il presidente parlava sorridente, con aria scettica. Io ero stravolto, e scrutavo in faccia i miei colleghi avidi di rivelazioni, le mie gentili colleghe in tensione luccicante. E mentre ne ammiravo la curiosità piccata, mi dipingevo la faccia di sdegnata innocenza. Tucano, al solito, era il più acceso e postillava più che mai provocante: “Non sarà vero, ma se lo fosse, saresti da invidiare. Onore al buon gusto. E al cu…” “Stop, Marione, ti prego.” – Allegre, pruriginose risatine fra le donne. Una non tacque: “Il professore Tucano voleva dire sicuramente “al cuore.” “Come no, collega, chi ne dubita? Onore al buon gusto e al cuore. E io ringrazio, ma non posso ammantarmi di tanta gloria.” Brighelli pitagorico volle consolarmi, secondo il suo stile bonario. – “Non farci caso. I paesi, si sa, sono così: impiccioni, maligni e pettegoli”.
Si sa, si sa. Ma perché, poi, soltanto i paesi? Ed eccomi sprofondato in un impegno di recita degna di un Gassman appena più pacato. Devo essere stato abbastanza convincente, tutto sommato. Ho illustrato la buona amicizia fra Susy e mia moglie, la sua naturale estensione alle rispettive famiglie, l’affetto di Susy per Giampiero. E via perorando. Con l’ottanta per cento di verità e il resto sepolto nel silenzio. O al contrario. Fai tu, quaderno.
O tu, improbabile lettore del tremila residuale.
*
Tutti i membri della terza Commissione siamo stati ospiti, oggi, di un notabile bozalinese (cioè, di Bozalino, paesetto vicino a Zefiria), un certo De Donato. Ottimo il pranzo, con tante portate tutte squisite, e molto buon vino (dalle vigne del signorotto). In più, una provvista di aria pura, molto ossigenata e variamente profumata. Il luogo, una villa dell’ospite, immersa nella campagna, a poca distanza dal paese e non lontana dal mare. Che era calmo e luccicava di riflessi (e, pareva, anche d’ironia) davanti a morbide colline gialle di stoppie, a tratti bruciate.
Questo De Donato è un omino dall’aspetto insignificante, ma di grande ambizione. Non ama solo i soldi, tiene anche a un solido prestigio culturale e ostenta una cordiale liberalità. Ha una biblioteca di tutto rispetto, due grandi stanze piene di libri di vario genere e valore, ma, credo, nessuno banale. In più, un altro stanzone, situato nel vasto cortile, e distinto dal corpo centrale dell’edificio abitativo, ospita giornali e riviste: annate intere di riviste letterarie e filosofiche, di alcuni rotocalchi (con l’immancabile Espresso); e poi quotidiani: Gazzetta del Sud, Gazzetta dello Stretto, Corriere della sera, La Stampa, Il Giorno, Il Tempo, Il Messaggero, l’Unità, Paese Sera. Il tutto, razionalmente distribuito e collocato. La vetta insospettabile di tanta passione è una sala per conferenze, ampia e attrezzatissima: grande tavolo con microfoni per gli oratori, comode sedie con minitavolino retrattile e necessaire di scrittura per il pubblico. Insomma, una combinazione antropologica rara, questo simpatico esemplare della vecchia aristocrazia agraria. Rara in generale, però: un po’ meno nel nostro Sud, dove non è impossibile trovare ricconi e benestanti colti disposti a spendere per la cultura. Ma quel che resta eccezionale è il vertice proiettivo di questa fame culturale: quella magnifica sala per conferenze.
Imposibile impedire un pensierino dialettico sul gioco degli opposti che agita la vita di certe realtà: qui, il nostro Meridione, così vivace culturalmente e tanto straziato da una malapianta assassina che ha tutti i titoli per durare quanto l’ircocervo homo sapiens che l’ha prodotta e la nutre. Tra quei titoli, oltre il lungo pedigree storico, la sistemica complicità della classe politica e di quella imprenditoriale con quella malapiaga. E sia detto con la difficile riserva di rispetto per le magre minoranze non conniventi.
Bilancio positivo, insomma, di questa giornata: per conoscenze nuove e interessanti, per la variamente gradevole o intrigante compagnia, la smemorata allegria. Anche se non senza qualche insidia. E proveniente proprio da chi meno me l’aspettavo. In vino veritas, avrà pensato Brighelli. Così mi ha inzuppato di vino lo stomaco recalcitrante distraendomi con le chiacchiere, deciso a strapparmi la verità sui miei reali rapporti con Susy. Quando mi ha giudicato “allegro” al punto giusto, mi ha sparato in faccia la domanda assassina: “Allora, è vero?”. E non pensai di rispondere, neppure per un attimo, dietro la domanda traditora, l’apparentemente ovvio “Che cosa?”: l’implicito della forma ellittica saltò subito a galla. Susanna sgorgò da quel pozzo bacchico radiosa come Venere dalle acque materne. E forse la sua immagine subito esplosa mi suggerì la risposta azzeccata, la scaccia-dubbi: “Magari!” Un sospiro lungo di aria ingorda. Lui c’è cascato tutto: “Ora ti credo”. Meno male, pensai, non senza un pizzicore d’orgoglio: t’ho fregato!
Ecco il punto (de hominum natura): finché mi limito, anzi mi ostino, a negare, mi si può credere o no. Bene che vada, mi si crede a stento, in parte, con riserve varie. Ma se rispondo “magari!” (un sospiroso magari!) la fiducia scorre agevole e liscia dentro le teste dei cari colleghi. Nei maschi, certamente con la spintarella dell’invidia. Perché, è chiaro, io non posso, secondo loro, non desiderarla: e qui c’è poco da obbiettare. Ma posso benissimo non avere ottenuto, e non ottenere, nulla da lei. Anzi, per alcuni (certo, fra i meno fortunati con le donne), dovrei necessariamente fallire eventuali avventati approcci. Che pretendo, col mio fisico sì poco apollineo, dal viso al calcagno (particolari a parte) ? Una bellezza come Susanna non deve sprecarsi con sì mediocri morfologie. Mica bastano occhi belli e mente sveglia: dove andremmo a finire a furia di apprezzare qualità nascoste e imponderabili virtù? Bah, l’importante è che mi credano.
*
Finite le operazioni formali degli scrutini, invito a casa mia i colleghi disponibili (cioè, non impediti da orari ferroviari o altro). Sono Artuso, Brighelli e il presidente con la consorte. In casa c’è Susanna, a far compagnia a mia moglie. La combinazione era studiata per fugare gli ultimi (?) dubbi sul Caso. Il movimento s’è svolto così: Brighelli e Artuso arrivano primi, insieme, e restano una mezz’oretta con noi; poi si va a prendere la coppia presidenziale. Presento Susanna ai colleghi appena entrati, e, poco dopo, la invito a ringraziarli. “E perché dovrei ringraziarli?” – fa quella testolina incorreggibile. Fa finta di non saperlo, la sciagurata, di non ri-conoscere quel così poco misterioso perché. Rimbecco appena, sorridendo, su quel diniego, e non insisto. Ma raggiungo mia moglie in cucina e la prego di intervenire. Di convincere Susy a quel gesto “doveroso”. Ci riesce. Rina ha un buon ascendente sulla ragazza: vi concorrono sensi di colpa e sentimento di gratitudine per le premure dimostrate dall’amica più anziana nelle più difficili situazioni esistenziali. I due commissari incassano il grazie di Susanna e aprono una piccola conversazione: si iscriverà, la signorina, all’università? Forse. E, nel caso, in quale facoltà? Pedagogia, probabilmente. Quali preferenze culturali ha? Le piace leggere romanzi, a cominciare dai classici (sic). Ma legge anche qualche autore contemporaneo, soprattutto calamagnese. Per esempio? Lei dice alcuni nomi. Indi notizie sulla famiglia: genitori, fratelli, sorelle. Il padre? Ha un negozio di tessuti. Lo zio materno preferito, che loro per caso hanno conosciuto, gestisce due cinema. Allora Brighelli le chiede una tessera per l’ingresso gratuito. Scherza, naturalmente: abitando a cento chilometri di distanza, non potrebbe comunque utilizzarla. Ma lei, ad ogni buon conto, risponde di no. Mio commento mentale: naturam expellas furca, tamen usque recurret. Che tradotto in linguaggio aggiornato comporterebbe un omaggio a mister Crick, e a mister Watson, confermatori ignari (forse) del buon Orazio satiro: i geni (come il dio di Einstein) non giocano a dadi. Insomma, Susy come Susy: ad ogni gesto e apertura funzionale di bocca (che ora sfodera un eburneo sorriso al novanta per cento della magnifica dentatura).
Si beve tutti e quattro l’aperitivo. Poi Brighelli, Artuso e il sottoscritto si va insieme a prelevare il presidente e consorte all’albergo Panda nel paese vicino, circa dieci chilometri da Zefiria. Ci porta Brighelli con la sua 850 Fiat coupé. Dove si sta scomodi, dietro, ma ci sono voluto andare io, declinando l’offerta del sedile anteriore. A un certo punto, i due, all’unisono, ci tengono a dirmi che, dopo aver conosciuto mia moglie, mi credono senza più riserve sui miei rapporti con Susy. “Hai una moglie molto simpatica, anzi veramente bella”. Già: un buon paravento. E Artuso aggiunge: “Quando si ha una moglie bella e giovane come la tua, non si sente il bisogno di cercare altri pascoli” .
O gran bontà de’ cavallieri antiqui. Caro, semplice e ignaro matusa letterato! Chissà com’è la sua cinquantenne moglie. E chissà quella del giovane Brighelli, poco più che mio coetaneo. La meraviglia e ammirazione mostrata per le due bellezze “di casa mia” farebbe germogliare qualche dubbio sulla loro comparabilità all’ambo suddetto. Ma poi chi può sapere? Intanto, mi congratulo con me per l’idea di portare in casa i due colleghi: contavo sull’effetto Rina per fugare le ultime nubi di sospetti e dubbi. Fugarli, ahimè, soltanto dentro la commissione. Tutt’al più. Ma temo il parzialmente anche lì dentro: potrei mai sperare, per esempio, di convincere la collega e signora Gentile, che se la rideva a gola spalancata con Tucano stuzzicone sul conto di Susy “serpe follicolinica”? Convincerla di un’amicizia innocente solo presentandole mia moglie? Decisamente, no. Figuriamoci fra le disinibite girls del corso E e in giro nel paese.
Pazienza: meglio di niente.

L’effetto Rina, comunque, è stato ampiamente confermato sulla non più giovane moglie del presidente: fin dal primo contatto visivo. Che è stato, sull’attenta signora, non solo scopertamente ammirativo, ma anche insistentemente esplorativo. Fin quasi all’impertinenza. O almeno all’imbarazzo dell’ignara esaminata. Si sarebbe detto che l’esploratrice cercasse ogni ombra di eventuale difetto per dimensionare più ragionevolmente quell’inatteso fenomeno. E anche per accreditare le mie proteste di innocenza verso Susy. Insomma, la signora Dell’Acqua non si risparmia davvero nello sciorinare elogi per la bellezza di Susanna abbreviata in Susy e di Severina troncata in Rina. Diverse bellezze, dice: l’una, quella di Susy, più mobile e aggressiva; l’altra più dolce e serena; ma dello stesso livello. Senz’altro. D’accordo tutti (me compreso). Quindi la gentile signora racconta addirittura un “pettegolezzo”.
“Mio marito mi aveva parlato di una candidata bellissima, una certa Sofia Spanò. Ne ero incuriosita e lealmente ben disposta ad apprezzare la fortunata. Ma quando l’ho vista, ci sono rimasta male: quella sarebbe una ragazza bellissima? Mi sono dispiaciuta per mio marito: i suoi gusti, pensai, si sono deteriorati. E non solo lo pensai, ma glielo dissi. Poi mi capitò di vedere la signorina” (mobile cenno cordiale a Susanna), “e allora, sì, esclamai: questa è una vera bella ragazza, lei sì ch’è veramente bella: in ogni particolare.”
E chi può darle torto, signora? Poi la gentilissima ha aggiunto che anche Rina supera di molte lunghezze la presunta bellezza indicatole dal marito. La quale, tutt’al più, potrebbe dirsi simpatica, accettabile. E mentre le celebrate si profondevano in ringraziamenti, e tentavano, con lieve accensione di rossore, di assumere un atteggiamento di modestia più o meno convinta (specialmente l’imbarazzata Rina), io cogitavo ancora una volta sul caso: spero di avere liberato anche il presidente degli ultimi dubbi sui pettegolezzi che corrono intorno a me e Susy. Naturalmente, sia le due Veneri che io ci siamo prodotti in elogi di riconoscenza e reciprocità verso la matura signora. La quale non era propriamente una bellezza, per certe prominenze dentarie in una bocca esclusa dalla perfezione delle altre due presenti. E tuttavia non era priva di certe grazie, anche se limate dal tempo. Lei si ritrasse con accorta modestia o sincera coscienza dei personali limiti, ammettendo, al più, di essere (stata) “una donna piacente”, ma non certo una rara beltà. E invece sì, e no, per carità, e lei è modesta, e così via cerimoniando. Anche i due colleghi sono stati coinvolti nella disputa galante, e costretti a darci man forza nella gradita impresa di premiare la rara lealtà della signora presidentessa verso la giovane concorrenza.
Esaurito il capitolo omaggi alla bellezza, anche il presidente e signora hanno curiosato, garbatamente, sulle intenzioni di Susy, il suo avvenire, i suoi studi, la famiglia. Insomma, tre quarti d’ora di non discare banalità. Utili, ne sono sempre più convinto, man mano che passano le ore, alla demolizione dei “pettegolezzi”: avevo acquistato, con quelle visite, quattro testimoni a mia difesa contro il maligno paese fantasioso (taci, quaderno).
*
A completare il gran pieno della giornata, stasera stessa, alle ore nove, siamo andati a godere Mina (e, sì, anche un “surclassato” Nino Taranto) sul bel lungomare di Siderato. Abbiamo portato con noi Susanna e la sorella più piccola, Tina, nostre ospiti. Spesa sostenuta dalle mie modestissime risorse, lire diecimila. E mai più con tanto piacere e soddisfazione. Entrambe le sorelle aspettavano la cantante, indifferenti al comico, e alla sua meritata fama di mostro sacro della comicità. Quando Mina è apparsa sul palcoscenico, Susy ha avuto un sussulto, come l’effetto di una scossa elettrica. Non esagero, l’emozione l’ha sconvolta. Tremava di eccitazione euforica come una bambina davanti a un dono grandioso a lungo atteso con poca speranza. Mi sono detto: beata lei che è ancora in questa fase dello sviluppo emozionale. Una volta, ma quanti anni fa?, anch’io mi accendevo di parossismo ammirativo davanti ai miti dello spettacolo calati dall’empireo delle distanti immagini cartacee o catodiche in corpi di carne a distanza di braccia e gambe. Anche Tinuccia era agitata di entusiasmo, ma niente a che vedere con l’“orgasmo” della sorella maggiore. La quale, come sapevamo tutti gli amici, era da tempo innamorata della “Tigre di Cremona”, e ne aveva fatto un modello estetico, limando, tra l’altro, le sopracciglia (ma per fortuna, non fino all’inestetica rasatura della diva). Non la turbava il fatto di essere lei più bella del pur grazioso idolo. Non la inorgogliva per niente che un confronto con Mina avrebbe premiato senz’altro Susy presso una giuria maschile. Ed è rimasta incantata per tutta la durata dello spettacolo, che ha “forato” abbondantemente la mezzanotte. La guardavo in tralice, e ogni volta la coglievo in estasi, gli occhi persi sulla figura magica, le orecchie piene della sua voce incantevole. Non un minuto secondo di distrazione. Sono sicuro che la sua immagine, il volto teso, gli occhi lampeggianti, le guance rosate di piacere, le gambe, di tanto in tanto, sollevate, le ginocchia ora abbracciate, ora appoggiate sulla spalliera del sedile davanti, mi rimarrà scolpita nella memoria più gelosa, indelebile fino alla vecchiaia, se mai ci arriverò. Più di Mina, che dal momento di quel sussulto-cortocircuito guardavo solo in funzione dell’altro, per me più intimo, spettacolo: l’estasi di Susanna, appunto. Non senza collegare le parole delle sue belle canzoni alla nostra situazione sentimentale: se adesso te ne vai / un giorno saprai / cosa vuol dire / un anno d’amore [...] E se domani/ io non potessi/ rivedere te/ mettiamo il caso/ che ti sentissi/ stanca di me/ quello che basta all’altra gente/ non mi darà/ nemmeno l’ombra/ della perduta fe-li-ci-tàaaa […] E se domani/ – e sottolineo se –/ all’improvviso, perdessi te/ avrei perduto/ il mondo intero/ non solo te/[…] mettiamo il caso / che ti sentissi /stanco di me... Naturalmente, sto citando a memoria, e dunque a pezzetti, con dubbia sequenzialità di versi e versetti. La voltura al maschile, poi, di quello stanco di me è una tentazione di ovvia banalità infantilmente autobiografica. Perciò la lascio dentro le meningi. Anche se intrisa di timori e presentimenti bui.
Alla stessa temperie assegno un’altra coincidenza: la canzone di Mina, E se domani, ha la stessa età della mia love story: è nata nello stesso anno del suo germogliare. E ancora domina le hit parade. Più che meritatamente.
Le parole, ma anche la musica, e soprattutto la trascinante voce e le mossette e vezzosità della straordinaria cantante si figgevano nella memoria emotiva come chiodi di luce indelebili in un contesto rapinoso (e scusami, quaderno, ancora una volta non ho tempo di cercare parole meno altisonanti e concettose).
Magnifica serata, dunque. Per il piacere dello spettacolo, per la reazione di Susy, per il godimento di Rina e di Tina, anche loro ammiratrici di questa regina del canto leggero. Al ritorno, naturalmente, Giampiero, rimasto affidato allo zio, dormiva della grossa da un paio d’ore.
Inutile aggiungere, quaderno, che l’ospitalità offerta alle due sorelle mi gratifica di un parziale ricambio della generosità di Susy verso Giampiero.

29 luglio, ore 23

Ultimi incontri a scuola col presidente per la consegna dei pacchi alla segreteria. I pacchi sono quelli, regolamentari, che contengono, sigillati, i compiti scritti, i diari delle prove orali, le tabelle di valutazione, i verbali, insomma tutti i documenti che vanno al Provveditorato, dove rimarranno inaccessibili per almeno cinque anni. Almeno, questo è quanto promette la norma.
Finite queste operazioni conclusive, in malinconica solitudine, e con la nostalgia del caldo rumorio delle ragazze candidate (e perfino del batticuore per Susy esaminanda), accompagno il presidente al suo albergo per ringraziare la signora. Ieri sera era tornata da noi con un dono per Giampiero, una bella scatola di caramelle pregiate. Ma noi eravamo beati sul lungomare sideratese, con Mina e col mito. I nostri vicini e parenti hanno informato la presidentessa e accettato di custodire il regalo. Lo abbiamo avuto stamattina.
La sera sono andato al cinema, a tentare di sciogliere un po’ della tensione accumulata fra tanta calca di eventi. Ho visto una commedia leggera, al cinema centrale, uno dei due gestiti in affitto dallo zio di Susy. Al ritorno a casa trovo lei, in conversevole compagnia di mia moglie. Empaticamente capisco che neanche Susy riesce a stare in casa, inerte e vuota ma tesa, dopo tante emozioni, buon’ultime l’esposizione sociale degli incontri con commissari, presidente e loquace signora. Così sfrutta la nostra amicizia per “prendere aria”, e soprattutto, cambiare quella di casa propria. Mi fermo a parlare con loro, ma la cosa non scivola liscia sopra la pelle di Rina. Che, di tanto in tanto, si mostra gelosa. Sì, di tanto in tanto (tanto quanto?), dubita della mia esclusiva “simpatia estetica”, della sbandierata purezza di questa simpatia. “Tutti l’ammirano, tutti i maschi che la vedono la desiderano (compresi i tuoi colleghi, che se la mangiavano furtivamente con gli occhi), e tu vieni a cantarmi che ti è indifferente.” Obbietto: “A me, insisto, suscita soltanto una forte ammirazione estetica. Le donne che desidero (pardon, che potrei desiderare) sono più vistose, più in carne, di forme più evidenti, più rotondette, come te lo devo dire?” Lei: “Allora neanche io ti piaccio in quel senso” “Che c’entra, tu sei mia moglie” “Che discorsi!” “E poi, non sei forse più pienotta di lei?” “Ma va là”. “Insisto ancora. Susy è piccola di corpo, quasi esile, anche se proporzionata, con un bel seno e un sodo fondo schiena” “Ah, ecco, ti sei tradito: c’è pure il bel seno e il sodo, anche se ‘piccolo’, fondoschiena.” “Macché tradito. Confermo e replico: per quella funzione, e destinazione, le preferisco più tondeggianti e sode” “Ma di’ piuttosto che hai capito il tipo e non osi tentare. Seppure non l’hai fatto. Con scorno – forse.” “Come preferisci”, concludo. Non senza una punzecchiata diretta: “Ti sentisse la presidentessa! Lei ti giudica un angelo mite e inoffensivo. Non crederebbe che tu possa sfoderare gli artiglietti in compagnia della malfondata gelosia sessuale.” Replica alla replica: “Io sono, per carattere, come mi ha giudicata la presidentessa, ma tu riesci a farmi diventare scontrosa e antipatica.” “Mea culpa. Ti chiedo perdono.”
Ma sì, creda quello che vuole. Basta che di una cosa resti convinta: l’inaccessibilità della casta Susanna. La quale sfolgora in questa coda della sua insinuazione sul mio presunto blocco galante verso l’inaccessibile: Susanna – ci tiene a precisare Rina la dolce – “frequenta la nostra casa perché è così, seria e scontrosa. Se fosse un tipo diverso…” “Diverso come?” “Come piacerebbe a te.” “Ah!” Insiste e ripete la canzoncina (così poco Mina).
“Se fosse così, ripeto, come l’avrai sperata tu quando te la sei portata in casa per le lezioni private gratis et amore dei, non varcherebbe la nostra soglia”
Ed eccoci di nuovo a litigare. Tento l’ovvio sviluppo logico.
“Ma se sei così convinta della sua serietà, com’è giusto che tu sia, perché ti lasci prendere dalla gelosia, perché ti scaldi tanto?”
Rina s’indurisce (non capisco perché). Ne parte una raffica di insulti quasi gridati.
“Perché ti vedo fare il cretino.”
“Ma come?, come, faccio il cretino? E’ fare il cretino scambiare qualche parola con lei?”
“Ne scambi troppe, a volte. E ieri le sei stato dietro tutto il giorno, dongiovanni da strapazzo”
“Ma quando mai!”
“Tolgo ‘da strapazzo’? Però aggiungo che in certi momenti sembravi un cane dietro una cagna in…”
Interrompo: “Ahi, ahi, Rina, ‘cagna in calore’ non sta bene sulle tue dolci labbra carnosette e…pulite.” “Non tentare di addolcire la pillola. Non m’incanti.” E omissis sul resto.
*
Bilancio cupo. Il colpo di Rina è andato a segno. Come una lama nel ventre. Dietro tutto il giorno! Manco Susy avesse passato tutta la giornata con noi. Esagerata. Ma, insomma, perché l’armonia domestica non svapori nel risentimento fumoso, bisogna che io freni la voglia di vicinanza con Susy. Che la ignori il più possibile quando è qui, in casa nostra. Ma quanto sarà possibile senza scadere nella scortesia, generare sospetti e aggiungere danno al danno? Sarà difficile trovare il punto di equilibrio tra il bisogno di starle vicino, scambiarci qualche parola (fosse pure per litigarci) e l’irritabilità di Rina alle prese con i suoi ormoni messi in allarme. Difficile mascherare quel mio fremito affamato sotto i veli di una cordialità soltanto amichevole. Ma ci devo provare. Anzi, ci devo riuscire. A costo di lacerare qualche fibra del mio io-corpo in incipiente sindrone di astinenza. Il fatto è che Susy fra qualche giorno non sarà più in paese. E chissà se questi incontri, di pura amicizia senza esuberi, non siano gli ultimi per un tempo crudelmente lungo. O addirittura gli ultimi in assoluto.

30 luglio

Nigro signanda lapillo. Eh, sì: capita anche questo. Un giorno nero per futili motivi. Accade quello che non avresti voluto mai, caro allocco; che non vorresti accadesse neppure a una persona amata. Uno screzio grosso. Un vero e penosissimo scontro tra me e Rina. Che esito a descrivere. E se lo faccio, sarà per punirmi.
Perché s’è riaccesa la disputa della gelosia? Perché lei mi ha insultato di nuovo, sbandierato perfino i miei (reali e presunti) difetti fisici? Ma soprattutto, perché, per quale colpo di stupidità crudele le ho rinfacciato i suoi (la famosa non perfetta morfologia delle gambe; o piuttosto quasi soltanto della sinistra)? Che vigliaccata. E come ben ripagata. La mite mogliettina me le ha cantate per le rime:
“Non sono stata io a volerti; mi hanno voluto dare a te. Ero poco più che una bambina, malgrado i miei diciassette anni. E troppo sottomessa ai miei, a mia madre soprattutto. Ti stimava, ti voleva bene. E le piaceva il pensiero di sposarmi al figlio di una sua cara amica di gioventù.”
Brava Rina, canta, sfogati, me lo merito. Aggiungi pure, senza scrupoli:
“In ogni caso, sono sempre troppo per te.”
Ecco, l’hai detto. Forse hai ragione. Troppo. Troppo bella, malgrado quel difettuccio che ti ferma a un passo dalla perfezione fisica. Troppo mite, malgrado queste impennate all’artiglio reattivo. Troppo ingenua, ché non ci vuol mica il genio della malizia per sospettare in me un interesse sessuale verso Susy. E meno male che quel fondo di candore o di orgoglio ti fa credere a una Susanna blindata contro gli strali della slealtà vogliosa.
Ma come ha fatto lo screzio a divampare fino al suo micidiale “invito”: “Se vuoi, puoi anche andartene”? Altra lama nel ventre. Anche se avverto subito l’eccedenza della parola sui reali moti del suo cuore ferito. E tuttavia rispondo, piccato, che, se vado via, non vado solo; che c’è una bella ragazza disposta a seguirmi. E altre fesserie dello stesso conio. A un certo punto, lei lascia la tavola imbandita e si allontana. La trovo poco dopo nel bagno. Esce mentre io faccio per entrare, e si rifugia nella stanza da letto. Scoppia a piangere. Ma senza isterismi vocali. Silenziosamente. Un silenzio che assorda, però.
Era molto offesa. Aveva creduto alla storiella della ragazza disposta a fuggire con me. Tentavo di consolarla, commosso e pentito. Soprattutto, arrabbiato con la mia superficialità impulsiva. Avevo sopravvalutato la saldezza di Rina, scambiato la sua aggressione verbale per forza di carattere in schietta mostra. Mentre era un’iperbole mimetica per nascondere la sua fragilità. Ero avvilito. Le mie parole di conciliazione non bastavano a ridarle equilibrio serenità pace. Piangeva. E non c’era alcuna forzatura in quel pianto: solo rabbia impotente, senso di pericolo, stenta evoluzione verso la fiducia nella sconfessione che le scioglievo dentro le ben disposte orecchie: ma quale ragazza, quale fuga, quale stravaganza! Temeva che fossi matto? Se non voleva credere al mio amore per lei, non dimenticasse, almeno, che il mio sentimento paterno non mi consentirebbe mai una vigliaccata come l’abbandono della famiglia. E credesse nel mio profondo affetto. Tante altre cose le ho detto, e non le ricordo tutte. Finché non ha smesso di piangere. Però non ha voluto continuare il pranzo.
*
Si fa sera. Impigliato tra noia e rimorso, lascio Rina ancora chiusa nel suo mutismo, e vado al cinema. Nel locale più vicino alla nostra via e casa (quasi temessi di allontanarmene troppo). Non vi resto a lungo: torno al nido senza avere visto il film per intero. Anche la lontananza temporale, dunque, mi turbava: di che cosa avevo paura? Che cosa potevo temere che accadesse in mia assenza? Rina non era un temperamento così drammatico, da rotture drastiche, o colpi di testa da cortile. E tuttavia stavo teso e vagamente inquieto.
A casa trovo la Causa di tanto scompiglio. Susy stava sdraiata sulla sedia snodabile rossa, accanto al tavolinetto col giradischi. Fasciata e inguainata dentro il vestito bianco striato di bande nere regalatole da Rina, era più seducente che mai. Il saluto che mi rivolge è soffuso di un sorriso appena accennato, e la mia risposta mimica non lo contesta, dietro al ciao quasi in sordina. Tira aria di serietà triste. Susanna ignora la burrasca che ha provocata in casa senza sua colpa (se la nozione di colpa implica la cosciente volontà di farlo, il male), ma il suo sguardo inquieto emana un soffio di sospetto. Che cosa è successo? ─ chiedono i suoi grandi occhi d’ambra allungata (e per nulla ovati, caro don Luigi girgentano!). La mia smorfia di sorriso abortivo accompagna un lieve moto del capo verso Rina e il dito che picchia sulla mia tempia destra completa il messaggio: ubbie, malumori passeggeri, aiutala a liberarsene.
Le lascio sole: avranno tutto l’agio e il tempo necessari a una spiegazione, uno sfogo, il conforto dell’amicizia. Esco con mio figlio per fare la spesa, annuncio. Ma sottintendo la priorità confessata sopra. Ancora più sottintesa l’idea che Susy possa restare a cena con noi. Susy resta, sì, con noi, ma senza cenare: dice che ha pranzato tardi, che non ha ancora appetito, e via scusandosi. Ma ho l’impressione che non sia in linea col clima ancora pesante che grava sul domestico focolare. Che provi disagio, insomma, nel pensarsi al desco con i coniugi amici in freddo tra loro. Rimane, comunque, e tanto mi basta: in tempi di vacche magre, anche un sorso di latte appaga. Né la presenza di Susanna è stata soltanto un sorso di latte.
Il fatto più ostico al palato è che neanche Rina mangia. Ha interrotto il pranzo, è sera matura, l’ora di cena fisiologica, e non ha appetito, dice. Però: che capacità di rancore, porcodioniso! E vabbe’. Mangio da solo. O meglio, con Giampiero. Che ha appetito e felicemente consuma il suo pasto, refrattario alle fisime misteriose dei grandi. Perché non mangia mamma? Non hai sentito? Ha mal di testa e non ha fame. Ma allora perché suona i dischi con Susy? Ma, sai, il suo mal di testa non è forte, e poi, vedi, suonano piano. Forse s’è convinto. Dopotutto, la mamma lo richiama solo quando lui mette il giradischi ad alto volume.
Come dio vuole (e il suo doppio diabolico concede), si cena, con sfondo di musica, rare frasi di conversazione, intercalati di Giampiero e suoi sgambettamenti da una donna all’altra. Sul tardi, accompagniamo, tutti e tre, Susy a casa sua. Ci fermiamo una mezz’oretta, tra le solite ciarle, ma assai diverse da quelle del periodo pre-esami. E rincasiamo. Tento di convincere Rina a cenare, ma mangia soltanto una pasta di mandorla sicaniana. Anzi, realpoliese.

31 luglio.
0re 24

Giornata di noia in movimento. La mattina andiamo in macchina a Siderato a godere fastidi burocratici per il rinnovo della patente. Tutto risolto, ma che barba, e che pena per il tempo immolato. Rina resta col bambino a passeggiare sul corso, e forse indugia in qualche negozio, brevemente, come concede Giampiero. Liberati dalle scartoffie, ci portiamo sul lungomare. Più che per una passeggiata nostra, per dare spazio all’instancabile folletto che corre, ciarla, fa l’altalena ai giochi per bambini, sorbisce un gelato. E suda, sciogliendo la lingua ancora muta di Rina, che tenta di frenarlo, memore delle facili febbricole del piccolo troppo sensibile alle infreddature. Dopo il pranzo, io tento la siesta, loro vanno dai parenti in progress, là di fronte. La sera ci rechiamo in casa di Susanna per vedere lo spettacolo televisivo La Trottola. E ci siamo andati a piedi, perché mio cognato s’è presa la macchina (probabilmente, per un impegno galante extra, mentre la fidanzata lo attende fiduciosa in seno alla famiglia). Così abbiamo fatto pedibus calcantibus il non breve tratto di strada che ci separa da quella casa. Non senza proteste di Giampiero (forse si sente tradito dallo zio).
Lo spettacolo si rivela sempre più insipido. Più sapida la conversazione con i componenti della famiglia ospite. La madre, a un certo punto, si lamenta della scontrosità di Susy verso il padre. Che se la merita. Per vari motivi (uno dei quali sappiamo io e te, quaderno. Ed è certo il più pesante). Rina, che appare ormai risalita dalla depressione di ieri, esorta Susy ad essere più cordiale col padre. Che le vuole bene, ha sofferto per lei, ha rischiato di compromettersi per i suoi inghippi scolastici. Eccetera. Rina ignora, com’è giusto, di quale altro affetto è capace il genitore sanguigno. Susy dice che il padre talvolta è “scocciante”, e che lei, di questi tempi, si mantiene nervosa. Indi, diventa scontrosa ad ogni minimo pretesto di scontro. No, non è dolce con nessuno, la follicolinica. Quante volte è aggressiva anche con me.
Non conosco i motivi immediati e le contingenti occasioni della scontrosità verso il padre, ma so perché è nervosa e scattante. E’ combattuta tra la voglia di rispondere alla mia sfida (“Non hai carattere, ti fai comandare…”) e il desiderio di fare l’esperienza del viaggio, dell’ambiente nuovo, e così via. O forse dovrei dire: fra l’impegno di tornare dopo dieci giorni e la possibile gratificazione del restare a lungo. Vai a saperlo.

Prima domenica d’agosto

Di mattina (ore 10.30 – 12,30) siamo stati al mare, spiaggia di Zefiria. E’ con noi Susanna. Semifasciata nel costumino dell’anno scorso, è (c’è bisogno di ricordartelo, quaderno?) più che mai seducente. Ma cos’è questo puerile impulso di ripetermelo ad ogni occasione di incontro? “Sempre”, “più che mai”: forse coteste conferme sono meno superflue di quanto il coboldino disturbato di stasera pretenda. Probabilmente, la spinta subliminale segnala una differenza: Susy era più serena, stamane, sull’interminabile spiaggia coperta di ombrelloni e circostante bella carne al sole. E la serenità è nemica dei crucci che riducono lo splendore della perfezione. Et voilà, la riflessione è fatta.
Io evitavo di guardarla, dopo lo scompiglio di ieri (solo lampi obliqui di sguardi intimoriti. Ma chissà se sono riuscito a convincere mia moglie). Il piccolo ha fatto il bagno volentieri: ha vinto la paura dell’acqua e vi indugia dentro giocherellando con palla e scherzetti di spruzzi fra ragazzini.– S’intende che una anche modesta misura di allontanamento dallo spazio di sicurezza lo innervosisce e, se proprio non può ritornare vicino per orgoglio, ci tiene sotto l’occhio vigile, e magari chiama Susy “per giocare”.
Sono rimasto in acqua pochi minuti, non più di una diecina, e con scarso godimento. Pensieri cinerei, pollanti dalla situazione (domestica e periferica), tenevano bassa la temperatura umorale. Ho anche fumato, non una, come di solito, ma due sigarette: la prima come “aperitivo” del bagno, la seconda come “digestivo”. Segno certo di nervosismo in grigio. E poiché gli occhi erano obbligati a deviare dal loro “oggetto del desiderio”, li ho impegnati nella lettura: ho sorbito alcune pagine del terribile, e monotono, Kaputt. Persino scarabocchiato, su una pagina bianca, alcuni aborti di “impressioni”. Li trasferisco qui.

“La spiaggia, ore 12. L’arco frastagliato dei monti, pallido fondale inciso qua e là da tetti e petti di vecchie case e nuove palazzine, distanti dal mare quanto basta per solleticare l’illusione di una bolla isolante (di trascendenza orizzontale, direbbe il filosofo) intorno alla spiaggia. Il corpo dell’arco collinare digrada, anche, verso il paese, che sta in mezzo tra le sue masse casual e la grande spiaggia in sabbia e ghiaia cordonata dall’ampio lungomare che costeggia la ferrovia (indi, passaggi a livello a vari intervalli). Parallelo, e sottostante, un arcobaleno disordinato di corpi (s‘intende, femminili) e di ombrelloni colorati, davanti alla pianura del mare, fitta di palpiti bianchi come farfalle impaurite. Sopra, lo sbiancare meridiano dell’azzurro. La musica frusciante della risacca accompagna l’indolente saltellare di palle e palloni spinti da ragazzi ebbri di sole. Al mio fianco, il bel viso di Rina offerto a un Febo intenerito scacciapensieri. Un metro più in là, verso la mobile trina della schiuma bassa, altra grazia di presenza supina, offerta a un altro Apollo (sexy, questo) beatamente stimolante. Si allude, ovviamente, a Susy: intrisa di buon calore e ignara del mistero evocato, gode un relax smemorato (forse). Più spesso col viso al cielo, anche lei, interamente esposta all’intreccio della brezza che attenua il caldo, della luce che impone difese, del sapore vagamente salino dell’aria, del brusio circostante e del vocìo dei bambini ipercinetici. Né si può fingere che non pensi anche ai corpi affamati della coppia presente e disgiunta. Più che mai bella, più che mai perfetta (lo so, l’ho già detto e scritto) nel concerto delle parti. E pertanto mi fermo qui. Dentro la teca segreta, nei turbini neurelettrici polarizzati, la carezza estetica di tanto dono, sollecita voluttà di sparsi ricordi e trafitture di acuminati rimpianti. Que sera sera? Ma come duole l’organo totalitario (la chiamano anche unità psico-somatica) che ospita il supplizio del nevermore possibile. Mi ripeto? E sia.
Contrasta l’impasto dolce-amaro appena agitato un altro dono, geloso del primo quanto ignaro della sua profondità. E più grande, nel cielo interno delle valutazioni oneste. Ma quel cielo è troppo insidiato dal primo Dono perché i successi di competizione siano più che saltuari e poco garantiti nel secondo. Una sola certezza, ma granitica: il tante volte scritto non possumus agli inviti del Tentatore che suggerisse (ma non osa) rotture e abbandoni osceni.
Me lo guardo, il Dono più grande, vagolante sui ciottoli arsi dal sole in cerca di tesori luccicanti, in testa l’ombra trasparente di un cappelluccio di lino bianco. Lo guardo intenerito e un sospiro di malinconia esala, tenue e tremula, dal fermento di tutta questa gloria fisica minacciata. Quasi visibile, come in una visione appannata, e quasi sensibile al tatto, avvolge in un abbraccio ambiguo, a tratti ironico, questo prato policromo e monotematico di carni ghiottamente bollenti, questo fremito estuoso di corpi in libertà vigilata… Sarà il senso del Tempo predatore.”

mercoledì 2 settembre 2009

Susanna, frammento 39


Dunque, dopo tanta trepidazione, tanta (posso dirlo) angoscia, ecco la vittoria, ecco il successo. Ed eccone gli strani e non previsti effetti: un remoto senso di soddisfazione aritmetica e, intorno, questa assiderata sensazione di vuoto. Sì, è la solita legge dell’umana infelicità: una cosa è bella finché brilla a distanza e infiamma il desiderio proteso alla preda; poi, quando il contatto scarica la tensione appetitiva, la forza seduttiva della meta scema e a poco a poco dilegua. E’ come lo scolorirsi improvviso di un oggetto che appariva colorato per la distanza e i riflessi scomposti della luce.
Ma c’è qualcosa d’altro, e di più concreto. C’è la malinconia per le cose che finiscono, lo sgomento per il tempo che macina e divora, la nauseata delusione per l’inconsistenza di tutte le cose, e i fatti e le felicità che fluiscono a svanire. Vecchie solfe: Leopardi, Sartre, Heidegger, Kiekegaard, Schopenhauer, e su su fino ad Agostino santo e peccatore, e a tutti gli uomini pensanti di ogni tempo e luogo. Inutile, a questo punto, aggiungere che venature di seduzioni autodistruttive disegnano arabeschi sullo scudo della tristezza. E ancora più inutile dire perché non dico il non dicibile e perché mi sento gonfiare dentro un turgore di voci soppresse che gridano vendetta al cospetto del grande Nulla. Né mi conforta il mago ultra-metafisico dell’anti-metafisica con la droga verbale del suo mistico die Stimme der Stille, la Voce del Silenzio, che nella sua ontologia finale significa la consolante voce dell’Essere. Anzi, mi irrita tanta ciurmeria suggestiva da cattedratico soddisfatto. Consolante, perché, poi? Perché e come dovrebbe e potrebbe esserlo? Per la salvezza dell’Essere, signore del tempo e dello spazio? Questa nuova versione del mitico Crono generatore e divoratore di figli, non riserba nulla alla sopravvivenza degli enti, nemmeno dei ponzanti ipercervelluti. Alla salvezza degli enti, minimi e massimi, provvede un altro mattacchione erudito e serioso, sua eminenza ontologa prof. Emanuele Severino, scopritore dell’eternità gioiosa di ogni briciola di realtà. Ma non ho voglia di giocare stanotte.
*
24 luglio, tarda sera

Quali conseguenze verranno fuori da questa impresa che, complice mia moglie, ho voluto condurre in porto passando sopra a tanti scrupoli? Alcune mie alunne che durante l’anno scolastico sono state bravine in italiano e matematica si vedranno rimandate in queste materie, mentre Susanna, che non ha brillato in nessuna, sarà abilitata alla prima sessione (e con qualche sette per giunta). Si griderà allo scandalo? Molto probabilmente. E quasi certamente la mia popolarità cambierà segno algebrico. O apparirà, comunque, alquanto rosicchiata da topi problematici. Che fine farà tutto l’affetto sincero, entusiastico e ciarliero della mia classe? Svaporerà, insieme a quelle sfumature erotiche sempre operanti nelle classi femminili verso l’insegnante dell’altro sesso che per qualche virtù, fisica o mentale (meglio se di entrambe le specialità), fa spicco sul grigiore prevalente (e perfino verso qualche campione grigio)? Perché – inutile farsi illusioni – capiranno: le mie alunne e le loro famiglie. Si sa da tempo, in giro, dell’amicizia fra Susy e Rina, fra la sua famiglia e la nostra. Né le sue compagne sono prive di informazioni sugli interventi più volte operati dal sottoscritto in difesa della discolaccia impaziente verso freni istituzionali e “sacralità” della scuola. Capiranno? Ma che domande! Hanno già capito: le poche contestazioni agli orali non hanno ingannato nessuna sul trattamento morbido riservato alla “prediletta dal professore Assaggi” (altri dirà “la favorita del...”). Alcune si sentiranno, anche ingiustamente, tradite. E’ una prova dura per i miei nervi già troppo limati. Vorrei potere scomparire per qualche mese. O dormire un mese intero, giorno dopo giorno, di seguito, senza interruzioni.
Almeno Susanna capisse questo sacrificio, il suo peso per me. E lo capissero i suoi. Ne fosse, almeno, degna. Lei pensa a fare regali a mia moglie e al piccolo. Ma non è questo che ci aspettiamo da lei. Non solo questo, che rappresenta la risposta ovvia e rituale a simili favori (anche se non sottovalutabile, data la tirchieria corrente)..
*
Il bambino oggi mi ha sorpreso, e quasi spaventato. S’era messo a letto con me, dopo il pranzo, ma non riusciva, come accade tutti i giorni, o quasi, a prendere sonno. Allora è venuto fuori con questa domanda: “Papà, come fanno gli armadi, e le tendine, e le lampadine?” Io ho cercato di dargli una parvenza di spiegazione sugli armadi e le lampadine. Per le tendine mi ha prevenuto: “Ah, le tendine lo so come le fanno: con la stoffa. La tagliano e poi…”. Poi ha continuato per una buona mezzora con un mitragliamento di domande incalzanti su tutti gli oggetti visibili nella stanza; e quando ha esaurito questi è passato a quelli che gli venivano in mente. Come fanno le finestre? Come fanno i letti? Come fanno i muri? E i quadretti, e le croci, e le lenzuola…? – E giù fino alle scarpe, al divano, ai vetri, alle lampade (di nuovo). E poi ha chiesto come fanno i gattini, e chi li fa, dapprima quelli veri dopo quelli disegnati sopra un cartoncino colorato. E quindi la carta i giornali i limoni le lucertole le arance. E poi le braccia sue, il suo pancino, i bambini interi. Una cosa incredibile. Mi sono alzato, a difesa da quel bombardamento di domande, che evidentemente lo divertiva, lo euforizzava. E credo non tanto per il loro volto cognitivo quanto per il loro ritmo incalzante, la sequenzialità mozzafiato. Mi è venuto dietro, fino al cortile, nudo, con solo le mutandine, in mezzo al vento che oggi ha spazzato energicamente paese e contrada come suole fare spesso in questo pezzo di Magna Grecia rivelato fin dal nome nel suo meteo eolico. Un vento piuttosto fresco, che forse Rina considerava rischioso per le tonsille del piccolo. Il quale non mollava con le domande-mitraglia: e via con gli alberi, i sassi, le galline e i conigli della parte padronale del cortile. Insomma, su tutto quanto gli veniva sotto gli occhietti quasi neri e luminosi. Spesso la spiegazione non lo appagava, e se rispondevo che gli armadi li fanno i falegnami col legno, incalzava implacabile: e come fanno il legno, e chi lo fa. Cosa strana: quando gli ho risposto che i gattini, le lucertole, i bambini li fa la Natura, non ha insistito per cercare chi fosse questa prolifica signora misteriosa. Ma l’altra volta mi chiedeva chi è Dio, e perché è il padre di Gesù, e chi è il Signore; e così via. Comunque, è stata la mezz’ora più lieta della giornata: una tenerezza struggente ha soppiantato la pesante malinconia e per un po’ sono stato quasi felice. Ad onta della stanchezza indotta dall’aggressione.

24 Luglio, notte (altro, più blindato, quaderno)

Continua, con qualche breve incisione di svago, questo spessore vasto di tristezza che fa di piombo ogni moto del corpo. Pensiamo e sentiamo le stesse cose, le avvolgiamo nello stesso fumo del veleno tabagico; sappiamo entrambi qual è la soluzione, anzi la risoluzione; entrambi ci agitiamo nello stesso laccio che gli altri, in perfetta intesa di complotto salvifico, stanno per rompere. E non sappiamo, non possiamo, non siamo capaci di cassare questo finale, non ancora apertamente annunciato, soltanto ipotizzato, ma già operante a condizionare gesti movimenti pensieri dentro la nebula scura dell’umore basso.
Questi archi di sole e di sere si dipanano lenti e nel vuoto lasciato dall’ultimo exploit ancora svolazzante fra queste pareti ruffiane con immagini vivide e cromatismi rapinosi, non c’è che la malinconia ad addensare rimpianti, a torcere nostalgie intorno alle viscere contratte. Questa sdraio inerte sembra la mia bocca spalancata a urlare angoscia e protesta, ma inchiodata all’uncino ferrigno della maturata coscienza dell’estrema inutilità di ogni resistenza e sotterfugio. Troppo impari le forze in contrasto: il nostro (o solo mio?) desiderio da una parte, l’amore genitoriale e la famiglia tutta dall’altra, con buone, robuste ragioni di vario impasto e impossibile presa aliena.
Qualche compressa di Bellargil aiuta appena così malconcia coscienza a comprimere la vibrazione lacrimale dei nervi stanchi. Il vecchio roveto al cuore punge, fedele al suo incarico di abbreviatore cronologico. Quei frammenti di recente memoria pulsano col sangue, flash di luce e vampe di calore misti a emergenze olfattive tiranne. Qui, tre giorni fa; lì, cento o cinquanta ore addietro; in quest’ora, poche decine di orbite diuturne avvolte nella Grande Spirale, in una replica di questo morbido crepuscolo, di questa sera dorata, nel vortice del desiderio insidiato, nella concitazione rapace di una fame insaziata e minacciosa, lei e io, i nostri corpi, le nostre estasi al risparmio… E l’oscuro Nemico che ci rode il “corpo” cresce col sangue che noi versiamo. Ah, caro Baudelaire dei miei anni universitari, come vorrei che almeno tu potessi aiutarmi.
Un passo somigliante che si avvicina, un ritmo di tacchi sull’asfalto, ed ecco nel buio neuronico un sussulto di speranza, un balzo tachicardico nel petto, e subito dopo il tonfo nell’ “anima”, che misura la caduta dell’illusione. Non è lei. Non è facile che lo sia, che questi rumori e suoni ne annuncino l’arrivo: la Magna Causa ufficiale e reale del suo venire è tramontata. Fine degli esami, fine della suprema Giustificazione. Certo, non si può escludere una visita di pura amicizia, magari di sollecitudine riconoscente: ci saranno, senza dubbio, le visite; ma meno frequenti, in diverse ore e tempi della giornata, con un’allure non del tutto nuova, no (anche in questi mesi ci sono state le visite di pura amicizia e di rilassato piacere), ma avrà un aspetto di novità incomparabile con l’intero coro dei “precedenti”. E, soprattutto, con quel vuoto che nulla riempirà mai più. Non saremo mai più soli. E’ morta la bella ratio essendi della casa vuota e tutta per noi. La stanza-studio preclusa al bimbo giocherellone, il tempo echeggiante della nostra solitudine “studiosa”.
Mai più: due parolette che ingolfano la gola. Il corvo di Poe ha cominciato a martellarmi: nella mente, nel cuore, nella carne. Con un cupo effetto di minaccia claustrofobica: come se quell’assoluto fosse un labirinto senza uscite. Sto cercando di dire che non posso fissarmi a lungo su quel pensiero, su quella Necessità negatrice, senza un incipiente assalto di panico. E allora mi strappo dal Nevermore con la mente e col corpo, esco di casa, scendo sul corso, e mi trovo coinvolto nelle lusinghe del Vago speranzoso: non potrei incontrarla per strada, in un negozio, sola o con un’amica, una delle compagne di classe fedeli? Certo che sì: me lo ripeto con insistenza infantile. O magari incontrare anche soltanto un familiare, una sorella, perfino un fratello? Così, tanto per poter dire di lei, rievocarla come moltplice vicinanza; o dimuita distanza. Mica è impossibile. A volte scendo fino al lungomare, a pascolare sopra quella distesa di carni nude intente a rosolarsi, con offerta garantita di un campionario eccellente fra tanta morfologia insignificante di catalizzante contorno. Mi distraggo. E anche lì, non senza quel vago sperare minimale. Perfino almanaccando sul fatto e il non fatto: avessi saputo di più, avessimo previsto meglio…Ma che cosa, infine? Se certi “aims” li avevo esclusi in partenza!

Parlo come se fossero trascorse settimane dall’ultimo incontro, e non sono che un pugno di ore, qualche giorno. Anticipo il futuro e ne distillo veleni sul presente. Mi aiuta, si capisce, anche la famiglia a superare, nell’oblio contingente, gli spasimi di questa incipiente crisi di astinenza. E il piccolo, soprattutto, che mi sequestra, mi costringe a portarlo fuori, a badargli in ogni modo. Ma poi anche questo rito, il portarlo a spasso, risveglia demoni di memorie ancora palpitanti: quante volte abbiamo incontrato, io e lui, la cara Susy sempre fornita della generosità fattiva a vantaggio del piccolo? Il confronto del vuoto presente con quel movimentato pieno non può non graffiare, la sua parte. Anche se la ricolma presenza del bambino finisce col sedare e sopire. Ma sedare e sopire non vuol dire spegnere e guarire. Né l’azione sedativa conosce lunghe resistenze e durate.
*
E tu, tanghero presuntuoso, canti vittoria col mio sangue guasto che urla d’impotenza, e torci le mie viscere che sognano un’impossibile vendetta. Padre degenerato, cafone rifatto, sicario del dio che sghignazza alle mie spalle, tu pretendi disponi ordini minacci. Tu e tua moglie sformata dai troppi parti e aborti, avete deciso di sottrarmi Susy, di allontanarla per sempre da me, dalla mia casa, dal mio vivace pargolo che la nomina e la cerca? Con quale diritto, tu che ti sei macchiato di un osceno peccato verso tua figlia? Sì, ora, qui, racconterò in termini schietti quello che nascosi nel cenno criptato di tante pagine fa.

“Che c’è Susy, ti vedo inquieta, cos’è successo?” Tu nicchiavi, sempre più tentata di parlare e con pari forza bloccata dal pudore. Poi la prendesti larga: “Può un padre sentire per una figlia un affetto morboso?” Ed io mi ebbi un pugno al ventre. Ecco, al solo rievocarla, si ripete, materialmente, quella fitta lunare. Una risposta sorda affiorò dall’acqua torbida di quei secondi sbalorditi. “Sì”, risposi. E la voce era bassa, cupa. “Purtroppo, può, e accade. Né sono pochi i casi di incesto. Particolarmente in questa calda terra argillosa di Magna Grecia”. E ti chiesi e consigliai di parlare, di confidarti: “Dimmi tutto, sfogati, liberati dall’angoscia. Non ha senso tanto imbarazzo tra noi.” Eravate alla fine di un pranzo festivo, tu uscivi dal bagno e lui si accingeva ad entrarvi: l’incontro routinier si accese di fiamme sulfuree. Chiamandoti per nome ripetutamente, come in una invocazione arrochita dal desiderio sconcio, ti abbracciò, ti strinse, e ti baciò sulle labbra. Sensualmente, carnalmente. Con annessa reazione sottostante coperta. “Sorpresa, spaventata, esitai, pensando a un gesto di affetto paterno un po’ eccitato.” Si era bevuto allegramente a tavola, te ne ricordasti in un fiotto di cresciuto timore. “Quando l’abbraccio si fece troppo stretto e lungo (pochi secondi, in realtà, ma...), mi svincolai, terrorizzata, protestando contro quell’assurda novità: ma che fai? sei impazzito? e scappai nella mia stanza, tremando di paura e disgusto”.
Che parole usare per dire lo sconcerto, lo scompiglio mentale, il pensiero di doverci incontrare dopo il fatto, vivere sotto lo stesso tetto, parlarci. Facendo finta di niente, seppellendo in una muta rimozione totale l’episodio sconvolgente, che nessuno dei due, in realtà, avrebbe potuto dimenticare. Ecco il pensiero che immaginai dietro le frasi rotte di Susanna, dentro il suo agitato imbarazzo.
Nei giorni seguenti ti chiesi del suo comportamento. Dicesti che ti evitava e appariva incupito, mortificato. Non ci furono repliche, per fortuna. Né balbettii di inutili scuse e chiarimenti: che cosa c’era da chiarire? Io, quaderno, tentai di svelenire un poco il fattaccio attribuendone una parte eziologica al Bacco euforizzante introdotto nel corpo senza risparmi. Era difficile anche per me accettare e sopportare quell’evidenza scabrosa. Lei ed io sapevamo entrambi, e sappiamo, che il caro genitore è un mandrillo. Ne ha appreso qualcosa la tua povera madre, con la sua bellezza sfiorita dai sopra richiamati parti e aborti. Né tu mi hai nascosto le dicerie su non rare sue scappatelle extra moenia. Le mogli, a volte, si sfogano con le figlie.
In questo momento lo schermo memoriale s’accende di una frase che un giorno lui ti disse, alquanto allegro, e che tu mi rivelasti. “Tu si figghia e’ paita”, tu sei figlia di tuo padre: e si accennava al tuo temperamento, da Tucano definito follicolinico. Che tradotto in lingua latina suona: hai preso da me, sei come tuo padre, sensuale, molto incline al sesso. Un padre queste cose le capisce anche senza laurea e diplomi. Le capisce, e dovrebbe tenersele dentro il proprio scroto lupesco, non spiattellarle in faccia alla figlia.

Ed ha natura sì malvagia e ria / che mai non empie la bramosa voglia / e dopo il pasto ha più fame che pria. Scusami la citazione, quaderno blindato: ma è scattato da solo quel ricordo a suo modo pertinente.
Mettendo insieme le due cose, la lettura dell’evento si ritrae un poco dal Bacco sopra denunciato per indietreggiare verso il più autorevole dio cromosomico. Immagino l’uomo alle prese con la forza seduttiva della tua compiuta bellezza, Susy; solleticato, giorno dopo giorno, dalla tua presenza ignaramente procace, splendida Susanna circolante per gli angusti spazi di quel modesto appartamento condominiale, dov’è troppo facile incontrarsi e magari “scontrarsi”. Circolante, voglio dire, spesso senza troppe coperture, come tu stessa mi hai detto più volte, compiacendoti del clima disinvoltamente libero ed evoluto della casa (specialmente nel contrastare quello naturale e troppo afoso dell’estate). Immagino tuo padre, quel corpo programmato per l’esuberanza del consumo sessuale, resistere all’aggressione continua di quegli occhi, del loro casmurriano sguardo di risacca (mi ripeto, lo so); di quelle movenze serpentine sprizzanti voglie malnascoste; di quelle labbra in offerta di baci-morsi. “E questo magnifico boccone dovrà papparselo un altro, deve essere a disposizione di altri!” – avrà pensato, chissà quante volte, sentendo troppo stretto il suo ruolo di padre. Forse la sua tentazione avrà qualche volta usato proprio simili formule di irata impotenza. “Un capolavoro uscito dal mio seme, plasmato dal mio sangue e dalla mia carne, nelle grinfie di estranei”: pensiero ostico per certe fisiologie troppo carnali (e troppo poco “rifatte” dall’etica culturale e religiosa).
Ma che sta succedendo, Susy? Spiego, interpreto, immagino: manca poco che giustifichi il tuo genitore cochon. No: nessuna scusa e nessuna attenuante: un padre non deve accogliere, ma scacciare simili pensieri. Può, e deve, compiacersi della corporale bellezza di una figlia, del suo fascino e della sua grazia; ma non concedere nulla all’immaginazione morbosa. Figuriamoci alla gestualità congenere. No, nessuna attenuante, solo voglia di capire. In nome della verità nuda, della fisiologia tiranna, che così spesso violenta etica ed estetica.

Non deve, deve… A quale cielo gridiamo l’imperativo categorico? Memorie culturali, il nome di Freud, lo scandalo tardo-vittoriano, la molteplice aggressione della “coscienza pubblica” intrisa di angelismo religioso: come accettare, in effetti, la scoperta della sentina sessuale che ignora parentela? L’inconscio, ripostiglio di tutte le perversioni: non è cosa che possa concordare con i valori e le illusioni piantate nella coscienza etica dei credenti fin dalle ciarle infantili: in famiglia e nelle sacrestie. E la sessualità infantile, plasma potenziale di quelle perversioni: l’esasperazione di una scoperta che si fa idolo per il narcisistico orgoglio dello scopritore. La realtà, però, s’incarica di snebbiare la visione vittoriana con la frequenza degli incesti. E la sbrigativa sensibilità popolare semplifica il freudismo con la rude frasetta: U cazzu non canusci parintela. Brutalità che una precoce educazione ai tabù sociali, rinforzati dalla religione, normalmente riesce a smentire. E dunque, ripetiamo: nessuna attenuante per il gaglioffo dal cognome beffardo.

Ora questo figuro vuole allontanarla da me. Complice la famiglia, vuole spedirla lontano dai miei baci, dalle mie carezze bramose e sofferenti. Di che, sofferenti? Forse che non lo sai, diario monco? Di non essere trascese a quell’intero che lei stessa, il suo corpo affamato, la sua impazienza per i ripetuti semipasti sollecitavano nel nostro sodalizio.
Non ricordo, quaderno, se ti ho confidato la sua confidenza di qualche mese fa. In ogni caso, sento il bisogno di ripeterla qui e ora. Si era, se non rammento male, in una pausa della lezione serale. Non so a che proposito, si venne a parlare delle sue amiche e compagne di classe. “L’altro giorno”, disse (in quel tempo artificializzato come lontano), “ho scandalizzato Adele. Eravamo in chiesa, tutta la classe, per gli esercizi spirituali di Pasqua. Mentre il prete armeggiava all’altare, noi due chiacchieravamo a tema libero [lo chiami libero, tu, questo sgorgo obbligato delle vostre prurigini sessuali?]. A un certo punto me ne uscii con questa sparata: mi sono scocciata. Non ce la faccio più. Se quel disgraziato (che sareste voi), non si decide, mi faccio sverginare dal primo che capita. Così la finisce con gli scrupoli!”
Quale reazione accesero in me quelle parole: è questo che vuoi sapere, quaderno arrapato? La prima reazione era stata una vampa di rossore al viso, più, in contemporanea, un sussulto violento nelle competenti zone organiche. Poi qualche domanda di mera curiosità intrecciata alle sue risposte, per un segmento di conversazione somigliante allo specimen qui di seguito. “E Adele cosa rispose?” “Sbottò a ridere, una risata a stento frenata, eravamo in luogo sacro” “Luogo sacro, certamente, e voi ragazze sempre ligie ai sacri doveri. Quindi?” “Mi sfottè un poco, sussurrando nel mio orecchio sinistro: le fregnacce che dici! Proprio col primo che passa? chiese” “E tu?” “Precisai: non ho detto col primo che passa…. Adele ironizza ancora: “No, hai ragione, hai detto col primo che capita.” Io, confuso e piccato, contrattacco: “Ha ragione Adele: dici fregnacce.” “E tu sfidami. Posso aggiungere, al massimo: “fra i papabili”. “Cioè? Mi farò aprire dal primo che capita fra gli accettabili.” “E io voglio chiudere: che razza di conversazione stiamo facendo? Come se tu potessi dire sul serio.” Lei: “Certo che no. Però…”
Però. Non ti avevo spiegato, Susy, che non sono abbastanza cinico per una cosa simile? Così grande, così de-cisiva. Dalle nostre parti, quella fastidiosa membranella è troppo importante. Nella nostra società, medio o piccolo-borghese e super-cattolica nelle convenzioni secolari, un buon matrimonio include la verginità come conditio sine qua non (e scusami il latinorum). Aggiungi il mio senso di responsabilità verso la famiglia. Forse Rina non sarebbe ostacolo di montagna per viandante di pianura, ma il bambino sì. Non posso lasciare la famiglia. Non ci ho mai pensato veramente. Neppure nei momenti di più acceso contrasto caratteriale fra Rina e me. Se volessi usare un paradosso direi che ti vorrei integrata nella famigliola, parte paritaria di essa. Sciocchezze, certo, ma l’iperbole voleva essere solo un segno del mio attaccamento. E della mia sofferenza.
(Perché non siamo islamici!? Viva il Profeta lungimirante). E ora vogliono separarci. Non è vero, dicono: si tratta solo di un soggiorno a termine, Susanna tornerà, l’amicizia fra le famiglie è sacra, e ancor più quella tra mia moglie e Susanna. Balle. E lo vedremo presto.
Certo, dipende da te. Ma tu, spirito ribelle, ipòstasi dell’orgoglio battagliero, angelo dell’indipendenza, resisterai? Ti opporrai alla separazione definitiva? Avrai, non avrai, forza bastante a rintuzzare e rompere, a costo, anche di romperti (ma cosa?) l’insulsa violenza? Ah, memoria, fatti droga nel suo sangue, tendi i suoi nervi, affretta il suo respiro nella presa vorticante del desiderio che dà forza e tenacia. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m'abbandona. La memoria, intanto, gioca con i rinforzi, scolastici e letterari. E trema per le terzine che fasciano questa appena ripetuta. Inferno e favole truci a parte, s’intende.
A parte, certo: ma che forse non esistono modesti inferni terreni e corporali? Modesti, ma di violenza sufficiente a mandarti in rovina.


(ancora) 26 luglio

Come tutto si ripete. Undici anni fa, dieci anni fa, la stessa congiura, oggi forse mezzo ignara (trema la mano che paventa la possibile improprietà dell’aggettivo). La stessa convergente ingerenza del sangue parentale organizzato per separare le due parti di una totalità; i legami di sangue dell’anagrafe familiare contro il libero legarsi di due anime-corpi in reciproca attrazione (anche allora, peraltro, ben frenata negli esiti tattili ed esplorativi).
Che cosa succederà nei prossimi tempi (ore giorni settimane…?): Will she remember our Vergnügen? Non dev’essere, il suo corpo, intriso, come il mio, dei nostri contatti, della loro memoria fatta chimica e cinematica molecolare? Al punto, voglio dire, che ogni suo moto, come ogni mio, risuoni della gioia e del tormento di quei gesti e touches, in faticata progressio dalla grazia del volto alle temperature rosse dell’intimità educata in sofferenza alla condizione demi-vierge?
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Potessi ritrovare la gioia del lavoro creativo, della scrittura di vario impegno. Sostituire droga a droga, versare acqua d’oblio su questo fuoco di aghi nella carne. Potessi recuperare la condizione di ogni altro potere, la salute, dico, logorata da questi esami infernali.
Ore 19, 30. Ora della speranza in fuga sotto i calci dell’evidenza irridente. La chaise è vuota, il silenzio è tagliato soltanto dai cocci dei rumori stradali. La piaga si slabbra e la domestica regolarità si accinge a tentare ignari unguenti: moglie e bambino che rientrano dai vicini, il movimento ciarliero di Gianpiero, lei che prepara la cena, poi il pasto insieme; dopo, un po’ di televisione. Infine la notte, il convegno dei surriscaldati pensieri, la lotta scontata dei cozzanti propositi, l’insonnia atroce. E domani, la coda pesante della mensile routine: ultime prove orali, poi consigli, scrutini. Altre lotte, altre amarezze.

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Ore 23, 30. Avevo appena finito di versare quelle lacrime d’inchiostro, quando l’Inatteso prese a calci l’Evidenza.
Radiosa, viva, palpabile, la Speranza era apparsa in carne di certezza sensibile. E sono stato felice, mi sono sentito improvvisamente bene in salute, forte. Ma solo per qualche minuto. Poi altre evidenze limarono la nuova realtà. La quale si mostrava vittoriosa, ma era intaccata dalla pressione di circostanze oggettive. Inoltre, una parte di “colpa” stava nel congegno decisionale del “soggetto pensante”. Perché tanto spreco di proteste “immobiliste” se poi non si è capaci di resistere alle spinte motrici? Comprensibile il bisogno del diverso visivo e cinetico, ma è pur segno della consistenza non granitica del congegno cogitativo, questo calo decisionale verso latitudini di disponibilità domestica. Ma di che lagnarsi? Tutto conferma un mio vecchio pessimismo.
L’incontro dialogico è stato utile e chiarificatore. Proteste di immobilità interna da una parte e dall’altra. Ma, da questa parte, anche un beffardo insinuare avvelenato dal rancore. “Si cambia, in sostanza.”, stringevo. “Macché! Non cambierò mai.” “Parole.” “Fatti.” “Velleità.” “Fermi propositi.” “Puntiglio di breve corso.” “Sentimenti sinceri.” “Ma va!”
Ma come sto parlando? Di nuovo la criptazione! Come se non mi fossi già abbondantemente denudato in cenni parole e frasi più che espliciti. E non sono abbastanza trasparenti anche questi spizzichi di dialogo senza nomi? Finiamola dunque con la mascherata prudenziale ormai sforacchiata, e andiamo al sole dell’esplicito compiaciuto. E resistiamo al timore-terrore che anche questo quaderno speciale e specialmente protetto possa subire contatti allotrii.
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Dunque Susy è venuta. Inaspettatamente. Contro tutte le mie previsioni, o timori più o meno caricati. E’ venuta giusto nell’ora della “speranza in fuga”, minuto più minuto meno. E ti lascio immaginare, quaderno, il balzo del sangue sotto la spinta di tanta adrenalina. Sono stato per tutta la durata della sua visita in bilico tra l’emozione della realtà presente e il sentore vago del futuro possibile. Oscillando tra questi due poli anfetaminici godevo la pienezza della sua presenza a tratti e pezzi, discontinuamente. Anche se non meno gaudiosamente. Nei momenti di sfiducia nell’avvenire, il tono vitale si abbassava, ma quella pienezza finiva col tracimare dagli argini del malumore e sommergere caustici dubbi e futuribili cupi. Era venuta sola, Susanna: come fino a un paio di giorni prima. Non osavo sperarlo, ma lo sapevo possibile: l’amicizia fra le famiglie comportava bene siffatte visite. E forse quel non osare era più una finzione esorcistica che un fondato timore. Più difficile restava il trovarci soli in casa, come nel tempo-regno delle lezioni private: e qui veramente non osavo stuzzicare la speranza. Ma è accaduto anche questo, per un buon lasso di Crono propizio. Nei frammenti di dialogo riportati sopra e nella ricostruzione approssimativa che mi accingo a tentare del rimanente forse affiorerà questo mio oscillare: fra gioia contante e cambiali di timori, euforia a stento frenata e contrazione diffidente di emozionalità turbata.
L’incontro-scontro piacevolmente polemico e spiacevolmente incerto mostrava una Susanna paziente nel rifiutare i miei dubbi sul nostro futuro, il mio incipiente scetticismo sull’affetto di lei. Puntiglio, dicevo io; sentimento, replicava lei. Va bene, mi dicevo: ma sarà un piccolo tratto del lungo percorso in attesa. Dopo, non riprenderà il moto periodico dell’eterna presenzialità? Cioè, fuori di cifra, non prenderà gusto alla nuova vita, alla grande città, alle nuove conoscenze e amicizie che il fratello le procurerà? E’ lui, il fratello tenente aviatore, il perno motore della grande evasione. La condurrà nella città portuale, lei sarà ospite della fidanzata di lui, sarà introdotta in una società meno provinciale, le germoglieranno nuove esigenze. Come tenere vivo il Grande Ricordo?
La provocavo. “E’ un segno di calore calante.” “Non mi piace questo tono.” “A me neanche: eppure…” “Smettila!” “Che delusione.” “Ancora!” “Certo, ancora: è un punto fermo, una convinzione indotta dai fatti.” “Sentitelo!” “Ti facevo più forte.” “Sono forte.” “Dopo tanta ostentazione di indipendenza, che brusca, e brutta, caduta.” “Quale caduta? Non è vero: se non voglio, non faccio.” “Chiacchiere: non hai saputo resistere alle pressioni.” “Un corno! Non è ancora detto che vada.” “Non dire stupidaggini.” “Come mi provoca!” “Ma no: dovrebbe valerne la pena. E invece…” “Che vuoi dire? Non capisco, parla chiaro!” “Voglio dire che non ti sto provocando, che non ne vale la pena” “Continui ad offendermi.” “Ma se è tutto deciso, ormai.” “Da loro.” “E non basta, forse? Tu hai acconsentito. Magari ti piace l’idea.” “Mi dispiace allontanarmi. Ma come facevo a dire un no deciso? Non sarebbe apparso strano?” “E’ vero, sarebbe apparso strano.” “Non essere ironico.” Ma qui non lo ero, non potevo. Le ultime parole di Susy erano veicolo innocente di schietta verità. Il contrasto riprese, appena un po’ meno serrato, dopo qualche secondo di silenzio assorto.
“Non sono ironico: quello che dici è semplicemente vero, ovvio. Un no assoluto avrebbe insospettito, fatto immaginare chissà che segreti. Magari proprio nei nostri rapporti.”
“Lo vedi? Anche tu, se vuoi ragionare, capisci la mia situazione.”
“Capisco. Eppure non riesco ad accettare questa evidenza prepotente. Mi pare che allontanandoti da me nello spazio ti allontanerai anche nei sentimenti.”
“Bella fiducia.”
“Sono scettico per costituzione. E sulla natura umana ancora di più.”
“Avrai la prova che hai torto.”
“Va bene. Accetto la circostanza come una prova: voglio sapere, se possibile, cosa senti e pensi in coordinate diverse”
“Coordinate? E magari subordinate! Facciamo sintassi?”
“Diciamo condizioni: di spazio, ambiente, conoscenze e occasioni umane differenti da quelle calamagnesi.”
“E io accetto la prova.”
“Dieci giorni, però. Bastano? Su questo non transigo”.
Ma che sparate, dio delle scemenze d’amore. Dieci giorni soltanto di permanenza nell’“altro mondo”. E’, questa dei dieci giorni, secondo le dicerie domestiche, una necessità: il fratello dovrà imbarcarsi fra 15 giorni. La riporterà, si dice, a casa prima di mettersi in crociera per non so dove e quali necessità di nuovi addestramenti (e segreti esperimenti). Così dicono. Ma se poi la fidanzata, com’è prevedibile, le offrirà piena e convinta e interessata ospitalità? Non sarebbe uno sgarbo per la gentile disponibile entusiasta cognata in fieri un rifiuto di Susy? Accenno appena ai miei dubbi. Susanna tenta di spegnerli: “Senza l’imbarco di mio fratello, è vero, ci sarebbe stato il pericolo di una permanenza forzata più lunga, ma così è tutto a posto. Vedrai.”. “Speriamolo”. E pensavo, più che mai dubbioso e refrattario alle facili promesse consolatorie: ma ci dovrà essere in lei tanta decisione per salvare questa misura.