venerdì 1 maggio 2009

Susanna, frammento 26


8 aprile, venerdì santo

Il moto si fa pendolare. La componente motrice si smorza nel pudico ricordo: est modus in rebus.
Continua il lento insinuarsi del veleno; la volontà cede. Non riesco a smettere: la sigaretta mi condiziona, trait d’union di memoriali connessioni, catalizzatrice di sintesi in atto. Se ne duole il muscolo nervoso dentro la sua gabbietta di stente ossa. E un po’ ne geme anche il portafoglio. No, non sono nemmeno un piccolo Zeno replicante: non mi sono mai proposto veramente di smettere. Ho smesso solo coattivamente quando piccoli malanni mi impedivano o di lasciare il letto o di gustare il tossico nicotinico. Del resto, poi, non è che fumi troppo: eccezionalmente arrivo alle dieci, e subito dopo, cioè l’indomani, abbasso la misura. Non me ne vanto: il merito è tutto del mio corpo, che mi avverte con disturbi vari e blocca il bisogno al di qua della soglia di medio rischio. E’, forse, sempre un po’ esorbitante, la pur contenuta quantità attuale, ma insomma ci si può convivere. Certo, mi vengono delle crisi periodiche di nausee e vertigini, ma dovute a che cosa, non si sa bene. La Scienza medica spara sentenze scempie: tossicosi endogene. E ordina epatoprotettivi e disintossicanti. A volte sono costretto a stare supino a letto per due e anche tre giorni di seguito. E ne raccolgo strane sensazioni sul mondo. Ma forse l’ho già scritta “qui” questa cosa. Magari più d’una volta. E vabbè: come si fa a non ripetersi in un diario?
Ma che divagazioni, mon Dieu! Lasciamoci alle spalle la pretestuosa sigaretta mediatrice di ricordi freschi, lasciamoci il moto pendolare non esplicitabile maintenant, e proseguiamo con le annotazioni-puntello. Chissà, non si sa mai, un giorno, magari da pensionato, dovessi avvertire pruriti rievocativi. Di uso privato e intimo, o di (non si può escludere) progettualità letteraria.
*
Altra lezione di italiano pro esami a Susy. Leggiamo, spieghiamo e commentiamo Dante, Paradiso, canti I e III. La gloria di Colui che tutto muove / per l’universo penetra e risplende / in una parte più e meno altrove. Penetra? Macché: l’immane mistero che ci accora resiste alla presa della “coscienza”. Si offre, ma il pensiero pensante teme la bestemmia e vira. O si ritira. Si rifugia nella fame gulizzana e splende di (già più volte accusate? Lo so) contingenze periferiche, dolci e amare. Dolci, per quel che agguanta la presa della mente armata; amare, per quanto lascia, per la gioia che rifiuta di prendere. Rifiutare: verbo lacerante, in questo campo di offerte protese e possibilità totalizzanti. Ma il campo è, potrebbe essere, minato. Fossi solo, fossi scapolo! Solita musica. Mente, mentula…

Stesso giorno, più tardi.

Perché siamo nati? Com’è nato il mondo? Di che cosa è fatto – oltre i soliti atomi protoni neutroni elettroni e seguito subnucleare? E’ eterno? Quid post mortem? Soltanto la regolare trasmutazione putrefattiva della materia? E’ ancora l’unica certezza radicale.
Ah, le “eterne” domande! Senza risposta. Che non sia speranza senza culo di fondamenti, pretesa, illusione, menzogna di fiabe infantili… Per di più tutt’altro che innocua. Le metafisiche sono domande “insensate", secondo una filosofia magra e rinunciataria per eccesso di zelo nel rigore. Illusa anzichenò, a sua volta, peraltro: che homo sapiens al quadrato si rassegni veramente alla sua porzione di spazio-tempo con annessi e connessi. Fascino e limiti di ogni empirismo o positivismo logico. Tagliare è comodo, spesso inevitabile (per esempio, e per l’appunto, gli sterili rami metafisici). Ma è anche troppo facile. Imprudentemente facile. A parte il fatto che le masse brute dell’idolatria superstiziosa e antropomorfica non vengono sfiorate da tanta pulizia (che non le riguarda, infatti), tocca pur sempre vedersela con i credenti, e creduloni, dotti, i complicati da casino intellettuale: con loro bisognerebbe avere più pazienza. Per esempio, sarebbe bene usare un doppio registro difensivo-offensivo: sbugiardare i loro pretesi argomenti sofisticati e sofistici sul loro terreno specifico, cioè l’argomentare astrattamente logico; e poi sbattergli addosso la nausea e rabbia di un vissuto sdegnoso di sofismi e fronzuti cinismi in maschera. Insomma, brandire l’orrore ben noto e fin troppo recensito in queste pagine contro le effusioni cieche della consolazione ad ogni costo. Usque ad absurdum. Senza dimenticare di sghignazzare sopra il tertullianeo credo quia absurdum. Ma che sprechi, quese ciance recidive!
*
Vermi e fetore, liquidi neri e brulichio di succedanei micro-divoratori; e mosche ronzanti di appagato sarcasmo e terra che s’inzuppa della salsa oscena. Penso a riflessioni di Camus, devoto del corpo e dell’istante. Si dice al morto: “Il nostro ricordo non ti abbandonerà”. Postilla Camus: “Finzione sinistra, con la quale si presta un corpo e dei desideri a quel che tutt’al più è un liquido nero”.
Domande scempie e sprecatempo, sì. Ma che cosa le sostituisce nei sapienti di fegato, che le cassano a vantaggio di positive certezze e matematiche dimostrazioni? Io credo (credere: verbo maiuscolaro, dice Gulizza. Ma non qui) che esistano, siano esistiti ed esisteranno uomini di cuore e di evidenza, capaci di guardare in faccia il brulichio nero e la fiamma purificante dell’eventuale cremazione. Di guardare senza tremare, senza strozzare laringi, con sguardo fermo e mente sgombra. Io mi lusingo di potere essere uno di questi uomini rari. Ma sa…iddio se non tremo da ora al pensiero che una malattia, uno strazio troppo prolungato della carne, una condizione di angoscia infinita (come il restare seppellito vivo in un terremoto) possano abbattere la mia loquace fierezza, piegarmi le ginocchia, strappare alle mie fauci riarse dall’orrore vergognose parole di perdono e preghiera e pentimenti allotrî. ¿Quien sabe? Chi può scommettere con assoluta fermezza e certezza di coerenza estrema? Scommettere col segno pascaliano invertito, con la povertà effettuale dell’empirico carnale e del solo sapere controllato? (“effettuale”: meccanico prelievo sciasciano. Come, quando mi capita, il connesso avverbio).
Che cosa sarà il tuo scheletro spolpato di sì bella carne, o fanciulla d’incanto, che ti appressi alla vita piena di attese melodiche in note di sensi e fantasia? Come pensare il tuo corpo snello agile scattante voglioso ridotto a infame poltiglia puteolente? Che bestemmia, la Vita. E la dicono sacra. Sacra, sì: come si dice auri sacra fames? Il sacro e l’esecrando: le due facce d’una sola medaglia. La vita, insomma. O la realtà, Giano bifronte, Giano fisiologico. Malumore? Forse.
“Quel sol che pria d’amor mi scaldò il petto / di bella verità m’avea scoverto / provando e riprovando il dolce aspetto”. Ma continua l’engagement peripatetico lungo le periferie del Leib. Disco rosso, dice la matita. Il tempo ci macina. Ah, la mia piccola verità com’è lontana dalla luna. Ma forse è meno bella? Anzi, di più.
“Susy, chi è quel sol che pria d’amor, eccetera? Scatta, trillante, la corretta risposta di Susy. Come se una ragazza (e quella, in particolare, potesse dimenticare una nozione del genere!). A volte mi sembra di udire uno sbuffante soffio di protesta da questi quaderni saturi di enigmi e maschere. Perché non ti decidi, una buona volta, sembrano dirmi, a parlare chiaro? “e io, per confessar corretto e certo / me stesso, tanto quanto si convenne / leva’ il capo a proferer più erto”. Anch’io, ma il mio capo non “profera”, accenna soltanto. “Ma visïone apparve che ritenne / a sé me tanto stretto, per vedersi, / che di mia confession non mi sovvenne ”. Anche la visione che appare a me toglie all’operosa lingua la parola chiara. Ma non sono pallide ombre di anime lunari. E il mio linguaggio parla di muta rinuncia sofferente. “Quali per vetri trasparenti e tersi / ovver per acque nitide e tranquille / non sì profonde che i fondi sian persi / tornan dei nostri visi le postille / debili sì che perla in bianca fonte / non vien men tosto alle nostre pupille”. Susanna, che cosa sono le “postille”? Anche questo ricorda, Susanna: “Sono le immagini riflesse, professore!” Brava Susanna. E giacché ci siamo, cerca di spiegare gli altri versi: Che vuol dire “non sì profonde che i fondi sian persi”? Recita Susy: “Le acque-specchianti non devono essere tanto profonde da nascondere il fondo (del contenitore)”. Che precisione: hai registrato le mie parole. E che mi dici della “perla in bianca fronte” e “dell’amor tra l’uomo e il fonte”? Anche qui, Susy, appagata e colorita, ricorda la “spiegazione” della lezione scorsa. E perfino qualche ricamo mitologico su Narciso che annega nell’acqua della fonte tentando di afferrare la propria immagine presa per viva persona di tridimensionale carne suduttiva. Susy, lo sai che potresti essere tu un Narciso femmina?
Modesta, Susy protesta, sorridente: “Non esageriamo!” E io sento risuonarmi dentro le tenere parole del Buscaglione-in love: “e forse non lo sai / che bella cosa sei...”
*
Stasera ci sono piombati in casa quasi tutti i componenti della famiglia susynica. Compreso il giovane tenente pilota fratello maggiore di Susy, Carlo. Bel giovane, alto, ben sagomato, bruno con luminosi occhi castani: degno di sì bella famiglia e bellissima sorella. Vero Rina? Tante chiacchiere di circostanza, sfiorato delicatamente l’argomento Susy-esami prossimi. Il tenente ci ha parlato della sua vita pericolosa, dei suoi voli, stress, riposi del (virtuale) guerriero, progetti per il futuro: non farà sempre il pilota di aviogetti militari, cercherà impiego presso una compagnia civile, che paga meglio. Abbiamo offerto dolci e bevande. Ci hanno lasciato all’ora di cena. Buondio, quante parole. Ma sono sempre di più quelle taciute. Da varie parti.

9 aprile

La gran vigilia del popolo di dio. Per me, un giorno come un altro. Lavoro un po’ all’articolo la mattina, leggo i quotidiani, attendo il pranzo. Dopo brevissima siesta, lezione di italiano a Susy: Dante, Paradiso, canti IV e V. Con qualche divagazione philosophica. Dèi, le divagazioni! “Per me sono essenziali”: chi lo diceva? Era un letterato famoso, un grande romanziere. Musil, forse? Ma si trattava di altre divagazioni. Tutto sommato, preferisco le mie. Che, se non sono “essenziali”, sanno gratificare pur esse. Anzi, ben più di quelle altre. Divagazioni: che bella cosa...
In serata, visita agli amici sicanioti di Siderato. La già bella ragazzona Renata Anelli si è trasformata in una ghiotta signora di languido splendore. Bene irrorata, attende il frutto dei suoi onorati appetiti coniugali. Le auguro che i figli prendano più da lei che non dallo scialbo marito commerciante. Che non è brutto, dice Rina, ma, appunto, è alquanto insipidello. Lei, invece! Con quei tratti regolari, l’incarnato d’un delizioso rosa corretto, le labbra carnose dal sorriso marino, con solare avorio di denti perfetti. E gli occhi, infine: grandi, di taglio lungo, d’un azzurro denso e profondo, che promette durare ancora vivo fino all’incipriarsi dello splendido biondo della chioma ricca e morbidamente ondulata. La madre di Renata, tempo fa, confidò a Rina che il fiero marito puritano l’aveva incaricata di sondare la sposina per sapere di eventuali scorrettezze intime o insuffiienze specifiche del fresco marito ancora incognito. E che
dalla figlia aveva ricevuto rassicurante notizia della perfetta ortodossia e capacità sessuale del giovane sposo. Stasera il tarchiato brigadiere fece la stessa confidenza a me: nessuna morbosità nell’approccio del genero con la casta figlia. E nessuna défaillance funzionale. Bene, siamo contenti tutti. Lei, l’oggetto di tanta e tanto austera attenzione cognitiva, ignara delle confidenze, sorrideva beata, stasera, conversando con noi, giocando col nostro bambino, offrendoci i suoi squisiti dolci fatti in casa. Beata, cioè appagata e fiduciosa nell’avvenire. Giampiero è sempre felice quando lo portiamo da “zio Lelmo”: sa che ci scappa sempre qualche regalino, qualche leccornia, da parte dello “zio” (Guglielmo) e della figlia. E infatti. L’offerta, il dolcetto, l’ovino fresco, il pane e formaggio: un caro rito.

Strano sogno di Rina, stanotte: un maniaco sessuale la molesta, arrivo io e lo invito a lasciare in pace mia moglie. Quello tira fuori la pistola e me la punta; al gesto dell’aggressore, Rina si butta fra me e lui, pregandolo di non sparare. Arriva sul posto il padre di Renata, si getta sul malintenzionato e lo disarma, ma quello si difende, riesce a sparare, per fortuna, a vuoto; e siccome non demorde, il gagliardo brigadiere in pensione, a scorno dell’età, regge lo scontro, e infine ammazza l’intruso. Insomma, mi hanno salvato la vita. Chi? Rina, dapprima, che si butta tra me e l’aggressore. E poi, risolutivamente, il brigadiere, deciso e coraggioso, come lo conosciamo nella realtà. Che bel sogno. Quali timori rineschi nasconde e codifica nel suo immaginifico linguaggio? O, piuttosto, quali mie paure, quali sensi di colpa? Devo pensarci.
Ma l’annotazione più stuzzicante di questa pagina è la seguente. Abbiamo portato con noi Susanna in casa Anelli. E nel salotto si animò una scenetta degna di un grande pittore del Rinascimento. O di un accurato poeta di schietta sensibilità estetico-sensuale. Insomma, un confronto di beltà ad alto livello. Tre visi bellissimi, tanto diversi quanto concordi nel segreto della giustezza plastica. Differenti, e di notevole misura, anche i corpi, eppure ciascuno con un suo fascino e una tipicità difficilmente ignorabile. Non parlo, per i corpi, di perfezione statuaria e non maculata. Ma ogni divergenza dai canoni, classici o moderni (quali, poi?), minima e tollerabile, si maschera nel contesto e si rende accettabile. Per certi versi, perfino graziosa. Si tratti di una linea non perfettissima di una gamba (Rina), o di una certa opulenza para-rubensiana o tizianesca di forme (Renata), i tre corpi occupano con suggestiva dignità morfologica la loro quota di spazio. Ciascuno a suo modo, e tutti e tre marcatamente: per statura, distribuzione di parti, volumi. Aggiungo: posture, allure, ancheggiare, gesticolare, mollemente sostare con o senza appoggio.
Si guardavano, con discrezione, l’una con l’altra, ciascuna lealmente ammirando la bellezza delle concorrenti. Soprattutto, naturalmente, Renata e Susanna, che non si conoscevano. Mi godevo, furtivamente, la scena. E mi concedevo qualche fantasia: come sarebbe Susy con gli occhioni azzurri di Renata e i suoi soffici capelli dorati? E come sarebbe Renata con gli occhioni ambrati e la folta chioma corvina di Susy? Ogni esplorazione, però, finiva con la stessa conclusione: ciascuna era impensabile fuori delle qualità proprie e della loro combinazione. Ovviamente, anche noi uomini presenti, il sottoscritto, il padre di Renata e suo marito, guardavamo ammirando. Con quale retropensiero indicibile?
Puntura di vesposo sospetto: si sarà chiesta, Renata, che ci stia a fare un’amica così bella fra Rina e me? Se lo chiederanno i suoi genitori, temendo, sicanicamente, non impossibili complicazioni da tanta vicinanza? Magari no, magari penseranno, com’è quasi certo, che Rina non ci lasci mai soli, me e Susy, durante le lezioni in casa. Salvo brevissimi scarti da bisogni impellenti o visite.

Chiusa la serata-visita presso la famiglia Anelli, si torna al “nostro” paese, si porta Susy a casa sua, e qui ci è d’obbligo una sosta. Con tanta famiglia presente, i soliti rinfreschi, le consuete ciarle. E una novità: il fratello maggiore di Susy, il bell’aviatore facondo, racconta barzellette spinte davanti al fratellino di undici anni e alla sorellina di quindici. Senza ombra di imbarazzi o poche reticenze. Come la cosa più naturale del mondo. Sbalordimento sicanico-morale, in me e Rina. Che famiglia! Parlano tutti chiaro. E forte. Interpellata, Susy si meraviglia della mia, anzi nostra, meraviglia. Che c’è di male? Oggi tutti sanno tutto. Siiiì? A qualsiasi età? O tempora! Ma no: siamo nei Sessanta. E sarà pure, ma qualcosa rimane nel gozzo, a me e a Rina: troppo diversi i nostri ambienti domestici. Né riuscivamo a pensare, per questi, un “troppo puritani”.
Arrivano i doni pasquali della famiglia Castrati: un bell’uovo di cioccolato per Giampiero, una colomba Motta per Rina e moi.


10 aprile, Pasqua

Eccola qua, la Santa Pasqua di Resurrezione (no, quaderno, non tolgo le inerziali maiuscole d’obbligo). La giornata non è riuscita secondo i desideri dei credenti: è uggiosa, piovigginosa. Visite. Prima, Susanna con la sorella minore, Tina. Susy porta un regalino a Rina. Una spilla d’oro. “Ma no, ma perché, non dovevi, è bella, grazie, grazie...”. E tanti baci. “Ma sì, è un cosino da poco, giusto un pensierino, voi lo meritate, in voi ho una sorella, vi rompo continuamente e mi sopportate, mi consolate…”. Omissis (mai con tale imbarazzo interno).
Poi arrivano papà e fratello tenente di Susy (con la sua Giulia nuova fiammante). Susy, la sorella Tina e il fratellino Giacomino smontano dalla stagionata Giulietta a mia disposizione e tornano a casa dentro la luminosa Giulia del tenente aviatore. Nell’intervallo tra l’arrivo di questa e la partenza della comitiva, scambio di auguri e convenevoli fra i presenti d’ambo i sessi. Poi io accompagno Rina a messa, nella cattedrale, con la Giulietta mortificata dal confronto inatteso. E porto un po’ in giro il bambino, che non resisterebbe a lungo dentro la chiesa affollata. Lo porto sul lungomare, posteggio e lo lascio camminare liberamente. Poi raggiungiamo il parco giochi e lui passa da un attrezzo all’altro, in mezzo agli altri bambini. In mezzo, ma con la solita tendenza a farsi da parte, a non mescolarsi con i coetanei. Né si riesce a fargli pronunciare più di qualche stenta parola di strozzata risposta, quando qualche giovane mamma gli rivolge una domanda (magari ammirata della sua tenera bellezza, e soprattutto toccata dalla luce dei suoi bellissimi occhi quasi neri). Fra cavallucci e scivoli, assi a molle e altalene, si trascorre il tempo della messa. Passiamo a prendere Rina alla chiesa madre, percorrendo il corso centrale gremito di festosi abiti multicolori con polpa mobile di belle donne in cinematica mostra cosciente.
Al pranzo, siamo ospiti degli amici e neoparenti Carolui. Vi portiamo il dolce, cioè dei pasticcini alla crema. Il fratello di Rina, il mio sfarfallante cognato, pare deciso a fermarsi (si fa per dire) presso questa famiglia di piccoli borghesi benestanti. Insomma, s’è dichiarato ai genitori, fa il fidanzato. E Rina a raccomandargli di non buttarci in una brutta figura, con la sua “ossessione”.
La sera siamo in casa di Rosina, la sorella di Susy. Con il collaudato menù, di dolci, rinfreschi, ciarle vagolanti. E di nuovo balli. Abbastanza disturbato, l’irenico menù, dai bambini scatenati, la piccola di Rosina, soprattutto, ma sotto la direzione dell’undicenne estroso irrequieto e un po’ rompiscatole fratellino minimo di Susy. Che ha preso qualche scappellotto dalle sorelle, fondatamente accusato di essere il responsabile diretto delle marachelle infantili (e qualche danno da soprammobili in pezzi). Nota a piè di pagina. Rosy (detta anche Sina dalle sorelle) preme sempre il saldo seno contro il mio piloro; e la “piccola Tina” mal sopporta di essere discriminata al ballo, e cioè considerata una mocciosa degna, al più, di qualche saltuaria condiscendenza del sottoscritto. Che si divide come può, troppo preso dall’impegno pendolare fra le adulte occhiutamente vigili. Ma la piccola è abbastanza audace (“sfacciata”, la dicono le sorelle maggiori) da invitarmi lei, quando l’intervallo vuoto di lei si fa lungo. Che imbarazzo, a volte, quel suo strusciarsi...
Alle ventitré e mezza si torna a casa. E ora eccomi qua, a versare inchiostro rosso sopra le righe sbadiglianti di questo quaderno animato. E fra poco, a tentare un ragionevole sonno. Che non sarà facile agguantare, suppongo.

Ma non prima di una aggiunta al suntino della giornata. Anche oggi, sono riuscito a lavorare un poco ai due articoli in cantiere. Nel pomeriggio, l’attesa telefonata da casa (è il primo anno che non ritorniamo al paese in occasione della Pasqua). Una lunga sfilata di parenti, dai genitori alle mie quattro sorelle, dai mariti delle due sposate ai fidanzati delle piccole (la più giovane ha i suoi 22 anni), alle due nipotine. Breve e discreto intenerimento (specie per i genitori, anzi per la mamma, così apprensiva e vibratile). Benedetta la scienza. E ancora più benedetta quando ci regalerà i videotelefoni di massa.

Punti di vista, naturalmente. Forse i combattenti del Vietnam non la stanno benedicendo. Specialmente i vietcong e i nordvietnamiti, strabombardati dai liberatori per antonomasia. Punti di vista, sì: e circostanze. I culmini massimi sono ancora Hiroshima e Nagasaki. Viva la Santa Pasqua.

11 aprile

Lunedì di Pasqua, giorno di scampagnata. Abbiamo onorato la tradizione: una bella giornata di relax campestre, noi tre, con la famiglia Carolui, completa di futuro genero, vale a dire il molto venerabile mio cognatino sciupafemmine, convertito (dice) alla sistemazione borghese totale. Bel posticino: terreno argilloso, come un po’ dovunque in questa Calamagna ionica, alto sul mare (visibile in non estrema lontananza), piuttosto scosceso. E popolato di ulivi secolari, con i tronchi capricciosamente contorti e nodosi, mimesi multiforme di figure zoomorfe e subumane. E grumi di tempo, anche, “precipitati” in metaforiche stranezze e bizzarrie ossimoriche. così strambe da apparire irreali, ma tanto dense di compiaciuta realtà massiva. Il cielo era azzurro, solcato da instabili nuvolette bianche in languido movimento metamorfico, propiziato da un vento leggero e saltellante. Un giradischi afflitto da raucedine e una buona scorta di dischi assicuravano il sottofondo musicale a richiesta. Si capisce che queste condizioni pizzicavano le corde della nostalgia rimembrante, con flash selettivi sul vario passato susinico. Con prevalenza del più recente sul meno.
No, lei non c’era. E con questo è detto tutto (come direbbe Peppino de Filippo). Buono, e semplice, il pranzo preconfezionato (nelle cucine di casa, intendo), a base di molto condita pasta al forno, pollo allo spiedo, fritto di carciofi all’uovo. E tante cose ghiotte ancora, compresi vari tipi di dolci (dai “cannoli alla ricotta” a quelli con la crema. dai pasticcini al dessert). Ottimo il vino, di produzione padronale. E lo spumante sopra i dolci.
L’abbondante pasto induceva sonnolenza, ma più che tenermi al buio di una stanza per circa tre quarti d’ora non ho potuto fare. Forse per un quarto d’ora, poco più, ho anche dormito di vero sonno; ma non ne sono sicuro. Giampiero ha dato lavoro allo zio, sgambettando tra alberi e piccoli dirupi. Ad un certo punto, mio cognato prese a sassate una serpe, deciso a schiacciarla, ma l’aspirante suocero, quasi stravolto, lo pregò di non farlo: gli veniva “da rimettere”, diceva. Mio cognato non capiva, e si stupiva di tanta stranezza. Azzardai una spiegazione psico-scientifica: è che se la “sente” in bocca, come accade un po’ a tutti per ogni cosa fortemente stimolante. E se è cosa sgradevole, ci può anche provocare conati di vomito, o disturbi simili. Sindrome moltiplicata, nel mite avvocato, dalla sua accentuata impressionabilità. Urtato dall’opposizione del problematico suocero, mio cognato non sembrò apprezzare la pur plausibile ermeneutica.
Intanto, veniamo a sapere che il fratello della padrona di casa, la nostra ospite, nonché parente della famiglia Carolui, era ricoverato nell’ospedale di Zefiria, malato non si sa bene di che, ma assai disturbato. C’est la vie. Noi, invece, abbiamo trascorso una bella giornata, distesi e appagati.
La sera siamo andati in casa di Susy, a chiudere la giornata con il programma televisivo quasi inevitabile per chi sta in famiglia, cioè con donne: si vuol dire Studio Uno. Col bravo e versatile Johnny Dorelli, apprezzato dalle gentili donne e fanciulle. E tanti ospiti, alcuni gradevoli. Soprattutto i cantanti.

12 aprile

Ultimo giorno di queste aerate vacanze. Il pensiero torna alla Scuola con una rigurgitante riluttanza. S’era presa l’abitudine di ignorare, su questo tavolo, le ore otto del mattino: avevo ritrovato il gusto del “lavoro a domicilio”, cioè del leggere e scrivere ad libitum. E quando ciò che si cerca lo si può raggiungere meglio nella solitudine, come non detestare la “folla”, ladra di intimità e riduttrice di profondità? Ebbrezza dell’amore, ebbrezza del lavoro: possono, anche, essere la stessa cosa? In un certo, discreto modo, sì. E inoltre (più facilmente), esperienze convergenti e di reciproco condizionamento.
Il mio piccolo, grande sogno respinto: lavorare sei ore al giorno tutti i giorni: quattro la mattina e due il pomeriggio. Tutti i giorni, esclusi, magari, i festivi magni, di pertinenza tribale. In capo all’anno, con una disciplina da uomo, ci sarebbe, pronto per la stampa, il Libro. Ma io non sono un Uomo. Piuttosto un mezzo aborto. Un Immaturo (giusto con la maiuscola categoriale). Un adulto a metà. Con la metà negativa piena di dubbi, stanchezza, demotivazione e sfiducia ricorrenti. E senso cosmico del vanitas vanitatum. O astuto alibi nobilitante?
*
“Non ti maravigliar perch’io sorrida”, / mi disse, “appresso il tuo pueril coto /…”. Meno male che non ha pensato a coito. Di solito è lesta a cogliere i possibili doppi sensi e le facili forzature grasse. Sì, lezione di italiano a Susanna. Dal medio pomeriggio a prima sera. Con qualche intercalato abusivo. Magari sollecitato dal rapsodico distrarsi di lei. Essendo quasi ovvia l’interpretazione di quel ritrarsi dal presente operoso, e forse noioso: non è agevole supporre che la sua mneme sia attratta da depositi di vissuto recente e di sicura presa? E’ così facile condizionarsi a certi ritmi e periodici “sapori”!
Intra due cibi, distanti e moventi / d’un modo, prima si morria di fame, / che liber’omo l’un recasse ai denti /[…]. Si morria di fame? Macchè. Al più, qualche oscillazione tra l’uno e l’altro, prima che un dettaglio esterno o interno aiuti a decidere per l’uno o per l’altro. O per la relativa precedenza. E poi, è ben difficile che, tra i due, un cibo non finisca col prevalere. Infine: un certo grado di fame non lascia tempo per oziose titubanze: precipita l’affamato sull’uno o sull’altro, indifferentemente. L’asino di Buridano, gli emblemi-iperbole. Chi era Buridano? – mi chiedeva l’altro giorno un bambino di mente sveglia. Al quale, naturalmente, non potei spiegare che l’esempio “è posteriore a Dante”, come precisa un Commentatore. Né recitare il passo di San Tommaso, non ignoto al Poeta, che il commento in nota cita in originale: “Si aliqua duo sunt penitus aequalia, non magis movetur homo ad unum quam ad
aliud; sicut famelicus si habet cibum aequaliter appetibilem in diversis partibus, et secundum aequalem distantiam, non magis movetur ad unum quam ad alterum”. I teologi, e certo tipo di filosofi, anche nelle minuzie di facile controllo empirico non possono fare a meno di saltare al cielo della teoresi e sue astrazioni. A Susanna però l’ho letto e tradotto. Come ho dovuto cogliere il riferimento della nota al canto XVIII, vv. 55–75 del Purgatorio, a miglior comprensione di questo canto IV del Paradiso.
“Però, là onde vegna lo ‘ntelletto / de le prime notizie, omo non sape, / e de’ primi appetibili l’affetto, / che sono in voi sí come studio in ape / di far lo mele; e questa prima voglia / merto di lode o di biasmo non cape.” E’ pura natura, insomma, per sé esclusa da valutazioni etiche. Ma l’uomo avrebbe anche la divina scintilla della ratio, che giudica e discerne, e genera il libero arbitrio, cui s’incolla la moralità. Ed ecco cacciato dalla finestra quel ch’era stato ammesso dalla porta. La forza del naturale appetire, la sua necessitate. Secondo te, Susy, è la ragione che coglie il vero bene e consiglia l’assenso, lasciandoci piena libertà di scelta e conseguente responsabilità, o decide, in noi e per noi, la forza degli appetiti contrapposti? La forza degli appetiti, dice Susy. E io spiego ed esplicito. Se uno non fa certe cose, se rinuncia a certi beni, non è perché ne scorge un’intrinseca peccaminosità, ma perché le norme del codice morale e le connesse rappresaglie a chiave sociale, e, soprattutto, religiosa, fanno temere ritorsioni e conseguenze che scoraggiano l’appetito proibito, lo indeboliscono a vantaggio di un altro appetito: quello del proprio bene minacciato dalla sanzione. E’ il timore delle conseguenze, empiriche e fattuali (sociali, domestiche, professionali…) o illusorie, ma reali nel groviglio neuro-molecolare della cosiddetta psiche (inferno, punizioni divine in vita…), che ci trattiene dal compiere azioni gratificanti nell’immediato, ma gravide di minacce e pericoli di pesanti sanzioni future. Timore che, naturalmente, si può anche ingigantire fino al terrore con un’immaginazione impressionabile, ma non senza un riferimento oggettivo. Prevalentemente di ordine sociale e latamente umano; ma pure di ordine fisico, fisiologico. Anche se resta plausibile il fatto che l’introiezione di norme e connesse paure ne taglia le radici
fisiologiche (o piuttosto, le nasconde), sicchè tutto sembra spirituale e trascendente. Insomma, una pura “alterità” dal mero corporale.

13 aprile

Primo schifoso giorno di scuola, dopo le vacanze. Irritatissimo contro le collegiali, in massima parte ancora assenti. Non gli sono bastati nove giorni di libero spasso. Un velo di tristezza su tutto, una sorta di inappetente nausea globale. Insomma, normale fisiologia del rientro al lavoro coatto. E magari un po’ anormale, visto l’eccesso di malumore, così mal fondato. E ripenso a Leopardi, ai suoi molti interventi sulla sindrome del dopo-festa.
*
Conviene cambiare argomento, quaderno. Facciamo un po’ di cronaca culturale: ho finito di leggere il buon libro di Armando Plebe, Discorso semiserio sul romanzo, pubblicato l’anno scorso da Laterza. Più volte in questi due ultimi mesi (io leggo lentamente, per lo più: centellinando, insomma) m’è accaduto di volerne far cenno sulle tue pagine, ma poi ho rinunciato, pensando a una recensione per La Gazzetta o Il Gazzettino; oggi riprendo l’idea, finora non abbastanza robusta: vedrò di nutrirla. Senza escludere l’eventuale recensione.
E’ un libro ricco, serrato, provocatorio e stimolante. Scritto “bene”. Cioè piacevolmente: stile scorrevole, privo di sciatteria; humour ben dosato e bersagli polemici centrati. Niente nuove estetiche, né teorie della letteratura, né parole- categorie competenti, come “poetico”, “artistico”, “lirico”. Provo a riassumerne le tesi, servendomi della conclusione, anzi ”Epilogo”, dal titolo suggestivo: Rispetta il lettore tuo come te stesso.
Dopo una lunga cavalcata contro avanguardismi sofisticati e attardati lirismi d’altri diluvi, Plebe decide l’alternativa dei nostri tempi: il letterato deve essere cane da guardia o clown? Cioè servo del potere (comunque configurato) o spasso del principe? L’alternativa posta da Sartre come visuale del Potere sul letterato (“o cane da guardia o buffone: sta a lui scegliere”) viene risolta da don Armando sul secondo corno, ma con un’aggiunta decisiva: clown, sì, però amaro, cioè del tipo scespiriano, mordace e (socraticamente) “tafanesco.”
Il letterato smetta gli abiti curiali e le corone d’alloro; smetta di oscillare tra la malriposta superbia del superuomo e il complesso di inferiorità verso lo scienziato, socialmente più “riconosciuto”. Rinunci alle dicotomie accademiche e alla puzza sotto il naso, alla cultura alta separata da quella bassa, diventi un buon artigiano, che non annoi il lettore, non tema emozioni e sentimenti, fugga come la peste i cerebralismi sciocchi dei dottissimi alla moda. Anzi di tutti gli ismi faccia un bouquet e lo lasci seccare al sole della disciplinata misura, del buon gusto realizzato (e non soltanto teorizzato), del narrare nutrito di affetti e pensieri, e non di chiacchiere perse per arcigni accademici o letterati “da gruppo” e da caffè. Consideri il lettore non come il bianco americano considera il negro, il quale, per contrappasso, mentre s’inchina in sua presenza (“lo chiamano addirittura The Man, come se loro non fossero tali”) poi lo disprezza come un mezzo uomo nelle capacità fisiologiche essenziali (ma Plebe dice “nelle funzioni più propriamente umane”). Da rifiutare anche “ogni sorta di simbiosi tra le due grandi avversarie della ‘media cultura’, cioè l’Alta Cultura e la Cultura di Massa”, un ibrido diventato di moda in funzione aggressiva verso il “midcult”, comodo concetto, con il quale si confonde la ‘mezza cultura’ (o, più esattamente, la pretenziosa infarinatura culturale dello snobista) con la ‘cultura media’ (cioè l’onesta cultura non specialistica di chi non è professionista).
Si dice che “leggere libri è un bisogno ormai provato da moltitudini di uomini (…) il quale esige d’essere soddisfatto, bene o male che sia” (Paolo Milano). Che sia bene, allora, osserva Plebe: lo scrittore ha il dovere di rendere la necessità della lettura “il meno inutile e sgradevole possibile: altrimenti da necessità si trasformerà a poco poco in dovere, in duro dovere, in ingrato dovere, e a lungo andare i doveri ingrati non si adempiono più” (p. 192). Oggi, motteggia, “vi sono due maniere, per chi legge, di morire di noia; o lo sbadiglio avanguardistico, o lo sbadiglio dei cani da guardia”. Almeno, fino all’avvento prossimo e probabile di quello che Paolo Milano ha definito “avanguardismo di massa”: allora “i due sbadigli convergeranno paurosamente in una sola gigantesca smorfia di noia”. Il libro si propone di aiutare il lettore rispettato a capire chi e che cosa si possa leggere senza quegli sbadigli. E indicare,
così, anche, “un motivo per cui si debba far letteratura”.
Perciò non sarà il beniamino della critica corrente, o delle opposte correnti: con lucida e divertita ironia, Plebe immagina un’autorevole stroncatura del libro da parte di un “cane da guardia”: “Un rozzo naturalismo populista che ripresenta i più vieti e disgustosi pregiudizi del marxismo volgare, una pietosa mancanza di gusto estetico e di sensibilità artistica, un’immaturità erotica da boy scout, un nichilismo ingenuo ormai passato di moda da secoli: ecco i motivi che rendono questo libro sordo alle più sottili voci della poesia. Non metterebbe conto di occuparsene, se non per mostrare dove conduce il cosiddetto ‘realismo’ contenutistico: all’impossibilità di distinguere uno scrittore da un illetterato capocronista, ecc. ecc.”

Ma intanto: i lettori, chi sono? Plebe riporta “il desolante inventario” fatto da Frisch sulla spiaggia di Portofino, cercando, fra quei corpi in tutt’altre faccende affaccendati, i possibili lettori dei suoi libri, del libro che aveva in bozze. E la conclusione è che il lettore bisogna inventarselo, “immaginarselo: è un personaggio del proprio libro, come un personaggio di un dramma o di un romanzo”. Plebe conviene, ma a una condizione: “che come i personaggi di un romanzo devono essere personaggi possibili e non assurdi, così il lettore che ogni scrittore s’inventa dev’essere tale che almeno gran parte dei nostri simili possano – non già esserlo ma diventarlo”. E proprio con l’aiuto dello scrittore: “a p. 5 del suo romanzo, chi sta leggendo non è ancora il lettore ideato dallo scrittore, ma a p. 200 dovrà esserlo diventato, se lo scrittore ha voluto e saputo adempiere il suo compito e se il lettore aveva le qualità inevitabilmente necessarie”. E sia detto senza alcun “ingenuo utopismo”, cioè senza ignorare le difficoltà effettuali della cosa: quei lettori superficiali che seguono le mode, e quant’altro provoca disgusto nel letterato. Ma è proprio questo disgusto che va superato, guardando, magari, senza pretese di assimilarlo, al precetto evangelico: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Roba assai difficile, si sa: “Chi si sforzasse di seguirlo alla lettera, sarà spesso tentato di amare molto poco se stesso pur di essere autorizzato ad amar molto poco certo nostro prossimo, stupido e fastidioso”. Eppure, bisognerebbe sforzarsi di superare il disgusto e procedere come se si amasse il prossimo: in politica, nella scienza, come nella letteratura: “il letterato, anche se in molti casi non riuscirà ad amare il ‘prossimo suo’ che lo legge, almeno si comporti come se lo amasse. O, almeno, come se lo rispettasse”.

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