lunedì 30 novembre 2009

SUSANNA, Frammento 48


PARTE SECONDA.
SUSANNA SPOSA E MADRE

Perché si scrive, mi chiedo. Perché ci si affanna a tessere sogni e raggiri, si dà corpo a fantocci e fantasmi, si fabbricano babilonie di carta, s’inventano esistenze vicarie, universi paralleli e bugiardi, mentre fuori così plausibile piove la luce della luna nell’erba, e i nostri moti naturali, le più immediate insurrezioni dei nostri sensi c’invitano al gioco affettuosamente, divinamente semplice della vita?
Gesualdo Bufalino, Cere perse

INTERMEZZO
*
Trentacinque anni dopo. Quante pagine bianche in questo quaderno che finisce a metà. Fatico già a ricordare sommariamente le ragioni di tutto questo vuoto, come potrei ricostruire anche soltanto i dettagli più vistosi di quei giorni lontani? Gli avari cenni sparsi nelle pagine scritte mi consentono appena di richiamare dal fondo del pozzo (per dirla alla Thomas Mann) qualche episodio che sbalza sul consueto e il routinario. Anche i salti, di più giorni, di settimane, tra l’una e l’altra delle poche (relativamente agli altri quaderni) pagine, più che scritte, scarabocchiate, contribuiscono al destino di perdita irreparabile che grava sul grosso dei particolari. Scrivevo con minore slancio, con un certo imbarazzo. E con una fretta che sfruttavo per rendere illeggibili, fuorché a me stesso, le filiformi parole inclinate in righe mezzo tortili. Segno che temevo un improbabile, ma non impossibile loro incontro con gli occhi belli e curiosi di Rina, la mogliettina in quel tempo sempre pronta alle scenate di gelosia (solo in quel tempo, poi?). Si vede, cioè, anche da ciò, che non mi assisteva più l’entusiasmo dei mesi precedenti, quando un resoconto più nutrito, grasso, morbido di fatti e fatterelli concernenti mi poteva tenere impegnato sulle pagine rigate per due ore, e magari più, a logorarmi gli occhi. Con un godimento e appagamento, forse, un po’ dubbiosi e tremanti, però sempre reali. Specie se a tarda sera o di notte, mentre moglie e figlioletto dormivano. O lei magari attendeva il sonno, convinta che lavorassi per la scuola o su qualche articolo per i giornali cui collaboravo. Queste ultime pagine, al contrario, sono, come dicevo, figlie della fretta e dell’incerto, ma sempre operante, timore di essere scoperto, nel caso un calo di vigilanza mi facesse dimenticare di chiudere nel cassetto sotto chiave il quaderno. La fretta: come mai? Era ricominciata la scuola, e facevo anche qualche lezione privata, di preparazione al concorso magistrale: non avevo più a disposizione il tempo libero che mi aveva permesso le lunghe cronache (e relative divagazioni). Ora devo cercare di ricostruire, da pochi indizi, e magari da un singolo frammento “osseo”, fatti assenti dalla memoria non meno dei dinosauri ricostruiti in questo modo dai paleontologi.

Cominciamo dalle ricostruzioni più agevoli (o meno complesse). Ecco qua un incontro con Didia nella mia casa libera da moglie e figliolino. Che giorno era? Non lo saprò mai più. A meno che non salti fuori qualche pagina dimenticata che ne riporti la cronaca. Un futuro trasloco potrebbe farmi questo dono. Ma ne dubito forte. Tutto questo bianco, che oggi mi sfida (e forse schernisce) significa una sola cosa possibile: la promessa, allora, o semplice speranza, di riempirle, quelle pagine, quando che fosse. Anzi, “appena possibile”. E riempire non solo quelle intercalate tra una cronaca e l’altra, già cospicue, ma anche quelle finali, quasi un terzo di quaderno vuoto bianco immacolato in vana attesa per mesi anni e lustri di un incontro con l’infiacchito autore. E invece non è accaduto. Le pagine sono rimaste lì, neglette e seppellite, protette con serrature dal pericolo sempre attuale, in qualsiasi epoca della mia, della nostra, vita coniugale: il pericolo della gelosa Severina detta Rina, sempre pronta, ut supra dixi. L’appena possibile, in sostanza, non mi soccorse: un virtuale che non si realizzò.
Riflettendo, mi viene incontro (anzi, mi sbatte in faccia) la ragione prima di queste mie larghe assenze dalle pagine diaristiche: il libro, il libro filosofico “commissionatomi” da Gulizza e incoraggiato da Rama. Mi suggeva la gran parte delle mie energie creative.

L’incontro, dunque. Non ricordo il giorno, ma il mese doveva essere ottobre. E l’ora, questa, all’ingrosso, la rammento: era l’imbrunire. Didia era felice. Aveva raggiunto il suo scopo, il suo ideale fatto realtà di corpi in contatto, di corpi stretti nell’abbraccio, di bocche congiunte nel bacio reiterato. E io? Ero “felice”, io? E come avrei potuto – fosse anche nella modesta misura implicita nel sospettoso virgolettato? Devo averlo scritto in qualcuna delle pagine precedenti: il ricordo dell’altra era troppo forte, il confronto con Susanna lasciava vuoti incolmabili. Cara Didia, te ne chiedo perdono ora, a distanza di sette lustri. Mi sforzavo, credimi. Mi sforzavo, e penso che riuscissi a convincere la tua speranzosa disponibilità, di sentirti, di rivivere il pasto erotico sacrale della precedente chance, ma lei era sempre fra noi. Lei, l’unica dominatrice di quel tempo stravolto. Ma ti baciavo ugualmente, grato del tuo involontario soccorso, del tuo improbabile rimpiazzo. Ti feci anche dono di confidenze sull’assente ingrata, sugli aiuti e la protezione prodigatile e così mal ricompensati. Non ti rivelai, certo, il mio segreto piagato, e ricordo di avere opposto, a un tuo cenno alle dicerie correnti, che si trattava appunto di dicerie, pettegolezzi senza fondamento. Spiegabili, si capisce, alla luce della frequentazione assidua di Susy, del suo trovare sempre la porta di casa mia pronta ad aprirsi e la mia opera sempre disponibile all’assistenza professionale e psicologica. A quest’ultima si aggiungeva, s’era aggiunto per mesi e mesi, il concorso di mia moglie, fidente nell’amicizia di lei. E giudice leale, anche, della sua riconoscente generosità verso il nostro bambino (che, pour cause, non era meno preso del padre). E ora, a scopo conseguito, lo strappo di questa ingratitudine, una lontananza senza termine che ha il sapore dell’abbandono.
Non è un falso ricordo quello che mi presenta, sia pure un poco sfocate, le nostre figure, me e te, cara Didia, nei pressi del porto degli aliscafi, io intento a sturare dentro le tue avide orecchie il serbatoio surriscaldato delle confidenze susannali. Che ci facevo, io, in quei posti, con te? Ma come, che ci facevo? Ti accompagnavo, in macchina, alla fine di una delle tue visite, all’approdo aliscafesco. Ecco che ci facevo. Era il meno che ti potessi offrire. E si parlava, aspettando l’arrivo dell’Aliscafo da Zancle, dove ritornavi (erano tempi di lezioni universitarie) e tu ascoltavi assorta. Mi chiesi, allora, e mi chiedo di nuovo oggi, quasi vecchio, che cosa rimestavano dentro di te quelle rivelazioni. Forse un certo dispiacere per la mia sofferenza. Quasi certamente una naturalissima soddisfazione imbavagliata, per un tuo supposto vantaggio nel confronto con l’ingrata. Tu non eri, non saresti stata mai sleale e ingrata con me. Questo, certo, lo pensavi. In perfetta buona fede.

Ricordo quando Didia mi si accostò alla macchina, nel casuale incontro sulla via Gramsci, parallela al centrale corso Garibaldi, lei a piedi, pallida e balbettante. Io avevo rallentato per salutarla, lei mi fermò. E, appunto, balbettò dicendomi che stava giusto pensando a me e che quell’incontro inatteso le sapeva di miracolo. Non usò quel termine, ma la descrizione che me ne fece il giorno dopo avrebbe meritato una trascrizione puntuale, giusto per il senso di miracolo che ne emanava. Be’, se non lo feci allora, ora non potrei. L’aura, però si risveglia: tu, Didia, stavi “monitorando” la mia immagine e mi parlavi, preparavi un discorso per l’incontro che ti proponevi di chiedermi (si era ancora in periodo scolastico e tu cercavi conforto, soccorso di acconce parole e consigli, io così buon psicologo – nel vostro giudizio di ragazze – e, di psicologia, insegnante): quell’improvviso sovrapporsi della percezione reale all’immagine virtuale del ricordo ti sconvolse come il materializzarsi di un fantasma, un evento metafisico. Ti mancò la voce, dicesti, e quando il parziale ritorno ti consentì di parlare, balbettavi con uno scampolo di sonorità arrochita.
Come fu che quella sera di autunno ci trovammo distesi sopra la sdraio rossa, tu sotto di me disteso? E io: perché concessi che la mia mano esplorasse la tua cedevolezza innamorata? Quel piccolo sferoide di salda carne destata al desiderio premeva la mia palma destra come un’effrazione non sospettata: difficile temerne l’emergenza durante il mite linguaggio dei baci, degli abbracci, più teneri di riconoscenza che ardenti di passione. E la ritrassi presto, quasi subito, al primo contatto di pelle, la mano sacrilega. Non eri una bambina, e non opponevi resistenza a quell’impeto improvviso: ti fidavi, certamente. Sapevi che mi sarei fermato prima di entrare in quell’umida intimità indifesa. E così fu. Mi ritrassi come se avessi toccato un oggetto sacro e proibito. Pentito di averti fatto sentire l’inevitabile consistenza del desiderio stanato, ma soprattutto imbarazzato di quel contatto carnale offensivo (pur se vestito). Non nel tuo giudizio, certamente: eri troppo presa dalla novità a lungo (ma, certo, anche vagamente) sognata per concedere attenzione e tempo a perplessità che spettava a me affrontare. Forse non eri neppure così sicura che la mano prensile si arrestasse a distanza dalle umide pieghe. E, se non reagisti, se non afferrasti il mio braccio a fermarla, forse la novità tracimante non te ne aveva lasciato spazio. Spazio mentale, voglio dire. Ti giudico? Neanche per sogno. Avesti allora, e hai ora, tutta la mia comprensione per la tua naturalissima infatuazione pupillare e conseguenti incuriosite cedevolezze. O giudico, semmai, me stesso, così scarso in difese contro la suggestione dell’Assente: non era stata lei, in fondo e sostanza, a calamitarmi sopra quella sdraio rossa che, nella stagione felice, aveva sopportato i nostri corpi allacciati, e conosciuto le mie esplorazioni “subtrascendentali”?

Com’è strano riaccendere questi ricordi, a trent’anni e passa di lontananza: sforzarsi di ricostruirli incollando frammenti. Che senso ha, a parte la voglia di assemblare a romanzo (o comunque narrazione) questo recupero trascrittivo e parzialmente integrativo di vecchi diari, l’insistente girovagare nel passato più vissuto? Ma non voglio rispondermi qui e ora: vedremo più in là. Ora e qui mi preme la ricostruzione, e sia pure parziale e imprecisa in qualche dettaglio.
Respirasti di sollievo quando io ritirai la mano? Ah, saperlo! Ma non so neppure, ormai, se la coppa del mio palmo carezzò uno solo dei tuoi glutei o, rapidamente, fugacemente, entrambi, uno dopo l’altro. Né se, carezzando, stringendo, si fermò davvero a distanza implume dalla trepida soglia o sulla tricologia terminale di essa turbata non-meta. Quel che so, ancora bene, è che l’evento rimase isolato. Non altro che brevi bacetti, da allora.
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Fra i ricordi erratici poveri di riscontri diaristici un non-incontro con Susy abbastanza sbilenco. Ero andato al cinema più vicino, dei due gestiti dallo zio, e mi guardavo, più che gustare, il film (non so più quale). Nel buio della proiezione, un movimento da uno degli ingressi laterali, attirò la mia attenzione. Guardai: esemplari giovani del bel sesso entrarono occupando i posti della fila precedente la mia, brevemente illuminati dalla luce elettrica liberata dal sollevamento della tenda divisoria. Mi ritrovai Susanna che volgeva le spalle alla mia faccia in ombra. Ai suoi fianchi, la sorella Rosina e la sorella Tina. Il cuore prese ad accelerare. Finii di guardare lo schermo. Guardavo le spalle, sempre esili, di Susanna, i suoi capelli ondulati e neri, le sue braccia, ogni minimo movimento di quel torso, di quella testa, di quegli arti e mani. Ad un certo punto, afferrando la spalliera del suo sedile, spinsi un dito fino alle sue spalle. Un tocco rapido, lieve, ma avvertibile. E non equivocabile come un contatto involontario: quei pochi secondi della sua durata bastavano a escludere la casualità. Susy non si voltò. E in quel momento io fui certo che mi sapeva dietro di lei, che quel minimo rapporto corporale veniva inserito dentro una lunga storia di precedenti molto più invasivi, più largamente pervasivi, ed era un piccolo test esplorativo. Sì, Susanna sapeva che le stavo dietro. Ho montato i pochi elementi disponibili in un mini-totale esplicativo di media plausibilità: mi avrà visto venendo a sedersi. Susanna sapeva che l’avevo toccata io. E anche per lei la visione del film dovette essere sostituita dall’attesa ipotizzante dell’intervello: che cosa avrei osato, io? Mi sarei fatto avanti, a salutare? Dopo mesi di silenzio, di incontri occasionali con la famiglia pieni di reticenze, di imbarazzati rinvii e quant’altro? E lei, lei come avrebbe risposto a un mio eventuale saluto, magari condito di sorridente disponibilità al colpo di spugna sul recente passato? Ma – avrà pensato – lui come saluterebbe? Non è poi così sicuro che sarebbe, il suo, un saluto cordiale.
Quello che feci io mi sorprende ancora oggi: me ne uscii qualche minuto prima che s’accendessero le luci dell’intervallo. Non volli incontrarle, lei e le sorelle. Perché, – mi sono chiesto, per giorni mesi e infine anni – se non per paura di un’accoglienza imbarazzante? Forse fredda, poco cordiale, evasiva? Non fu un bel gesto. E, soprattutto, non fu un atto di coraggio. Di colpo, mi sentii disarmato. Gli ultimi eventi e mancamenti mi avevano inchiodato nella mente la certezza che la famiglia sapesse del mio interesse extra-amicale per Susy. E, se pur diminuita delle “applicazioni”, l’informazione, quella informazione, doveva aver prodotto un riassetto nelle disposizioni affettive dei suoi componenti verso di me. Ero quasi sicuro che Susy li avesse anche informati del mio sogno di sposarla a un cugino di mia moglie, professore di lettere a Roma. Insomma, ancora oggi tento di minimizzare quel poco virile “mancamento”. Sì, è vero, non pensavo che avrei potuto non avere più occasione di incontrarla: speravo sempre che si facessero vivi, ora che Susanna era tornata. Come potevano rimangiarsi le promesse tante volte fatte a me e a mia moglie? Forse in quella ritirata fermentava anche questa motivazione: mettere alla prova la loro buona fede, la sincerità delle loro promesse. Fatto sta che me la squagliai. Ed ecco la debole attenuante che mi sono ruminato per anni. Sette, per la precisione

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Quando scrissi quella cronaca-ricordo ero convinto che mancasse qualsiasi traccia del suo contenuto sui miei quaderni. Ma poi, qualche tempo fa, mi capitò fra le mani (saltuariamente affannate nella ricerca di documenti susanneschi) uno dei quaderni-deposito con appunti frettolosi, ma significativi per interventi di parziali rettifiche. Era uno di quelli che conservavo nel cassetto sottochiave del tavolo da studio presente nella vecchia casa terrana della Sicania. Li tenevo lì per riempirli di note diaristiche nei periodici ritorni ad Akiskene. In questo sono raccolte pagine disparate relative a un triennio: dal luglio seguente alla promozione di Susy in quarta magistrale al novembre successivo alla maturità, dal santo Stefano dello stesso anno al febbraio e marzo del successivo.
E’ una pagina del marzo, una delle ultime del quaderno dunque, a recare la nota sull’incontro al cinema, ricostruito sopra. La nota è sbrigativa. Uno stacco dal testo sovrastante e dal sottostante (in tutt’altre faccende affaccendati) racchiude queste righe (graficamente sgangheratissime, tra l’altro):

Dall’ultima volta, novità. L’Assenza si è fatta, inaspettatamente, Presenza. Al cinema. Passarono in tre a me dinanzi: madre, sorella piccola e lei. Elegante. Mi ha visto la sorella piccola. In un casuale coup d’oeil. Contatto di dita sur les épaules. Nessuna parola, nessuno scambio di sguardi. Io me ne sono andato senza, ovviamente, salutare. Chiedendo permesso, ho fatto sentire la mia voce nel caso, non probabile, che non mi abbia avvistato la sorellina.
Comincia a maturare l’indifferenza? Forse. Ma resta, potente, il bruciore per lo smacco e la sete di revanche. Specie in fratrem.
Ora, al cinema, paghiamo. Abbiamo convinto il signor padre e il fratello, che insisteva sulla consuetudine dell’omaggio. Non era più il caso. Non lo è più.
Ho detto al secondo fratello, Roberto, di chiedere alla signorina sorella Susy come vuole che le facciamo pervenire le cose sue rimaste in casa nostra: libri, orecchini, foulard. Non ho ancora avuto la risposta.

Come si vede, pur nella sua scarna stringatezza, la nota integra e corregge in qualche punto la mia ricostruzione congetturale. E offre, nelle ultime righe, un’aggiunta significativa su quel tempo, ormai remoto, inoculato dell’inevitabile biochimica mitizzante. Eccole:

Ho incontrato l’ex alunna Stella Cammàra, compagna di classe della Traditrice. Sempre bella e pienotta, la cara occhi-glauchi, s’è sposata. Ma nemmeno per ischerzo vuole sentirne della mia ipotesi di passare al lei (o al voi, che nella Magna è di prammatica confidenziale ma non troppo): lei, dice, è sempre la mia allieva e le spetta il tu, ancora e sempre, il latino tu. Mi ha detto di avere incontrata Susy, all’interno dell’ospedale nuovo di Zefiria, in occasione del parto di sua sorella. L’Assente vi si trovava in visita, con madre e sorella Rosina, di suoi parenti ivi ricoverati, non so più perché. Stella le ha chiesto di me. Dalla risposta evasiva, dice, ha capito il suo allontanamento da noi, dalla nostra famigliola, già tanto corteggiata e lodata. La sua ingratitudine, insomma. Che io non nascosi. Anche se Stella non osò utilizzare la parola.

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1. SETTE ANNI DI BLACK OUT
[…] si scrive per popolare il deserto; per
non essere più soli nella voluttà di essere soli; per distrarsi dalla tentazione del niente o almeno procrastinarla. A somiglianza della giovane principessa delle Mille e una Notte, ognuno parla ogni volta per rinviare l’esecuzione, per corrompere il carnefice.
Gesualdo Bufalino, Le ragioni dello scrivere
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[…] perché un romanzo deve per forza andare avanti? […] Se invece provassimo a immaginare che un romanzo non ha direzioni ma polarità? Gangli, plessi, come il sistema nervoso …? […] Il romanzo è una pompa aspirante…pompa tutto[…] un romanzo dovrebbe essere tutto pieno di cose casuali, niente di ben meccanizzato. (Giuliano Gramigna, Marcel ritrovato, Rizzoli, 1969, passim)



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INTROIBO

Un momento di esitazione. Quasi di smarrimento. Chi è, chi è diventato, colui che sta tentando di richiamare alla memoria un passato in frantumi per montarne un qualche assetto narrativo coerente? Non è il caso di guardarsi allo specchio della coscienza attuale e vedere se riesco a reggere il peso di un confronto inevitabile con quel passato spoglio degli eventi allora futuri, che hanno modificato negli anni percezioni edonistiche e valutazioni morali fino alla condizione attuale? Modificazioni indotte, tra le altre concause ed esperienze, anche dalle mutazioni privative ed acquisitive della corona parentale più intima, quella che più condiziona la (almeno parzialmente) nuova disposizione mentale. Parliamone, dunque, sia pure per elettrici cenni in fuga.
I figli, innanzitutto. Giampiero ha conosciuto difficoltà di salute e ritardi negli studi, con un culmine depressivo ad alto rischio, durato poco più di un anno. Non senza riprese variamente contrastabili negli anni successivi. Oggi, però, è uno psicologo a stipendio presso un pubblico Centro di Igiene Mentale inserito nel Sistema Sanitario Nazionale. Ha vinto il competente concorso per titoli ed esami pochi anni dopo la laurea e lavora con oscillante passione. Si è anche sposato: con una pediatra più giovane di lui di cinque anni. Dopo quattro anni di “solitudine coniugale” (dovuti esclusivamente alla paura del problematico marito davanti alle responsabilità incollate al generare), il primo figlio (ce ne saranno altri?). Che è già al quarto anno di residenza terrena. E’ un bel bambino, vivace e curioso, ma un po’ cagionevole. Frequenta la scuola materna. Residenza vicina, a pochi chilometri dal nostro paese sicanico. Comincia a zampettare sulla tastiera del computer per certi giochini adatti alla sua età. Timori: vedo i segnali della timidezza introversa del padre (e del nonno, in primis. Ma qui con discreti “anticorpi”). E della zia, cioè la mia Manuela, che è stata, ed è, più timida e taciturna del fratello. Eppure, a via di sforzi e di sacrifici, suoi e miei, si è laureata in lettere classiche (naturalmente, l’aiuto maggiore l’ho dato per la tesi): Oggi insegna in una scuola media. Dire che se la gode, sarebbe una spudorata bugia: troppo stressante impresa è per lei tenere a bada i vispi ragazzini e le precocissime fanciulline delle medie. Alla timidezza genetica non c’è rimedio (con buona pace dei parolai della psico-pedagogia, ancora drogati di libero arbitrio, forza di volontà, ed altro bene “spiritale”. Sposata anche lei, con un bravo collega di matematica e fisica, ordinario al liceo scientifico della nobile e vescovile città sicaniota di Realpolia, irta di chiese monumentali e campanili. Un primatista dei concorsi vinti: quattro in contemporanea sfornata multipla del competente ministero, che da allora, in fatto di concorsi a cattedre, tace e riposa (e son passati parecchi anni). Superamento delle rispettive prove con ottimi voti e conseguente collocazione in graduatoria. Inde, ampia facolta di scelta del tipo di cattedra. E dire che già insegnava, da incaricato annuale, durante la preparazione ai vari concorsi, con un cospicuo consumo energetico. Insegnava, per giunta, in un paese lontano, sciupando circa tre ore in viaggi di andata e ritorno. E non è finita: aveva anche il peso di qualche lezione privata, non rifiutabile per via di amicizia e parentela. Uno stakanovista, insomma. Oltre che un buon ragazzo. Ma la sua costituzione poco robusta mi inocula qualche preoccupazione per la sua futura resistenza alla fatica e la dipendente integrità di salute fisica. Abitano, nella periferia affollata della stessa Realpolia dove insegnano entrambi, un appartamento con ampia terrazza, in un residence nuovo e pletorico, capolavoro della res aedificatoria dei nostri fertili tempi di speculazione selvaggia. Niente figli. Soltanto per ora? I due matrimoni si sono seguiti a distanza di un anno: primo celebrato, quello del maschio. Siamo dunque, Rina ed io, già nonni. E piuttosto curiosi della lotteria genetica prossima ventura.
Ecco, insomma, una doppia buona ragione per smetterla con l’amarcord narrativo. In mancanza della quale soluzione (ottimale), l’obbligo di stare attento a non lasciare trasparire troppo l’autobiografismo del racconto. Indi, maschere e più o meno lievi spostamenti: di nomi, luoghi, circostanze, eventi. Non è operazione facile per me, ma è imperativa.
Nel capitolo “sottrazione” la “corona parentale intima” accusa “defezioni” ancora sanguinanti a distanza di lustri: mio padre ci lascia, all’improvviso, a settantun’anni, sul finire degli anni Settanta. Un ictus, disse la scienza ippocratica nella sezione cardiologica. E da allora non ho finito più di incontrarlo nei miei sogni congesti. Diradando gli incontri con lo scorrere dei mesi, certo, ma non cessando del tutto neppure oggi. Quattordici anni dopo se ne va mia madre. Anche lei, all’improvviso, passando dal sonno alla morte, seduta in poltrona. Ma il transito non ebbe luogo nella casa di uno dei figli, bensì in una Casa per anziani di un paesino calamagnese. E furono, quei suoi 14 anni di sopravvivenza, anni di pianti, di tribolazioni fisiche e sofferenze morali per insospettabili défaillances che il trascorrere del tempo assistenziale scoprì nella disponibilità ospitale verso la madre e suocera vedova, sempre più leggera di corpo ma non di malanni e loro conseguenze. Coincidenza: la mamma morì pochi giorni dopo il matrimonio di Giampiero. E ancora mi chiedo quanto possa avere accelerato la “partenza” quel distacco dal calore filiale decretato dalla poco amorevole nuora giovane della Calamagna. Cieca, la sofferente vecchina, non si era resa conto subito del “trasloco”: quante volte, la notte, avrà chiamato invano il figlio assente, il figlio lontano, il figlio amatissimo? Questo pensiero ritornante, a intervalli bradi, mi soffoca con la sua rapsodica presa di artigli.
Per tacere di altre morti, precedenti quelle dei genitori: di zii e zie, per esempio, troppo vicini alla mia famiglia paterna, quindi alla mia. Con conseguenze mangia-tempo e qualche impegno finanziario poco compatibile con il mio stipendio dell’epoca, e tuttavia inevitabile. Ci ritornerò, forse, con più dettagli, nel corso della ricostruzione-narrazione di quei tempi lontani.
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Susanna, dunque. Non la vidi più, appunto, per i successivi sette anni. E fu un settennio denso di eventi: pubblici e privati. Ricordarli? Mah, un cenno, forse, non farà male allo zoppicante racconto di fatti sfrangiati: non foss’altro, per coerenza con la parte strettamente diaristica, sempre intrigata di “evenemenzialità” pubblica. E perché le piccole vicende sentimentali del binomio protagonista si vengono a trovare spesso intercalate fra gli eventi grossi delle tragedie planetarie. O delle commedie e feste di grande rimozione. Fra gli eventi mondiali, nuovi e vecchi, inerziali feroci conflitti mostruosamente armati: dal Vietnam all’Indonesia, dall’Africa affamata, e infestata dal molteplice indotto patogeno della condizione basale, all’incancrenito Medio Oriente arabo-israeliano. La frattura URSS-Cina fu, fra quegli eventi, il più traumatico per metà del mondo. Appassionò e divise drammaticamente anche la “Primavera di Praga” e il successivo inverno (altri, esagerando ad usum Delphini, preferisce dire inferno). La Guerra dei Sei Giorni (del giugno ’67) accese entusiasmi deliranti presso gli ammiratori senza riserve del “miracolo ebraico” in Palestina. Ricordo l’orgasmo sbavante di certi professoroni e professorini universitari (con e senza barba) sulle colonne del Corsera e di altri illustrissimi fogli del moderatismo filoamericano assoluto, cioè più strabico e cinicamente balordo. A me provocò rabbia, frustrazione, paura. Su una pagina dell’agenda-diario di quel giugno scrissi una specie di frase-definizione: “Israele, spina nel fianco dell’umanità”. Sbalordito dalla superiorità militare dello Stato ebraico, non me ne compiacevo come la stragrande maggioranza del “mondo democratico”, idest occidentale, perché la tracotanza e la sottintesa filosofia del grosso bastone di quella classe dirigente oscurarono il mio “cielo interno” di una cupezza previsionale mai più smessa. E purtroppo sempre confermata nel suo peggio, ancora virente, mentre proiettiamo su schermo di video-scrittura brandelli di ibrido passato.
Insomma, gli eventi pubblici e storici continuavano a influenzare la mia vita emotiva e intellettuale turbando le mie ore, ispirandomi articoli per i giornaletti locali cui collaboravo. E inserzioni nella routine, del resto per niente monotona, del mio lavoro scolastico: le classi miste del liceo classico, quando vi approdai rientrando nella Sicania, offrivano realtà umane più reattive agli chocs della storia in fieri e ai suoi nessi con quella dei libri. Il settennio comprese anche quella parziale rivincita e riscossa araba che fu la Guerra del Kippur. Per la prima volta nella sua insuperbita storia trionfale, lo Stato ebraico ebbe pan per focaccia: fu colto di sorpresa, e per alcuni giorni le prese di santa ragione. L’Egitto attaccante, dopo anni di preparazione militare assistita da’ un Urss discreta, fu in grado di applicare una specie di contrappasso al suo nemico storico. Mi si risveglia la soddisfazione di veder precipitare bruciando i caccia israeliani “bucati” in kulo dai “Sam 6” russi, i missili che inseguivano gli aerei, calamitati dal calore dei reattori: quanti ne caddero, sulle umiliate alture del Golan!
E non blasonare di calunnioso cinismo, quaderno, questo compiacimento a distanza. Non sono stato mai antisemita, e nei primi tempi del dopoguerra, quando non ero ancora bene informato, mi stupivo che si potessero “trattare male” gli sventurati ebrei scampati al macello infame della Shoah. Ogni volta che vedevo, al cinema o in televisione, documenti di quell’oscenità senza limiti, un ingorgo di lacrime mi stringeva la gola. Anzi, non raramente si scioglieva e tracimava dagli occhi: specialmente quando mostravano al martirio l’innocenza assoluta fatta carne, i bambini. Dentro, maturava la coscienza viscerale che enormità di quel livello avevano dato la misura definitiva dell’homo necans che s’annida nel cervello giurassico a insidiare, costantemente, l’homo sapiens del neopallio. Il quale peraltro, spesso celebrato come tempio inviolato della dea Ragione, domatrice dei ferini istinti, si mostra così indifeso verso l’“imperialismo” cogente del primo da fornirgli alibi speciosi e tortuose giustificazioni potenziatrici. Naturalmente, a suon di “maiuscole”. Che è, poi, il suo ruolo eminente e inconfessato. Basti pensare alla forza invincibile di “religio”.
Ancora oggi so, di questo sapere labirintico-pervasivo, che la razza umana è capace di tutto, anche del proprio annientamento. So che potrebbe ripetere una cento mille volte l’olocausto, questo sfregio inguaribile sul volto dell’umanità celebrata a parole e icone d’arte. E che, di fatto, l’ha ripetuto, sia pure in piccolo. O, a meglio dire, senza l’inarrivabile cima dello sterminio massivo scientificamente programmato. Sì, non mi vergogno a dirlo, ho pianto per le straripanti sofferenze di quel popolo, dei suoi individui in carne, umiliati, torturati, eliminati come insetti infestanti dalla più grossa sbornia della distruttività umana (per dirla con Fromm). Ma quando ho dovuto constatare la sbrigativa perentorietà assassina di certe rappresaglie israeliane ad atti di resistenza palestinesi paragonabili, nella luce di quelle “risposte” eccessive e ripetitive, a punture di spillo, mi sono sentito forzato a vedere che il nuovo Stato, incuneato nel cuore di un territorio straniero, da tredici secoli arabo-palestinese, usava con i cugini semiti metodi non paragonabili, no, ma certo compatibili, in scala, con quelli dei loro carnefici di ieri. Insomma, che stava facendo pagare, con durezza di modi sbrigativi, agli incolpevoli arabi le colpe degli europei. Dei cristianissimi civilissimi coltissimi europei, nonché inventori della democrazia tollerante accogliente umanitaria, e via celebrando. Come se secoli di pogrom, nell’Europa dell’ovest e dell’est, fossero stati invenzione dei palestinesi o di qualche altro popolo arabo. Come se l’iperbole infernale di ogni olocausto, la shoah, non l’avessero inventata e puntigliosamente realizzata dei cervelli tedeschi, cioè di una non secondaria porzione di Europa. Come se il nazismo e i nazisti non fossero parte e prodotto di quei tedeschi europei supercivili, cultori emeriti di arte filosofia letteratura scienza e musica. E i silenzi, le rimozioni, la finta ignoranza di popoli uomini politici autorità statali istituzionali e religiose non fossero complicità europee cristiane occidentali. Facile, oggi, salmodiare di dialogo fra religioni, irenismo multi-culturale e altro para-platonico flatus, anzi Bonum, vocis: ma chi ha inventato, e rispettato in sensibus et rebus, per venti secoli l’immonda assurdità del “popolo deicida”? indi, segnato da maledizione storico-metafisica? E pertanto fauna e terreno di bracconaggio per Stati predatori e popoli cristiani fertili di pogrom e “sacri macelli” ad Est e ad Ovest.
Come rifiutare, per chiudere, un omaggio a un primatista dell’oscenità sacrale al mitico fondatore dell’Università cattolica, il gesuita di cinica fama Agostino Gemelli? Questo capolavoro della cultura cattolica commentò la shoah sentenziando che gli ebrei stavano pagando la colpa di avere ucciso il Figlio di Dio. Mirabile esempio di come, in certe fisiologie, un’assurda favoletta metafisica possa generare mostri. E mostruosità settoriali.
*
Ma dove Cristo mi vado a cacciare? Al solito, mi lascio prendere la mano dalla passione. Bel filosofo, sono. In conclusione: non mi sento affatto anti-ebraico, continuo a pensare che l’Uomo, per quello che ha fatto agli ebrei e ad altri popoli, meriterebbe di sprofondare nel pozzo senza fondo del nulla eterno. Ma non smetterò di condannare, in pubblico e in privato, la sciagurata, sadica, e, a lungo andare, anche autolesionistica politica castrense dei Responsabili israeliani e della loro destra torvamente biblica. Come se dagli aguzzini storici, i capi israeliani, avessero imparato la durezza spietata dei conquistatori antichi. Ed eccoli a inseguire il sogno del Grande Israele, foraggiati e garantiti dalla superpotenza che ha usato, prima, e ancora unica nazione, l’inferno disumano detto bomba atomica, e per soprammercato contro inermi popolazioni civili. Una bella accoppiata. Alla quale dobbiamo il più recente regalo della perversione antropica: il radicalismo islamico. Novità crescente, ancora infante nel settennio, ma destinato a un fiammeggiante avvenire adulto.
La vocina del coboldo si è fatta sentire dentro l’orecchio medio: non ti vergogni di gioire per la morte dei piloti ebrei abbattuti sul Golan? Risposta, più o meno ponderata: non gioisco della morte di quei giovani, ma della lezione che hanno ricevuto i loro capi e la parte biblico-reazionaria della popolazione. Che sofista, sei, Paolo non di Tarso (forse di “metatarso” in fuga?). Sia come sia, a me dispiace sapere di esseri carnali (le piante soffrono di meno) che muoiono bruciati; ma quanti palestinesi, armati e inermi, sono stati massacrati e bruciati da quei guerrieri fino a ieri intoccabili? E quanti di quei bambini rientrano nella contabilità comoda degli “errori”? Unicuique suum.
Quanto alla facile risorsa di un polemos zoppo di sputare in faccia l’accusa di antisemistismo anche a chi si permette di criticare certi aspetti poco edificanti della cultura religiosa ebraica, be’, bisogna farci, come saggezza popolare suggerisce, e dice, il callo. E lasciar dire, e onorare l’evidenza e la verità fattuale. Ai miei studenti leggo, da qualche tempo, il testo della scomunica comminata al mite saggio pacifico Spinoza dalla comunità ebraica olandese. Quasi quasi la trascrivo: alla peggio, sarà un altro documento della mia dabbenaggine autolesionista. Ma sì, eccola, facciamola splendere in tutto il sulfureo orrore delle sue truci parole di odio teologico. Magari solo un passo esemplare.

Col giudizio degli angeli e la sentenza dei santi, noi dichiariamo Baruch de Espinoza scomunicato, esecrato, maledetto ed espulso, con l’assenso di tutta la sacra comunità, al cospetto dei sacri libri, nei quali sono scritti i seicento e trenta precetti, pronunciando contro di lui tutte le maledizioni con cui Eliseo colpì i fanciulli [sic] e tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge. Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia egli maledetto quando si corica e maledetto quando si alza; maledetto nell’uscire e maledetto nell’entrare. Possa il Signore mai più perdonarlo, né riconoscerlo; possano l’ira e la collera del Signore ardere d’ora innanzi quest’uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge e cancellare il suo nome dal cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità, da tutte le tribù d’Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni del Cielo contenute nel Libro della Legge; e possiate tutti voi, che siete obbedienti al Signore Iddio nostro essere salvi fin d’ora. / Siete tutti ammoniti, che d’ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dimorare sotto lo stesso suo tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti, e nessun leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno”

martedì 24 novembre 2009

Susanna, Frammento 47


Akiskene, Sicania.
26 dicembre, Ore 16,30

Multa paucis. Resumé di una cronaca saltata. Arrivati sabato pomeriggio da Zefiria. Viaggio in macchina, la Millecento bianca dell’avvocato Carolui, suocero virtuale del cognato. Con noi anche mio fratello Saverio detto Sasà, venuto a trovarci in Zefiria rientrando da Roma. Viaggio tranquillo, malgrado l’atmosfera natalizia.
Esplosione di felicità in casa dei miei genitori. Mamma non finiva più di baciarmi. E’ stata una di quelle “incontinenze” che s’incidono nella memoria emozionale con solchi indelebili. Aveva le lacrime agli occhi, di felicità a sorpresa. Si era temuto, infatti, che non venissimo, che fosse “accaduto qualcosa” a impedircelo. La stessa “carica”, naturalmente, su mio fratello. Ma non ci giurerei: lui, lo vede più spesso di me, che non vedeva dai primi di novembre. E poi: verso il primogenito ha avuto sempre un’inclinazione speciale: non per preferenze capricciose, sì piuttosto per una specie di compensazione alla mia minore saldezza fisica. Mi sa più debole, più vulnerabile, ero il bambino che si ammalava più volte l’anno, e sono rimasto il più fragile. E’ questa condizione di ansia apprensiva verso la mia complessione “cagionevole” che le ispira il piccolo supplemento di tenerezza. Non ero, aggiungo, soltanto meno saldo organicamente, ero anche meno bello. Sensibilmente meno. E se pure valga le regola che ogni scarafuni è bellu a mamma soi’, non credo che la mia sottovalutasse le differenze fra me e il secondo maschio (penultimo rampollo della nidiata). In sintesi, mamma è la sola persona di cui io possa dire sempre: ex abundantia enim cordis os loquitur (Vangelo di Matteo!). Citazione coerente con la sua ingenua fede. Anche mio padre era commosso; ma non è (questo è banale, lo so) la mamma. Felici, poi, gli ancora non proprio vecchi nonni, di rivedere, un po’ più grande, di volta in volta, il nipotino. Che pur essendo il quarto dei nipoti, in ordine di arrivo, ha il non piccolo vantaggio di essere il primo del primogenito. Minuzie, ma non senza peso nella coscienza affettiva di questi teneri avi, così ligi alle tradizioni. Giampiero è l’unico che porta intero il nome del nonno paterno. Naturalmente, li rallegra e rassicura anche la “buona tenuta” di Rina, mia moglie. Che però non è sangue del loro sangue.
Dopo l’incontro e la sosta lunga dai miei genitori, l’impatto con la nostra casa e i parenti di Rina: il padre e la seconda moglie, a loro volta molto affezionati a noi e innamorati del bambino. L’emozione del rientro, in me, è un po’ deteriorata, ma resiste. Molti libri sono a Zefiria, non c’è più il televisore, anch’esso trasferito nella Calamagna. Mancano, dunque, alcune condizioni del clima più caldo delle volte scorse. Ma va bene lo stesso: quanto rimane, basta a scaldare quel fesso del mio cuore matto di intenerita nostalgia per le mie povere cose, che l’affetto anima e vivifica. Soprattutto, le “cose di carta”: libri, ritagli, riviste; i miei articoli pubblicati, raccolti in carpette distinte per anno e giornale (o rivista) ospite.
Faceva freddo nella nostra casa sicanica. Tanto che ci siamo infilati, con gli abiti addosso, sotto le coperte. Io a leggere l’Espresso, mia moglie a riposare. Giampiero si era inserito a modo suo, facendo un gran tramestio tra la sua culla e il nostro letto. Così ci aveva trovati la zia Mara, sorella minore del suocero. E così ci ha trovati mio fratello, venuto a prenderci con la sua macchina, appena buio, per riportarci in casa dei genitori. Avevamo perduto la speranza di uscire; lieti, dunque, di poterlo fare. Ma soprattutto lieta Rina, che vive più di contatti corporali che di astratte letture, a lei non molto congeniali. E, nella logica delle corporalia, i contatti con i parenti primeggiano. Specialmente se c’è, come stasera, aria di festa e movimento di possibili novità. Ma altresì, feste a parte, per la fame di notizie parentali, di novità nella vita di cognate e cognati, nipoti acquisiti, suoceri e via seguitando. Disposizione, codesta, comune forse a tutte le donne sposine, nella misura di Rina o diversa che sia.
Nella vecchia casa paterna troviamo gli zii di Santa Faustina con le tre figliolette. Altri baci e abbracci, e come stai, come state, e bene o non c’è male, e così via. Clou dell’incontro con zii e cuginette: la meraviglia di noi parenti, e dei maschi in particolare, per l’eccezionale sviluppo fisico della figlia maggiore. Poco più che dodicenne, e forme da adolescente prosperosa. Un po’quello che era capitato con la mia seconda sorella; ma lei non aveva la robusta armonia anatomica della cuginetta: questa Giusy è alta quanto me, più ricolma di mia moglie, bella di viso. Insomma, l’orgoglio di mamma e papà. Di questo soprattutto, che se la porta in giro nei suoi spostamenti di lavoro, a riscuotere i complimenti degli amici. Piccolette le altre due, o piuttosto normali, di fronte all’eccezionalità della prima. La quale le stacca di appena due anni la seconda, e di quattro la terza.
Abbiamo cenato insieme, a base di salsiccia suina con pane e frutta. Poi giocato per poco meno di un paio d’ore a carte. Precisamente, a sette e mezzo, il gioco del periodo natalizio, secondo tradizione. Con “simboliche” lirette in campo.
Abbiamo anche guardato la televisione: canzonette e comiche di Charlot. Infine, verso le 23,30, il fidanzato della mia sorella minore ci ha riportati a casa, me e la famigliola, con la sua macchina nuova fiammante, una Giulia bianca-argento .
Ieri, a pranzo dai miei genitori. Invitata pure mia sorella Valeria, secondogenita e prima delle tre sorelle. Naturalmente, con la sua famiglia al completo: due più quattro. Così a tavola siamo stati 14 persone (incluso il ragazzo di Sonia, “la minore”). Prima del pranzo siamo stati a Realpolia, anzi quasi soltanto alla villa comunale, un luogo di grande attrazione per tutti i bambini, e non solo. I due Giampieri, il mio e quello di Valeria, quasi coetanei (il secondo di sei mesi “più grande”), se la sono goduta lanciando pezzettini di gallette ai due cigni nella vasca, sempre disponibili al gradimento. E si direbbe che le care bestiole non godano soltanto del cibo facile, ma anche di un gioco coinvolgente con i bambini che li sollecitano. Naturalmente i nostri due pargoli non erano soli alla “balconata” della grande vasca: una piccola folla eccitata di bambini, soli o accompagnati da adulti, facevano gara a nutrire le mitiche creature. La vasca semicircolare è mezzo ingrottata al suo diametro, e all’ingresso della grotta verdeggiano piante acquatiche. Per il tetto roccioso della grotta si attende, da anni, una scultura con soggetto sul mito di Giove fatto cigno fra le gambe della Leda.
Per il mio Giampiero, questo con i cigni è il divertimento d’obbligo ogni volta che si torna in Sicania dalla Calamagna. Una specie di rito. Quando si sono stancati del gioco con i nobili alati naviganti, i due piccoli scavezzacollo si sono lanciati a scorrazzare per i viali del parco. I quali, oltre ad essere tortuosi, sono anche slivellati, e alcuni con pendenza molto ripida. La “Villa”, infatti, si sviluppa sulla fiancata di un altopiano partendo dal livello medio del centro urbano, condiviso dalla fascia centrale del parco, ben pavimentata, e digrada fino a quello di una strada sottostante, circa 15 metri più giù. Il che ci procura un po’ d’ansietà per i rischi di cadute durante le corse dei bambini. Che per fortuna, nostra e del Natale in corso, stavolta non hanno avuto incidenti. Anzi, hanno trovato ancora energia per tirare calci a un pallone colorato ciascuno, da noi comprati sul momento.
A completare del suo acme più appassionante la festa dei due bambini è intervenuto un delizioso imprevisto: l’incontro con Babbo Natale. Il mio Giampiero era sbalordito sovreccitato confuso. “E’ Babbo Natale quello vero, papà?” “Sì, certo, quello vero”. Ma la fiducia nel sacro Verbo paterno non bastava a rintuzzare la sua congenita insicurezza, a placarne la conseguente diffidenza e perplessità: la domanda si ripeteva: “Babbo Natale quello vero, papà, quello vero?”. Ed io a rassicurarlo dell’autenticità del rosso-bianco e super-barbuto personaggio della sua mitologia, replicando alla sua replica ansiosa. Quasi mi convincevo anch’io di avere davanti “Babbo Natale quello vero”! Il piccolo se lo mangiava con gli occhietti avidi e sbarrati, la boccuccia aperta, tutto il corpo teso al miracolo. Avrai capito, quaderno, che era “la prima volta” di Giampiero: fino a quel
momento il suo Babbo Natale aveva avuto la diafana consistenza delle figure su albi e volumetti a colori per la sua fascia d’età; e quella, meno irreale perché semovente, delle immagini televisive, che tuttavia appartengono anch’esse all’ “altrove” dell’irraggiungibilità corporale. Ora quella sorta di Verbo astratto bidimensionale gli si incarnava davanti agli occhi, diventava corpo, realtà piena, verità tangibile. Ma a toccarlo esitava, il piccolo, scioccato da tanta sorpresa. A poco a poco, comunque, incoraggiato dall’estroverso e ciarliero Babbo Natale e un po’ aiutato dal meno traumatizzato cuginetto, venne assimilando quella specie di trascendenza fenomenizzata. E mise in allerta tutti i sensi, tatto incluso, a sfiorare con le manine tremule quella stoffa di fiamma e le barbe di candida neve finta. Quanto all’udito, le orecchie venivano carezzate dal suono molle e dolcemente lamentoso delle cornamuse che seguivano, imbracciate da giovani suonatori specializzati. Non solo, c’era anche la voce del Babbo Natale “vero”, il quale gli parlò e ci parlò, augurandoci “Buon Natale, buon Natale a tutti, e tanti auguri, tanti buoni auguri, specialmente ai bambini!” Io feci per cavare qualche moneta dalla tasca, ma quel Babbo Natale rosso dalla bianca barba di stoppa mi fermò dolcemente la mano (sacrilega?) e con soddisfatta voce di convinzione profonda, sorridendo, mi disse: “No, niente soldi!” E tirò fuori dei cartoncini colorati offrendoli a noi adulti. “E non debbo pagarli?”, dissi io, forse per annacquare l’idea mortificante dell’elemosina. “No, non si pagano”, rispose il Babbo Natale che aveva preso l’iniziativa (intanto ne sopraggiungeva una copia non meno reale e movimentata). E diede un cartoncino a me, uno a mia moglie, uno alla nipotina Rosanna (sorvola, quaderno, sulla spinosa rima e quasi omonimia: non maculiamo l’innocenza), e due caramelle ciascuno ai bambini. Insomma, il miracolo era un filato di sorprese in successione “fatale”: così Giampiero mangiò, o meglio succhiò indugiando la caramella del Babbo Natale vero. L’apparizione del secondo Babbo complicò ancora un po’ l’emozione del piccolo introverso. Domanda e chiarimento: sì, Giampiero, i Babbo Natale sono tanti, tutti fratelli. Avrebbe dimenticato mai quell’autentico prodigio, quella mezza giornata magica?
Qualche minuto dopo la mitofania, un po’ discosto dagli altri, lessi in un lampo, sul mio, la scritta dei cartoncini: “L’onorevole Pino Galappo augura Buon Natale e felice Anno Nuovo”. Potei farne a pezzettini uno solo, l’altro, di Rina, era la reliquia di mio figlio. L’onorevole, cioè consigliere regionale, era uno dei politici più chiacchierati del collegio elettorale, anzi dell’intera provincia, anzi dell’intera Regione. Praticamente mio coetaneo, l’onorevole era stato un quasi amico della mia fanciullezza e adolescenza, un compagno (ai miei tempi d’infante e di boy si diceva così: compagno) di Azione Cattolica, un compaesano. Con l’ovvio appoggio della Innominabile, era diventato, come tanti personaggi della Diccì, una piccola potenza locale: un notabile da blandire con tributi di voti per posti di lavoro e favori diversi. Ci cascò un mio cugino, spinto dai poveri genitori dolenti, che riceveva promesse ad ogni tornata elettorale, e oltre a sommette di denaro “per le spese” del suo galoppinaggio, non riuscì a strappargli mai altro. Insomma, un mediocre esemplare di traffichino, la figura più diffusa delle nostre contrade; più della parietaria sui nostri muri di campagna e di cortile. Aveva sguinzagliato i suoi Babbo Natale per la città.
Vulpem pilum mutare, non mores (Svetonio). E la Sicilia di Sciascia, sempre più pervasiva, colonizza anche l’innocenza.
La sera, a casa, Giampiero pensosamente condensò in domande precise un’impressione rimasta allo stato fluido durante l’incontro magico.

27Dicembre,
sera tarda

Continuo la cronachetta iniziata ieri.
A casa dei miei, prima del pranzo, una visita alle stanze del primo piano e all’attiguo terrazzino panoramico (la già descritta stanza mancata): insomma, l’ambiente del sognone raccontato più sù. La rituale visita-dei-rientri ai luoghi della mia infanzia, e adolescenza, e prima giovinezza. Insomma, ai “miei luoghi”. Il tempo a disposizione dell’idillio era scarso, perciò le solite emozioni sono rimaste strozzate dalla fretta: spalmo un rapido sguardo memore sulle fotografie grandi, incorniciate, dei nonni paterni, appese alla parete di sinistra entrando nella prima stanza; su quelle piccole dello zio Silvio, l’Africano, posteggiate sul ripiano del comò; sulle carte nei vecchi cassetti, i libri, miei e dello zio, giornali, riviste; uno scatolone di cartone pieno della stessa roba. Un armadio screpolato dal tempo, paziente roditore, coadiuvato da mini-parassiti xilotrofici, pieno di vecchi indumenti smessi di vari familiari. Un secondo armadio, diverso dal primo, ma, come quello, addossato a una parete, e con l’identico ruolo di ripostiglio del passato. C’è pure, nella prima stanza, il desco da calzolaio di mio padre: talmente vecchio e rattoppato da suggerire l’idea di un ectoplasma della Vecchiezza in persona. E nero, poi, tutto punteggiato di chiodi e “semenze” (chiodini sfaccettati di varia minore misura) infissi a diverse latitudini del monumento; di buchi, e tagli, e screpolature di servizio o di puro capriccio. Quest’ultima qualifica vuole introdurre la confessione che buona parte di quei ricami (chiodini, in particolare) erano opera della mia mano di ventotto o trent’anni fa; taluni, forse, meno remoti, ma di poco. Da trent’anni quegli interventi infantili, non proibiti da papà, mi aspettano, come per un appuntamento sottinteso: piccoli scrigni di ricordi spenti e non più localizzabili. E ora mio figlio, questa parziale riedizione corretta (spero in meglio in tutto) si accosta al deschetto come l’Atteso dell’appuntamento generazionale. Per cavarne cosa, poi? Niente di preciso: solo un confuso rimescolio umorale, una specie di strappo alla gola, una fittarella allo stomaco, al cervello una specie di prurito, in un conato o illusione di continuità aperta a vaghissime speranze. Ancora una volta: di che? Forse di rivincite, di recuperi, di correzioni alla “prima edizione”, così carente in tenacia e ambiziosa assiduità. Forse solo la certezza fisiologica della continuità organica comunque garantita in faccia all’Esattore crudele dell’ultimo approdo, o naufragio che sia. Ho già detto al piccolo che quelle capocchie di “tacce” e chiodini e “semenzine” le ha ficcate in tutti quei posti il suo papà quando aveva la sua età o poco più. Labirinti dell’“anima”!
*
E quei giornalini illustrati, ancora; quei fumetti che accesero per anni la mia fantasia in crescita. Gli eroi dei miei dieci, dodici, quindici e sedici anni, inerzialmente confermati fino ai venti e passa, che mi agitavano il sangue infiammabile: Topolino, e la sua “corte”; Raf, la perfezione umana negli spazi planetari; e Gordon, il precursore straniero di Raf (e di lui tanto più famoso), e Cino e Franco, L’Uomo mascherato, Mandrake, Leardo... Le trame, certo, affascinavano, l’avventura avvinceva; ma erano le illustrazioni a sedurmi di più. Tra le tavole primeggiavano nel mio incanto quelle di Raf, creazione del pennarello magico di Vittorio Cossio. Divoravo le sue figure umane, robuste e con certe braccia e gambe e pettorali da prendersi tutta la mia ammirazione sospirosa di corpicino magrolino, con strutture osse poco “espanse”. Altri illustratori eccellenti, nel mio firmamento personale, erano Alex Raymond (al meglio del suo raffinato meriggio), il padre figurativo di Gordon (che conobbi molto tempo dopo Raf), Rino Albertarelli, con i magnifici quadri del “Faust” topolinesco; e successivamente, Aurelio Galleppini, disegnatore di racconti storici su Topolino e poi del fortunatissimo Tex Willer. Galleppini (in firma, Galep): l’artista dei marcati rilievi, dei chiaroscuri sbalzanti. Ma potrei citarne tanti altri ancora. La preferenza per le vignette ha una radice genetica: certa mia non spregevole attitudine al disegno figurativo (a scuola si distingueva come “ornato” dal geometrico). Quante scenette copiai da quei fumetti incantatori! E quante ne composi mescolando elementi di vari originali, alcune funzionali a tentativi incompiuti di racconti per un progetto-sogno di giornalino mai arrivato in tipografia.
Per qualche inafferrabile attimo riemerge dai miei anfratti psico-molecolari l’emozione intatta del loro arrivo settimanale. E l’attesa febbrile del giorno segnato, col risvolto della delusione cocente da qualche ritardo nell’arrivo. In questo angolo mnestico, l’emozione più deprivante, quasi di angoscia, la ebbi alla sospensione sicanica dei giornalini durante l’estate del ’43, il drammatico periodo dell’emergenza bellica: sbarco degli Alleati (la notte tra il 9 e il 10 luglio, con l’impegno di 3000 navi), bombe a gogò, l’Italia tagliata in due, la guerra che ci venne a stanare dalle nostre case. Non più soltanto sporadici agguati aerei ai civili delle città inermi (cominciati già del novembre del ’41: per errore, si disse e pretese.), ma eserciti di terra supermetallizzati a calpestare le nostre contrade seminandovi morti in divisa e senza, proiettili di mitraglia e bombe (perfino incendiarie) dal cielo, speranza e disperazione. Chissà quanto è durata quell’emergenza e quella sospensione, scolpita così indelebilmente nel ricordo di certe sue scene-madri.
Mi viene naturale associare questo tipo di esperienza emozionale con altre di pari intensità ma diverse per genere e genesi: per esempio, l’emozione del primo sì amoroso, il sì, di voce o, più probabilmente, di sguardi e stretta di mano, della prima ragazza amata, l’arrivo della fidanzatina all’appuntamento, il primo contatto col seno nudo della prima fiamma, quel celeste pomo di Eva che riempì la mia mano tremante: et coelum digito tetigi. Ma anche all’emozione del primo scrittarello tradotto in caratteri di stampa: un ampio articolo su Malaparte (polemico con i corvi sacri cacciatori di anime in transito) pubblicato nel giornalino universitario, Ateneo studentesco (con strascichi di vibrate proteste di provenienza bigotta). E poi, più forte, l’emozione del primo saggio apparso sulla rivista del prof. Lastrada, trimestrale di Filosofia teoretica fin dal nome. Trattava di Kierkegaard, ed era un capitolo della mia tesi di laurea. Mi sentivo sollevato nell’empireo dell’immortalità. Magari al suo primo e più basso gradino, ma pur sempre su quella scalinata dalla cima ancora nebulosa, ma disponibile alla conquista, sol che avessi voluto, fortemente voluto. Come non era, purtroppo, il mio caso (ma allora non lo sapevo). Analoga anche l’emozione della mia prima collaborazione alla terza pagina del quotidiano sicanico, Gazzetta dello Stretto. Emozione, quest’ultima, che rinnova, ancora in questo segmento di Crono magnogreco, la sua magica presa ad ogni approdo di un mio scritto su quel foglio non facile (per me, eretico). Lo stesso accade con le recensioni che mando al prof. Volpicelli, che mi consente estensioni del testo meno anguste del quotidiano. E, particolare non secondario, mi regala dei preziosi estratti che mimano e surrogano il libro ancora latitante dalle mie contrade di “seconda vita”.
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28dicembre,
ore 22,30

Seguito della cronachina. Ancora un deposito di caldi affetti: la stanza dello zio Silvio. Le sue cose: il tavolo di lavoro, la Olivetti Lettera 22, le sedie, i quadretti alle pareti, la corrispondenza nei cassetti e nel portacarte... Il bagno, il piccolo bagno con doccia e bidè, specchio con mensola e contorno per la barba, voluto da lui, che amava la pulizia e del corpo aveva estrema cura: lo aveva fatto costruire in un angolo del terrazzino, a ridosso del muretto basso, verso sud. Pulizia e indipendenza, da garantirsi appunto con un nuovo locale-bagno personale. Necessità moltiplicata, in seguito, dalla tremenda malattia, che, ormai conclamata, lo costringeva a frequenti abluzioni per via delle vene emorroidali spesso emorragiche. Anche iniziativa sua erano stati gli altri interventi al primo piano della vecchia casa paterna: restauro di fenditure murarie, ritintura delle pareti, sostituzione delle vecchie mattonelle con nuove e più eleganti. Questa stanza, insomma, è la testimone logistica della sua personalità, del suo stile di vita: lavoro, ordine, pulizia, precisione, coraggio nelle avversità (anche le più dolorose)
Il suo diploma di “capitano di lungo corso” alla parete. Un’altra puntura sulla carne dell’anima. Avrebbe dovuto percorrere una carriera di comandante navale, ma la vita lo aveva sviato su altri sentieri. Eppure, dovunque si applicasse, riusciva. Pensarne l’attuale realtà di poltiglia fetida è stato un lampo di amara vergogna. Infondata? Certo. A lume di logica. Nel fuoco occulto delle emozioni revoltées, una specie di mortificazione tentacolare: perché non ne abbiamo disposto la cremazione? Ma come potevamo? Una cosa tanto remota dai costumi locali. Perché, forse, non lo abbiamo protetto come meritava? E’ una possibilità. Ma si può proteggere qualcuno da una cirrosi avanzata? Perché si è avuto qualche moto di insofferenza in seno alla famiglia per i pesi imposti dalla sua presenza malata in crescente espansione di bisogni ed esigenze? Da parte femminile, soprattutto, dove invidiuzze e gelosie allignano favorite dalla fisiologia uterina. La quale constatava come gratuita ingiustizia subita il fatto che la zia Vanna, colei che più aveva goduto della protezione finanziaria di lui, e ne aveva determinato la rovina economica (o ne era, almeno, la causa principale), se ne stava lontana e al sicuro in casa sua, nel paesello subetneo, mentre le nipoti e la cognata, cioè le mie sorelle ancora nubili e mia madre, eterna martire di casa, dovevano reggere l’intero peso della sua non leggera assistenza.
Ma la fretta non concede alle mie cellule di fermarsi sul vischioso stagno: solo una lunga, quasi indolore trafittura per tutti gli angoli del corpo, che ora, sul quaderno, si è stirata in questo filato verbale reticente. Magari con la coda di una velleitaria promessa di dire un giorno più a lungo questo groviglio. Un giorno: ma quando?

27 gennaio
ore 23,30

Una notizia tragica dal mondo allegro dello spettacolo: Alle due e trenta di questa mattina Luigi Tenco si è sparato un colpo di pistola in una stanza dell’Hotel Savoy di Sanremo. Così dai notiziari radiofonici di oggi. Seguiti dai servizi televisivi. La notizia mi colpisce come un pugno allo stomaco: un giovane che rinuncia alla vita fa sempre impressione. Fioriscono le domande sulle probabili cause, ma con un convergere prevalente sulla bocciatura al festival: il suicidio come gesto di protesta contro l’ingiustizia del duplice verdetto, del pubblico e della giuria. E’ troppo presto per azzardare un giudizio ponderato sulla canzone “incompresa”, a una prima lettura emotiva “Ciao amore, ciao” non mi pare brutta, e la sua esclusione sa di incomprensione. Ha un’allure quasi epica con venature struggenti in quella ampiezza di sonorità iterativa del titolo-saluto. Non seguo molto le vicende del genere canzonetta, ma dal poco che mi è capitato di ascoltare della non folta produzione di Tenco mi sento di dire che era un ragazzo serio sensibile intelligente e con buona disposizione ritmica. “E lontano lontano” è una buona canzone, e anche nelle poche altre che in parte ricordo Tenco ha coraggio di protesta e denuncia delle magagne sociali. Canzoni impegnate, le sue, che hanno dato fastidio alla brava gente che conta. Al punto da farsi escludere dai baci di mamma Rai per un paio di anni. Lo ricordo nel film di Luciano Salce, “La cuccagna”, di qualche anno fa. Niente di eccezionale, ma pur sempre un test della sua versatilità.
Stasera non parlerò delle mie lagne personali.

6 febbraio

Un pianto mi piove nel cuore/ col bruir della pioggia sui tetti/...Che è mai, questo dolce languore, / che tutto mi penetra il cuore?/ O dolce bruire di pioggia,/ per la terra, le strade, e sui tetti!/ Oh! Per un cuor che si aduggia/ il pianto che piange la pioggia.
Verlaine, Romanza senza parole1

Non posso riportare i versi che seguono, quaderno, e tu sai perché: il nostro pianto (senza lacrime, ma non meno cocente) è tutt’altro che “senza ragione”; il mio “cuor che s’accora” non frigge di “inesplicata passione”, ma di passione abbagliata da un sole plurimo; e da alcuni suoi volti bruciata. Ah, traditrice spergiura e mentitrice senza fantasia!

Magari, continuando a sfogliare il grosso volume, fermarsi su un’altra e congruente composizione. Per esempio, questa:
Oh, la pioggia! Oh, l’autunno! Le sere sconsolate!/ Oh, la pioggia! Oh, la pioggia! Oh, quelle strisce lente!/[...] E’ una rete, la pioggia, pei sogni trapassati./ Con l’ali prigioniere nelle maglie, crudeli,/ quei divini usignoli dai gorgheggi accorati/ muoiono pel rimpianto di luminosi cieli./ E’ una rete, la pioggia, pei sogni trapassati/ Vessillo intriso d’acqua che sull’asta si affloscia,/ se la pioggia spietata risveglia il suo dolore,/ e la penetra e inzuppa quanto d’inverno scroscia,/ non è l’anima nostra che uno straccio incolore,/ vessillo intriso d’acqua che sull’asta si affloscia.

George Rodenbach, La pioggia, (ivi)

Insomma, piove. Da ieri sera. E ha piovuto tutta la notte. Tra i suoi molteplici effetti cattivi (ci sono pure quelli buoni: per la campagna, per esempio), c’è che ha rovinato il Carnevale della vicina Realpolia: una tradizione ferrea, un appuntamento atteso, oltre che dalla città promotrice, da un hinterland vasto e variegato, che dai monti sotto Mongibello scende alla marina, una settimana di festeggiamenti, con carri allegorici, macchine infiorate, gruppi mascherati, tenere sbandieratrici adolescenti in sventolanti gonnellini colorati, danze esotiche. E sudamericane bellezze quasi nude (ghiottissimo pasto visivo per un maschilato vasto e vario quanto il territorio coinvolto). Poi tanta musica, giochi di coriandoli e scherzi meno innocenti, per folle strabocchevoli che riempiono le principali strade del centro storico e sciamano anche nelle secondarie, magari in cerca di ristori trofici. Insomma, un evento paragonabile ai saturnali viareggini, e un po’ al più antico e aristocratico rito veneziano. Del quale copia i balli al chiuso (alberghi e altro) fino al mattino.
La pioggia, dunque. Anche qui, con un ventaglio di pieghe diverse: ha rovinato il piacere a lungo atteso della festa nelle piazze e per le strade; e passi; ha rovinato la soddisfazione dei politici del comitato organizzatore; e strapassi. Ma, soprattutto, ha rovinato i venditori di coriandoli e degli altri gadget saturnini Chi li risarcirà? Giove pluvio è lontano (anche nelle sue versioncelle politiche, così mediocri e poco solidali). Meno precaria la sorte dei costruttori di carri e macchine infiorate in gara: magari con ritardo, ma avranno la loro fetta di finanze stanziate per l’occasione. Naturalmente, con lo scontento di ogni anno sui verdetti della giuria, risparmiato soltanto ai vincitori dei primi e secondi premi.
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Ero indeciso fino all’ultima ora: partire o non partire? Il dilemma oscillava inceppato nell’equilibrio tra la pressione coniugale orientata al rientro sicanico, e la memoria atterrita del viaggio sotto la pioggia e per contrade non nuove a disastri alluvionali. A risolverlo, spezzando l’impasse, è intervenuta la spinta decisiva del bisogno di rottura. Rottura della deprimente routine dei giorni zefiresi tutti uguali negli ultimi mesi di deserto amicale. E invano tentati al superamento del grigio-cenere dal surrogato della magna Assenza. La quale continua a invadere le mie lande oniriche, con frequenza svergognata di provocazioni derisorie. E ogni giorno di più s’accosta al margine lungamente trasceso dell’eros distruttivo (quello, per intenderci, che la lingua comune chiama odio). Tanto che fa fatica, il mio cervello intossicato, a fermare a mezza strada il godimento calcolatorio di un’eventuale chance demolitrice di argini fisici fra l’Incognita e il mio corpo deluso.
Troppo ermetismo, quaderno? Capisco, ma come osare la luce del sole con tanto scintillare di recettori puntati? Ho accumulato troppa fifa nei miei micro-buchi neuronici dagli ultimi eventi, e non sento affatto il bisogno di peggiorare le cose con penose conseguenze di fatue imprudenze. Alle solite? Lo so.
Ripigliando. Non che goccioli nel cuore il pianto di Verlaine, né mi canta dentro la melopea di Rodembach; ma certo “E’ una rete, la pioggia, pei sogni trapassati”. E la cosa non muta granché se facciamo le debite traduzioni e al posto del cuore “metafisico” mettiamo la pompa muscolare semovente che manda il sangue dal cervello ai genitali. Né se i sogni si denudano in bit di informazione elettronicamente circolanti dai corpi cavernosi alle papille tattili dei polpastrelli, e da queste alle ciglia vibratili della mucosa olfattiva. Potremmo quasi concludere con un “Ah, la tua presenza circolante in sciami di ioni molecolari fra le distanze intrecciate dei distretti corporali!” Troppo “letterale”, il verbo scientifico? E allora torniamo all’anima “vessillo intriso d’acqua che sull’asta s’affloscia.”
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Postilla del trentennio. Virtualissimo lettore del Tremila, se mai ti fosse toccata in sorte dal distributore random del Dna la pazienza di un medio lettore del medio ventesimo secolo; o, detto altrimenti, se ti fossi avventurato in discreta salute fino a questa pagina, dovresti essere già abbastanza vaccinato contro il prurito indotto del “ dire in chiave” e del confessare cifrato, tanto presente in questo coacervo narrativo. Perciò ti basterà il seguente cenno che aggiungo alla trascrizione appena corretta della pagina parzialmente riprodotta. Avrai capito che ero incavolato nero con la mia affascinante traditora, e cominciavo ad averne abbastanza delle sue incursioni nei miei sogni. Tanto da non sentire il bisogno di raccontarli come nei primi mesi del suo “trasloco”? Non lo so: le tracce scritte di quell’avventura continuano a sbucare da nascondigli dimenticati, a riemergere da masse cartacee compresse in cassetti fuori mano. Magari un giorno troverò altri appunti, come questo quaderno ignorato fino a qualche mese fa, e vi leggerò dei sogni meno lontani, ma oggi non conosco altri appunti sull’argomento.(Oggi: quale oggi? Come si fa a dirlo se, da un mese all’altro si ritorna sul detto, che non viene sempre confermato?). Se mi capisco bene a tanta lontananza dall’essudato ermetico, mi auguravo addirittura di riuscire a odiarla. E fantasticavo, pare, di un possibile, anche se non probabile, incontro futuro in circostanze tali da farmi rimediare alle rinunce etiche dei giorni radiosi con una rabbiosa aria di rivalsa punitiva. Mi concedevo, perfino, poco virilmente, un anticipo virtuale di piacere “calcolatorio”. In sostanza, ero proprio ridotto maluccio.

In ogni modo, questa pioggia che mi ha impedito di raggiungere la grande Liotria, dove speravo di trovare i quotidiani irreperibili a Zefiria, mi ha rimesso in mano il bel volume di Vincenzo Errante, Parnassiani e simbolisti francesi, regalo della 4a E, anno 1962, dello stesso magistrale, (quell’anno vi insegnavo, da supplente annuale, italiano e geografia economica) protagonista, per ... sineddoche e metonimia insieme, di questo tormentato, sbilenco, divagatorio e pletorico tentativo di racconto. Dalle pagine del volumone sansoniano (1953), gli sciami fotonici sollevano risposte ioniche interne, e disegnano figure di quell’anno, volti di fanciulle di quella classe: miti e studiose e di serena bellezza acqua e sapone come Antonella R. (che rivedo, timidamente lampeggiante dai begli occhi platonici, seduta al primo banco); svelte e sveglie, perfino un po’ civette, come Rosalba L., con sguardi di risacca (ricordava un po’, ma senza valicarne la distanza, la prima “Bond girl”, Ursula Andress; quel 1962 è anche l’anno iniziale della serie bondesca: “007, licenza di uccidere”); in là con gli anni, come la Agata T., mia quasi coetanea ventottenne (che avevo fatto arrossire, segnalandole il presunto errore della sua data di nascita scritta sul documento scolastico – non senza divertito imbarazzo della classe); o come la Luigina S. ventitreenne, vergine (è doveroso supporre) in propensione maritale, alla cui “rampicante” mano devo la verticalizzata scrittura di una generosa dedica sul primo foglio bianco semicartonato dietro la copertina del libro. Che commoventi parole: “Al professore Paolo Assaggi, che con profonda dedizione ci ha seguite nel corso dei nostri studi, la IV E offre questo pensiero con l’augurio che la sete del sapere non venga mai meno”
La sete del sapere, forse, no. Ma la forza, probabilmente, sì. La forza di bere si logora, cara Luigina. Già nel quinquennio trascorso qualcosa è mutato, e non in meglio. Ma non voglio esagerare. Solo che mi fa paura il motore: lavora già da 35 anni e mezzo, e gli capita di dare segni di stanchezza.

Trascrivo una perla della collana “Le Canzoni di Bilitis” di Pierre Louys (sez. III. Epigrammi nell’isola di Cipro) La pioggia al mattino. “La notte sbiadisce. Le stelle si allontanano. Le ultime cortigiane sono rientrate con i loro amanti. Ed io, nella pioggia del mattino, scrivo questi versi sulla sabbia. / Le foglie sono tutte imbrillantate di rugiada. Lungo i sentieri, i ruscelli trascinano via terra e foglie morte. La pioggia, a goccia a goccia, fa buchi nella mia canzone. /Oh, come son qui, triste e sola! I più giovani non mi guardano neppure. Gli anziani mi hanno ormai dimenticata. /Apprenderanno, però, a memoria i miei versi. E così anche i figli dei loro figli. / “Ecco ciò che né Mirtale, né Thaìs, né Glikera potranno dire, il giorno in cui le loro guance saranno avvizzite. Ma le coppie destinate ad amarsi dopo di me, canteranno le mie strofe a una voce”.
Ed ecco la motrice “associazione delle idee”. La settimana scorsa ho visto nella libreria Melato di Zefiria un volume elegante che conteneva la “Canzone di Bilitis tradotta e introdotta da Pierre Louys”. Non mancava neanche un fine cofanetto impreziosito da illustrazioni. Costava 5000 lire. Visto il mio interesse, il libraio mi incoraggiava a comprarlo, lo pagassi come e quando volevo. Ma io posso permettermi libri che costino, al massimo, intorno alle mille lire. Altro nesso associativo: in quella libreria, un lustro fa, capitava spesso Lorena, l’alunna che mi guardava con occhi languidi, mentre io le sorridevo e la trattavo paternamente (lei era senza padre). E non era brutta. Affatto. Ero io indisponibile: serio professionale sposo tranquillo e prossimo padre. Certo, non aveva neppure la seduttività travolgente dell’Infedele. Forse in quest’incontro plurimo con la pioggia assumo soprattutto l’aria di rivalsa del finale. Però io non scrivo più versi da dieci anni. Che c’entra? Anche un romanzo d’amore può essere letto dalle “coppie destinate ad amarsi dopo di me”. Ma con quel che precede, cosa c’entro, io? Trappole della suggestione. E delizia del quadretto poetico (elegia en revanche), con le stelle in dissolvenza, i ruscelli che trascinano foglie morte, gli amanti in rientro. E quella pioggia che fa buchi nella sua canzone.
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Come ogni volta che torniamo da Zefiria, anche ieri siamo stati ospiti dei miei genitori. In attesa del pranzo sono salito al primo piano. La stanza dello zio Silvio mi attira. Mi è venuto dietro mio padre. Entrambi, constatando l’ordine dei suoi carteggi, ne abbiamo lodato (non per la prima volta) la vocazione alla precisione, alla pulizia, al rispetto delle forme, inteso anche come rispetto degli altri. Quelle carte, quei mobili rinnovati, quelle pareti – se non fosse una sciocca frase fatta – direi che piangono l’assenza della sua anima. Non mi vergogno di dire che a volte mi si addensa in gola un nodo di pianto. Che forse faccio male a non lasciare fluire con infantile libertà. Ma c’è un altro ostacolo: un anno di Crono è un percorso lungo da smaltire senza indebolire emozioni e “memorie di giornata”. E il corpo, nel mezzo del cammin di nostra vita, ha da badare anche alla sua omeostasi. Tuttavia...
Altre vie della distrazione dal cuore della piaga: lo studio. Sto lavorando da qualche mese, a un tentativo di saggio filosofico propostomi da Gulizza attraverso Rama (arcades ambo!). Lo si vorrebbe snello e agile, nonché, ovviamente, di gradevole e facilitata lettura. E qui mi sa che cadrà l’asino. Troppa grazia, sant’Antonio (Rama). E San Giuseppe (Gulizza): troppe buone virtù in un sol colpo! Intanto confesso di lavorare poco e non bene. Anche se ho più tempo a disposizione. Le idee mi si gonfiano e slargano fra i tasti pigiati con furia; i buoni propositi di brevità e concisione mi puzzano di superficialità, e si afflosciano. E così vago e divago, oscillando tra questa puzza e la paura del troppo che non perviene a determinarsi. Per bulimia cartacea e scarso autocontrollo, il pendolo mi scarica i neuroni, pur sensibili al progetto, e i giorni piovono in sabbia di clessidra con rari coaguli di “saldo in gemme”.

Neanche questa volta, dunque? Neanche in questa occasione riuscirò ad assemblare in duri confini un libro, il mio primo libro? Neanche ora che ho saputo di quell’imberbe compaesano in carriera di prossimo approdo editoriale alto? Faticando e recitando, il cattolico militante Ciccio Savòna è riuscito a conquistare il fiero laico e marxista professor Busciacorto, e sotto la sua mano benedicente sta per stampare presso il Grande Editore (un’antologia pariniana). Lui, mio compaesano, protetto dal barone nemico del mio amico, ed eminenza grigia della grande casa editrice, avanza dritto e motivato sulla via solare dell’avvenire accademico; io, con al fianco un nume tutelare che non è buono a tutelare se stesso, non faccio che esitare, divagare, ingozzarmi di letture in vista del libro, ma non riesco che a scrivere qualche discreto articolo. Che ci vorrà mai per caricarmi fino ai torchi?
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Questa nostra casa del paesello sicanico: odi et amo. Ma più il secondo che il primo verbo veicola i miei sentimenti profondi. La stanza grande dove sto a scrivere: alta, un soffitto a “volta reale”, espansa in superficie e in volume quanto tre delle nuove stanzette condominiali, mi affascina. Parte di un vecchio palazzotto signorile, è una specie di anomalia edilizia: muri spessi poco meno di un metro, fondamenta su base lavica, fresca d’estate e mai tropo fredda d’inverno, è il cuore pulsante della casa tutta, che non ha altre stanze così spaziose. I libri, come tanti malinconici manichini colorati, stimolano il senso di vergogna e insieme l’appetito del cervello mai sazio di letture. Vorrei potermene stare per mesi interi a letto, scarico di ogni responsabilità, finché potessi leggerli tutti.
* * *

FINE DELLA PRIMA PARTE

sabato 21 novembre 2009

Susanna, frammento 46


25 novembre,
primo pomeriggio

Dal serio-frivolo personale al tragico della storia universale: oggi ricorre il terzo anniversario del funerale di J.F.K. Tre giorni fa, quello dell’attentato mortale nella città del petrolio miliardario e del dollaro mammonico. Ne ho parlato a scuola, e i nuovi alunni di sesso maschile hanno seguito con partecipe attenzione la mia rievocazione. Ho fatto leggere nella classe IV il mio editoriale di due anni fa (Gazzettino d. g.) sul Rapporto Warren, offesa alla verità e al dolore dei Kennedy: ho segmentato il lungo articolo fra i tre studenti più interessati alla politica. Poi ho invitato la classe a commentare lo scritto. I più condividevano le mie argomentazioni (per nulla originali, peraltro, ma nuove per loro) in appoggio alla tesi del complotto. Qualcuno, di famiglia democristiana e padre politico, ha espresso dubbi sulla tesi, cioè si è schierato con l’interpretazione indolore del tragico evento avallata dalla Commisione d’inchiesta. Ho replicato aggiungendo altre notizie e considerazioni personali sull’impossibilità che un mezzo squilibrato come Oswald potesse architettare ed eseguire da solo quel po’ po’ di progetto criminale. E ricordato tutti gli elementi di prova contro l’unicità esecutiva e direzionale degli spari (provenienti, in realtà, da più parti), la troppo facile uccisione di Oswald da parte del grassone Ruby in mezzo ai tanti poliziotti di scorta, la morte in carcere del giustiziere improbabile e tanti altri segnali e indizi convergenti sull’ipotesi ferrigna della congiura a più teste. Senza trascurare il fatto che il povero Oswald dal passato serpentino si era sempre dichiarato capro espiatorio di ben diverse presenze in campo. Il ragazzo rimase perplesso, ma meno di prima, e certamente scosso dai miei argomenti cui non poteva opporre nessuna informazione di altra fonte.
Il discorso si allargò alla politica e alla personalità del presidente assassinato. Ho spiumato un po’ il mito di J.F.K., ma non ho sminuito i meriti e le buone intenzioni in senso più realmente democratico (la parità di diritti tra bianchi e negri, un welfare più generoso, una maggiore attenzione verso gli svantaggiati in generale, una politica estera più distensiva, dopo lo show down nucleare al limite dell’azzardo apocalittico, eccetera). Quanto ai punti neri della sua politica, è presto detto: la sciagurata avventura della “Baia dei porci” (assistenza militare al fallito tentativo di sbarco dei fuorusciti cubani, nostalgici di una pacchia finita con la sconfitta del sadico Batista e la vittoria di Castro), l’ampliamento dell’impegno militare in Vietnam, a difesa di una causa sbagliata, la sfida frontale all’URSS di Krusciov nel contenzioso dei missili russi a Cuba.
Ho spiegato ciascuno dei temi con una certa larghezza. Sul tentativo di invadere la Cuba di Castro (ancora fresca di liberazione dal cancro Batista, dittatore fucilatore e castratore di “teste calde”, cioè di oppositori popolari al suo regime spietato e corrotto) ho illustrato l’iniziativa dei fuorusciti cubani, esponenti di quella borghesia che s’era arricchita con l’acquiescenza agli Usa e da questi accolti e protetti in Florida; l’azione fanatica della Cia al servizio del dio dollaro, l’ingenuità di Kennedy nel credere alle panzane degli esuli e all’incauto ottimismo di quell’Agenzia dei giochi sporchi, ritenendo perciò facile l’impresa; la reazione decisa e vincente delle forze armate e di tutto il popolo cubano; il fallimento del velleitario sbarco e l’interruzione dei bombardamenti sull’isola, ordinata da un tardivo ma rinsavito Kennedy (cui prodest il rischio di un più micidiale conflitto con l’Urss?). Il che non vuol dire che i successori di John Kennedy rispetteranno lealmente l’impegno di non molestare Cuba: non l’occuperanno, ma azioni pretestuose di canagliesco disturbo non incruento sono più che probabili.
Ad attenuare le responsabilità dirette di Kennedy conviene ricordare che il piano d’invasione contro la nuova Cuba era stato merito sinistro del vicepresidente Nixon e dei suoi servizi segreti: appena eletto, Kennedy se lo trovò sul tavolo, ben rifinito nei dettagli, e non osò fermarlo. Fermò, invece, con lodevole grinta, le folli tentazioni dell’America reazionaria in due occasioni cruciali: la prima, allorchè bloccò il governatore razzista George Wallace, che, in posa mussoliniana, aveva deciso di mantenere la promessa fatta ai suoi elettori di non fare entrare nessun negro nell’università dell’Alabama, e a tale nobile fine aveva schierato la Guardia nazionale davanti all’ingresso; la seconda volta, durante la crisi dei missili, quando impose l’alt a quei criminali dello Stato maggiore che ne avevano già innescato un po’ per una risposta militare alla sfida di Kruscëv. Nel primo caso Wallace ricevette questo “messaggio”: o lasci entrare i giovani neri, secondo le disposizioni dei Tribunali federali, “opppure l’ordine sarà fatto eseguire dai soldati dell’esercito federale americano entro 24 ore”. Nel secondo, al “non possiamo tornare indietro” degli arroganti generaloni dello Stato maggiore rispose: “Il Presidente degli Stati Uniti vi proibisce di fare la guerra e vi ordina di disarmare le testate atomiche. Oppure io dichiarerò pubblicamente che i miei generali non ubbidiscono a un ordine del Comandante supremo, che è il Presidente degli Stati Uniti.” Che sono due buone decisioni: due rilucenti dobloni nel suo medagliere politico.
Sull’errore vietnamita di Kennedy i ragazzi erano più informati: la sporca guerra essendo ancora in pieno e vieppiù cruento corso. Ai pochi che credevano alle menzogne americane e dei telegiornali, che quei campioni di democrazia si fossero cacciati in quel pantano di sangue per difendere la libertà dell’Occidente, ho cercato di chiarire un po’ le idee. Vedremo gli effetti del tentativo (peraltro, non il primo dei miei dall’inizio di quest’anno scolastico) nei prossimi mesi. Sul muso duro Usa nella crisi dei missili, ho anche dovuto contrastare la versione ufficiale e trionfalistica di una resa a discrezione dell’Urss, ricordando la contropartita del ritiro russo: l’impegno americano di non attaccare mai Cuba. Particolare rivelato e ripetuto dai leader sovietici, ma obliterato dalla propaganda americanisant dell’Europa e dell’Italia ufficiale. Cosa naturale, d’altronde: dopo il flop dello sbarco fallito, il meno che si potesse dare in pasto ai delusi fans di zio Sam era un bel trionfo della superpotenza bianca sui barbari rossi, ridotti a un’umiliante fuga atlantica. Favoletta per gonzi blindati.

A questo punto dell’animata esposizione-discussione un giovane mi chiese se fosse vero che il “compianto presidente” era anche un emerito dongiovanni e aveva avuto una relazione pure con la molto compianta Marylin Monroe. Ho risposto che sì, si diceva si scriveva e si spettegolava sulla relazione; e che in effetti né John né il fratello Robert (suo fedele consigliere e “complice” come ministro della Difesa) si risparmiavano gli extra moenia galanti. Aggiunsi i sospetti che circolano nei media su una responsabilità dei due versatili Dioscuri nella morte della divina super-sexy, bambola di carne costruita dalla fabbrica holliwoodiana e dalla stessa, forse, abbandonata alle sue nevrosi dopo cannibalica spremuta. Sospetti, indizi, ricerche, testimonianze su strani movimenti intorno al corpo esangue; e poi libri e reportage a iosa, per far luce su quel suicidio ai barbiturici poco credibile, secondo la passione dei milioni di amanti virtuali della bionda seduttrice troppo fragile. La gran parte di questi interventi (che non sembrano destinati a finire) sono appuntati su quei dubbi e sospetti, su quella presunta, non incredibile, ma scarsamente provata responsabilità diretta, ma ben coperta, dei fratelli sciupafemmine. La lugubre tesi è che quei politici al vertice del potere fossero stati costretti a tappare una bocca già diletta e usatissima, ma rivelatasi, poi, pericolosa (minacciava di rivelare “urbi et orbi” i suoi rapporti con i due “farabutti”), servendosi di collaboratori al di sopra di ogni sospetto. Sopratutto di... inefficienza mortuaria. Un particolare gode di una larga convergenza testimoniale: Bob Kennedy in visita trova Marilyn morta e “cancella” la propria presenza in quella casa compromettente con l’aiuto di servizi segreti e complementare assistenza mediatica. Non priva, peraltro, di buchi e flatus vocis.





28 nov.
Ore 7, 15

Piove. Una pioggia fitta, uniforme, frusciante. Un filato di monotonia, con un fondo continuo e sottile, bucato da ritmici scrosci brevissimi e da sonori stillicidii a intervalli regolari. Il cielo è un denso grigiore di cenere, un unico colore da venerdì santo, leale, accorante, senza sorprese. Lo strillone annuncia La gazzetta, ma oggi è lunedì, il giornale è pieno di sport, come tutti i quotidiani: non la compro.
*
Ho fatto un sogno stamane, nell’ultima ora di sonno, più o meno. Un altro della serie “Susanna domina”, lungo, complicato, articolatissimo. E, appunto, tutto pieno di quella figlia di buona donna. Eravamo in Sicania, nella mia cittadina, e ci si trovava (chissà come e perché) nella casa paterna, sulla strada periferica che congiunge la mia città con il prossimo paese a nord. Il primo scorcio mnestico mi mostra addirittura dentro la stanza da letto dei miei genitori, e non da solo, ma con loro due, più mia moglie e Susanna. Siamo in un momento di silenzio, forse successivo a una fase parlata. Io mi guardo intorno, c’è nell’aria un imbarazzo tangibile. Mi sento come la massa magnetica che genera il relativo campo e percepisco le altre presenze come nuclei metallici che ne distorcono le linee di forza. A un certo punto, sotto i miei occhi colmi di muti rimproveri, forse un po’anche per la suggestione dei luoghi cari che lei tornava a vedere, quel velo di mortificata tristezza che copriva come una cipria pasquale il volto pallido di Susy si fece più denso ed ella cercò di nascondere un improvviso luccichio nei magnifici occhi. Gonfia di tensione pronta a scoppiare, chiese di poter uscire nel cortile. Forse, pensai, con l’intenzione di salire al primo piano lungo la scala esterna. Dopo un po’ io, quasi convinto che nessuno avesse badato a Susy, poiché tutti i presenti (se n’erano aggiunti altri?) apparivano indaffarati (ma intorno a che cosa?), uscii dalla camera per raggiungerla e poterle parlare a tu per tu. Ma nel cortile (piastrellato con mattonelle quadrate bianco-cenere cesellate a geometriche fantasie) c’era zia Vanna, l’unica sorella di mio padre. Indossava un abito color senape con sopra le spalle uno scialletto rosso. Che contrasti cromatici, pensai. La zia mi sorrise ammiccante, mentre stendeva del bucato ai fili di zinco, tesi alti sul cortile. Mi avviai alla scala in muratura pensando “ora mi viene dietro”. Infatti, avevo appena esaurito le due rampe ad angolo retto della scala quando, guardando in basso dal ballatoio che conduce al terrazzino sud, mi vedo dietro lei, che davvero mi ha seguito. Ha, disteso sul viso, dalle labbra agli occhi, lo stesso sorriso maliziosamente allusivo di poco prima. Feci un gesto di stizza. “Ah, vuoi essere lasciato solo”, disse, con aria allegramente conciliante. “Va bene, vai!” Mi salutò, con quel sorriso indisponente, e mi lasciò solo a raggiungere Susy (ma non era sparito il timore che potesse ripensarci: era così rompiscatole, la zia). Guardo dentro la prima e dentro la seconda stanza del primo piano: Susy non c’è. E dunque non può essere che sul terrazzino (una stanza mancata, in realtà, con due lati coperti da pareti di stanze: ad ovest, dalla nostra seconda; ad est, da quella dei vicini.). E lì stava, infatti, Susy. Precisamente, vicino al balcone sulla strada provinciale. Ma non guardava la strada sottostante, lo sguardo puntava al pavimento del balcone. E gli occhi grondavano lacrime. Sembrava disperata. Mi avvicino, comincio a parlare, sbattuto fra la rabbia accumulata e una certa commozione che germogliava, umida e vischiosa, lungo la gola. Lei mostrava lo sforzo di calmarsi.
“Perché non ci hai pensato prima?” Dissi (forse, ma non ne sono sicuro): le parole mi danzano sfuggenti davanti agli occhi della memoria incerta. Sicuro sono, invece, di essermi sentito vieppiù gonfio di emozioni contrastanti, un groviglio in turgida espansione multipolare. V’era quel bisogno di arringa inquisitoriale che m’era cresciuto dentro, inarrestabile e perentorio, nei mesi dell’“esilio”; fermentava quell’intenerimento che le sue lacrime, la sua sofferenza, manifestamente sincera, avevano seminato nella polpa mai troppo dura dei miei poveri neuroni vibranti di contrastato risentimento. Insomma, tra endorfine e anfetamine, neuro-trasmettitori confusi e memorie drogate, ero così emozionato che le parole mi uscivano impacciate, impulsive, in sofferenza di ordine sintattico. Ne avevo appena pronunciate alcune, raccolte in concitate frasi di accuse stemperate, quando entra in scena mia moglie: un ectoplasma improvviso, condensato in un flash di oblio. Da dove sbucava? L’aveva avvertita la zia? Forse. Mandai via anche lei: “Insomma! Sarà permesso dire due parole da solo a Susanna, no?” Mia moglie la vide rossa in viso, gli occhi gonfi del pianto appena sgorgato, si turbò come chi sospetta confidenze a lei precluse, ma acconsentì a lasciarci soli sul terrazzino. Di sicuro il mio tono non consigliava opposizioni al buio. E cominciai quella requisitoria che ribolliva nel pentolone del risentimento accumulato. “La mia amicizia sarà eterna, io non cambierò mai, non sono un’ingrata, non dimentico chi mi ha fatto del bene”: ricordi, Susy, queste tue belle frasi rivolte a me e Rina? E quando eravamo soli: “I miei sentimenti verso di te non muteranno mai”. E io, timoroso dell’imminente lontananza, scettico sulla promessa brevità del soggiorno pugliese, replicavo con amare parole di fede in difficoltà: “Cambierai. Sì, cambierai. Quando avrai conquistato il diploma, andrai a Taranto, e quando sarai lontana da noi, a poco a poco ci dimenticherai. E soprattutto, mi dimenticherai.” “No, mai!” “Vorrei poterlo credere, Susy”. “Devi crederlo, ti costringerò a credermi”. “Beh, forse dimenticarci non potrai, ma cambiare nei sentimenti, questo sì. Ci saranno tentazioni, allettamenti nuovi, più radiose prospettive di futuro...”. “Balle, non cambierò.” Ricordi, Susy? Questi erano i discorsi che scorrevano fra noi prima che finissero gli esami, e subito dopo. Come avevo ragione! Come sentivo la tua incostanza, la tua suggestionabilità!” “No, nessuno mi convincerà contro di voi, nessuno mi può suggestionare.” E questo nel sogno ripeteva: “Io non mi sono fatta suggestionare da nessuno.” “Davvero? Allora eri bugiarda quando dicevi a quel modo.” “No, non ero bugiarda.” “Come no? Ma se ci hai propinato una ‘storia infinita’ di bugie variamente motivate!”
Forse fu a questo punto che tornò Rina. Chiese come andasse, se avessimo finito di parlare da soli, se Susy si fosse calmata. Ma Susy era tutt’altro che calma. Poco dopo, non ricordo come, fummo di nuovo soli, io e lei (che ne era di Rina? L’avevo allontanata di nuovo? Ma poteva essere stato così facile?). Nello stesso terrazzino dal balcone nero di vecchia ruggine incorporata riprese il malinconico duetto delle accuse e delle scuse, dello scavo impietoso e della patetica difesa. Le dissi che si erano comportati tutti male con noi, prima lei e poi i suoi familiari. Specialmente con mia moglie, che l’aveva trattata come una sorella. Lei, Susy, era stata la prima a tradirla, a ingannarla.
Non m’accorgevo nemmeno dell’ovvio garbuglio in cui m’impigliavo: si capisce che l’aveva ingannata: sempre, dal primo momento della loro conoscenza. Avevo compiuto il mio bel lavoro, io in persona, per questo poco nobile risultato. La responsabilità, qui, andava divisa in parti uguali tra me e lei. Ma io alludevo ad altro inganno, s’intende. Io, o quella parte della “finzione grammaticale” che mi faceva comodo in quel momento, badavo alle promesse mancate di Susy sulla durata del soggiorno pugliese, su quel tanto di affetto che inevitabilmente era germogliato verso la rivale-amica così prodiga di aiuti nel cuore imbarazzato di Susy. E calcavo la mano sulle sofferenze di Rina per questo tradimento. Bersaglio principale, nella requisitoria, era il fratello tenente: com’era stato maleducato, il bel tenente, a non farsi vivo per nulla. Dopo le ripetute promesse del padre, secondo cui il figlio avrebbe chiarito le ragioni del prolungato soggiorno. E anche loro, padre e madre, non erano più venuti a casa mia. Perché?
“Non lo so. Ma non si sono comportati male”, annaspava Susy.
“No? E come posso qualificare il loro comportamento? M’incontra tua sorella Rosina e mi fa: non vinistivu cchiù a casa mia. Come se niente fosse accaduto. Io rispondo ribaltando la domanda: “E voi, siete venuta da noi?” E senti un po’ che spiegazione per l’insolita latitanza: Ma sapiti com’esti, u lavuru... Fantastico: un lavoro così ingombrante da non lasciare il tempo per una visitina più che doverosa. E io, a Rosina: “Davvero? Perché, al cinema dello zio non andate, forse? Dal cinema a casa mia quanti passi ci sono? E poi, noi siamo venuti a casa vostra, dopo che Susy era partita, ma voi non avete ricambiato la visita”. Rosina, sempre più confusa: ma, a sira, viditi, ci pari mali, esti tardu quannu niscimu du cinima, e tanti voti macari quannu trasimu. “Tardi, alle nove? Tempo fa venivate anche alle undici”. “Allora c’era Susy, era diverso.” “Ma forse che al cinema andate solo alle nove?” Pausa. Silenzio di Susy. Riattacco. “Ecco i discorsi che abbiamo fatto con la tua sorella maggiore. Vi siete comportati tutti in un modo indegno, va là.”
Susy era sempre velata da quel rapinoso rossore in viso, anzi anche un po’ gonfia, non sembrava più lei. A un tratto si sentì da basso (chi l’aveva detto?) che c’era alla televisione una cerimonia militare, un saluto al presidente della Repubblica, non so bene per cosa. Susy scatta: “Debbo andare, c’è mio fratello fra quegli ufficiali.” E io: “Caspita, come gli sei devota!” Al mio dispetto, Susy rispose scappando, muta, a vedere il fratello in televisione. Non era un modo palese di tirarsi fuori da quella impietosa sofferenza inquisitoriale? E dunque che infierivo a fare con quelle sciocche, superflue parole d’accusa verso un naturalissimo affetto fraterno? Ma l’inconscio, direbbe un clone freudiano, ha le sue ragioni che la ragione non intende.
Dopo chissà quale tempo onirico, mi ritrovai in una delle stanze del primo piano, insieme a mio padre che ascoltava la radio. Una strana radio, che era anche una sveglia: oggetto sofisticato mai posseduto dalla mia famiglia. Mi diceva di non abbassare il volume, piuttosto alto, della radio, perché lui stava nella prima stanza, steso sul letto, e la radio (improvvisamente, e misteriosamente) si trovava nella seconda, sopra un tavolo vicino alla porta interna che divideva le due stanze. Allora pensai di avere sognato Susy e tutta la manfrina intorno a lei. Il solito sogno, pensai. Pazienza. Ma come sembrava vero.

Stesso giorno,
ore 22,30

Continuo il resoconto, tra puntuale e congetturale, della medesima notte onirica, così poco artemidoriana.
Altro tempo virtuale mi separa da una nuova apparizione inattesa: Susy, di nuovo, ancora nella nostra vecchia casa, sotto, al pianterreno, credo. Allora, pensai, risognando, non è stato un sogno, non è un sogno, stavolta è vero, Susy è qui, la vedo bene, e io le ho parlato realmente, e posso parlare ancora con lei, viva vera in carne di non sciupata bellezza. Incredibilmente, il sogno si ricarica e riparte. Si riprende il battibecco (ma dov’era finita Rina? e le altre presenze?) Susanna partecipava al “contrasto” pacatamente, con innaturale remissività. Parlavamo toccandoci. Io le stringevo ora l’uno ora l’altro braccio, o le prendevo le mani. E anche lei mi toccava, in un modo o nell’altro, ma timidamente, non con la mia sicurezza un po’ padronale o giudiziaria. Né con la sua di un tempo, quel tempo svanito per sempre, e già mitizzato dal rimpianto. Nella realtà a fare così era la sorella Rosina, parla mettendoti le mani addosso, con ignara malizia. Lei, invece, Susy, non si permetteva mai di toccarmi in presenza di Rina.
Comincia, a un certo punto, un altro singolare privilegio del sogno: la metamorfosi multipla. Ad un tratto, Susy non è più Susy ma Elisa, la mia prima fiamma. E subito dopo (ma fino a che punto è lecito parlare di prima e dopo nel migma onirico?) torna ad essere Susy pur restando Elisa. Ancora un passaggio me la fa diventare Renza, la ragazza dell’estate Sessanta, che ha insidiato il trono di Rina, allora soltanto fidanzata ufficiale. E ancora l’amalgama s’impone: Susy è se stessa, è Elisa, è Renza. Né le metamorfosi si arrestarono a queste tappe: altre ve ne furono, e altri volti di precedenti e lontane avventure coprirono e carpirono quello impareggiabile di Susy. Ma lei, l’incomparabile, finiva sempre col prevalere, col riportare ai suoi nobili tratti le linee e i colori degli altri volti, così diversi l’uno dall’altro, tutti carini, ma tanto lontani dalla perfezione di Lei. Fiumi di emozioni allagavano il mio corpo vanamente intento al riposo ristoratore delle forze stanche, che invece venivano scatenate da quel turbinio fantastico a chissà quali eccessi ormonali e pressori dei parametri ematico-circolatori. Un sogno complicatissimo, composito, stratificato in quella finzione di risveglio che riconosce il sogno come sogno per scoprire una finta realtà che invece continua il sogno. A nuovi livelli, beffardamente, interminabilmente.
Quando faranno uno studio approfondito dei mondi onirici? Quando riusciremo a proiettare i sogni su qualche monitor? Quando sapremo salvarli dall’inevitabile cancellazione parziale (che con l’età si farà spesso totale)? Nell’attesa (dell’improbabile rivoluzione scientifico-tecnologica) continuo a godermi, centellinando, il ghiotto e corposo studio plurale Il sogno e le civiltà umane, appena pubblicato da Laterza. Sono ancora alle prime pagine della folta introduzione di Vittorio Lanternari).

Donde, questo sogno “estremo”? Si tratta di una serie di transfert di facile reperimento. La spinta capitale viene dall’incontro col padre di Susanna: sabato scorso ci siamo visti sulla via centrale e mi ha comunicato la lieta novella dell’ammissione di Susanna al Magistero, facoltà di Lettere. Naturalmente, mi sono congratulato col felice genitore. Nel “foro interno”, invece, mi tocca registrare un poco nobile disappunto. Avrei preferito un insuccesso. E non chiedermi perché, quaderno sornione. Ti potrei dire più d’una verità. Una sarebbe l’attitudine mediocre di Susy alla scrittura “letterata”, e il conseguente sdegno per l’incapacità premiata (avrà avuto un tema svolto da copiare?). Un’altra, la sottrazione di una robusta ragione al loro oblio di come siano veramente andate le cose agli esami di maturità. Una terza sa di puro spirito vendicativo. Nell’intrico, l’una verità sfuma nell’altra e ne risulta un pasticcio di forte sapore agro. Che l’ammissione, poi, non avalli nessuna garanzia di valore intellettuale per i soggetti ammessi, è un’ulteriore verità secreta da fatti e misfatti ben noti nell’area mamertina e sue espansioni magnogreche. A Zancle sono state ammesse ragazze che prendevano tre e quattro nei compiti di italiano del quadriennio; e sono state bocciate ragazze che prendevano otto. Assurdo? Nel merito, ma realtà fattuale, purtroppo. Come spiegarlo? Probabilmente, un tema originale svolto molto bene ha insospettito certi colleghi diffidenti (e mediocri): e zac, scatta il vade retro. E’ capitato a un paio di miei colleghi commissari alla maturità classica. Mentre è facile capire le ammissioni per grazia ricevuta: svolgimenti introdotti dall’esterno previa fuoruscita di traccia variamente realizzata; temi copiati e segnalati, con piccoli accorgimenti di riconoscimento in assenza del nome (sigillato, ope legis, dentro una bustina a parte: a blindata garanzia teorica di anonimia davanti al commissario giudicante e facile vulnerabilità pratica della blindatura. Il vecchio gioco della forma e della sostanza...); intervento benevolo del giudicante per segnalazione cifrata del testo e complicità intra moenia. Eccetera.
*
Ieri, poi, ho avuto una mezza lite con mia moglie per via di un mio scherzo: le avevo detto che avrei accettato la nomina a commissario di pedagogia al prossimo, e imminente, concorso magistrale. Nella sede di Camanzaro, per colmo di provocazione, con la precisazione carogna che sarei rimasto a dormire in quella città per ovvie ragioni di tutela fisica, e sarei venuto a Zefiria solo una volta la settimana, il sabato. Caso mai la misura non fosse colma, ho aggiunto una punta di veleno sulla coda del discorso “dissennato”: spero di svagarmi con qualche candidata. O, al limite, con una collega fisicamente accettabile, e disponibile. Rina l’ha presa proprio storta: non ha inveito, come le capita qualche volta, ha fatto di peggio: è scoppiata a piangere. Cioè, non è che abbia pianto clamorosamente, anzi ha spremuto lacrime silenziose. Silenziose, ma convinte. Direi meglio, che le sono sgorgate senza sforzo né ostacoli. Come non aspettassero che il piccolo spunto, e la piccola spinta. E sono le lacrime più pericolose: per la salute sua e della pax domi. Non solo: ha aggiunto uno sciopero della fame e della parola. Non rispondeva alle mie proteste, che avevo scherzato, che lei aveva esagerato nella sua reazione, che non ha il senso dell’umorismo. E via tentando. Ha perfino anticipato il ristoro del letto. Infine, mi ha rimproverato la mia insensibilità. “Tu non capisci quanto male mi fanno certe cose.” “Ma scherzavo, dovevi capirlo.” Ci aveva creduto. Più tardi, precisava che mi sapeva ben capace di certe alzate di testa. E sbaglia. Sono talmente pigro, che, potendo senza eccessiva spesa, evito fatiche fisiche e mentali: un lungo malumore di lei, per esempio. Mi stresserebbe troppo.
Orbene. Nel sogno, Susy che si trovava in casa di mio padre era, simbioticamente, anche mia moglie. Poi, la logica della sua necessaria distinzione corporale aveva evocato anche la presenza fisica di Rina. Ma le due figure continuavano, sfaccettandola, la loro unità simbolico-emozionale, si intrecciavano e scambiavano le parti di una totalità affettiva. Susanna che piangeva, Susanna col volto rosso e le guance pienotte, era anche Rina. Avveniva, nel sogno, perfino una modificazione morfologica, lieve, ma sensibile: le guance pienotte sono di Rina, non di Susy. Soprattutto, il bel colorito rosato è di Rina, non di Susy, prevalentemente bruno-pallida. Forse, a ben ricordare, c’era sul viso di Susy anche un poco della sua compagna fedele e formosa, Adele, la brunetta succosa che ti ho già descritto, quaderno impiccione. Come mai, quest’altro “aggregato”? Una spiegazione esiste anche per l’aggregato: tempo fa la laboriosa maldicenza paesan-popolare mi ha attribuito, con Adele, un caso sentimentale assolutamente falso (en passant, non è senza fondamento, invece, un flash erotico lieve con mio cognato). Dunque, anche Adele veniva convocata nel sogno dalle più perentoria legge psichica, l’“associazione delle idee”: a condensare il mélange affettivo al massimo del possibile. Una specie di sovra-determinazione del condensare onirico. Che sviluppa anche il prolungamento verso la mia prima ragazza e relative gioie-pene d’amore: Elisa, dal nome profumato. E dopo Elisa, anche Renza, ben più recente, ma anche lei molto coinvolgente, e con drammi, pianti, sofferenze di ambedue i termini del rapporto furtivo (ero fidanzato con Rina, e non pensavo di poterla lasciare) al momento del fatale scioglimento. Non mi è chiaro, ma forse c’è stato, nel sogno, perfino un trasferimento magico dalle dimore sicaniche (paterna e nostra) a questa di Zefiria. Ho luminescenze confuse in proposito, ma l’altro amalgama incoraggia la supposizione su questo transfert ambientale. Insomma, un miscuglio interessante, che rimpiango di non potere analizzare più serenamente. Per mancanza di tempo, certo (ne ho già sottratto fin troppo ad altre urgenze prioritarie); ma soprattutto per estinzione di dettagli, ormai irrecuperabili. E dunque il più largo approfondimento dell’affascinante analisi resta... un sogno.
*
Intanto Susanna è sempre a Taranto. Verrà il fratello per Natale, ha detto il genitore. E certamente non verrà a trovarci. Devono essere accadute novità che impediscono l’evento. Che lo sconsigliano, intendo dire. Lo sconsigliano a lui, che ne sarebbe imbarazzato. Se Susy si fosse confidata sui nostri rapporti, sia pure minimizzando? Se l’avesse fatto per spiegare la sua riluttanza a tornare, e soprattutto a ritornare a frequentare noi, me e la mia famigliola? Niente di più congruo che atteggiarsi a vittima-eroina di una situazione incresciosa sfuggitale di mano, ma inevitabile nella sua genesi quasi coatta: come rinunciare al mio aiuto scolastico, alla mia (perfino sfacciata) protezione? La famiglia capirebbe. E non potrebbe condannare lei. Né, ritengo, me, che non potrei essere presentato da Susy come un mascalzone “iniziatore” di indifese fanciulle sensibili. E bisognose, appunto, di non poca protezione scolastica. Anzi, dovrebbe rassicurare genitori e fratello (e magari sorelle) sulla mia eroica autodisciplina di “digiunatore” ben poco kafkiano. O, se preferisci, di paladino etico degli imeni prematrimoniali. Verrà e se ne tornerà a Taranto. O verranno e se ne torneranno, là, di faccia allo stesso mare Jonio, nella vecchia e gloriosa colonia greca, fondata (dicono i testi) nel 706 a. C. da coloni di Sparta, poi inutilmente difesa da Pirro dall’ingordigia imperiale di Roma. Da quelle parti, certamente, si sta troppo bene: perché ritornare nel pettegolo paese asfittico, mafioso, episcopale e bigotto (anche se non meno glorioso di Taranto per storia remota, dalla colonia greca in poi)?
Al diavolo. Mi irrita soltanto il fatto che la cosa mi disturbi tanto. Ancora, dopo mesi di esercizi liberatori. E che lei invada il mio stento sonno. Che, addirittura, domini e colonizzi i miei sogni. Comincio a detestarla. Che impudenza, che falsità. E quale puntuale verificarsi delle mie previsioni e diagnosi.

30 novembre,
ore sette.

Sto scoprendo le canzonette, a furia di ascoltare “Divertimento musicale”, con la transistor accanto, sul tavolo di lavoro: Vedrai che ritornerà, ritornerà da te... Vado a cercare un dollaro d’amore... Non avevo mai badato tanto alle parole, prima; ora le capto benissimo. E vedo che tutte, o quasi, parlano di amori perduti, di donne che abbandonano l’uomo (più raramente l’inverso), di invocazioni perché lei ritorni a lui. Et similia. Avevo dimenticato di essere sul filo della più classica dialettica amorosa: lui, lei, l’intromissione di un coibente più o meno lungo, la tensione tra le armature, in attesa che si scarichi da sola, la speranza che, invece, si ristabilisca, tra loro, il contatto veicolare e la corrente torni a fluire dall’una all’altra attraverso il filo conduttore. Immagine prosaica, lo so; anche imprecisa, perché la corrente erotica scorre dall’uno all’altro polo nei due sensi, mentre nel condensatore reale in un solo senso. A meno che non si immagini una polarità alternata delle armature. Come che sia, la comparatio s’è presentata e imposta da sola e la lascio. Non foss’altro, a testimonianza del mio disordine interiore.
*
Stanotte, ancora lei, ancora sogni straripanti di lei e dei suoi. Mi sta ossessionando. Sarà perché durante il giorno mi accade di impegnare ripetutamente, e per non poco tempo, le mie sinapsi nella sua direzione. La registrazione, di giorno, per quanto eccitata (o proprio perché sovreccitata) non risponde bene alla realtà “trafugata” e lontana. Di notte, libera immagini più evidenti, più calde e precise, più carnali.
Fausto Tozzi: e mi rimpiangerai... non la cercherò più... lo so che altre meglio di te... soffriranno meglio di te... Uno come me, no, non scorderai mai... uno come me non lo troverai più...
Mi gratto con le canzonette. E del resto, è naturale: né la lirica né la classica e sinfonica si presterebbero a sì mediocri servizi. Mediazioni di alto livello solo nella Poesia si possono trovare: mi torna in mente, di tanto in tanto, il vecchio caro fedele Leopardi, complice e promotore nobilitante delle sofferenze d’amore. Ma poi mi accorgo che nessuna poesia del suo repertorio calza al caso mio: “Aspasia”? Troppo forte. E distante dalla mia fattispecie. “A Silvia”? Susy è ben viva. E ha riempito la mia vita della sua presenza corporale. “Le ricordanze”? La mia Nerina, le mie Nerine sono state carne con la mia carne, corpo fra le mie braccia. E Giacomino sa che “Il corpo è tutto”. Insomma, non calza. Sì, un po’ degli insulti aspasiani mi tentano, ma solo al comando della mia contingente rabbia. E perfino la rastremata rivolta e l’estremo urlato di “A se stesso”, ma sarebbe una sconcezza accostare la mia delusione alla disperazione leopardiana. E un’offesa alla mia blindata difesa: Giampiero e Rina, la mia famigliola mai rinnegata anche se, in qualche modo, tradita. (Sentilo: in qualche modo!)

Come ho zittito madama mater gaudiosa, stanotte, nel sogno. Intendo, la madre di Susanna. Aveva osato alzare la voce, rimproverarmi non so che offese alla figliuola, tirare in ballo ancora una volta la famigerata lettera gonfia, non di insulti, ma di sacrosanta verità pudenda sotto maschera: più che di insulti, di accuse motivate. Le ho gridato che non avrebbe cavato nulla con me, sfidandomi, arrabbiandosi. Come si permetteva? Ingrata e insolente! Aveva dimenticato quel che eravamo stati per sua figlia, io e mia moglie? E via di questo passo. Con lei, invece, con Susy, rentrée patetica: “Mi hai dimenticato, hai cancellato le tue vibranti parole d’amore, o almeno di sincero, grato affetto (tale mi traspariva dalle tue tenere frasi ripetute): Sarò sempre tua, non avrò nessun altro uomo... E forse già allora pensavi a quanto presto mi avresti messo da parte come uno strumento fin troppo proficuamente usato, ma ormai inutile.” Da lei, naturalmente, le solite proteste di innocenza buona fede sincerità. La ormai ben memorizzata e reiterata (nei vari sogni, oltre che nella realtà) protesta di innocenza, accuse al destino cinico e baro, scarico di responsabilità su familiari e malattie. Dialogo collocato in altro angolo di tempo e di spazio, ma non precisabile, né l’uno né l’altro, secondo la solita “alogica” dei sogni. Posso ricordare soltanto che eravamo soli, quando fluirono queste parole dalla mia bocca, e dalla sua le dimesse proteste di autodifesa. Dov’era finita la madre, la già compianta vittima del mandrillo, ora impudente “guerriera contro”?
C’è stata, nel sogno, anche una certa fusione con Didia. Che, nell’altro sogno, quello dell’effettualità spaziale che diciamo realtà, stenta, anzi non riesce proprio a rimpiazzare e surrogare tanta assenza. Nemmeno parzialmente. Scoccano Küsse timidi, tremuli di Furcht. Lei li riceve, li aspetta, timidamente li ricambia. Ma quale distanza da quell’incanto! Eppure, si mostra così disarmata nella sua infatuazione sbandata. Così teneramente disponibile. E non è che non sia carina. Ma c’è quella distanza! Baciavo anche lei nel sogno. Nel solito imbroglio onirico. E lei, la piccola vicaria improbabile, vi figurava com’è nella realtà: trasognata estatica incredula.
Quale sarà la terapia meglio mirata? La mia famigliola è componente centrale, ma non basta. Didia? Come complemento del farmaco? Magari, come eccipiente? Intanto, però, con Rina litigo “più del necessario”. Appaio irritabile, impaziente. E temo che lei colga la filigrana del cruccio reale sotto le trame ridicole dei pretesti occasionali. Certe allusioni strozzate sembrano avviate a completarsi in un nome magnetico, inevitabile: quello. Rina non è ingenua fino al punto da credere alla pura amicizia desessuata tra suo marito e una bella ragazza troppo vicina per troppo tempo. Ha detto e ridetto che aveva più fiducia in lei che nel mio self control. Ora che cosa le impedirebbe di risvegliare quel giudizio ad ogni occasione che la mia lingua battente sul dente colpito le offre? Lei pizzica, io scatto, e i suoi sospetti si rinforzano. Magari, ormai, soltanto con la speranza che la sua diagnosi fosse vera, e non più con l’ostentata certezza. E si litiga. Due giorni senza parlarci. Ed è dura. Per lei e per me. Perché non cedo prima? tanto più che, poi, sono sempre io a cedere e rivolgerle per primo la parola. Lei non ha un carattere remissivo, ma io so, nell’angolo più buio della cantina-coscienza, che tra le due colpe, la mia pesa molto di più.

Metà di me... Porti con te metà di me... ragion per cui ti pregherei, se puoi, di dirmi dove sei...Porti con te metà di me... Prima c’eri tu, ora ci sono solo io...
Ora svampa un mito domestico del distretto canzonette: nientedimeno che Turiddu Adamo, l’idolo della mia Rina, innamorata delle sue canzoni, della sua voce, del suo stile: Ecco voce e note della Notte: Se il giorno posso non pensarti, la notte maledico te…la notte tu mi fai impazzir Ma la mia malattia attraversa Rina per sfociare altrove. In quell’altrove che comprime meinen Herz di strette al limite delle spremiture oculari. La notte tu mi appari immensa, invano cerco di afferrarti… Ora si passa a Cade la neve. Buona parte del repertorio del sicanico belgizzato veniva suonata, nei tempi morti delle pause e delle attese, dalle due amiche. Rina rimaneva la più “fanatica”: cade la neve, non ti vedrò questa sera… L’altro idoletto canoro della mia metà innocente è Gianni Morandi, il bravo ragazzo che avrebbe desiderato come fratello, il cantante delle canzonette assimilabili come dolcetti da sciogliere in bocca. Ne riparleremo. Forse.
Sembra lo facciano apposta. Ma in realtà queste coincidenze, codesti incastri tra love’s labours lost e frasi di canzonette, sono la cosa più facile che si possa incontrare nel regno affollato del dio Caso.
*
Forse è più utile, in chiave terapeutica, tornare a tuffarmi nel bagno dell’eccesso sado-maso delle “Vergini funeste”. Apriamo a caso e trascriviamo.
“Teofana fa sgozzare dall’amante il marito dormiente, Ariadne ordina che il suo venga murato vivo, Eudossia sposa un capo ribelle che aveva visto trascinare al supplizio, la dissoluta Teodora uccide il figlio bastardo. Questo tipo di imperatrice abbietta, al vertice di una Bisanzio nevropatica, sempre sul punto di sfasciarsi, d’una civiltà tutta gemme, carne e sangue, questi genii femminili rapaci e scintillanti, calamitano buona parte del sadomasochismo palese e latente dell’équipe simbolista (“Irène et les eunuques” di Paul Adam, “Byzance” di Jean Lombard, “Théodora” di Pétros Botzarès, tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou). //Il sadismo della Teodora di Botzarès-Sardou, invaghita del cospiratore Andréas e morta strangolata dal boia, avendo tradito Giustiniano nell’intento di salvare il giovane amato che non solo la rifiuta ma, sino all’ultimo, l’insulta, il sadismo di questa imponderabile Teodora è affatto involontario ma non per questo improprio: anche se nolente, i gesti criminali della sovrana germinano dal fato, da un humus in cui sesso, sfarzo e violenza formano una stessa, indissociabile lega. /Costretta, a fin di bene, trafigge il cuore d’un centurione servendosi di una spilla che ‘attraversava la sua fulva chioma come un giavellotto’, imbavaglia Andréas col velo di garza, tessuto d’oro, che le copriva il volto, e ciò per impedirgli di ingiuriarla in pubblico e di venir pugnalato immediatamente dal boia, lo avvelena infine col liquido contenuto in una fialetta che lei portava appesa al collo, credendo si trattasse d’un filtro d’amore. La pratica del sadismo è dunque trasferita agli accessori dell’abbigliamento sacrale e questo sadismo riflette masochismo perché commesso da una Teodora spacciata per integra e benevola. E’ un po’ la sorte toccata a Mademoiselle de Faxelange, la derelitta di Sade, obbligata dal marito brigante ad ordinare stragi di ostaggi./ Per significare l’implacabile misantropia di Antinéa, che ordina di uccidere gli amanti europei di una notte e di esporli imbalsamati, Pierre Benoit impiega le consuete traslazioni tolte dal bestiario delle belve castratrici: la gigantesca pelle di leone su cui giace, il leopardo Hiram-Roi accucciato ai suoi piedi e pronto a difenderla, splendido animale con cui la regina sembra intrattenere rapporti zoofilici, l’aspide d’oro dagli occhi di smeraldo e la lingua di rubino attorcigliato attorno alla sua fronte e due altri, simili, attorno ai bicipiti, le teste erette sin sotto le ascelle, quindi lo sparviero cui Benoit assimila il mobile e fine profilo di Antinéa.”
No, non è che voglia paragonare una pollastrella ancora intatta a queste scintillanti sparvieresse dell’eros infesto: è che un certo prurito sadico tenta una parte dei miei cilindrassi stressati a cercare conforti letterari più o meno bislacchi.