mercoledì 2 settembre 2009

Susanna, frammento 39


Dunque, dopo tanta trepidazione, tanta (posso dirlo) angoscia, ecco la vittoria, ecco il successo. Ed eccone gli strani e non previsti effetti: un remoto senso di soddisfazione aritmetica e, intorno, questa assiderata sensazione di vuoto. Sì, è la solita legge dell’umana infelicità: una cosa è bella finché brilla a distanza e infiamma il desiderio proteso alla preda; poi, quando il contatto scarica la tensione appetitiva, la forza seduttiva della meta scema e a poco a poco dilegua. E’ come lo scolorirsi improvviso di un oggetto che appariva colorato per la distanza e i riflessi scomposti della luce.
Ma c’è qualcosa d’altro, e di più concreto. C’è la malinconia per le cose che finiscono, lo sgomento per il tempo che macina e divora, la nauseata delusione per l’inconsistenza di tutte le cose, e i fatti e le felicità che fluiscono a svanire. Vecchie solfe: Leopardi, Sartre, Heidegger, Kiekegaard, Schopenhauer, e su su fino ad Agostino santo e peccatore, e a tutti gli uomini pensanti di ogni tempo e luogo. Inutile, a questo punto, aggiungere che venature di seduzioni autodistruttive disegnano arabeschi sullo scudo della tristezza. E ancora più inutile dire perché non dico il non dicibile e perché mi sento gonfiare dentro un turgore di voci soppresse che gridano vendetta al cospetto del grande Nulla. Né mi conforta il mago ultra-metafisico dell’anti-metafisica con la droga verbale del suo mistico die Stimme der Stille, la Voce del Silenzio, che nella sua ontologia finale significa la consolante voce dell’Essere. Anzi, mi irrita tanta ciurmeria suggestiva da cattedratico soddisfatto. Consolante, perché, poi? Perché e come dovrebbe e potrebbe esserlo? Per la salvezza dell’Essere, signore del tempo e dello spazio? Questa nuova versione del mitico Crono generatore e divoratore di figli, non riserba nulla alla sopravvivenza degli enti, nemmeno dei ponzanti ipercervelluti. Alla salvezza degli enti, minimi e massimi, provvede un altro mattacchione erudito e serioso, sua eminenza ontologa prof. Emanuele Severino, scopritore dell’eternità gioiosa di ogni briciola di realtà. Ma non ho voglia di giocare stanotte.
*
24 luglio, tarda sera

Quali conseguenze verranno fuori da questa impresa che, complice mia moglie, ho voluto condurre in porto passando sopra a tanti scrupoli? Alcune mie alunne che durante l’anno scolastico sono state bravine in italiano e matematica si vedranno rimandate in queste materie, mentre Susanna, che non ha brillato in nessuna, sarà abilitata alla prima sessione (e con qualche sette per giunta). Si griderà allo scandalo? Molto probabilmente. E quasi certamente la mia popolarità cambierà segno algebrico. O apparirà, comunque, alquanto rosicchiata da topi problematici. Che fine farà tutto l’affetto sincero, entusiastico e ciarliero della mia classe? Svaporerà, insieme a quelle sfumature erotiche sempre operanti nelle classi femminili verso l’insegnante dell’altro sesso che per qualche virtù, fisica o mentale (meglio se di entrambe le specialità), fa spicco sul grigiore prevalente (e perfino verso qualche campione grigio)? Perché – inutile farsi illusioni – capiranno: le mie alunne e le loro famiglie. Si sa da tempo, in giro, dell’amicizia fra Susy e Rina, fra la sua famiglia e la nostra. Né le sue compagne sono prive di informazioni sugli interventi più volte operati dal sottoscritto in difesa della discolaccia impaziente verso freni istituzionali e “sacralità” della scuola. Capiranno? Ma che domande! Hanno già capito: le poche contestazioni agli orali non hanno ingannato nessuna sul trattamento morbido riservato alla “prediletta dal professore Assaggi” (altri dirà “la favorita del...”). Alcune si sentiranno, anche ingiustamente, tradite. E’ una prova dura per i miei nervi già troppo limati. Vorrei potere scomparire per qualche mese. O dormire un mese intero, giorno dopo giorno, di seguito, senza interruzioni.
Almeno Susanna capisse questo sacrificio, il suo peso per me. E lo capissero i suoi. Ne fosse, almeno, degna. Lei pensa a fare regali a mia moglie e al piccolo. Ma non è questo che ci aspettiamo da lei. Non solo questo, che rappresenta la risposta ovvia e rituale a simili favori (anche se non sottovalutabile, data la tirchieria corrente)..
*
Il bambino oggi mi ha sorpreso, e quasi spaventato. S’era messo a letto con me, dopo il pranzo, ma non riusciva, come accade tutti i giorni, o quasi, a prendere sonno. Allora è venuto fuori con questa domanda: “Papà, come fanno gli armadi, e le tendine, e le lampadine?” Io ho cercato di dargli una parvenza di spiegazione sugli armadi e le lampadine. Per le tendine mi ha prevenuto: “Ah, le tendine lo so come le fanno: con la stoffa. La tagliano e poi…”. Poi ha continuato per una buona mezzora con un mitragliamento di domande incalzanti su tutti gli oggetti visibili nella stanza; e quando ha esaurito questi è passato a quelli che gli venivano in mente. Come fanno le finestre? Come fanno i letti? Come fanno i muri? E i quadretti, e le croci, e le lenzuola…? – E giù fino alle scarpe, al divano, ai vetri, alle lampade (di nuovo). E poi ha chiesto come fanno i gattini, e chi li fa, dapprima quelli veri dopo quelli disegnati sopra un cartoncino colorato. E quindi la carta i giornali i limoni le lucertole le arance. E poi le braccia sue, il suo pancino, i bambini interi. Una cosa incredibile. Mi sono alzato, a difesa da quel bombardamento di domande, che evidentemente lo divertiva, lo euforizzava. E credo non tanto per il loro volto cognitivo quanto per il loro ritmo incalzante, la sequenzialità mozzafiato. Mi è venuto dietro, fino al cortile, nudo, con solo le mutandine, in mezzo al vento che oggi ha spazzato energicamente paese e contrada come suole fare spesso in questo pezzo di Magna Grecia rivelato fin dal nome nel suo meteo eolico. Un vento piuttosto fresco, che forse Rina considerava rischioso per le tonsille del piccolo. Il quale non mollava con le domande-mitraglia: e via con gli alberi, i sassi, le galline e i conigli della parte padronale del cortile. Insomma, su tutto quanto gli veniva sotto gli occhietti quasi neri e luminosi. Spesso la spiegazione non lo appagava, e se rispondevo che gli armadi li fanno i falegnami col legno, incalzava implacabile: e come fanno il legno, e chi lo fa. Cosa strana: quando gli ho risposto che i gattini, le lucertole, i bambini li fa la Natura, non ha insistito per cercare chi fosse questa prolifica signora misteriosa. Ma l’altra volta mi chiedeva chi è Dio, e perché è il padre di Gesù, e chi è il Signore; e così via. Comunque, è stata la mezz’ora più lieta della giornata: una tenerezza struggente ha soppiantato la pesante malinconia e per un po’ sono stato quasi felice. Ad onta della stanchezza indotta dall’aggressione.

24 Luglio, notte (altro, più blindato, quaderno)

Continua, con qualche breve incisione di svago, questo spessore vasto di tristezza che fa di piombo ogni moto del corpo. Pensiamo e sentiamo le stesse cose, le avvolgiamo nello stesso fumo del veleno tabagico; sappiamo entrambi qual è la soluzione, anzi la risoluzione; entrambi ci agitiamo nello stesso laccio che gli altri, in perfetta intesa di complotto salvifico, stanno per rompere. E non sappiamo, non possiamo, non siamo capaci di cassare questo finale, non ancora apertamente annunciato, soltanto ipotizzato, ma già operante a condizionare gesti movimenti pensieri dentro la nebula scura dell’umore basso.
Questi archi di sole e di sere si dipanano lenti e nel vuoto lasciato dall’ultimo exploit ancora svolazzante fra queste pareti ruffiane con immagini vivide e cromatismi rapinosi, non c’è che la malinconia ad addensare rimpianti, a torcere nostalgie intorno alle viscere contratte. Questa sdraio inerte sembra la mia bocca spalancata a urlare angoscia e protesta, ma inchiodata all’uncino ferrigno della maturata coscienza dell’estrema inutilità di ogni resistenza e sotterfugio. Troppo impari le forze in contrasto: il nostro (o solo mio?) desiderio da una parte, l’amore genitoriale e la famiglia tutta dall’altra, con buone, robuste ragioni di vario impasto e impossibile presa aliena.
Qualche compressa di Bellargil aiuta appena così malconcia coscienza a comprimere la vibrazione lacrimale dei nervi stanchi. Il vecchio roveto al cuore punge, fedele al suo incarico di abbreviatore cronologico. Quei frammenti di recente memoria pulsano col sangue, flash di luce e vampe di calore misti a emergenze olfattive tiranne. Qui, tre giorni fa; lì, cento o cinquanta ore addietro; in quest’ora, poche decine di orbite diuturne avvolte nella Grande Spirale, in una replica di questo morbido crepuscolo, di questa sera dorata, nel vortice del desiderio insidiato, nella concitazione rapace di una fame insaziata e minacciosa, lei e io, i nostri corpi, le nostre estasi al risparmio… E l’oscuro Nemico che ci rode il “corpo” cresce col sangue che noi versiamo. Ah, caro Baudelaire dei miei anni universitari, come vorrei che almeno tu potessi aiutarmi.
Un passo somigliante che si avvicina, un ritmo di tacchi sull’asfalto, ed ecco nel buio neuronico un sussulto di speranza, un balzo tachicardico nel petto, e subito dopo il tonfo nell’ “anima”, che misura la caduta dell’illusione. Non è lei. Non è facile che lo sia, che questi rumori e suoni ne annuncino l’arrivo: la Magna Causa ufficiale e reale del suo venire è tramontata. Fine degli esami, fine della suprema Giustificazione. Certo, non si può escludere una visita di pura amicizia, magari di sollecitudine riconoscente: ci saranno, senza dubbio, le visite; ma meno frequenti, in diverse ore e tempi della giornata, con un’allure non del tutto nuova, no (anche in questi mesi ci sono state le visite di pura amicizia e di rilassato piacere), ma avrà un aspetto di novità incomparabile con l’intero coro dei “precedenti”. E, soprattutto, con quel vuoto che nulla riempirà mai più. Non saremo mai più soli. E’ morta la bella ratio essendi della casa vuota e tutta per noi. La stanza-studio preclusa al bimbo giocherellone, il tempo echeggiante della nostra solitudine “studiosa”.
Mai più: due parolette che ingolfano la gola. Il corvo di Poe ha cominciato a martellarmi: nella mente, nel cuore, nella carne. Con un cupo effetto di minaccia claustrofobica: come se quell’assoluto fosse un labirinto senza uscite. Sto cercando di dire che non posso fissarmi a lungo su quel pensiero, su quella Necessità negatrice, senza un incipiente assalto di panico. E allora mi strappo dal Nevermore con la mente e col corpo, esco di casa, scendo sul corso, e mi trovo coinvolto nelle lusinghe del Vago speranzoso: non potrei incontrarla per strada, in un negozio, sola o con un’amica, una delle compagne di classe fedeli? Certo che sì: me lo ripeto con insistenza infantile. O magari incontrare anche soltanto un familiare, una sorella, perfino un fratello? Così, tanto per poter dire di lei, rievocarla come moltplice vicinanza; o dimuita distanza. Mica è impossibile. A volte scendo fino al lungomare, a pascolare sopra quella distesa di carni nude intente a rosolarsi, con offerta garantita di un campionario eccellente fra tanta morfologia insignificante di catalizzante contorno. Mi distraggo. E anche lì, non senza quel vago sperare minimale. Perfino almanaccando sul fatto e il non fatto: avessi saputo di più, avessimo previsto meglio…Ma che cosa, infine? Se certi “aims” li avevo esclusi in partenza!

Parlo come se fossero trascorse settimane dall’ultimo incontro, e non sono che un pugno di ore, qualche giorno. Anticipo il futuro e ne distillo veleni sul presente. Mi aiuta, si capisce, anche la famiglia a superare, nell’oblio contingente, gli spasimi di questa incipiente crisi di astinenza. E il piccolo, soprattutto, che mi sequestra, mi costringe a portarlo fuori, a badargli in ogni modo. Ma poi anche questo rito, il portarlo a spasso, risveglia demoni di memorie ancora palpitanti: quante volte abbiamo incontrato, io e lui, la cara Susy sempre fornita della generosità fattiva a vantaggio del piccolo? Il confronto del vuoto presente con quel movimentato pieno non può non graffiare, la sua parte. Anche se la ricolma presenza del bambino finisce col sedare e sopire. Ma sedare e sopire non vuol dire spegnere e guarire. Né l’azione sedativa conosce lunghe resistenze e durate.
*
E tu, tanghero presuntuoso, canti vittoria col mio sangue guasto che urla d’impotenza, e torci le mie viscere che sognano un’impossibile vendetta. Padre degenerato, cafone rifatto, sicario del dio che sghignazza alle mie spalle, tu pretendi disponi ordini minacci. Tu e tua moglie sformata dai troppi parti e aborti, avete deciso di sottrarmi Susy, di allontanarla per sempre da me, dalla mia casa, dal mio vivace pargolo che la nomina e la cerca? Con quale diritto, tu che ti sei macchiato di un osceno peccato verso tua figlia? Sì, ora, qui, racconterò in termini schietti quello che nascosi nel cenno criptato di tante pagine fa.

“Che c’è Susy, ti vedo inquieta, cos’è successo?” Tu nicchiavi, sempre più tentata di parlare e con pari forza bloccata dal pudore. Poi la prendesti larga: “Può un padre sentire per una figlia un affetto morboso?” Ed io mi ebbi un pugno al ventre. Ecco, al solo rievocarla, si ripete, materialmente, quella fitta lunare. Una risposta sorda affiorò dall’acqua torbida di quei secondi sbalorditi. “Sì”, risposi. E la voce era bassa, cupa. “Purtroppo, può, e accade. Né sono pochi i casi di incesto. Particolarmente in questa calda terra argillosa di Magna Grecia”. E ti chiesi e consigliai di parlare, di confidarti: “Dimmi tutto, sfogati, liberati dall’angoscia. Non ha senso tanto imbarazzo tra noi.” Eravate alla fine di un pranzo festivo, tu uscivi dal bagno e lui si accingeva ad entrarvi: l’incontro routinier si accese di fiamme sulfuree. Chiamandoti per nome ripetutamente, come in una invocazione arrochita dal desiderio sconcio, ti abbracciò, ti strinse, e ti baciò sulle labbra. Sensualmente, carnalmente. Con annessa reazione sottostante coperta. “Sorpresa, spaventata, esitai, pensando a un gesto di affetto paterno un po’ eccitato.” Si era bevuto allegramente a tavola, te ne ricordasti in un fiotto di cresciuto timore. “Quando l’abbraccio si fece troppo stretto e lungo (pochi secondi, in realtà, ma...), mi svincolai, terrorizzata, protestando contro quell’assurda novità: ma che fai? sei impazzito? e scappai nella mia stanza, tremando di paura e disgusto”.
Che parole usare per dire lo sconcerto, lo scompiglio mentale, il pensiero di doverci incontrare dopo il fatto, vivere sotto lo stesso tetto, parlarci. Facendo finta di niente, seppellendo in una muta rimozione totale l’episodio sconvolgente, che nessuno dei due, in realtà, avrebbe potuto dimenticare. Ecco il pensiero che immaginai dietro le frasi rotte di Susanna, dentro il suo agitato imbarazzo.
Nei giorni seguenti ti chiesi del suo comportamento. Dicesti che ti evitava e appariva incupito, mortificato. Non ci furono repliche, per fortuna. Né balbettii di inutili scuse e chiarimenti: che cosa c’era da chiarire? Io, quaderno, tentai di svelenire un poco il fattaccio attribuendone una parte eziologica al Bacco euforizzante introdotto nel corpo senza risparmi. Era difficile anche per me accettare e sopportare quell’evidenza scabrosa. Lei ed io sapevamo entrambi, e sappiamo, che il caro genitore è un mandrillo. Ne ha appreso qualcosa la tua povera madre, con la sua bellezza sfiorita dai sopra richiamati parti e aborti. Né tu mi hai nascosto le dicerie su non rare sue scappatelle extra moenia. Le mogli, a volte, si sfogano con le figlie.
In questo momento lo schermo memoriale s’accende di una frase che un giorno lui ti disse, alquanto allegro, e che tu mi rivelasti. “Tu si figghia e’ paita”, tu sei figlia di tuo padre: e si accennava al tuo temperamento, da Tucano definito follicolinico. Che tradotto in lingua latina suona: hai preso da me, sei come tuo padre, sensuale, molto incline al sesso. Un padre queste cose le capisce anche senza laurea e diplomi. Le capisce, e dovrebbe tenersele dentro il proprio scroto lupesco, non spiattellarle in faccia alla figlia.

Ed ha natura sì malvagia e ria / che mai non empie la bramosa voglia / e dopo il pasto ha più fame che pria. Scusami la citazione, quaderno blindato: ma è scattato da solo quel ricordo a suo modo pertinente.
Mettendo insieme le due cose, la lettura dell’evento si ritrae un poco dal Bacco sopra denunciato per indietreggiare verso il più autorevole dio cromosomico. Immagino l’uomo alle prese con la forza seduttiva della tua compiuta bellezza, Susy; solleticato, giorno dopo giorno, dalla tua presenza ignaramente procace, splendida Susanna circolante per gli angusti spazi di quel modesto appartamento condominiale, dov’è troppo facile incontrarsi e magari “scontrarsi”. Circolante, voglio dire, spesso senza troppe coperture, come tu stessa mi hai detto più volte, compiacendoti del clima disinvoltamente libero ed evoluto della casa (specialmente nel contrastare quello naturale e troppo afoso dell’estate). Immagino tuo padre, quel corpo programmato per l’esuberanza del consumo sessuale, resistere all’aggressione continua di quegli occhi, del loro casmurriano sguardo di risacca (mi ripeto, lo so); di quelle movenze serpentine sprizzanti voglie malnascoste; di quelle labbra in offerta di baci-morsi. “E questo magnifico boccone dovrà papparselo un altro, deve essere a disposizione di altri!” – avrà pensato, chissà quante volte, sentendo troppo stretto il suo ruolo di padre. Forse la sua tentazione avrà qualche volta usato proprio simili formule di irata impotenza. “Un capolavoro uscito dal mio seme, plasmato dal mio sangue e dalla mia carne, nelle grinfie di estranei”: pensiero ostico per certe fisiologie troppo carnali (e troppo poco “rifatte” dall’etica culturale e religiosa).
Ma che sta succedendo, Susy? Spiego, interpreto, immagino: manca poco che giustifichi il tuo genitore cochon. No: nessuna scusa e nessuna attenuante: un padre non deve accogliere, ma scacciare simili pensieri. Può, e deve, compiacersi della corporale bellezza di una figlia, del suo fascino e della sua grazia; ma non concedere nulla all’immaginazione morbosa. Figuriamoci alla gestualità congenere. No, nessuna attenuante, solo voglia di capire. In nome della verità nuda, della fisiologia tiranna, che così spesso violenta etica ed estetica.

Non deve, deve… A quale cielo gridiamo l’imperativo categorico? Memorie culturali, il nome di Freud, lo scandalo tardo-vittoriano, la molteplice aggressione della “coscienza pubblica” intrisa di angelismo religioso: come accettare, in effetti, la scoperta della sentina sessuale che ignora parentela? L’inconscio, ripostiglio di tutte le perversioni: non è cosa che possa concordare con i valori e le illusioni piantate nella coscienza etica dei credenti fin dalle ciarle infantili: in famiglia e nelle sacrestie. E la sessualità infantile, plasma potenziale di quelle perversioni: l’esasperazione di una scoperta che si fa idolo per il narcisistico orgoglio dello scopritore. La realtà, però, s’incarica di snebbiare la visione vittoriana con la frequenza degli incesti. E la sbrigativa sensibilità popolare semplifica il freudismo con la rude frasetta: U cazzu non canusci parintela. Brutalità che una precoce educazione ai tabù sociali, rinforzati dalla religione, normalmente riesce a smentire. E dunque, ripetiamo: nessuna attenuante per il gaglioffo dal cognome beffardo.

Ora questo figuro vuole allontanarla da me. Complice la famiglia, vuole spedirla lontano dai miei baci, dalle mie carezze bramose e sofferenti. Di che, sofferenti? Forse che non lo sai, diario monco? Di non essere trascese a quell’intero che lei stessa, il suo corpo affamato, la sua impazienza per i ripetuti semipasti sollecitavano nel nostro sodalizio.
Non ricordo, quaderno, se ti ho confidato la sua confidenza di qualche mese fa. In ogni caso, sento il bisogno di ripeterla qui e ora. Si era, se non rammento male, in una pausa della lezione serale. Non so a che proposito, si venne a parlare delle sue amiche e compagne di classe. “L’altro giorno”, disse (in quel tempo artificializzato come lontano), “ho scandalizzato Adele. Eravamo in chiesa, tutta la classe, per gli esercizi spirituali di Pasqua. Mentre il prete armeggiava all’altare, noi due chiacchieravamo a tema libero [lo chiami libero, tu, questo sgorgo obbligato delle vostre prurigini sessuali?]. A un certo punto me ne uscii con questa sparata: mi sono scocciata. Non ce la faccio più. Se quel disgraziato (che sareste voi), non si decide, mi faccio sverginare dal primo che capita. Così la finisce con gli scrupoli!”
Quale reazione accesero in me quelle parole: è questo che vuoi sapere, quaderno arrapato? La prima reazione era stata una vampa di rossore al viso, più, in contemporanea, un sussulto violento nelle competenti zone organiche. Poi qualche domanda di mera curiosità intrecciata alle sue risposte, per un segmento di conversazione somigliante allo specimen qui di seguito. “E Adele cosa rispose?” “Sbottò a ridere, una risata a stento frenata, eravamo in luogo sacro” “Luogo sacro, certamente, e voi ragazze sempre ligie ai sacri doveri. Quindi?” “Mi sfottè un poco, sussurrando nel mio orecchio sinistro: le fregnacce che dici! Proprio col primo che passa? chiese” “E tu?” “Precisai: non ho detto col primo che passa…. Adele ironizza ancora: “No, hai ragione, hai detto col primo che capita.” Io, confuso e piccato, contrattacco: “Ha ragione Adele: dici fregnacce.” “E tu sfidami. Posso aggiungere, al massimo: “fra i papabili”. “Cioè? Mi farò aprire dal primo che capita fra gli accettabili.” “E io voglio chiudere: che razza di conversazione stiamo facendo? Come se tu potessi dire sul serio.” Lei: “Certo che no. Però…”
Però. Non ti avevo spiegato, Susy, che non sono abbastanza cinico per una cosa simile? Così grande, così de-cisiva. Dalle nostre parti, quella fastidiosa membranella è troppo importante. Nella nostra società, medio o piccolo-borghese e super-cattolica nelle convenzioni secolari, un buon matrimonio include la verginità come conditio sine qua non (e scusami il latinorum). Aggiungi il mio senso di responsabilità verso la famiglia. Forse Rina non sarebbe ostacolo di montagna per viandante di pianura, ma il bambino sì. Non posso lasciare la famiglia. Non ci ho mai pensato veramente. Neppure nei momenti di più acceso contrasto caratteriale fra Rina e me. Se volessi usare un paradosso direi che ti vorrei integrata nella famigliola, parte paritaria di essa. Sciocchezze, certo, ma l’iperbole voleva essere solo un segno del mio attaccamento. E della mia sofferenza.
(Perché non siamo islamici!? Viva il Profeta lungimirante). E ora vogliono separarci. Non è vero, dicono: si tratta solo di un soggiorno a termine, Susanna tornerà, l’amicizia fra le famiglie è sacra, e ancor più quella tra mia moglie e Susanna. Balle. E lo vedremo presto.
Certo, dipende da te. Ma tu, spirito ribelle, ipòstasi dell’orgoglio battagliero, angelo dell’indipendenza, resisterai? Ti opporrai alla separazione definitiva? Avrai, non avrai, forza bastante a rintuzzare e rompere, a costo, anche di romperti (ma cosa?) l’insulsa violenza? Ah, memoria, fatti droga nel suo sangue, tendi i suoi nervi, affretta il suo respiro nella presa vorticante del desiderio che dà forza e tenacia. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m'abbandona. La memoria, intanto, gioca con i rinforzi, scolastici e letterari. E trema per le terzine che fasciano questa appena ripetuta. Inferno e favole truci a parte, s’intende.
A parte, certo: ma che forse non esistono modesti inferni terreni e corporali? Modesti, ma di violenza sufficiente a mandarti in rovina.


(ancora) 26 luglio

Come tutto si ripete. Undici anni fa, dieci anni fa, la stessa congiura, oggi forse mezzo ignara (trema la mano che paventa la possibile improprietà dell’aggettivo). La stessa convergente ingerenza del sangue parentale organizzato per separare le due parti di una totalità; i legami di sangue dell’anagrafe familiare contro il libero legarsi di due anime-corpi in reciproca attrazione (anche allora, peraltro, ben frenata negli esiti tattili ed esplorativi).
Che cosa succederà nei prossimi tempi (ore giorni settimane…?): Will she remember our Vergnügen? Non dev’essere, il suo corpo, intriso, come il mio, dei nostri contatti, della loro memoria fatta chimica e cinematica molecolare? Al punto, voglio dire, che ogni suo moto, come ogni mio, risuoni della gioia e del tormento di quei gesti e touches, in faticata progressio dalla grazia del volto alle temperature rosse dell’intimità educata in sofferenza alla condizione demi-vierge?
*
Potessi ritrovare la gioia del lavoro creativo, della scrittura di vario impegno. Sostituire droga a droga, versare acqua d’oblio su questo fuoco di aghi nella carne. Potessi recuperare la condizione di ogni altro potere, la salute, dico, logorata da questi esami infernali.
Ore 19, 30. Ora della speranza in fuga sotto i calci dell’evidenza irridente. La chaise è vuota, il silenzio è tagliato soltanto dai cocci dei rumori stradali. La piaga si slabbra e la domestica regolarità si accinge a tentare ignari unguenti: moglie e bambino che rientrano dai vicini, il movimento ciarliero di Gianpiero, lei che prepara la cena, poi il pasto insieme; dopo, un po’ di televisione. Infine la notte, il convegno dei surriscaldati pensieri, la lotta scontata dei cozzanti propositi, l’insonnia atroce. E domani, la coda pesante della mensile routine: ultime prove orali, poi consigli, scrutini. Altre lotte, altre amarezze.

*
Ore 23, 30. Avevo appena finito di versare quelle lacrime d’inchiostro, quando l’Inatteso prese a calci l’Evidenza.
Radiosa, viva, palpabile, la Speranza era apparsa in carne di certezza sensibile. E sono stato felice, mi sono sentito improvvisamente bene in salute, forte. Ma solo per qualche minuto. Poi altre evidenze limarono la nuova realtà. La quale si mostrava vittoriosa, ma era intaccata dalla pressione di circostanze oggettive. Inoltre, una parte di “colpa” stava nel congegno decisionale del “soggetto pensante”. Perché tanto spreco di proteste “immobiliste” se poi non si è capaci di resistere alle spinte motrici? Comprensibile il bisogno del diverso visivo e cinetico, ma è pur segno della consistenza non granitica del congegno cogitativo, questo calo decisionale verso latitudini di disponibilità domestica. Ma di che lagnarsi? Tutto conferma un mio vecchio pessimismo.
L’incontro dialogico è stato utile e chiarificatore. Proteste di immobilità interna da una parte e dall’altra. Ma, da questa parte, anche un beffardo insinuare avvelenato dal rancore. “Si cambia, in sostanza.”, stringevo. “Macché! Non cambierò mai.” “Parole.” “Fatti.” “Velleità.” “Fermi propositi.” “Puntiglio di breve corso.” “Sentimenti sinceri.” “Ma va!”
Ma come sto parlando? Di nuovo la criptazione! Come se non mi fossi già abbondantemente denudato in cenni parole e frasi più che espliciti. E non sono abbastanza trasparenti anche questi spizzichi di dialogo senza nomi? Finiamola dunque con la mascherata prudenziale ormai sforacchiata, e andiamo al sole dell’esplicito compiaciuto. E resistiamo al timore-terrore che anche questo quaderno speciale e specialmente protetto possa subire contatti allotrii.
*
Dunque Susy è venuta. Inaspettatamente. Contro tutte le mie previsioni, o timori più o meno caricati. E’ venuta giusto nell’ora della “speranza in fuga”, minuto più minuto meno. E ti lascio immaginare, quaderno, il balzo del sangue sotto la spinta di tanta adrenalina. Sono stato per tutta la durata della sua visita in bilico tra l’emozione della realtà presente e il sentore vago del futuro possibile. Oscillando tra questi due poli anfetaminici godevo la pienezza della sua presenza a tratti e pezzi, discontinuamente. Anche se non meno gaudiosamente. Nei momenti di sfiducia nell’avvenire, il tono vitale si abbassava, ma quella pienezza finiva col tracimare dagli argini del malumore e sommergere caustici dubbi e futuribili cupi. Era venuta sola, Susanna: come fino a un paio di giorni prima. Non osavo sperarlo, ma lo sapevo possibile: l’amicizia fra le famiglie comportava bene siffatte visite. E forse quel non osare era più una finzione esorcistica che un fondato timore. Più difficile restava il trovarci soli in casa, come nel tempo-regno delle lezioni private: e qui veramente non osavo stuzzicare la speranza. Ma è accaduto anche questo, per un buon lasso di Crono propizio. Nei frammenti di dialogo riportati sopra e nella ricostruzione approssimativa che mi accingo a tentare del rimanente forse affiorerà questo mio oscillare: fra gioia contante e cambiali di timori, euforia a stento frenata e contrazione diffidente di emozionalità turbata.
L’incontro-scontro piacevolmente polemico e spiacevolmente incerto mostrava una Susanna paziente nel rifiutare i miei dubbi sul nostro futuro, il mio incipiente scetticismo sull’affetto di lei. Puntiglio, dicevo io; sentimento, replicava lei. Va bene, mi dicevo: ma sarà un piccolo tratto del lungo percorso in attesa. Dopo, non riprenderà il moto periodico dell’eterna presenzialità? Cioè, fuori di cifra, non prenderà gusto alla nuova vita, alla grande città, alle nuove conoscenze e amicizie che il fratello le procurerà? E’ lui, il fratello tenente aviatore, il perno motore della grande evasione. La condurrà nella città portuale, lei sarà ospite della fidanzata di lui, sarà introdotta in una società meno provinciale, le germoglieranno nuove esigenze. Come tenere vivo il Grande Ricordo?
La provocavo. “E’ un segno di calore calante.” “Non mi piace questo tono.” “A me neanche: eppure…” “Smettila!” “Che delusione.” “Ancora!” “Certo, ancora: è un punto fermo, una convinzione indotta dai fatti.” “Sentitelo!” “Ti facevo più forte.” “Sono forte.” “Dopo tanta ostentazione di indipendenza, che brusca, e brutta, caduta.” “Quale caduta? Non è vero: se non voglio, non faccio.” “Chiacchiere: non hai saputo resistere alle pressioni.” “Un corno! Non è ancora detto che vada.” “Non dire stupidaggini.” “Come mi provoca!” “Ma no: dovrebbe valerne la pena. E invece…” “Che vuoi dire? Non capisco, parla chiaro!” “Voglio dire che non ti sto provocando, che non ne vale la pena” “Continui ad offendermi.” “Ma se è tutto deciso, ormai.” “Da loro.” “E non basta, forse? Tu hai acconsentito. Magari ti piace l’idea.” “Mi dispiace allontanarmi. Ma come facevo a dire un no deciso? Non sarebbe apparso strano?” “E’ vero, sarebbe apparso strano.” “Non essere ironico.” Ma qui non lo ero, non potevo. Le ultime parole di Susy erano veicolo innocente di schietta verità. Il contrasto riprese, appena un po’ meno serrato, dopo qualche secondo di silenzio assorto.
“Non sono ironico: quello che dici è semplicemente vero, ovvio. Un no assoluto avrebbe insospettito, fatto immaginare chissà che segreti. Magari proprio nei nostri rapporti.”
“Lo vedi? Anche tu, se vuoi ragionare, capisci la mia situazione.”
“Capisco. Eppure non riesco ad accettare questa evidenza prepotente. Mi pare che allontanandoti da me nello spazio ti allontanerai anche nei sentimenti.”
“Bella fiducia.”
“Sono scettico per costituzione. E sulla natura umana ancora di più.”
“Avrai la prova che hai torto.”
“Va bene. Accetto la circostanza come una prova: voglio sapere, se possibile, cosa senti e pensi in coordinate diverse”
“Coordinate? E magari subordinate! Facciamo sintassi?”
“Diciamo condizioni: di spazio, ambiente, conoscenze e occasioni umane differenti da quelle calamagnesi.”
“E io accetto la prova.”
“Dieci giorni, però. Bastano? Su questo non transigo”.
Ma che sparate, dio delle scemenze d’amore. Dieci giorni soltanto di permanenza nell’“altro mondo”. E’, questa dei dieci giorni, secondo le dicerie domestiche, una necessità: il fratello dovrà imbarcarsi fra 15 giorni. La riporterà, si dice, a casa prima di mettersi in crociera per non so dove e quali necessità di nuovi addestramenti (e segreti esperimenti). Così dicono. Ma se poi la fidanzata, com’è prevedibile, le offrirà piena e convinta e interessata ospitalità? Non sarebbe uno sgarbo per la gentile disponibile entusiasta cognata in fieri un rifiuto di Susy? Accenno appena ai miei dubbi. Susanna tenta di spegnerli: “Senza l’imbarco di mio fratello, è vero, ci sarebbe stato il pericolo di una permanenza forzata più lunga, ma così è tutto a posto. Vedrai.”. “Speriamolo”. E pensavo, più che mai dubbioso e refrattario alle facili promesse consolatorie: ma ci dovrà essere in lei tanta decisione per salvare questa misura.

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