sabato 30 maggio 2009

Susanna, frammento n. 30


14 maggio

A scuola. Provocazioni (affettuose, a sentir loro) di colleghi euforizzati dalla tregua. Il devoto della discussione “teologica” mi chiede (siamo in ricreazione, sala professori) se faccio progressi verso Damasco; un altro attacca, da democristiano sacrestiale, tutta la sinistra, a sua stagionata convinzione, dominata dai comunisti, a loro volta tutti lecca-Russia e criptostalinisti; un terzo va sul leggero, mi fa le congratulazioni perché nelle mie classi avrei (le ha passate in rassegna tutte?) le ragazze più belle dell’Istituto. Cosa dovevo rispondere? Al primo ho detto che ancora c’è tempo; al secondo che non ero in vena di polemiche insensate; al terzo che quanto diceva lui era forse vero, ma che non ne avevo merito alcuno, né balbettio di vantaggio. E come mai se n’era accorto solo ora, quasi alla conclusione dell’anno scolastico? Gli interroganti si dichiararono tutti e tre insoddisfatti: gli ho dato appuntamento ad altro giorno, da definire e destinare. Ma l’insistenza del primo e del secondo mi slacciò questa risposta: “In questo momento non sopporto l’odore di sacrestia.” Apriti cielo. E a cielo aperto precisai che volevo dire tanfo. Bum. Il duo falsano mi dette sulla voce ad una voce: tu offendi, noi si scherzava, vai giù pesante, non sai stare allo scherzo, e via tempestando. Dico, con magro sorriso su labbra a stento ricomposte, che sto scherzando anch’io, che avrebbero dovuto capirlo, il tono era quello. E dài smorzando. Ma subito dopo sono uscito dalla sala fumigosa di Monital, ho sceso le scale acciaccate, e ho respirato una boccata d'aria fresca nel cortile. Dove le invidiate “mie” ragazze belle mi si sono accostate ad arco semiavvolgente. Masticando panini imbottiti (tranne Susanna) e cicalando, tra punti interrogativi ed esclamativi: “Come mai da queste parti?” “Oh, il professore di filosofia tra noi, quale onore,!” “Toh guarda, don Paolino il filosofo è sceso nei quartieri bassi” “A quale contingenza [s’inserisce una delle brave] dobbiamo l’evento della sua luminosa presenza tra noi umili alunne?” E così via, tra battutacce banali e sfregatine umorose di cervellini più svegli. La mia risposta, cumulativa e collettiva, accusò il fumo tabagico. Certe di cogliermi in risibile contraddizione, Adele e Giusy sbottarono uno schernevole “Ma se sta per accendere!” “Vero, ma io non sopporto soltanto il fumo passivo, il fumo degli altri (specialmente al chiuso). Il mio lo gusto. Quando è solitario” “Stramba coerenza” secondo le due furfantelle procaci. “E poi io fumo poco” – mi giustificai. E sempre all’aria aperta, e mai tra chiuse pareti di stanze abitabili (il che non era “densamente” vero).
Giusy era in vena di insinuazioni provocatorie: “Lo sa, professore, che il suo collega Tritolo fa la corte a Susy?” Susanna reagì con elegante nonchalance, fingendo modestia riduttiva: “Ma no, pettegola, si tratta solo di interesse estetico. E’ un artista, no? Gli piacerebbe – dice – farmi il ritratto.” Finzione boomerang, tuttavia: le sue care compagnucce si affrettarono a sottolineare: “Modesta, però, la fanciulla!” Ma senza vera malizia (al massimo un po’ di naturalissima invidia): chi poteva negare l’evidenza? La sfacciata evidenza, vorrei dire. Mia tentazione vincente sul placido sereno del self control: scendo in campo direttamente: “Sì, ma di una modestia ambigua. Non le si fa la corte, però si ammira tanto la sua bellezza da far sospettare interessi meno casti!”. Anche se tento, così, di defilarmi con tono para-professorale, giocando sulla presunta falsa modestia di Susy. Né mi assiste la saggezza della brevità sentenziosa: “Ma come siete pettegole, ragazzine! Qualcuna di voi potrebbe negare che Susy sia bella? Che merita tanto un interesse estetico quanto un ventuale forte impegno sentimentale? E cosa ci sarebbe di male, e di strano, se fosse come dice Giusy? Tritolo è giovane, scapolo, e non è mica brutto.”
Per carità, nessuna di loro voleva negare le belle qualità e i relativi meriti della compagna; nessuna ci trovava nulla di male nell’eventuale corteggiamento di un giovane professore scapolo per un’affascinante alunna. E via aggiustando, con tono fra il serio e il faceto. Forse, in qualcuna (meno sicura delle proprie virtù estetiche) non senza una lacrima di aceto magnogreco. Ma tronchiamo qui, con un comodo omissis, un resoconto che, forse, non merita tanto uso di tempo e di occhi. Nel mio interieur ronzava di molesta sicurezza quel corteggiamento annunciato.

Dopo la lezione di ieri, stasera nostra visita alla famiglia di Susy. Un paio d’ore fra ciarle, moniti all’alunna, scherzi dei piccoli e giochi con Giampiero. Per concludere la serata con la televisione di Studio Uno. Dove s’accendono ricordi e nostalgie, con la complicità di qualche canzone dorelliana e qualche ospite illustre. Ma soprattutto con lei, la maliarda che affascina Susy, lei, la “tigre di Cremona”, la voce più tosta dell’intero panorama canoro al femminile. Hai capito anche tu, quaderno, che sto parlando di Mina? Bravo
*
“La conseguenza del peccato originale e la sua presenza nel singolo è l’angoscia…” (Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Firenze, 1953, p. 63).
Questo storto buffoncello geniale, questo aborto (per certi versi anche) simpatico della fisiologia astenica e superansiosa, come assolutizza! Il peccato originale, l’angoscia come suo alluvionale prodotto remoto e transgenico, la misericordia di dio come la sua ferocia di sadico burlone! Gli strani effetti di una monocultura metafisica, letteraria, verbalistica innestata su quella fisiologia geneticamente “infelice”. Eppure, un grano di verità sta nascosto anche in sproloqui simili: se tu credi alla fandonia del peccato originale, niente di più consequenziale che attribuirgli le tue sofferenze mentali. Semplice scambio di cause ed effetti. Il temperamento ansioso è molto impressionabile; se dall’infanzia lo si rimpinza di favole terrificanti, da adulto ha ottime probabilità di scambiare lucciole con lanterne, di invertire relazioni causali, e via distorcendo. L’impressionabilità ansiogenetica produce fenomeni di angoscia? E’ la condizione più propizia per credere ai miti severi, tipo peccato originale e sacro contesto. E quindi di farne discendere come effetto quella che è la causa del credere. La reazione si amplifica se soccorrono catalizzatori: per esempio, un padre pastore luterano, un vivo senso del peccato in quel pastore non puro, poco docile, che osa perfino bestemmiare il cielo (è questa la famosa “scheggia nella carne” del trepido Severino? Lo si pensa, fra emeriti del ramo), la mancanza di una cultura scientifica e laica, che funzioni da depuratore rieducante contro l’immane spreco dell’infanzia plagiata; e cose simili.
Ma come mi prende la mano la tentazione divagatoria. Perché Kierkegaard, stasera? Lo devo spiegare lunedì alle mie fanciulle volenterose, alle graziose smaliziate ragazzacce della quarta E, la fibrillata classe di Susanna la bersagliera.
Da dove è saltato fuori quel bersagliera? Me lo sono trovato sulla carta quasi a mia insaputa. Il lampo di sovrapposizione fra la Gina nazionale e la mia Susy è scoppiato qualche frazione di secondo dopo. Certamente, il chiasma levita su qualche indubbia analogia, soprattutto di temperamento (col personaggio voglio dire, più che con l’attrice). Ma, detto fra noi, quaderno, Susy ha più fascino (di viso e di corpo). Sia detto con tutto l’affetto e rispetto per la Lollo e il suo invidiato charme.

Domenica, 15 maggio.
0re 23

San Giovanni Battista de la Salle, fondatore delle Scuole dei Fratelli cristiani. Onore al merito. Meglio mangiare pane condito di pie bugie che digiunare masticando verità tristi; meglio nutrire il cervello di grammatica pimentata di favole che custodire ignoranza assediata di freddo e tentazioni a rischio di vita.

Di mattina, verso le dieci e mezzo, siamo andati, noi tre più Susy, a Siderato. Passeggiata sul nuovo lungomare, con Giampiero che impegna molto Susy, sosta in un bar del centro, anch’esso nuovo (e luccicante). Mi vengono in mente le colline di sabbia che occupavano lo spazio dell’attuale lungomare nei primi anni del mio soggiorno magnogreco. Una delle mie classi era ospitata, insieme a due di altro corso, in un capannone di legno piantato sulla parte alta della sabbiosa, larghissima spiaggia. Nell’inverno, la bava di Nettuno giungeva a lambire quelle tavole e le sottostanti palafitte insabbiate. Godereccia, la passeggiata, sotto la clemenza di un cielo azzurrissimo e la carezza di un caldo forse già precocemente estivo. Tante le belle donne intente al passeggio, alcune con ghiotti gelati in mano e lingue leccanti senza pudiche titubanze incrociando uomini di varia età e curiosità. E tra cotali bellezze, molte ragazze della fascia “cronica” 16-18.

Sera. Di ritorno da Siderato: girovagando, andiamo a finire in casa di Susanna. Vi restiamo poco, perché la sorella Rosina stava per rientrare a casa sua e noi ci offriamo di portarcela in macchina. Com’era prevedibile, Rosina ci invita a fermarci. Restiamo poco più di un’ora. Giampiero è subito impegnato dai bambini presenti, noi, sorvegliandoli al minimo, sprechiamo fiato in ripetizioni di cose dette altre volte. Oltre che gustare, come da rito, dolcetti e fresche bibite.
Susy, però, partecipa distrattamente: è strana, turbata, agitata. A volte assente, con ritorni di presenza a scatti nervosi, quasi sussultanti. Che si scaricano sul fratellino, sempre in vena di birichinate, con urla improvvise, quasi volesse dar seguito materiale a quel “ti mangio!” E quel diavoletto sembra divertirsi a infiammarla di rabbia manesca. Cosa diavolo ha? Se capita che rimaniamo soli nella stanza per qualche minuto, accenna a cosa che vorrebbe dire, ma non può. E deve trattarsi di faccenda grave, se la squassa così. Si capisce che le brucia l’esiguo stomaco e vorrebbe vomitarla in confidenze liberatorie. Ne sono scosso, agitato, cupamente incuriosito.


16 maggio

Pomeriggio tardo-sera. “Può un padre sentire un affetto morboso per la figlia?“ “Ahimé, tutto è possibile in questo porco mondo. E fra gli eredi parlanti degli arcaici scimmioni anche un poco dell’impossibile”. (Anonimo, Una possibile tragedia, p. 90)
Come ti dirò, quaderno, le vibrazioni sbiancanti del corpo investito da imprevista bufera? Che sarà accaduto in quel promiscuo convoglio domestico?
“Say!” “It’s difficult, very difficult, my dear friend. And I don’t know if it is fit to tell that…”. “Tell, it will be better for you…” She tells (Lino Oscuro, An italian chance, p. 33)
Il resto, into the secret case, bien fermé. Per ora.

Poi. Poi il piccolo dio frecciuto ispirò le consuete pratiche liturgiche. Pensieri di devozione operante si condensarono in miocinetica scrupolosamente mirata ai luoghi deputati. Ihrer Leib rispondeva con moltiplicata intensità mistica. Quasi che l’assaut sauvage tentato su di lui lo avesse sovraccaricato. Ma di che? Di nuova sensibilità? Di un certo pimento gocciolante du sacrilege respinto, ma ignaro della propria natura?
“How many, this time?” “Don’t you see?” Non ci capisco nulla, ma foi. Sie sagt: “You wait me sayng to you: it’s enough? Be fresh!”
E va bene: piego il capo all’ineluttabile. E all’incredibile. How many, combien de, wieviel, cuànto…?
*
Uscirà, non uscirà? Io tento di scriverlo. Quattro giorni di costante lavoro. Forse lo finirò. Forse uscirà. Finora, procede bene.
Quel mélange, mon Dieu! L’atroce e l’esaltante, l’abominio e l’elevazione, l’inverosimile e l’angosciante. Qui è la vera angoscia, caro Severino! “How can, she, now, live under the same roof? Ein Vater! Her Father! Son père! Su progenitor! Comment tolérer l’onteuse méchanceté d’un père jusqu’àlors aimé! The natural keeper de sa chasteté! (op.cit., pg. 50)

Sto male. Le sigarette mi avvelenano. Ma più di esse, le mie angosciose chances. Ancora una volta: lavoro, entusiasmo, eros susinico (e tanto erosivo): un assemblage a rischio salute. E a probabaile riduzione durata al banchetto di Crono. Puntuali, le mie distonie sporgono il capino. Come folletti guizzanti in sberleffi.
Che tristezza, questo silenzio coatto. Che brulichio di parole al calore bianco, sotto la sua cappa di piombo! Quale ansimare di urgenze strozzate.
Ma quante volte, di’? Morire, dormire. Forse sognare (ma meglio di no, se i sogni smottano in incubi).
“L’angoisse apparait donc lorsque la réalisation d’une tâche correspondant à l’essence de l’organisme est dévenue impossible” (K. Goldstein, La structure de l’organisme, Paris, 1951, pp. 250-251). Appunto: questo silenzio è la mia angoisse. Perché la sua voce, die Stimme der Stille di heideggeriana memoria (in degrado punitivo!) resta dentro, s’ingolfa nei labirinti molecolari de mon organisme, ne contrasta l’essence.

*
18 maggio

“Il signor Rodolfo Boulanger aveva trentaquattro anni; di temperamento focoso e d’intelligenza perspicace, aveva molto bazzicato le donne, e le conosceva bene. Quella gli era parsa graziosa; pensava dunque a lei e a suo marito.”(Gustavo Flaubert, La signora Bovary, BUR, p. 122)

Sto leggendo Madame Bovary. Perché quella citazione? Ovvio: le coincidenze. Piccole, ma gonfiate di contingenze spurie. Al limite della forzatura.
Flaubert è ubertoso. Quel suo stile, analitico e lirico insieme, convince e seduce. Minuzioso custode dei dettagli, questo gran sacerdote della Scrittura litterata ha il genio della lingua: sempre la parola giusta, il termine appropriato, per ogni cosa. Fosse pure la più tecnica e lontana dall’esperienza tipica dell’homme ès lettres. La sintassi, agile e duttile, senz’essere manierata, modula frasi scorrevoli e dense. Ma la clarté cartesiana si scioglie sovente, e nei momenti giusti, in caldo respiro émotif o in meditazione radicale. Né c’è occasione a rimpiangere scarsità di humour e carente ironia, ché, anzi, il disincantato vivisecteur ne convoglia una copiosa, rapsodica pioggia a spruzzare, demolitrice, sonore maiuscole. Il tutto col massimo riguardo alla psicologia dei personaggi, cui adatta sempre immagini descrittive e dialoghi.
Una caratteristica di questo magistero stilistico è l’alternanza calibratissima di parti “decorative” (paesaggistiche, di interni, o d’altro tipo) con sequenze dialogate. Capolavoro (poi tanto imitato) di arguzia “depressiva” (smaiuscolante) all’interno dell’alternanza (ma qui quasi soltanto dentro il dialogo) è l’intersezione fra il monologo galante del giovane Boulanger all’assedio di Emma e frammenti del discorso, pomposo e filisteo, del consigliere di prefettura ai Comizi agricoli. Un sottile contrappunto tra le fruste smancerie del seduttore e le battute triviali del discorso comiziale che si avvia a concludere. Ecco qualche scampolo:
“Cento volte ho pensato di andarmene; invece l’ho seguita, e sono rimasto.” “Concimi” “Così come resterò stasera, domani, ogni giorno, tutta la vita” “Al signor d’Argueil, una medaglia d’oro!” “Perché non ho mai trovato in nessuna un fascino così completo” “Al signor Bain di Givry Saint Martin!” “Io conserverò il Suo ricordo…” “Per un montone merinos…” “Ma lei mi dimenticherà, sarò passato come un’ombra…” “Al signor Belot, di Nostra Signora di…” “Oh no, mi dica che sarò qualcosa nel suo pensiero, nella sua vita!” “Razza suina, premio a pari merito: ai signori Sehèrissé e Cullenborg; sessanta franchi!” – Rodolfo le stringeva la mano e la sentiva calda e fremente come una tortorella prigioniera che vuol riprendere il volo; ma, sia che cercasse di liberarsi o che rispondesse a quella stretta, Emma fece un movimento con le dita. Egli esclamò: “Oh, grazie! Lei non mi respinge! E’ buona, comprende che sono suo. Lasci che la guardi, che la contempli…”.
*


In realtà, Emma è più sua di quanto lui non sia di lei. Un banale “commento”? Ma no: una cifra. Mi ficco in Rodolfo. Parzialmente, si capisce. Dopo tutto, abbiamo alcune cosucce in comune: il culto della...bellezza, l’età...
Qualche ora prima di questo transfert dialogico, il Rodolfo in ottavo ripeteva il sortilegio che lega Emma a sé: sapienza digitale nella ferita calda du l’abîme. Lento, delicato, poi in progresso di vitesse, rapido, incalzante, questo Rodolfo erudito e imbrigliato sa, tuttavia, spremere ormoni di volupté che incollano la vibratilissima Emma carnale al suo periglioso sovoir faire. Ma il Rodolfo cifrato ha capacità d’amore. Senza eccessi drammatici, sia pure, ma le ha: autentiche e spossanti per un imbrigliato. Né può fare a meno di temere gli eccessi degli altri. Soprattutto delle altre. Per dolci che possano mostrarsi all’anima.

Sie sagt dass sie ist sehr verliebte der Philosophie. Lei si dice innamoratissima della filosofia, ma non lo dice con effluvi verbali: gli si mostra e dimostra tale. Lui, scettico, e malsicuro, è pur costretto, a volte, ad ammainare il suo scetticismo, così offensivo per lei. Che protesta, infatti.
E sente di essere ihr. Ma egli non è scapolo, come il Rodolfo flaubertiano. E teme l’échafaud della vergogna, dello scandalo. Parce qu’il est même un père amoureux.
Sapienza e pazienza. Fruga le vischiose routes entre les jambes vogliosamente écartèes: elle rèpond, las mejillas soffuse di crescente rougeur, preme, jadea, se ronge les lèvres, stringe quella sapienza entre las piernas nerviose. Madamoiselle sans gêne…Una, due, tre volte, quasi di seguito. Come ne La noia di Moravia, quando Cecilia dice a Dino: “Sai quante volte sono …?” E fa segno con le dita, una, due, tre… Così ha provato a farla contare, muta, allungando prima il pollice, poi l’indice, infine l’anulare, con la speranza, appagata, che si fermasse quel misterioso conteggio.
Las piernas, poi, tremano. Cunnilinctus: il valore del momento. Questo dover essere intenziona il prossimo futuro assiologico.
*
“La scelta del valore, come è scelta della possibilità della relazione positiva con se stessi (valore della unità personale) così è anche scelta della possibilità della relazione positiva con gli altri esserci e con le cose mondane, onde la realtà del valore consiste, soggettivamente, nella unità personale, solo nella misura in cui vale anche intersoggettivamente e oggettualmente, e viceversa” (Semerari, Scienza nuova e ragione, p.114).
Suppongo che un cunnilinctus non riuscirebbe a trovare dignitosa collocazione nel firmamento di tanta assiologia. Ma tant’è: esso splende nel cielo di Rodolfo come astro platonico impaziente di incarnarsi. À la prochaine fois?. Non crede, Rodolfo, che ci possa sedurre valore più capace di realizzare insieme la propria scintillante unità personale e la “relazione positiva con gli altri esserci e con le cose mondane”. Gli altri, per lui, sono, mentenant, une seule autre. E le cose mondane, quella sola cosa vivente e palpitante. Sotto le sue espansioni prensili e sotto il suo linguaggio adorante. Così comincia già a pensare alla contropartita: la sua anima entre los labios de ella…
*
Questo Rodolfo cochon e purissimo sperimenta a volte la deliziosa ebbrezza di tenere l’intera persona di lei intorno al dedo medio della sua mano destra: una nube discreta, invisibile e pervadente, un velo spugnoso e sottile de olor, che, per farsi sentire, spinge il dedo del sortilegio sotto los orificios de la nariz. E lì lo vuole e lo tiene, in vacanza da ogni peso cosista dei “valori”: accostato alle nari, e in oscillante contatto tangenziale. L’odore dell’anima di lei: che fiotti di adrenalina dentro la rete da quell’impalpabile motore chimico, capace di attaccare ali ai micromoti particellari. Magari, intanto, il cervello si annebbia. Ma che nebbia squisita. Né turba più di tanto il vento che soffia fra gli intrichi neuronici a sparpagliare pensieri di santa utilità domestica e professionale.
Quasi quasi torna a suonare allarmi questa (in)sensibilità morale. Né posso barare, quando sono nel cuore del vortice, scambiare la paura dello scandalo con la sensibilità mimata. Altro è il tempo dell’imbarazzo: tempo di raccoglimento domestico, di presenze care e ignare.

Tra lo svariare del disagio: il pensiero, ricorrente, dell’Inappellabile circola, veleno nel sangue, annerito di nicotina. Mi logoro. E temo che l’ultima Amante si avvicini. A passi di felpa. Forse morirò di cirrosi epatica: come zio Silvio? Vade retro, pensiero di atomi rutilanti.

Quanti regali per il mio compleanno, ieri. Tutte le tre classi della mia sezione, la E, si sono mobilitate: una graziosa sveglia tedesca e un volume d’arte (Renoir) da parte della quarta; due romanzi dalla terza; un tagliacarte e una forbice da tavolo dalla seconda. La cognatina ancora virtuale, cioè la fidanzata, ormai ufficiale, di mio cognato, nonché fratello di Rina, s’è fatta presente con un bel portasigarette d’argento. Last but not least, anzi il top della regaleria, un set di coccodrillo, portafoglio e cintura, dalla strana Susanna, che non voleva farlo sapere a nessuno. Regalo strettamente personale, dietro e oltre il normale contributo al regalo collettivo della sua classe. Personale e segreto! E secondo lei che cosa avrei dovuto raccontare a mia moglie? Che li avevo comprati io, quei due costosi pezzi? Non s’era posto il problema, l’innocente. Le capita spesso: desidera una cosa, e, come una bambina, l’avvolge di assoluto. Alla fine, sia pure a malincuore, s’è persuasa: Rina doveva per forza saperlo. Che non lo sappiano le sue compagne, almeno! Be’, questo non è un telos difficile. Che interesse avrei, io, o avrebbe mia moglie, a raccontare le nostre private relazioni con Susy e famiglia alle sue compagne di classe e, fra loro, alle due o tre amiche?

Mi vogliono bene, le mie alunne. Fare l’analisi a questo “bene”? A che pro? Gli ingredienti si conoscono, più o meno: interesse utilitario (captatio benevolentiae), interesse femmina-maschio (mi secca dire sessuale. Richiama intentiones non sempre presenti nel composto), simpatia umana, gratitudine (tratto tutte con generosità, sia pure graduata). Naturalmente, più d’una si crede innamorata del pur non strabiliante sottoscritto. Potenza della cattedra, questa povera modalità del potere, sempre stuzzicante per il gentil sesso costretto al riposo-fatica dei banchi. Qualcuna mi racconta perfino i suoi sogni: quelli in cui sono presente io. Ma ai dettagli, il racconto si fa reticente: la cultura morale paesano-meridionale resiste, malgrado tutto, alle ventate della modernità. Almeno, nel linguaggio.
Potenza della cattedra, ho scritto. Ma l’impiccione par excellence, il quaderno vanitoso, nicchia, resiste alla chiusura. Che cosa c’è che non va? Niente, sussurra, un piccolo dettaglio: madama la Cattedra si sente a disagio tutta sola: ha bisogno di un paio di damigelle. Per esempio? Queste damigelle: onorata da vero sapere e capacità di comunicazione erga discipulos et puellas. Viva la modestia.

venerdì 22 maggio 2009

Susanna, frammento 29


4 maggio, ore 23

Une mauvaise nouvelle m’afflige. Elle a du malaise
Susy viene con la sorella minore. Lezione di matematica: spiego la frazione generatrice. La “piccola” (o, più compiutamente, piccola peste), la sorellina, insomma, si annoia a sentire lezione, e va a giocare con Giampiero.
La generatrice mi irrita. Susy non la digerisce: le sta antipatica.

La sera, alle nove, accompagno a casa le due sorelle. Nel ritornare, una maledetta marcia indietro frettolosa mi fa sbattere la macchina contro un muro: un fanale posteriore rotto e qualche graffio alle adiacenze. Tremendo. Mi sento perseguitato dalla malasorte.
E se il peggio fosse avanti? Perché non mi piglia un colpo? Quante soluzioni…!


5 maggio

Che fatica trovare il pezzo da sostituire nella macchina. Alla fine, si è trovato e sono anche riuscito a nascondere l’incidente a mio cognato, proprietario della car. Meno male. Mi avrebbe gratificato della sua ironia spocchiosetta sulla scarsa attitudine pratica dei filosofi. E non avrei nemmeno potuto replicare con la difesa platonica della categoria. I matematici!
A scuola ho riferito a Susy dell’incidente. E’ il secondo che mi capita per “colpa” sua. Rina comincia ad averne abbastanza. Tanto più che gli stessi familiari della Silfide menagramo pensano, e dicono (anche a Rina, in mia presenza e in mia assenza) che Susy approfitta della mia protezione per farsi venire “tutti i mali”. Ma quella sta male davvero. Lo so. Non recita, non esagera. Noi sappiamo quale tarlo la rode.
Nei suoi momenti buoni, mia moglie dice che Susanna è bella e sfortunata. E’ vero. Comincio a credere anch’io nell’accoppiata bellezza-sfortuna – A pensare, cioè, che non sia un luogo comune infondato dell’antica saggezza, o piuttosto superstizione, popolare. Rischio di diventare superstizioso anch’io? Ma, dopo tutto, l’“invidia degli dèi” è esperienza ben longeva, e monito che circola in tutta la cultura greca classica. Estrai il nocciolo fisiologico dall’involucro metafisico-metaforico e ci siamo con la possibilità dell’accoppiata. Penso anche alle streghe e relativa caccia nel luminoso medioevo della fede tripudiante: quante saranno state, tra loro, le belle donne e fanciulle oggetivamente insidiatrici di unioni coniugali e suscitatrici di feroci gelosie di mogli e nubili (specialmente, nobili) racchie in cerca del maschio? Quante rivalità fra campioni dell’aristocrazia arrogante intorno a una ghiotta bellezza plebea! Quanti, in particolare, i casi “Nôtre Dame de Paris”? E dicesi medioevo per indicare l’intero lungo corso di secoli (fino a tutto il XVII) nei quali i processi alle streghe straziarono povere innocenti (alcune “convinte” di praticare davvero con Satana e dipendenti) e deliziarono il sadismo sempre disponibile di homo sapiens in salsa superstiziosa. Ma spesso soltanto miserabilmente ingorda.

Lezione di fisica alla cognatina in fieri. Che profitta gradevolmente. Cioè, con relativa facilità, e senza le complicazioni di Susy (e sfido!).

Spesa per la macchina: tremilacinquecento sudate lirette. Che devo tentare di recuperare con rinunce e risparmi. Il magnanimo Stato repubblicano (nato dalla Resistenza) ci paga così profumatamente, noi “educatori” delle nuove generazioni di futuri manager e commis statali! D’altronde, come farebbe, dovendo strapagare questi super tecnici? Bisogna pure che risparmi sulla pelle dei più deboli: il teorema non fa una grinza. E nemmeno la nostra vana ira non-funesta.

Ho risposto a Vittorio G. Rossi, che si è rifatto vivo con una zuccherata letterina (a soliti caratteri cubitali e mezzo dannunziani). E a Gulizza, che mi rimprovera sempre la mia pigrizia (dio sa quanto ha ragione!). Ma non c’è verso di curarla: è un capriccio del piccolo Ananke genomico (come avrò scritto cento volte su queste pagine annoiate). Un capriccio stabile come le orbite planetarie e la legge di Coulomb. Lui, il trofista, che consegna intero l’uomo alla determinazione biologica, non sa tuttavia rassegnarsi a questa dittatura triplettara. Tutt’altro che ignota alla saggezza antica, di filosofi e poeti. Il misurato Orazio la canta così: Naturam expellas furca, tamen usque recurret (magari l’avrò scritto altre volte su queste pazienti superfici rigate).
Veramente, del tutto rassegnato non mi sento nemmeno io, titolare di tanta grazia. Voglio dire che, nei momenti di ridotta lucidità, spero sempre di migliorare. Cioè, torno a puntare sull’ambiente, su possibili stimoli esterni, su non impossibili catalizzatori contingenti. Dopotutto, nel mio Dna trovo anche una discreta reattività mimetica. Iattura, da un lato; ma dall’altro, una chance. Quando mi imbatto nel soggetto giusto, qualcosa ricavo dalla tendenza mimetica: l’esempio un po’ mi trascina. Certo, non a lungo. Ma meglio di niente. Probabilmente, se vivessi vicino (fisicamente) al Maestro riuscirei a combinare qualcosa di meglio.
O sono tutte balle, queste congetture da sera tarda?


Mercoledì 11 maggio. Ore 22, 30

Pennellate di cronaca spicciola.
Sabato siamo rientrati al paesello sicanico. Sentivo il bisogno di riabbracciare i miei genitori. C’è una morbida voluttà nel ricordare questi viaggi. Già a un paio di giorni dal riapprodo in questa terra-distanza il fluido memoriale delle percezioni si gusta coagulato in frammenti di “assoluto” (lo so: sciocchezze per dire l’indicibile. Ma tant’è).
Mi piace rivedermi a tavola, per la cenetta (sempre forzatamente sobria, se non parca), davanti al televisore, libero ─ in questa parentesi ─ da responsabilità finanziarie, a contatto con i miei libri variamente parcheggiati tra le stanze della casa terrana (dotale di Rina) oscillante sul piano del provvisorio, la tavola ben fornita (per chi può mangiare tutto). Punta verticale di morbidezza affettiva, l’abbraccio con la mia ancora giovane ma invecchiata madre (57 anni), che mi tempesta di baci, come se mi ritrovasse dopo troppo lunga arsura di lontananza a rischio. Gradevole, anche, l’incontro con i vecchi nonni di mia moglie, nel vecchio cortile e nella vecchia casa a predominanza senile. Vecchia e povera casa di proprietà parrocchiale, ma pur fornita di orto e legata a un pezzo di agrumeto separato, o piuttosto appena distinto, dal resto, da un muro alto, con accesso per un cancelletto in ferro, sulle cui sbarre la ruggine parla di molti decenni trascorsivi sopra. Nell’orto, fiori, ortaggi, alberi, tra i quali spiccano il limone dorato e l’arancio rosso in profusione di verde cupo fagliame. Nel cortile, fornite di larga gabbia, ma libere di razzolare, vispe gallinelle generose di uova ricolme e gustose; e conigli, altrettanto liberi e, all’occorrenza, di tenera carne. Le zone pavimentate, fuori e dentro l’unica stanza a disposizione dei nonni, hanno mattonelle di cotto scolorite, alcune rotte. La stanza, grande e alta, è multifunzionale: camera, sala da pranzo, salotto e, in emergenza, anche cucina. Alto il soffitto, si diceva, e screpolato la sua parte, in perfetta coerenza con l’insieme. L’olfatto registra come odore prevalente del monolocale dalle molte vite un robusto tanfo di vecchiume e di cotture in equo dosaggio di componenti. Altro odore, per diverso olfatto, è quello del tempo: vi si respira come incrostazione fisica, e si misura in decenni perduti di molteplice passato. Dal quale emerge, a stenti di macchie e unti sparsi, dalle solide pareti ai mobili “antichi”.
Non meno composito e più variegato il cortile, sul quale ci si affaccia dallo stanzone sopra un ballatoio di molte ferite, con balconata in ferro color caffè (cioè, ancora, vecchissimo). Vi si scende per una scaletta azzoppata in vari punti, ringhierata come sopra. Un’altra scala, più gradinata e più erta, fa capo, a lato del misero androne, a un abitacolo innalzato sopra un mini-spiazzo: altro monolocale, per altra famiglia di rastremata povertà. Sopra le due scale un vecchio ceppo nodoso e intricatissimo di gelsomino bianco multiramato diffonde un alito di gioia nella gloria sensuale del suo insinuante profumo. Giù, negli angoli del cortile sformato, da tortili rami in cerca di luce, turgide rose di caldo rosso e di mite rosa rispondono con i loro carnali cromatismi alla sfida olfattiva del gelsomino castamente nuziale.
In questo spazio troppo limitato vivono quattro “famiglie”, ciascuna in una sola stanza, con appendici minime per cucina al piano terra (o meglio, rialzato dal ballatoio): i nonni di Rina, ottantenni; un’altra vecchietta, fra gli ottanta e i novanta, sola, trascurata da figli troppo “rispettosi” della sua gelosa indipendenza; una non vecchia né giovane sposa, tutt’altro che bella, con figlioletto di sei anni, separata dal marito, ingiustamente geloso, che è il fratello minore di mio suocero. Dulcis in fundo, una coppia di freschi sposi maturi, che sembrano usciti da un capricho di Goya: lui gobbo, piccolo, tutto storto, dal collo alle gambe devastate da paralisi infantile; lei mitemente brutta di viso, piccola di corpo, malmessa e senza distinzioni di caratteri sessuali secondari nella figura rastremata, appena più alta del marito solo perché dritta. Nel viso dei due, l’eco visibile della necessità unitiva. Specialmente in lei, che, pur così negletta dall’estrosa sorte, forse aveva sperato a lungo in un compagno di vita meno mostruoso. Con questi due abita il padre della sposa, un vecchio quasi normale, se non fosse per un braccio troncato all’omero. Insomma, una gustosa marachella della sovrana Contingenza in vena di contrasti: grazia del vegetale, teriomorfismo dell’umano, stretti insieme in un ombroso spazio da fiaba triste. Anche l’ingresso stradale nel cortile, una sorta di androne, s’intona al contesto capriccioso, col suo fondo in terriccio e pietra, pronto a inzupparsi di pioggia importata dai transitanti.
*
Serbatoio di tenere memorie, quel posto. Certe affettuosità fra me e Rina, negli anni più tardi del fidanzamento lungo, specie dopo la morte della madre, ebbero come cornice la stanza tuttofare dei nonni. Alla robusta e tenera madre rubata da medici e medicine sballati era subentrata la piccola, curva, un po’ pingue nonna, madre della madre. Subentrata, intendo, non solo nel ruolo affettivo, sì anche in quello più difficile di guardiana del pudore. Al padre, impegnato nel negozio, non restava che spostarsi dai nonni per stare qualche ora insieme, la sera. La cena, però, seguiva sempre nella modesta casa della famigliola mutilata. Dove il vuoto della mutilazione pesava come un eccesso di pieno malefico.

Più in generale, mi piace rivedere, dopo mesi o anni di assenza, i vecchi muri, le vecchie strade, i sentieri di campagna, sui quali, passeggiando dopo il tramonto, preparavo, in parte, le materie universitarie (quasi soltanto quelle filosofiche, però). E poi gli angoli “dimenticati”, dentro e fuori la cerchia urbana. Un volger d’occhi, uno scatto dell’immaginazione, e si rimette in moto la voluttuosa, inutile, crudele proiezione dei ricordi intrisi di rimpianti (questo dolce veleno da sorbire in severe mini-misure, pena guasti sterili). Balzano dall’ombra vecchi volti, incontri lontani, piccoli fatti, eventi minimi: baci, sospiri, carezze. Pene d’amore perdute (e ritrovate), gelosie infondate e sospetti meno gratuiti. Anche le novità del paese, le nuove costruzioni, le nuovissime case, mi interessano, ma queste soprattutto per misurarne l’evoluzione. Cioè, in realtà, l’involuzione criminale, lo scempio edilizio già bene avviato con la complicità (“remunerata” dalla prassi tengentizia) dei signori amministratori. Tutti, costoro, unti di Vangelo e vibranti di trepida devozione ai santi patroni e alla “Madunnuzza della corda”.
Un tuffo nel passato, un amaro confronto, il sottile gusto delle reliquie biografiche. Ma anche un calcolo triste dei giorni che restano. Tu. E tu. E pure tu. Ragazze, avventurette, occasioni colte e mancate. Errori, titubanze, timidezze, rinunce e (sempre, bene che andasse) mezzi pasti. E quella spinta indomabile al confronto con l’altro sesso, pur senza avere né la bulimia sessuale del dongiovanni genetico né le risorse corporali estetiche e mentali (anzi il loro opposto: l’impaccio, la ritrosia, l’insicurezza) per una “gestione” appagante (o meno dispendiosa, in termini di tempo impegno energia) della prurigine erotica.
*
Il primo amore e il suo ambiente: un palazzetto ornato di fregi ambiziosi e civettuoli a sinistra della grande chiesa secentesca; un altro alla sua destra, quasi di fronte al primo, ma alcuni metri più a sud, in continuità con una distilleria, garante, ma insieme a proprietà agrarie e “gabelle”, del riconosciuto benessere della famiglia di lei. Un’ampia e alta gradinata in forma tronco-piramidale a basi trapezoidali, a modulare il forte dislivello tra la facciata della chiesa e le sue spalle in declivio, un pianoro al culmine della gradinata, largo davanti all’ingresso e con due ali laterali a restringere, con i relativi ingressi secondari. Pavimento del sagrato pittoresco con ciottoli marini di vario peso e colore. Una balconata in ferro battuto, con pilastri a petto d’uomo in bianca pietra calcarea, espansioni apicali simili a capitelli, sormontate da grosse pigne magistralmente scolpite da ignoti artigiani (una nobile tradizione mortificata dalla barbarie invasiva del cemento edilizio). Chiesa a una sola, ampia navata, dedicata a santa Sofia, ricca di ornati barocchi, con soffitto a cassettoni dorati, pitture d’epoca, colonne tortili istoriate, statue in marmo e in gesso; e quant’altro si trova comunemente nelle nostre chiese: sempre ricche, beate loro, anche in mezzo alla povertà sociale e al conseguente squallore ambientale. Qui, intorno alla piazzetta omonima alla santa, niente squallore, ma discreto chiarore di piccola borghesia bottegaia, artigiana e mini-industriale.

12 maggio, ore 23

Che faccio, continuo o no questa nuotata memoriale? Ma sì, coccoliamoci ancora.
L’effetto scenografico della chiesa intronata sul poggio gradinato è superbo, posta com’è al termine del corso principale del paese, un largo rettifilo con marciapiedi di vario sviluppo latitudinale, il quale congiunge il quartiere periferico col centro. Ecco la cornice (case palazzate chiesa strada…) del mio primo cimento d’amore. Dal suo pinnacolo, il campanile lancia moniti inascoltati, rintocchi come pezzetti di tempo persi nel pozzo senza fondo del Grande Oblio vitale. Anzi, fatale. Ma non è completo, così, il quadro, se dimentico la porticina corrosa della vecchia stradina ora fagocitata da un’espansa sovrapposizione nuova in scheggiata pietra lavica: dietro quella porta, sotto un vecchio fico, si consumarono incontri “eroici”. Con poco sesso, fatto soltanto di baci e petting; magari un contrastato e, nello scorrere dei giorni e dei mesi, progressivo heavy petting, ma senza neppure una mezza idea-intenzione di rapporto completo. Vigeva, come oggi, in ben mutate condizioni etico-sociali, ma allora più che mai arcigno, il venerando tabù della verginità prematrimoniale, ora e sempre dogmaticamente servanda. Non per ciò sempre servata, beninteso. Ma le trasgressioni, di regola, finivano in chiesa: al remedium iniquitatis del “matrimonio riparatore”. A sua volta, molto più spesso programmato che accidentale (idest, conseguente a tumulto passionale).
In quella stradina dava il cortile del secondo palazzetto di Elisa, da quella porticina si entrava, sotto quel fico: quando altro tipo di incontri vennero meno, in quel covo arboreo si consumarono i nostri convegni notturni. Non era larga né pulita, in quel tempo, la straducola ora rinata come spaziosa e linda via Torre, allora nomignolata con lessico scatologico. Eppure, lega la sua parte di nostalgia, tutta quella povertà innamorata. Quasi vent’anni sono passati sopra quel palpitare soffrire vegliare sperare sospirare. E osare, infine, e ottenere, imparando una parte del mondo, crescendo in quell’apprendistato non agevolato da volto apollineo né da corpo olimpionico. Quasi vent’anni, da quando mi fu concesso il sudatissimo sì. Troppo insidiato, tuttavia, da un suo primo amore, esteticamente incomparabile, per spudorati suoi vantaggi di viso e corpo, al gramo sottoscritto. Avevo, allora, la metà degli anni attuali. Quanti grani d’incenso e zollette di zucchero amaro nel calice elastico della memoria selettiva…
La circonvallazione, allacciata a quella traversa ora basolata, scavalca il torrente, uguale nei decenni, per i contorti capricci di antica lava etnea, ma frenato, oggi, da protesi cementizie decise alla riduzione delle sue sperimentate capacità assassine. Rocce, macchia mediterranea, casali agricoli, vigneti digradanti da poggi di sovrapposte colate millenarie, vecchi palmenti, casette civettuole da vacanze campestri, in cima alla curva che nasconde per un tratto il letto del torrente. Questo il contesto, lo spettacolo, il fascino sottile dell’entità a suo modo sacra, che nella giusta lingua si dice u vadduni. (l’equivalente del calamagnese a sciumara). Questo e altro, se si fa giustizia agli agrumeti: nuvole di limoni in verdissima ascensione sopra groppe dell’onnipresente lava parzialmente convertite dai secoli in terreno fertile, e ulivi centenari, che competono nel loro cinereo argento con il variegato verde degli agrumi diffusi: non solo limoni, ma aranci, altresì, e mandarini, e clementine (o mandaranci) di collaudato gusto e fragranza.
In questo scrigno selvatico una passeggiata solitaria ridesta un film di ricordi. La fantasia s’è lasciata dietro piazza Santa Sofia e s’è inoltrata lungo la via del cimitero, su per la strada-sentiero pietrosa che lo costeggia, brada e arruffata in diruposi dislivelli, sbocca, per un corto braccio, sul torrente, schiude il paesaggio accennato. Che è altro spazio sacro ai miei frenati amori, regno di Joseline, la passione che precedette Rina, la più “drammatica”, per contrasti col fratello geloso. E sleale. Ero ancora studente, ma già universitario. Era studentessa, anche lei, ma dell’istituto magistrale (di Realpolia). Ne richiamo allo specchio interno la figura e fisiologia amazzonica, l’odore di campagna. Una proprietà di famiglia racchiudeva in tortuosi confini un pezzo di questo territorio a suo modo romantico, e tra i suoi limoni, i suoi aranci e mandarini, le sue viti e i suoi ulivi, ci si dava appuntamento, di quando in quando, in silenziosa solitudine d’altri tempi.

13 maggio,

Ore 23, 30. Ma sabato, prima che partissi da Zefiria, l’alunna Didia ha detto delle cose stranissime. Venerdì pomeriggio, sulla strada che dal corso centrale porta a casa mia, mi ha visto, e s’è sentita, ha detto, “sconvolgere”. Ero in macchina, solo, e avviato al rientro. Lei non vide, dice, la macchina, vide solo me, il mio volto, solo quello. E s’è sentita “rimescolare”.
L’avevo avvistata anch’io, e avevo rallentato. Lei si accostò alla macchina, e tentò di parlarmi: tremava, la voce le usciva stenta, sfregiata, roca. E sabato mi raccontò tutto questo. A scuola, in un intervallo, nel corridoio. Lo raccontò come ci si libera da un peso, da un groppo che soffoca. Chiese di uscire dall’aula, e uscì, piangendo, quando cominciai a spiegare. Era di turno Sartre: potevo farle perdere tanto argomento? Fra la curiosità delle compagne, proposi di attendere qualche minuto: che si calmasse, che ritornasse per ascoltare, da brava alunna. Non era una novità, che qualche studentessa, per problemi suoi, di cuore o di famiglia, desse in lacrime e chiedesse di stare fuori dall’aula qualche minuto. Né che io aspettassi, o ripetessi, al rientro dell’inquieta, l’inizio della spiegazione. Didia rientrò dopo alcuni minuti, gli occhi rossi, ancora con l’aria stravolta, anche se un po’ meno. Le chiesi se si sentiva di ascoltare, lei disse di sì, tutti ne dubitammo, ma vale anche in Scuola l’imperativo sbrigativo: “lo spettacolo continua”. Ripetei le poche cose che avevo fatto in tempo a dire e proseguii. Non certo in condizioni ottimali. Il pensiero di Didia, la visione della sua figurina esile, del suo visino sofferente, interferivano con gli ispidi concetti dell’ontologia sartriana. Né si può credere che la molto reattiva classe tutta al femminile pendesse dalle mie labbra in purità d’intenti didattici. Chissà che risonanze, in quelle testoline eccitate, suscitavano espressioni come in sé, per sé, essere, nulla, esistenza, essenza; e poi altre, più provocatorie, come Coscienza, fessura intracoscienziale, e simili mostri di teutonica ascendenza. Non furono d’accordo, comunque, sulla pirotecnica del néant che neantise, sulla coscienza (o per sé) come nulla, e altra pacchia. Questo per il “primo Sartre”, l’esistenzialista umanista ateo; il “secondo”, quello della Damasco marxistica, dell’impegno rumoroso, della logica dei gruppi, dell’esibizionismo militante e serioso, insomma delle Situations e della Critica della ragione dialettica, sarà argomento della prossima volta. E forse sarà meglio saltarlo. O ridurlo a un cenno ben nutrito ma lontano dell’intero: a che pro infliggere altra tortura a quelle innocenze così prese da ben altre urgenze?

Intanto, Didia mi dà da pensare. Che significa tutto questo scompiglio? Liebe? Ma io non avevo mai sospettato simili accidenti. Eppure i sintomi sono quelli. E qualche compagna sniffa sospettosa. Certamente, Susanna, che ha seguito con assorta attenzione la strana emergenza, probabilmente, trascinata ad associativi confronti con analoghe esperienze personali, nemmeno troppo remote. E ammicca, mostrando, o ben mimando, accigliata gelosia. Anche Adele, la carnosetta figlia di Venere bella, amicissima di Susanna, pare visitata da sospetti dianamente orientati. Si conoscono bene fra loro, le ragazze, e non stentano a leggere nel giusto idioma certi sintomi: così comuni, al loro sesso e genere.
Che vita movimentata, in queste classi femminili. Il Narciso che sonnecchia perfino dentro il più lucido di noi insegnanti si pavoneggia anche in me. Non troppo, però. E se non mi inganno, mi sento un po’ imbarazzato, sfiorato da un venticello che pare vergogna. E tuttavia, tuttavia…
Ieri è venuta a trovarmi a casa, di nuovo tremante, la voce similmente strozzata, il volto pallido e teso. Ed è rimasta a lungo, come calamitata, incapace di staccarsi. Mi ha inondato di confidenze “intime”: i suoi rapporti conflittuali con la famiglia, la solitudine in cui vive nel microcosmo domestico. Il quale, composto da quattro donne (madre e tre figlie) e da un padre troppo occupato dai suoi impegni di uomo pubblico (è sindaco del suo paesello ionico, Castelrocca), non mostrerebbe abbastanza attenzione verso la più giovane, Didia appunto. La più giovane (diciassette anni o poco più), ma soprattutto, la più sensibile e la meno estroversa delle quattro donne. Queste, infatti, dalla madre alle due prime sorelle, sono tutte temperamenti aperti, socievoli, chiacchierine: estroverse, appunto. Didia, no: parla poco, pensa (e rumina) molto, tende a chiudersi: inclina, insomma, al tipo introverso. E della variante “sognatrice.”
“Non mi capiscono, non mi danno ascolto, non prendono sul serio i miei problemi…”. La litania, scandita a ritmi lenti, e a voce più fioca che squillante, non era perciò meno inquisitoriale: accusa e, col semplicismo dicotomico dell’adolescenza, prospetta opposizione netta tra carnefici e vittime (e sia pure alla felpa). In fattispecie, vittima. Esagera, ne sono convinto. Tento di smussare le punte, di mediare sfumare interpretare.
“Forse le tue sorelle vogliono farti coraggio, magari sbagliano metodo; forse tua madre, essendo così sicura di sé, così estroversa, non si rende ben conto delle tue difficoltà. E crede che tu esageri, che dia troppo peso a fatti e cose che per lei ne hanno poco. Insomma Didiuccia, io non posso pensare che non ti vogliano bene, che ti trascurino di proposito. Certo, ognuna di loro ha i suoi interessi, e non può dedicare tutto il suo tempo libero a te, devi capire anche questo. Parlo delle tue sorelle, naturalmente. Tua madre, ne sono sicuro, ti dedica più tempo, ti interroga, chiede di sapere cosa ti angustia, no? Sforzati anche tu di capirle, di essere meno chiusa, più fiduciosa. Fidati e confidati”
E chissà cos’altro dovrebbe capire, Didia. Come io dovrei capire le amplificazioni di questo malessere tipico dell’età sua. E della sua fisiologia: sviluppo sessuale tardivo, consistenza anatomica ridotta, carne compressa a dimensioni di pura economia. Insomma, Didia è poco più di uno stecchino: ben proporzionata, ha caratteri sessuali secondari poco prominenti, sopra e sotto. Penso che questo relenti nello sviluppo puberale comporti un ristagno nella sindrome adolescenziale. E insomma, un presente al posto di un passato impossibile. Inquadra il tutto nella normale dialettica psicologica tra alunni e insegnanti di sesso diverso, anzi tra alunne e professori, e qualche luce supplementare aiuterà a capire l’inghippo. Il sottoscritto si sente, in sostanza, il referente di un complesso edipico spostato e non risolto.
Perciò ho dovuto fingere di non cogliere certe mollezze, il senso riposto di qualche allusione. E ho scoraggiato momenti di abbandono sul ciglio pur attrattivo del loro nascere. Sì, mi sono tenuto a distanza. E poiché Didia è piuttosto bellina (anche se meno affascinante delle prosperose sorelle), la domanda, maliziosa, s’impone: fedeltà? Doppia, per giunta? Risposta: scrupoli, forse. Scrupoli e disagio di fronte a eventualità troppo esplicite. Io sarò il padre, l’altro padre: quello accessibile, disponibile alle confessioni, ai consigli, a una più sensibile protezione. Perfino a qualche innocente contatto fisico (Kǘße?).
Intanto Susy ha saputo della visita, e mi ha fatto una mezza scenata. Gelosia di alunne verso il professore-padre. Cara Rina, non pensare ad altro, non c’è altro (se per caso i tuoi bellissimi occhi sognanti dovessero capitare sopra questo paesaggio di sprechi temporali e di inutilità ciarlanti).
*
Frammenti di conversazione: “Credo che lo manderei al cimitero presto…” “Esagerata!” “Nooo! Io sento, sa, sento troppo il se…” “Sì, il se…, il senso della vita. Capisco benissimo!” “E soffro della forzata…” (segue gesto bidigitale rotatorio: pollice e indice divaricati oscillano roteando a sensi alterni). “Tutti i giorni del mese, tranne, magari, i pochi rossi? Non sarebbe normale!” Mi guardò. Occhi negli occhi, vorace e sorridente. Brividi caldo-freddi, calamita e paura.1
*
Un figlio, diamine!
Allora sì, accetto la tua soluzione.
Un progetto satanico. Ah, la mancanza di un imperativo categorico! Mai l’umanità soltanto come mezzo? Che boutade. Quando si è impegnati con surrogati degli dèi fuggiti, quali scrupoli? E se qua e là balenano con flash contrattili al sacco gastrico, si tratta di spettri, non di cose salde. E spettri poco vampirici, poco ibseniani. Anzi, piuttosto esangui e sfilacciati.
Esitazione. Ne sei sicuro, Paolino? Non sarebbe prudente concedere qualcosina a don Immanuel di Königsberg? Magari puntando sul soltanto. Come dire: soltanto, no. Ma anche, perché no? L’umanità come mezzo soltanto, da sempre; anche come mezzo, altrettanto. Se scelgo il secondo corno, che gran male c’è?
Che occhi, dèi! A momenti, un orgasme sans toucher.
Ripenso agli “occhi di risacca” di Machado de Assis, alla femme fatale del suo Don Casmurro. E soffro di astinenza scrittoria, premuto, spalle al muro, da tanta, e tanto aggraziata, forza ammiccante.2

Frammento di conversazione. Due giovanette, a scuola, istituto magistrale di Zefiria, Calamagna, hodie, ora di filosofia-pedagogia.
“Vorrei essere sola con quel disgraziato che sta in cattedra: con questa rabbia in corpo, lo ridurrei cadavere…”
“A chi lo dici! Me ne sento un’altra, io…”
Quel disgraziato spiegava Dewey. E faceva fatica a saltellare fra quel pensiero irto di spine e la visione delle due presenze in tutt’altri bruciori affaccendate. Tentò più volte, il disgraziato, di lanciare messaggi di sguardi crucciati e imploranti, ma con scarso frutto…penetrativo. Mentre vaganti rossori scrivevano, sui volti bellissimi delle due distratte, semantiche divergenti di piene omofonie. E dire che il concetto di esperienza deweyano è così ricco e stimolante. Ma come contrastare quell’altra esperienza che, evocata, distraeva le massoline grigie di quelle dolicocefale brune? Esperienze, tante; natura una. Ciao, Dewey.
*
Stessa coppia, stesso giorno, ora di italiano. L’insegnante è una giovane sposa incinta. Spiega il canto XXV del Paradiso.
“Spene”, diss’io, è uno attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto. / Da molte stelle mi vien questa luce; / ma quei la distillò nel mio cor pria / che fu sommo cantor del sommo duce. / “Sperino in te” ne la sua tëodia / dice “color che sanno il nome tuo”: / e chi nol sa s’elli ha la fede mia? / Tu mi stillasti, con lo stillar suo, / ne la pìstola poi; sí ch’io son pieno, / e in altrui vostra pioggia repluo”(vv. 67-78)

“Pistòla, signora, non pìstola!” Segue risatella in umida sordina. E seguito: “Almeno, gli funziona.”
Sottinteso: il marito non è un adone, ma ha saputo metterla incinta. La giovane signora arrossisce: ha sentito e intuito. Ma deve far finta di niente.
E pensa, quaderno: di tutto quel bendiddio dantesco e paradisiaco, che cosa colpisce le due testoline estrogenate? Pìstola! Per tramutarla in pistòla.
*
Ancora la stessa coppia.
“Sono in ritardo di quattro giorni: che sia…?”
“Dici? Che hai combinato, pazzerella?”
Sorride, la prima.

La relatrice di queste avventure, insomma Susy, pensa che la sua amica, la famosa Adele, tutta polpa e tanto miele, abbia avuto rapporti completi: “Per forza. Per esempio, sa certe cose …” “Che tu non sai?” “Dico sul serio.” “Ti credo. E che si possono sapere solo se una ha … saltato il fosso!” (dietro la curva della parete cranica mi ronzava ben più dritta metafora: ha riempito il fosso). “Appunto. Ma del resto, lei, l’altra volta, in clima di confidenze, mi diceva che quando una vuol bene non sta a pensare che fa male” “Le lasciano, dunque, tanta libertà a casa sua?” “Mah”, dice Sa (Susy). Che certo deve pensare alla sua libertà. Peraltro, così stentatamente produttiva in quel genere di frutti.
O belle polpute ricolme sfacciate figlie di buona… Eva! E un povero cristo spiega Dewey e vi sta a guardare. Indotto, perfino, a origliare sui vostri sussurri impudichi. E sorrido pensando che a me, costretto, qui, a richiamarlo pieno, quel passo dantesco, col suo sommo duce e l’annesso sommo cantor, mi aveva sempre fatto pensare a un altro “sommo duce”, più modesto del primo, ma anche più incisivo sugli immediati destini altrui. E ad altri sommi cantori di quel sommo fasullo. Magari del ramo filosofico-accademico: dal più composto Gentile, suo ministro (ed estensore della competente mistica) allo sbracato Orestano, apologeta frenetico. E così spudorato da offrire larga mese di materia al gustoso sfottò di Eugenio Garin. Ah, le deliziose “Cronache di filosofia italiana” ! Devo tornare a leggerle, a spizzichi, per puro diletto.
*
Scene di gelosia. Didia si accosta alla cattedra, Susy protesta. Didia mi avvolge di liquidi sguardi, Susy stira il muso. Dice “non me ne importa”, ma fa le scenatelle.
Recita? Non si direbbe. Non sembra proprio. Al peggio, non del tutto: lei non sa recitare. Appena appena nascondere. Ma con quali imbarazzi e sofferenza! Teme di vedersi scheggiare la primazia? Non sembra credibile. Eppure.

Gocce di rugiada nel fuoco dell’arsura. Messaggi di lèvres e incisioni di avorio su dita nervose. Morde. Palpiti di mani. Progrediens, ingrediens: insinuazioni di eminenze turgide fra ricolme pressioni di legs. Picchìo alla porta del tabernacolo conteso da censure pietose e spietate. Pietose del futuro, spietate col presente indurito. Il presente: costretto a reticenze sanzionanti rosse fibre retrattili in mobile giaciglio proteso. E puntualmente deluso. Quante preghiere soffocate davanti all’altare dell’innominata dea un po’ tradita. La dea Sophia, intendo. O, se preferisci, alla Diana cacciatrice. Con Minerva sapiente. Che frena.
E tuttavia, che delizioso martirio. Ah, plastiche coppe di ben fenomenizzati noumeni, come tentate le concavità impazienti di queste palme adoranti! Coppe capovolte, di ricolma soda consistenza. Che richiamano altre vibranti convessità in amorosa corrispondenza di sensi e consensi.
Ebbene, sia. Dopotutto, on mange avec (et dans) tous les sens. E ogni sens vuole la sua parte. In progressione? Vista, olfatto, tatto… Fantasia: mescolo souvenirs in cocktails di atti odorosi di ebbrezza. E di Angst. Ah, philosophia!

*
“D’altra parte l’esistenza autentica non è qualcosa che ondeggi al di sopra della quotidianità deiettiva, ma, esistenzialmente, è soltanto un modificato afferramento di questa” (Heidegger, Essere e tempo, trad. it., pg. 193)
D’altra parte, quanto ad afferramenti c’è gran varietà: chi afferra in un modo, chi in un altro. Sa afferra esitante, inesperta, impacciata. Qui è il dono grande. O pudore dell’ignaro ardore!
E questa immagine di santa Emma vergine, come c’è finita sul tavolo? Era fra le pagine del suo libro? Santa Emma vergine: altri modi di afferrare. L’esistenza autentica, intendo. Chissà come immaginano la beatitudine, le sante. Sì, altri modi. I tuoi, Sfinge svelata, mi esaltano. S’intende: l’ennesima chance. Ah, com’ella écarte ses jambes. E non pour m’écarter, anzi. Moi, je la torture de delices. Plaisir et joie, melés di privations.
L’ennesima chance, sì. E l’ennesimo sfrigolìo testicolare dell’impotentia dicendi. Mimetizziamo ancora. E sottraiamo. “Aspetti che dica basta?” “Già” “Sta fresco” “Ma quante, combien de fois? “C’è bisogno di chiederlo?” “C’è bisogno, sì, porco … divano!” Sguardo-saetta, occhi di risacca, ancora. “Ma è possibile ?” “Pare…” (Da Dialoghi dell’infratomba, pg. 274). Oh Sa che soffri di se…! Il Se e il senso della vita per Sa. E della morte ghignante acquattata. Pour moi: ce petit moi che non gode di risorse cospicue. Da sprechi, voglio dire.
Mi trilla dentro improvviso l’uccellino di un sospetto mica frivolo. Quale? Che Sa mi abbia riferito il composito dialogo tra lei e Lele con un sottaciuto fine non esplicitabile. Vibra di sonorità allusive spcialmente quella frasuccia di quest’ultima: “quando una vuol bene non sta a pensare che fa male”. Un tacito obliquo allusivo invito all’... imitatio Christi?
*
“L’angoscia è dunque l’autopercezione riflessiva della libertà”. E “si oppone allo ‘spirito di serietà’ che percepisce i valori partendo dal mondo, e che risiede nel consolidamento rassicurante e ‘cosista’ dei valori. Nella ‘serietà’ mi definisco a partire dall’oggetto…” (Sartre, L’essere e il nulla, trad., pg. 78)
E che cosa c’è di più inebriante che definirsi a partire dall’oggetto? Quale valore più valido del ‘cosale’ che pulsa, s’erge, e scivola rigido, s’incunea, irrorato, premente e, infine, spremente? Lo spirito di serietà: come se, lui, Sartre, non ne fosse altrettanto pieno del più ottuso dei benpensanti dotti. Lui, già araldo di un esistenzialismo nichilista, poi di un umanismo esistenziale ribattezzato nelle acque sante dell’engagement solidarista, infine cannoniere damasceno di un marxismo infiltrato di esistenza. Lo “spirito di serietà”: depurato dalle connotazioni maiuscolari (metafisiche) non è che la necessaria pressione biologica della comunità coattiva, che suggerisce regole di convivenza a freno del cannibalismo reciproco. La libertà assoluta: che coglionata.
Forse lo stesso Sartre un giorno o l’altro finirà con lo scoprire la trappola di questa dialettica truccata, relegherà la “condanna alla libertà” fra il ciarpame dell’inverificabile par excellence, il soggettivismo drogato.
Misurala, la libertà assoluta, su questo campo magnetico che imbriglia e muove mani, bocca, corpi (magari cavernosi) e pene dell’anima! Beata santa Emma, patrona di questo giorno, ormai tramontato, spiega un po’ tu a Jean Paul come si può essere l’una e l’altra. E più l’altra che l’una. Sciogli la treccia, Maria Maddalena.
La treccia non si scioglie. Non s’ha da sciogliere. Lo spirito di serietà lo vieta. E tuttavia: due, tre…? In così strozzati mini-tempi. E non dice satis? Non pronuncia l’assez, je suis comblée? O divaricato mistero dell’essere attrattore, come continui a contarmi le ore del futuro lamento.
“L’angoscia è dunque l’autopercezione riflessiva della libertà”? Ma dite piuttosto che è questo assedio di morte, rivelato nel cuore stesso du plaisir in atto. Questo verme nel frutto, il néant di Jean Paul recepito da una millenaria tradizione pensante (e però tradito nell’enfatizzazione ontologica). Questo nulla umile e fisiologico, che tradotto in parole quotidiane suona: sapere che tutto finisce. Elle écoule, écoule… E il verme ronge le plaisir et la joie de vivre.
Sapere che tutto finisce. Con ogni particella del corpo, con ogni organo cellula molecola, e soprattutto lì, dove anche questo ammiccare strozzato risveglia i parametri cinetici du plaisir. E dove freme di stizza e dolore la indotta negatio dicendi. Ah, poter trasportare sulla carta il martellamento del cuore, il crampo alle viscere, il tremito incalzante du bras étendu e il ritmo muto du doigt che spinge e scivola e s’incunea armato di concetto, a tentare il labile possesso dell’essere sfuggente, vanamente di sé prodigo in delusa offerta. Le doigt della mente che indica la trascendenza, l’Oltre che si dona e ti oltrepassa, che immane e trascende. Cosa facciamo, Herr Heidegger, cooptiamo queste chances profane fra le epifanie del Suo Sein prolifico di estasi, epoché e svelamenti-occultamenti epocali? Martin Heidegger: già mago fascinoso per l’adolescente curioso che ero, poi lento sbiadire fra le ironiche evidenze degli ingegnosi inganni verbiferi.
O santa Emma vergine. Il Nulla attende e la Morte sonnecchia, ammiccante. Vergine ha da restare… Briciole di ore disciolte in liquidi rapimenti spossanti; luce di parole capaci di spremere emissioni difficili da bloccare con rapidi morsi disperati: la morte che tutto vede vi conta e vi attende.
Vergine. J’ai peur, santa Emma, parce que je suis pater familias. Et au delà de la porte fermée, dans la cuisine, mulier domina. Potrebbe faire un blitz. Indi, die Furcht diktat. E sovente scivola verso l’Angst. “L’angoscia è…”

Pensieri domenicali sulla morte: “…la morte significa la possibilità di essere sottratto alla comunità, e quindi a se stessi. L’essere perduto per gli altri implica l’essere perduto per se stessi.” (Nicola Abbagnano, Metafisica ed esistenza, in Filosofi italiani contemporanei, Milano, 1946, pp. 14-15).
L’essere perduto per gli altri? E chi se ne frega? Mi costa già tanto l’essere perduto per me stesso. E perché quello implica questo e non viceversa? Ah, frasi, frasi di filosofi. Anche i migliori si lasciano andare, a volte, a certa retorica comunitaria! La comunità: chissà che vuoto, con la mia morte! Appena qualche lacrima e un po’ di disagio per i familiari, un umido sospiro presso qualche alunna, un brivido nella schiena di qualche amico. E per il resto: un pronto rimpiazzo a scuola, un chiacchericcio in rapida dissolvenza nei due paesi, il natio e questo dove lavoro e abito. Essere perduto per me stesso: ha senso, propriamente parlando, empiricamente valutando? La morte, fuori dal mito e dalle suggestioni verbali, è un tale salto di dimensione! La condizione di morto non è nemmeno una condizione: è la trasformazione radicale, il totalmente altro, il non più assoluto.
Ecco, ci sono ricascato: anch’io sparo frasi ad effetto. Suggestive, non c’è che dire (quasi come quelle dei filosofi); ma anche inevitabilmente bugiarde, mistificanti, fuorvianti. Non del tutto, si capisce, ma certo una buona parte. Da morto non si sente né si pensa: come potrei mancare a me stesso, a ciò che, ormai, è mancanza assoluta, esso stesso, e non più lui? Mancanza assoluta: altra “frase” bella. Altro sintagma truffaldino. Si è (si diventa) pur sempre un bel mucchio di cellule e molecole in rapido disarmo e pronto riciclaggio. A proposito, i vers mi fanno paura: vorrei essere cremato. Ma spero ci sia ancora molto tempo per questo genere di pensamenti.
*
Spero, sì: con tutto il corpo. Ma a volte il timore sovrasta la speranza, e mi pare non debba mancare molto all’essere perduto per me stesso. Donde, il timore, o la paura? Per esempio, dall’affanno sudante di questi post factum. Maledetta avarizia di madre natura. Un tempo potevano essere due, tre, in quasi ininterrotta sequenza.
Torniamo all “abisso, orrido, immenso”, torniamo alla Morte, “musagete della filosofia”. Scrive il filosofo, severo e impavido: “La morte non è una possibilità, sia pure privilegiata, fra tante possibilità in possesso dell’ente, onde sia possibile, e in un certo senso necessaria, la scelta di essa. E’ la forma generale delle possibilità dell’ente in quanto sono finite e costitutive della sua fondamentale finitudine” (N. Abbagnano, La struttura dell’esistenza, p. 177).
E’ detto bene, non c’è che dire. Quasi nulla da eccepire. Salvo, in quel quasi, l’impressione che la morte ne sia stata neutralizzata, che il suo pungiglione abbia perso il veleno… mortale. Magia delle parole. Ma io sono cresciuto, in fatto di suggestioni, sono un adulto che “ragiona”. E non crede più ai maghi.
Quante volte, Sa? Zwei, drei, vier…?
*
Venti anni dopo, sul foglio bianco dell’ultima frase.

Eri seduta all’ultimo banco, Susy, in seconda classe, primo anno di filosofia-pedagogia. Il tuo volto bellissimo, tra volti belli o comunque apprezzabili, non aveva ancora fatto spicco deciso al distratto tribunale del mio gusto, di solito più vigile. Trascorse quasi un anno. Ti notavo, sì, ma come altre cinque o sei figlie di Dio. Poi i tuoi occhi dardeggiarono contro i miei: dapprima, lampi fugaci di curiosità esplorativa. Normale economia di naturalissima attrazione fra sessi bloccati. Più precisamente, tra alunne e professori. Poi gli sguardi si fecero più frequenti, e manifestamente polarizzati. In modo vago, si capisce. E cambiasti posto: sedesti in un banco della fila di centro, a metà dell’aula. Mi chiedo come facesti a farti accontentare dalle compagne. Forse uno scambio di convenienze: qualcuna voleva defilarsi, e accettò di scendere verso il fondo dell’aula?
I nostri occhi si incontrarono ogni giorno di più. E di lezione in lezione l’incontro si faceva più lungo. Di secondi, qualche secondo per volta, poca cosa. Ma in crescendo: secondi sempre più numerosi. E cominciai a non sentir più quella bava di noia che il venire a scuola spesso comporta. I tuoi occhi grandi, dal taglio perfetto, il loro sguardo perforante: che calamita! E poi, giorno dopo giorno, sentii schietta gioia di entrare nella tua aula. Gioia vaga, ma in quotidiana conferma di calore e fantasie. Un nuovo, più forte movente mi spingeva verso la scuola, dentro la tua aula. Malandata, come tutto il cadente edificio in cui il premuroso Stato italunito ci condannava a mortificare la penalizzata professione. Ma chi si avvedeva più delle pareti scrostate, delle mattonelle di vecchio cotto qua e là divelte o rotte? Dirò una banalità: la luce della tua presenza copriva di magia quelle piccole miserie, e io entravo in un “altrove” esaltante. Che, certo, subiva le continue interferenze della realtà malconcia. Non era facile conciliare le due dimensioni, e il ruolo anfetaminico del tuo sguardo osmotico non sempre bastava a compensare gli stridori della quotidianità pedagogica. Ma era un prezzo scontato, accettabilissimo. Quasi l’amaro che congiura col dolce ad esaltarne gli effetti benefici.
Una mattina mi parve di vederti e sentirti piangere: luccichio brusco di lacrime subito nascoste e suono di singhiozzo strozzato al mio ingresso. Stavi a testa china, quando puntai gli occhi professorali sulla figura rattratta dell’alunna in difficoltà. Mi accostai. “Piangi?” Era andata male l’interrogazione di latino: così il sussurrato tam tam della classe. “No” rispondesti. E il tono era petulante, quasi di sfida. Pronunciando quel perentorio no mutasti rapidamente postura, e dagli occhi riaccesi era scomparso il luccichio malato. No, dunque.
Che mi restava da fare? Tornai alla cattedra (ah, quella meraviglia di cattedra, più vecchia dell’aula!). Ma, tornando, suoni smorzati, parole monche, mezzo annegate in sussurri, mi colpirono l’orecchio, ancora non indurito. Quel disordine acustico si compose da sé in questa frase sensata: “Come farei a prendere la filosofia?” La frasetta sensata trasformò il breve tratto dal banco alla cattedra in un’eccitante avventura. Tutta mentale, s’intende: un sospetto che si dispiega in elaborata ipotesi esplicativa della frase ricostruita: “Se piango, mi rovino gli occhi, mi faccio brutta davanti a lui, e allora come potrei sedurre il professore di filosofia, così sensibile alle mie grazie?” Con la velocità dei nostri riflessi neuronici, l’avventura si chiuse in questo interrogativo: “Si prende gioco di me?”

lunedì 11 maggio 2009

Susanna, frammento 28


19 aprile

Viaggio e visita del presidente Saragat nella Regione “sudica”. Scende dal treno speciale alla stazione di Zefiria, percorre un tratto di strada in macchina stando in piedi. Va a San Luca, paese natale di Corrado Alvaro: omaggio allo scrittore, visita della casa paterna e visione delle testimonianze esposte (libri stampati, manoscritti, lettere…), discorsini di circostanza, codazzo di autorità e parenti ancora in vita (tra cui, il fratello prete). Lo rivediamo a Bianco. Mia moglie eccitata e contenta: l’eccezionalità dell’evento, l’importanza del personaggio l’hanno conquistata (come tutte le donne della zona). Un giorno di festa. Lei ha sfoggiato l’abito più bello del non ricco corredo.
E’ scattata, insomma, la naturale propensione idolatrica di homo colens. La cui seconda metà del cielo è, globalmente, più ricettiva alla suggestione dell’eroe: grande attore, divo della canzone o eminente politico che sia. La folla era, ovviamente, ambisesso, ma con la rappresentanza femminile copiosamente prevalente. A me s’è acceso un ricordo vecchio di ventott’anni: guardando il Presidente ritto in piedi sulla macchina-ferculo ho rivisto in un lampo ancora nitido la figura del Duce ritto in piedi, anche lui, nella sua macchina scoperta, lenta lungo la via provinciale del mio paesello sicanico. Lo vedevo dal balcone dei nonni materni, era il 1938, Lui vestiva di bianco, e salutava, voltandosi a destra e a manca, la gente sui balconi e una minoranza sugli ingressi delle case terrane. Ingressi poveri di case povere o modeste (tutte con un più o meno esteso cortile sul retro, aperto su stradine rurali a fondo naturale) su un lato della strada senza marciapiede (appena riasfaltata per quella grande occasione); e quelle sull’opposto lato, anch’esse fornite di cortili più o meno estesi, e orti fioriti, tutte confinanti, queste, con un esteso agrumeto o con piccoli poderi di composita e suggestiva macchia mediterranea. Grande impressione, anche allora, sulla ben disposta popolazione debitamente “fascistizzata” dal martellamento propagandistico. Andavo sui sei anni, e Rina non era nata, e mon frère respirava da un mese soltanto la sua razione di aria ancora per nulla inquinata. Allora non sapevo che quello era, non solo l’anno del “Trattato di Monaco” e dell’incluso inganno del Duce salva-pace, ma anche il torbido anno delle famigerate leggi razziali: cioè della seconda grande vergogna del regime, e della svolta micidiale nell’allineamento sempre più stretto al funesto “Alleato” teutonico a croce uncinata.
*
Ma torniamo al presente, alla sua piccola prosa paciosa e all’inquieta poesia che la rompe qua e là. La sera, ospiti in casa di Susy. Lei s’è arrostita al sole sulla terrazza di un’amica per guardare la folla in attesa del Presidente, aspettandolo a sua volta, non meno eccitata delle movimentate compaesane. Mi chiedi, quaderno impiccione, se anch’io ero eccitato? E come no! Ma anche un poco infastidito. Non per ragioni politiche: la folla mi attira e mi impaurisce, anche quando osanna un presidente democratico. Io, poi, nel mio prospero bagaglio genetico, godo la capovolta grazia di una certa inclinazione alla claustrofobia: che cosa può “rinchiudere” meglio di una folla eccitata?
Una specie di “En attendant Godot”, l’evento; con la differenza che questo piccolo dio di corpulenta carne e àlacre mente assistita dal barolo, al contrario di quello beckettiano, arriva. E marcia, trascina, fra clamori di piccoli trionfi e ambizioni crescenti. Librato fra prudenza e coerenza.

In casa di Susanna, rituali dolcetti per Giampiero e gli altri minori di anni 12. E anche per chi, degli adulti, ne fosse ghiotto. E bevande: dal tè al limone, alla limonata frizzante. Più qualche giro di slow, tanto per movimentarsi un poco, rientrando nella quotidianità appannata dal trascorso fulgore. Dei maschi di casa, c’era solo il piccolo undicenne: il solito vortice trascinatore, buono anche per trascinare Giampiero.

20 aprile

A scuola, stamane, tutte impreparate le signorine. E presidenzialmente giustificate. In seconda, offro chiarimenti e integrazioni sulla lezione precedente: e cioè sull’Africano superloquens, Agostino di Ippona, pilastro magno delle logorree cattoliche, dette pomposamente filosofia cristiana. O, più modestamente, philosophia perennis, sezione patristica. Noli foras ire. Rede in te ipsum, in interiore homo habitat veritas. Et si mutabilem inveneris, trascende et te ipsum et illuc tende unde ipsum lumen veritatis accenditur. Ho chiesto a Paola Cilurzo di tradurre questo facile latino, e l’ha fatto senza grandi difficoltà. Quasi testuale, parentesi e... maiuscole comprese: “Non andare fuori (di te). Ritorna in te stesso, nell’uomo interiore (o, meglio: nell’intimo, o interiorità, dell’uomo) abita la verità (anzi, Verità). E se ti scopri mutevole, trascendi (supera, vai oltre) anche te stesso e tendi là donde (dove) s’accende lo stesso lume (la stessa luce) della Verità”. “Brava Paolina. Ma dimmi: c’era un’ombra di presa per i..., voglio dire, un po’di sorridente ironia nello scimmiottare il tuo prof. con quegli ‘anzi’ e le annunciate maiuscole?” “ No. Anzi, sì, ma solo un po’ e con...” “Affetto, lo credo. Accettato. Ora mi sapresti spiegare perché sant’Agostino, che si dà l’aria di essere il Logos in persona, prende lucciole per lanterne?” No, non lo sa spiegare. Anzi, sembra propensa a dargli corda. E mi costringe a ripetere la santa mia requisitoria contro l’inganno-imbroglio della teoresi del Santo logorroico (e, anche, ahinoi, tanto suggestivo!). Il tutto, condotto con tatto e rispetto (quante “t”!), si capisce. E nell’esplicito intento di allenare la gentile platea al rigore logico (che non deborda per facili eccessi da quelle gentili meningi, naturaliter vocate ad altri rigori. E ardori).
In terza si legge il Discorso sul metodo. Altre furberie logicissime, altri valorosi abbagli di felice carriera. Faccio leggere Gaetana Bumbaca, Carla Speziale, Margherita Strangio. Spiego e faccio spiegare, e riassumere. Carla aveva studiato Cartesio, ma, per solidarietà di gruppo, aveva taciuto. Così, all’impatto col testo, ha gioco facile nel ripetere e sviluppare le quattro regole del metodo: evidenza, analisi, sintesi, controllo. Prima regola: “Non accettare mai per vero ciò che non mi appare tale chiaramente e distintamente”. Dunque, l’evidenza cartesiana equivale al binomio chiarezza e distinzione? Certo. E cos’è, o cosa si può definire, chiaro? Tutto, e soltanto, ciò che è manifesto alla mente. Non ci trovi una sorta di imbroglio, di possibile auto-inganno, di equivoco? Perché? Cerca di risvegliare la mia presentazione: perché una cosa può essere manifesta, cioè evidente, per Tizio e oscura o nebulosa per Caio. Per esempio, a un credente stagionato nella sua fede, l’esistenza di Dio appare più che manifesta. A voi no? A me no. Come dovreste sapere tutte, ormai. Continuiamo. E magari la divinità del Cristo, può brillare di luminosa chiarezza alla mente del solito, e solido, credente. Come al tuo sguardo interno, o no? Be’, non mi spingo fino a questo punto: io, prof, so che lì è questione di fede. Bella risposta, brava. Continuo. Infatti, per un loico impenitente, non c’è idea più fragile, contraddittoria, infantilmente antropomorfica di quella. Dico, del Dio persona, proprio delle “grandi religioni monoteistiche” (il “grandi”, come sai, è d’obbligo). Che vuol dire “loico”? Vuol dire che rispetta la logica. Nel caso, quella legata all’esperienza sensibile e biologica: un cadavere non ritorna in vita. Indi, questione di fede: dura e stretta. E perciò, astratta. Nubivaga.
Gaetana chiede l’etimologia di “manifesto”. E’ un po’ come dire nudo, denudato, svestito, esposto sgusciando da un nascondiglio. Perché ridi, Adelaide? E tu, Giovanna? No niente, professore. Ci scusi. Non vi distraete, signorine. Intendevo dire, è la vecchia “aletheia” greca, che si intravede nell’aggettivo “manifesta” (non potevo usare altri vocaboli? Se l’ho fatto apposta? No. Ma l’inconscio mi ha preso la lingua. Mi pare evidente). Aletheia: la stessa che Heidegger vanta come il più grande titolo di gloria personale. E chi è Heidegger? Lascia perdere, ne riparleremo l’anno prossimo. A dio piacendo. A Dio...:perché lo nomina, se non crede? Ma è solo un topos, un luogo comune, un modo di dire che ti viene alle labbra da sé. E infatti io l’ho pronunciato con ...iniziale minuscola. E scusate la battutaccia. Sù, andiamo avanti: altre domande? Nessuna, per ora? Continuo, allora. Piuttosto, che cos’è la “distinzione”? Un’idea – chiarisce Giovanna – per Cartesio, si dice “distinta” quando non può essere confusa con nessun’altra. Brava. Anche qui, a voler essere pignoli, qualche complicazione potrebbe sorgere. Mica le idee sono rigidi monoblocchi. Ma non è il caso di sottilizzare. Per ora.
Tornando in seconda, spiego un capitolo di Psicologia, seguendo il testo in adozione, di Romolo Appicciafuoco. Nientemeno che “sensazione e intelligenza”. implicazione e distinzione. E altro contenzioso impaniato nel sezionare sbrigativo.
*
Santa Adalgisa, oggi. Dodici anni fa avevo il pensiero di fare il regalino e i rituali auguri alla “mia” Adalgisa, piccola e brunetta, di forme polputelle, molto truccata (che rosso carico, sulle labbra!) e non sempre gradevolmente profumata: quegli strani profumi, forse alla moda, ma ostici al mio olfatto. Comoda, per le mie esigenze non abissali, ma col difettaccio di voler fare sul serio. Poi l’ha capita. Ruhit hora.


21 aprile

L’ottimismo pacchiano di certa stampa e telegiornali, ostinati a rimuovere con ottusa nonchalance lo sconfinato contrappunto di violenza-sofferenza-egoismo distribuito imparzialmente nelle varie porzioni e situazioni geo-politiche del pianeta, mi riaccende, di quando in quando, la sete di verità che meglio canta nei versi ironici dell’implacabile Nano di Recanati. E perciò mi trascrivo qui, sotto quella data “fatidica”, alcuni fendenti della Palinodia al Marchese Gino Capponi:
“Errai, candido Gino; assai gran tempo, / e di gran lunga errai. Misera e vana / stimai la vita, e sovra l’altre insulsa / la stagion ch’or si volge. Intolleranda / parve, e fu, la mia lingua alla beata / prole mortal, se dir si dee mortale / l’uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno, / dall’Eden odorato in cui soggiorna, / rise l’alta progenie, e me negletto / disse, o mal venturoso, e di piaceri / o incapace o inesperto, il proprio fato / creder comune, e del mio mal consorte / l’umana specie. Alfin per entro il fumo / de’ sigari onorato, al romorio / de’ crepitanti pasticcinil al grido / militar, di gelati e di bevande / ordinator, fra le percosse tazze / e i branditi cucchiai, vive rifulse / agli occhi miei la giornaliera luce / delle gazzette. Riconobi e vidi / la pubblica letizia, e le dolcezze / del destino mortal. Vidi l’eccelso / stato e il valor delle terrene cose, / e tutto fiori il corso umano, e vidi / come nulla quaggiù dispiace e dura [...]
Per oggi basta. La nota n.9 dell’edizione Mursia chiarisce che l’ultimo verso è parodia del Petrarca, R.V.F., CCCXI, 14: “Come nulla qua giù diletta e dura”. Spizzichi di “pessimismo”, cioè di lucidità, anche nel Poeta di Laura. Ma per volgersi, infine, ad maiorem gloriam Dei. Altre notizie: la poesia di Leopardi, “composta a Napoli, probabilmente nel 1835. Stampata per la prima volta nell’edizione Starita dei Canti, Napoli, 1835. Il marchese Gino Capponi nacque a Firenze nel 1792 e morì nel 1876”. All’anima dell’egalitarismo metafisico! 84 anni! Contro i 39 del povero Leopardi supertribolato. I 37 del “povre Eluan”, Arthur Rimbaud. Dove si mostra, in contesto, come l’ottimismo, corollario di ogni robusto egocentrismo, aiuta la longevità. Si capisce, Dna permettendo. Altre notizie le leggerò quando dovrò spiegare a Susanna le poesie di Leopardi messe in programma per l’esame di maturità
*
Si festeggiava il Natale di Roma, ai bei tempi della retorica imperiale, in questi 21 aprile; oggi, più modestamente, festeggiamo i compleanni di famiglia: il ventiquattresimo del cognato, il trentaduesimo del cugino più “anziano”. Auguri. Da qualche tempo mi fruga il cervello inferiore la mezza idea di “combinare” tra quest’ultimo, cugino carnale di Rina, e Susanna, che ne compirà venti a settembre. Troppa differenza d’età? Lei dice che no, non è troppa.
“Sole che sorgi, libero e giocondo...”
Il progetto in cantiere (o più esattamente “in mente dei”) mira a non perdere di vista la buona amica, a portarla, addirittura, in famiglia per non smarrirla. Nel contempo, sarebbe una dignitosa sistemazione per lei e lui avrebbe la gloria di portare in paese una gran bella donna. E’ ingegnere, il cugino, ma la sua attività prevalente è l’insegnamento: topografia in un istituto per geometri della capitale. Dovrebbe venire a trovarci, prossimamente, forse in estate: farò le presentazioni. A lei ho detto che è un bel giovane, più alto di me e di lineamenti più regolari dei miei (non ci vuole molto!). Ma è anche più lento di riflessi. Più posapiano. Più prosaico e molto attento ai beni materiali. Vedremo.
E niente postille, quaderno rompiscatole.

22 aprile

Scivolo lungo la china dei giorni, snocciolo la giornata in sequenze fisse: mattina a scuola, fino all’una circa; pomeriggio, in casa, lezioni di matematica e fisica alla neo-cognatina in progress; infine, lezioni a Susy: italiano, filosofia, eccetera.
Negli intervalli si formano pensieri scivolosi lungo la china di Iside. Alludo al terminale (the end of the lesson). Quando non se ne ha più una maiuscola, quale meraviglia se ci contentiamo di surrogarlo con divinità minuscole e tangibili? La mia lingua può recitare più congrue preghiere in catacombe di proteine trasudanti (di onticità appagata). Amen. Ma lungi da me l’idea di assimilarmi a Osiride fatto a pezzi. Quattordici, rimessi insieme e incollati (dalla sorella amante sposa Iside) per ripetere ad infinitum l’arcaico tema del dio-dema che viene ucciso e poi risorge: per il bene del popolo! Bene fagico, in primis. Con varianti più o meno ambientalizzate.
Fugit irreparabile tempus? E lasciamolo fuggire. Carpe diem. Anzi, horam.

23 aprile

Susanna ha preso tre compresse di Bellargil, e si è mezzo addormentata. Ho dovuto accompagnarla a casa, dalla scuola, quasi. Sono andato ad incontrarla, con la macchina del cognato, insieme a mia moglie, che ho scomodato apposta, ad evitare ciarle di paese.
Mi ha chiesto cosa succede se una ne prende un intero tubetto. Ho detto che si va all’altro mondo. Dice che ne prenderà un tubetto. Dico “non dire sciocchezze” Aggiunge “vedrete”. Ribatto: “preferisco non vedere”.
Paura degli esami?
Forse. Ma di quali?
Lo farà? Non giurerei che no. E’ troppo estrosa per poterne escludere colpi di testa. Non fossero che dimostrativi. Di che cosa? Della sua volontà, del suo carattere, della sua capacità di non parlare invano. Di non minacciare a vuoto. Dimostrativi e “tentativi”: il gioco dell’azzardo potrebbe tentarla. Potrebbe almanaccare, dentro quella testolina febbrile: ci provo, se interverranno in tempo, bene; se no, al diavolo: mi sarò liberata. E non è il caso di sparare domande inutili, quaderno: sappiamo bene di quali malanni e affanni verrebbe liberata. La situazione è fin troppo stressante, per una sensibilità scarsa di cinismo gaudente e di ottusa nonchalance. Quante volte mi strazia il sonno e scompiglia i sogni in tetri incubi. La situazione, dico.

24 aprile

A letto con la febbre. 20 grammi di sale inglese e otto compresse di Akranil dentro lo stomaco vuoto (digiuno assoluto, pena fallimento dello sgombero). Non reggo la penna. Mi venisse un collasso!
Andiamo, non è vero: non lo desidero sul serio. Non del tutto, almeno. E’ più urgente scacciare l’ospite indesiderato. Che contribuisce, la sua parte, a guastare l’umore. Ah, l’umore! L’umore ballerino, che salta da un livello all’altro, a sua smaccata discrezione incontrollabile (dal supposto egemone endocranico, altrimenti detto neocorteccia ). Quanta retorica sul libero arbitrio, la volontà, la ragione capace di governare l’intrico biochimico delle emozioni. L’egemone stoico ne è un insigne campione: il presunto principio razionale dominante, una specie di principe nel castello che “giudica e manda” secondo che accenni.
*
Che domenica scatocratica: fiacco da svenire, con un tremito che mi ronza nelle orecchie e mi fruga il corpo intero, dal cerebro ai talloni. Chiuso in casa, prigionia forzata, incapace di reggere perfino letture leggere. Unico conforto, il piccolo. Che però agita i suoi diritti oltre la misura compatibile con lo stato fisico attuale del padre, già di suo naturale poco gagliardo. Tento di farlo giocare da solo, di dirottarlo verso la madre; ma lui ritorna presto alla carica. Con le sue domande, i suoi terribili perché, la sua richiesta di attenzione totale.
Rina fa del suo meglio per distrarlo, garantirmi solitudine e relax. Lo porta anche fuori casa, o dai vicini neo-parenti, o dallo zio, suo fratello. Che, per la verità, gli dedica la sua non avara parte di tempo: lo porta in giro, ci gioca, gli compra giocattoli. E lui, la piccola volpe, sta volentieri con tanto zio.
Ma com’è carogna la vita, nel suo beffardo ludismo inquinatorio: i vermi in corpo! Si poteva escogitare nulla di più derisorio? Né soltanto come ospiti abusivi da cacciare: c’è pure la flora batterica ospite fissa e necessaria al buon esito della digestione. Non sono vermi, ma sempre particole di vita intrusiva. Sorvoliamo sulla pletora batterio-virale, responsabile di mille prepotenze, spesso mortali o senza scampo invalidanti.
Pensieri oziosi di un indebolito. Akranil soluzione drastica e lubrica.


Lunedì, 25 aprile, mattina.

Metto tra parentesi la Festa della Liberazione o della Repubblica, alla quale sono sfuggito, quest’anno in forza di quanto segue sotto. Quanta retorica mi sono risparmiato? Quanta ipocrisia in certi celebranti! A vedere certe facce sul palco dei discorsi non si può evitare la nausea per le grandi menzogne e il malaffare corrente nella politica di ogni livello: comunale, provinciale, regionale, nazionale. Con la benedizione, spesso, delle compunte gerarchie vaticane.
*
Ancora a letto, infermo. La dose di Akranil mi pare non sia stata sufficiente: non ho visto niente nel vaso. Tutto inutile, dunque? A meno che non abbia guardato male, in quella confusione. Akranil: altro genere di liberatore. Più modesto, più sincero, più efficace.
Visita di Susy, tarda mattina. Elegantissima. “Non vi vergognate?” – dice – “Io ho la febbre, eppure sono qua; voi invece! Mi pare che vi piace troppo il letto dei pigri”. “Certo, fa un po’ schifo questo tuo professore imbranato” – dico. “Andiamo, alzatevi. Quant’è questa febbre?” “Non è solo questione di febbre. Che, comunque, basterebbe da sola a farmi stare a letto.”
Forse Rina le ha spiegato il “non solo…”. Rimane a lungo con noi. Gioca con Giampiero, se lo porta fuori e gli compra un lecca-lecca, lo riporta, chiacchiera con Rina: di scuola, di compagne di classe, di sorelle con cui s’azzuffa spesso (ma senza acrimonia, né conseguenze di musi lunghi oltre lo scontro).
In sussurri, colmando la casuale, e di breve durata, distanza spaziale fra Susy e Rina, l’allieva mi informa: ha comprato le compresse di Bellargil.
Le ho detto, chiesto e ripetuto di non fare sciocchezze. Ha risposto che “ormai è deciso”. Con quest’altro Akranil in corpo, le budella sono tutte un sabba e l’egemone è solo uno spettatore legato. Che altro caso mi toccherà affrontare nel futuro prossimo?

Pomeriggio. Nuova visita di Susanna. Insiste nella sua “idea”. Negli intervalli di solitudine, riprendo a tentare di dissuaderla: non vuole sentire ragioni. E’ deciso, ripete con frustrante monodia, frantumata da postille divagatorie di ambientale contingenza. “E’ deciso”. Faccio intervenire mia moglie: inutile. Almeno, così si presenta la situazione. Anche a Rina, in mia presenza, dice che non ne può più: la scuola, le incomprensioni della famiglia (quali?), lo studio che non rende: insomma, tutti i capitoli del suo “contenzioso” (noi, quaderno, aggiungiamo, in sottinteso, quello che resta obliterato) cospirano contro la sua resistenza, spingono verso la soluzione drastica.
Quando ci lascia, dice a Rina che ha scherzato. Lei le crede. Io so che non scherza più (se mai lo ha fatto). Quanto meno, vuole sfidare il destino. Sono inquieto. A conforto, la folta presenza della popolosa famiglia Castrati: se Susy tarda a levarsi, qualcuno dovrà bene accorgersene

26 aprile

Susanna ha preso il Bellargil. Non è andata a scuola (ovviamente). Mia moglie ha telefonato a casa sua, e la madre di Susy ha risposto che la figlia sta a letto, incapace di alzarsi. Non è … morta, comunque.
Ha sbagliato dose? O ha voluto “sbagliare”?
Richiamo profano: la mia dose di Akranil, invece, è stata giusta: lo sgombero c’è stato. Accostamento offensivo? ma no, visto che il peggio è stato evitato dalla dose di Susy, ci concediamo al piacere di avere sfrattato l’ospite ingrato.

27 aprile

Sì, ha ingoiato l’intero tubetto (almeno, così dice lei). Le abbiamo (io, Rina e il piccolo) fatto visita. Con tante presenze, non ho potuto proporre l’argomento. S’è parlato di stress, tossicosi, vertigini. Soltanto rapidissimi lampi di sguardi velati e sorrisi sottintesi hanno potuto sfiorare il busillus. In via, peraltro, di sia pur lento smaltimento idrico: consiglio di medico e sete indotta dal tossico lavorano al disinquinamento graduale. Ne avrà per qualche giorno. La sapienza ippocratica, comunque, ha ordinato anche vitamine e altra chimica. Senza avere diagnosticato la “spirituale” eziologia del malanno. O meglio: avendola riassunta nel binomio-passepartout: esaurimento nervoso.

C’era la sorella Rosina, luccicante di contentezza: ha il marito in casa, reduce dalla crociera di lavoro. In casa per quindici giorni. La presenza dello sposo si leggeva nelle occhiaie nere di Rosa la sposa. Dopo tanto digiuno forzato, una bella scorpacciata non può far male alla salute. Era una pianta irrorata a premio di lunga sete: fresca, turgidetta, stillante sapidi umori. La quaestio sororis non riusciva a bucare quella corazza. Andiamo, un piccolo malessere, cosa vogliamo che sia? Le passerà presto. Garantito. Mille miglia da ogni sospetto.
Immagino le allusioni di Susy, sempre pronta a cogliere simili parole del corpo. Giampiero, invece, non … s’accorge di nulla: gioca con Giacomino e mangia i dolci in dono. Rina deve avere registrato il messaggio, anche lei. Ma captare e registrare non significa ammettere. Nel viaggio breve del ritorno a casa, pretende di non essersi accorta di questi cromatismi, ai quali, forse, solo la mia malizia di maschio eccitabile attribuisce significati esuberanti. Lo ha detto, si capisce, con parole meno litterate e più dirette. Ma si avvertiva che era poco convinta. Ovviamente, non poteva negare l’evidenza sull’indotto del ritorno dietro tanta assenza. Affari loro, tagliò corto, non certo compiaciuta di queste escursioni immaginative del marito, così (poco filosoficamente) attento a ogni accadimento dell’universo femminile appena appetitlich.
Il quale, chissà perché, si sentiva recitare dentro da una sorta di alter ego virtuale quei versi di Dante dell’Inferno, canto III: Quali fioretti dal notturno gelo / chinati e chiusi, quando il sol l’imbianca / si drizzan tutti aperti in loro stelo, /così feci io di mia virtute stanca / e tanto buon ardir al cor mi corse […]
Al cor: aggiungi due letterine, e in corpo avrai una maggiore aderenza. Lontanissima da ogni velleità di viaggi ad inferos.


28 aprile

Giornata piena, serata riposante: al cinema, a vedere La meravigliosa Angelica. Filmetto poco meraviglioso, ma distraente e rilassante.
Susanna è ancora a letto, tra vertigini e astenia. Rina ha telefonato a casa sua. Comincia a mangiare, anche se ancora ingoia poco. Pensiero (im)pertinente: le si calmano, così, i bollenti spiriti. Legge, dice, ma non roba di scuola. Ci mancherebbe. Magari legge Diabolik.

Cronaca pubblica. Ieri, nel folto degli scontri attizzati dai fascisti di Delle Chiaie davanti alla facoltà di lettere dell’università romana, lo studente di architettura Paolo Rossi, 19 anni, è stato scaraventato dalle scale. Incidente, sentenzia la polizia, vocativamente ligia all’ispirazione dei potenti. Omicidio premeditato, dicono testimoni oculari inconfutabili. La lotta politica fra studenti di opposte ideologie si scalda nel sangue degli innocenti. Ne avremo notizie sempre più drammatiche. Le foto scattate da vari operatori occasionali mostrano il ghigno beffardo di alcuni facinorosi fascisti della categoria picchiatori: tra essi, i meno ignoti Mario Merlino e Loris Facchinetti. Lo choc di questo omicidio prepara certo una risposta dei ragazzi della variegata sinistra, pronti a fare blocco antifascista contro le provocazioni crescenti e ormai interpretabili come effusioni rumorose e testificanti di più pelose strategie occulte di ampio orizzonte. Troppi signori e monsignori non riescono ad amare il pur annacquato centro-sinistra di stenta vita. Taluno ricorda il “tintinnio di sciabole” segnalato da Nenni un paio d’anni fa: quella minaccia di golpe è stata un messaggio fin troppo ricevuto: non superare certa soglia di moderazione posta più vicina alla congerie ibrida del centro che all’altra, della sinistra divisa.

29 aprile. Sera tarda

Susanna si è alzata, fa qualche passo, ma barcolla e le si piegano ancora le deboli gambe. E’ ridotta maluccio, insomma.
Siamo andati a farle visita. Era sola in casa: visita tanto più gradita. Giampiero è rimasto con gli amici dirimpettai, nonché nuovi parenti in fieri. Siamo stati prodighi di consigli e incoraggiamenti. Rina, soprattutto. Che la smetta, Susy, di piangersi addosso e di creare le condizioni per farlo. Mangi di più, si muova quanto può. E si rimetta a studiare. Sa bene che ha la mia protezione: si sforzi di favorirla, di evitare comportamenti negativi, atteggiamenti che comportino difficoltà supplementari alla mia “azione interna”: preside e colleghi non brillano per comprensione nei suoi riguardi. A che scopo aggravare la situazione? Studi, sia più flessibile, meno spinosa, si faccia interrogare. Soprattutto, insiste Rina, “non dare l’impressione che approfitti della sua protezione”.
Come, invece, ha fatto finora, sollevando polveroni di chiacchiere pettegolezzi insinuazioni e maldicenze varie (speriamo ferme, almeno, alla “soglia del tempio”).
Domani viaggio per la Sicania.


30 aprile

Santa Caterina da Siena.
La santa sadomaso: misticismo erotofagico, delirio del sangue. Il Cristo come coagulo virtuale della tempesta sensuale nel corpo della “pazza di Dio”. “Virtuale”, nella corporalità assente, ma realissimo dentro quei neuroni sovreccitati. Il marmo del Bernini descrive un orgasmo reale, la beatitudine del corpo sciolto nell’estasi chimica. No, non è il momento di ricordarsi della competente letteratura. Ma del Malaparte che la cita in Maledetti toscani, almeno quello, sì. L’accosta, chissà perché, a Kafka. Vorrei scrivere un articolo su Malaparte, recensendone il Diario di uno straniero a Parigi, testé pubblicato da Vallecchi.

“Chissà perché” l’accosta a Kafka? Ma per il comune sentire sadomaso, suppongo. O, se si preferisce un linguaggio più letterario, per “el sentimiento trágico de la vida”. Penso al Kafka della Colonia penale, al Kafka dei Diari, alle sue ricorrenti immagini del coltello che gli fruga dentro, della lama da salumiere che lo taglia a fettine, alla esecuzione di Joseph K. nel finale del Processo. Lame, ferite, sangue sono elementi essenziali nella visione tragica del grande infelice. Perfino la passione letteraria odora di sadismo e masochismo: la letteratura come divinità esigente, cui si sacrifica. Ogni grande dipendenza diventa cosa teologica: rinnova l’archetipo del dio sanguinario che ordina ai pasti vittime cruente. Ma è un tema da esplorare con pazienza. Con tutto il rispetto per il credente medio. Rispetto che per me è un’erta irta di spigoli quando il credente è un dotto. Non motteggiare, quaderno, su quello stridore: è voluto, in omaggio al grande Idolo antropofago, ingozzato e mai sazio di tenere carni bianche.
Non siamo andati al paese: il fratello di Rina non era disponibile al rientro. Avrà qualche affaruccio galante da curare in sede. E s’è fidanzato “in casa”! Ci prepara una brutta figura. Lo sento: prima o poi, la sua intemperanza narcisistica provocherà il guaio. E pazienza. Rina gli ha rinfacciato il suo eterno egocentrismo. Lo screzio è rientrato a fatica. Io mi sono tenuto un po’defilato, ma non potevo negare solidarietà alla sorella di mio cognato: evidenza rima con decenza. Né qualche malumore in famiglia s’è potuto evitare.
Oggi, niente contatti con Susy: né visivi né telefonici. Ubi maiora premunt…

La notte tra il 28 e il 29 aprile nuova aggressione dei fascistelli brutali del Delle Chiaie. Prima se la prendono con degli studenti isolati, poi bloccano la macchina che portava la figlia di Pietro Ingrao e due assistenti universitari suoi amici. A uno dei due è stata tranciata la prima falange di un dito.

Domenica, 1. Maggio

Festa del lavoro, festa dei lavoratori. ma qui non siamo nella capitale, né in altra degna metropoli: le manifestazioni si risolvono in comizi di circostanza. E piccole sfilate con bandiere rosse.

Bagno rituale in casa al mattino, giornata tran tran nel mezzo, gita in macchina nel tardo pomeriggio. Piccola delizia sensuale di un buon bagno caldo. Specie se col pimento di modeste fantasticherie impossibili: pensarsi nel carezzevole fluido insieme a …
Per la scarrozzata in macchina, propongo Susy come complemento: ma Rina nicchia. Eppure l’avevo preparata con un bramoso incontro coniugale, dopo quindici giorni di distanza asciutta. Allora, diplomazia: bisogna evitare ingiusti sospetti. Mi mostro indifferente alla virtuale presenza di Susy. A un certo punto è lei a proporla, ma io rifiuto. Perché guastare una buona amicizia? Meglio bloccare in tempo, finché si può, la facile gelosia. Vero, quaderno?
Siamo andati con i signori Anelli, marito e moglie. Ma solo dopo aver sorbito un pomposo comizio di don Nicola Misasi, sottosegretario democristiano e uomo di peso in vario senso. Onorava la bella cittadina di Siderato: della sua corpulenta presenza e della sua gonfia eloquenza. Ma Siderato non è feudo democristiano: fin dal primo dopoguerra, vi regna una coalizione di sinistra, comunisti e socialisti governano il paese ininterrottamente dal ’48. Anche se la Dc è riuscita a esprimere un senatore proprio a Siderato: l’anziano medico Maràuti. Forse hanno votato la brava persona, il mite benefattore della povera gente, il signore che non usa superbia verso i gradini bassi della scala sociale. Anni fa ho avuto come alunno il figlio Daniele, ottimo ragazzo, come il padre (nell’ovvio ordine del relativo umano). Forse il Misasi tenta di fare breccia sulla roccaforte a falce e martello, ma non credo che aumenterà di un solo voto il bottino del biancofiore. Oppure onora i voti Dc e rispetta il gioco delle parti. Né (cambiando ottica) c’è da farsi illusione sui rapporti politica-malavita nel passaggio dal bianco al rosso. Certe situazioni locali segnano oltre e meglio dei colori politici e religiosi. E pure alla Curia zefirese sta bene quel “gioco”(e giogo).
Siamo saliti fino alle “falde” del castello di Roccabella. Il castello, quel che ne rimane, domina, in cima a una spolpata collina, la vallata sottostante, con effetti paesaggistici discretamente suggestivi. Dopo, ho portato la comitiva all’albergo “Stella marina” ed ho offerto l’aperitivo agli adulti; al piccolo, una pasta alla mandorla. Ma ha voluto assaggiare anche la nostra bevanda. Quindi, abbiamo riportato i signori Anelli a casa loro. Vi siamo rimasti pochi minuti. E, al solito, il brigadiere ha dolcificato la visita di Giampiero con ghiottonerie (stavolta, fatte in casa).
Dopo cena, mia moglie ha insistito per far visita a Susanna. Le donne! Susy lietissima di vederci. Sta meglio, si riprende, le fantasie lugubri sembrano superate (ma con lei c’è poco da stare tranquilli). Dice che ha ricominciato a mangiare normale. E che ha perfino ripreso in mano i libri di scuola. Eureka. Ma io tremo pensando ai prossimi, ormai non lontanissimi, esami.
Siamo rimasti a lungo. La sorella e il fratellino minori alle prese con Giampiero, i “grandi” a chiacchierare, sorseggiando fresche bibite di varo frizzo. La sorella Rosina stava per andare via quando siamo arrivati, ma s’è fermata un quarto d’ora, o poco più, insieme al marito, in nostro “onore”, I segni dell’altra sera c’erano ancora. Anche in lui. Viva la vita. E i suoi variegati strumenti.
Sento aleggiare un rimprovero nella stanza solitaria: viene da te, quaderno, o dalle pareti foderate di libri? Mi recita che il Vietnam è assente da troppo tempo dalle tue pagine. Ti garantisco che non lo è dalla mia memoria e dalle mie viscere. Ma il pericolo dell’usura non risparmia neppure le più abiette tragedie. Capìta l’antifona? Che non sia troppo tematizzato non vuol dire che manchi come sfondo costante. Né solo “lui”: vedi di fare un giro in lungo e in largo per il magnifivo pianeta...


2 maggio

Ricorrenze da passare sotto silenzio.
Mi regalo confetti di nostalgia avvolti in palpiti di meditazioni metafisiche sul quaderno dello spirito santo. Una sintesi pericolosa di pensieri cupidi nelle latebre della coscienza deposta: abdicata a un in-sé vischioso di poco sartriana memoria. Perché poco, dopotutto? Mica lo strabico Jean Paul snobba quel rapinoso in-sé di duplice erettilità, dall’un genere all’altro della grammatica. Und sie gut und schnell antwortet, und schluβ sagt nicht!
Pomeriggio medio: arriva Susanna per lezione di matematica. Rina, che sta in casa dei vicini Carolui, viene, su mia richiesta, a presenziare. Cioè a fare da garante verso e contro la maldicenza possibile della gente, e lasciare tranquilli i genitori di lei. Ma si scoccia, Rina, di essere disturbata “per queste fisime”. Oh umore delle femmine! Ma se a volte è proprio lei che si lascia “tentacolare” dalla gelosia. Che poi, data la bellezza di Susy, è cosa di quasi pacifica normalità. Fisime o non fisime, Rina rientra. Un po’ di malumore, ma lascia la poco loquace compagnia e ritorna a casa.
Susy fa qualche progresso nella risoluzione dei problemi di geometria, che sono tanta parte della materia nell’istituto magistrale e titolano una delle prove più difficili agli esami finali. Negli interstizi dei tempi operosi, i confetti di cui al capoverso 2. Non è che das Madchen, infatti, se ne stia segregata nell’hortus conclusus del lavoro. Il quale non è certo “concluso” à la clef, ma à la porte fermée, oui.
Che stranezze, nelle lingue straniere: da dove sgorga, in Teutonia, quel neutro das affibbiato a una Mädchen? Ma forse una ratio c’è: una Mädchen non merita l’ovvio die finché non ha aperto il sancta sanctorum? Che stramba logica! Però Fräulein è femminile! Marcata distinzione, dunque, fra le due parole per noi equivalenti
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Oggi occupazione dell’Università romana. Si calcola un’assemblea sui tremila studenti e una cinquantina di cattedratici. Animata discussione, concordia appassionata sull’impegno antifascista, posizioni variegate, ma con prevalente convergenza sull’obbiettivo. Che si incarna in una lettera al Presidente della Repubblica, in cui si denuncia “la situazione di violenza e illegalità che regna nella città universitaria, dove un’infima minoranza di teppisti che hanno fatto propri i simboli del nazismo, del fascismo, delle SS e dei campi di sterminio possono impunemente aggredire studenti e professori che non condividono metodi e idee appartenenti al più vergognoso passato e condannate dalle leggi di tutti i paesi civili”. I firmatari si dichiarano eticamente e polemicamente corresponsabili dei fattaci denunciati, e in particolare della morte di Rossi, per non aver reagito subito e adeguatamente alle reiterate violenze dei provocatori, tollerandone, di fatto, la tracotanza impunita. Dietro l’occupazione e la movimentata assemblea c’è stato, ieri, festa del lavoro, un folto corteo di operai, spintosi fino alla cittadella universitaria in segno di solidarietà con gli studenti e i professori democratici.
Eppure, tanto dispiegamento di forze pacifiche non disarma la teppa fascista: lo stesso 2 maggio 300 sqadristi assaltano la facoltà di Legge. Ma trovano pane per i loro denti, come disse uno studente a un telegiornale. Anche la polizia non ha potuto fingere di non vedere la chiara provocazione fascista ed è intervenuta con un più convinto impegno contro i provocatori.

3 maggio

La Gazzetta di oggi non ha la pagina letteraria, che attendevo con ansia. Perché, poi?
Ma forse dovrei rivolgere a me il fragrante epiteto immaginato e sottinteso per l’amico: sempre così teso, io, così sbavante. E magari blindato verso le possibili motivazioni altrui: che kazzo ne so, io, del perché non è uscita la “Gazzetta letteraria”? E’ pensabile che non ci siano delle buone ragioni, non dipendenti dal capriccio di Ciaccò? No. E allora, pazienza. Pazienta, Paolo, pazienta. E ricorda che la calma paga sempre. Anche quando si ha fretta. Festine lente.

Spiegato Heidegger in IV. Il sein zum Tode piace alle alunne. Anzi, tutto il contesto, con la sua angoscia, il Dasein inguaiato nel mondo, la gettatezza, il debito e la colpa, e tutta l’altra bazza di appena velata discendenza teologica, ma sventolata con fiero piglio laico. Eccita, quel sermoneggiare minacciando, eccita la carica sadica e masochistica delle sensibili girls di pronta ricezione reattiva.
Anche stasera, lezione di matematica a Susy. E alla futura promessa cognatina (che poi tanto “tina” non è, anzi piuttosto prosperosa). Però, questo tempo mangiato da siffatti “ingombri”! Pazienza per Susy, ma anche quest’altra, ora. E meno male che è sveglia, questa Rosanna. E di buona volontà. Tanto diversa da Susanna. Questione di ormoni. Diverse, le due, di morfologia e fisiologia. Oltre che di età: un paio di anni più giovane Rosanna (breviter, Rosy). Che è molto più quieta di Susy, meno nervosa, meno effervescente, fino a sembrare un po’ pacioccona. Ma poi, di intelligenza solida e ponderata perspicacia.