lunedì 30 novembre 2009

SUSANNA, Frammento 48


PARTE SECONDA.
SUSANNA SPOSA E MADRE

Perché si scrive, mi chiedo. Perché ci si affanna a tessere sogni e raggiri, si dà corpo a fantocci e fantasmi, si fabbricano babilonie di carta, s’inventano esistenze vicarie, universi paralleli e bugiardi, mentre fuori così plausibile piove la luce della luna nell’erba, e i nostri moti naturali, le più immediate insurrezioni dei nostri sensi c’invitano al gioco affettuosamente, divinamente semplice della vita?
Gesualdo Bufalino, Cere perse

INTERMEZZO
*
Trentacinque anni dopo. Quante pagine bianche in questo quaderno che finisce a metà. Fatico già a ricordare sommariamente le ragioni di tutto questo vuoto, come potrei ricostruire anche soltanto i dettagli più vistosi di quei giorni lontani? Gli avari cenni sparsi nelle pagine scritte mi consentono appena di richiamare dal fondo del pozzo (per dirla alla Thomas Mann) qualche episodio che sbalza sul consueto e il routinario. Anche i salti, di più giorni, di settimane, tra l’una e l’altra delle poche (relativamente agli altri quaderni) pagine, più che scritte, scarabocchiate, contribuiscono al destino di perdita irreparabile che grava sul grosso dei particolari. Scrivevo con minore slancio, con un certo imbarazzo. E con una fretta che sfruttavo per rendere illeggibili, fuorché a me stesso, le filiformi parole inclinate in righe mezzo tortili. Segno che temevo un improbabile, ma non impossibile loro incontro con gli occhi belli e curiosi di Rina, la mogliettina in quel tempo sempre pronta alle scenate di gelosia (solo in quel tempo, poi?). Si vede, cioè, anche da ciò, che non mi assisteva più l’entusiasmo dei mesi precedenti, quando un resoconto più nutrito, grasso, morbido di fatti e fatterelli concernenti mi poteva tenere impegnato sulle pagine rigate per due ore, e magari più, a logorarmi gli occhi. Con un godimento e appagamento, forse, un po’ dubbiosi e tremanti, però sempre reali. Specie se a tarda sera o di notte, mentre moglie e figlioletto dormivano. O lei magari attendeva il sonno, convinta che lavorassi per la scuola o su qualche articolo per i giornali cui collaboravo. Queste ultime pagine, al contrario, sono, come dicevo, figlie della fretta e dell’incerto, ma sempre operante, timore di essere scoperto, nel caso un calo di vigilanza mi facesse dimenticare di chiudere nel cassetto sotto chiave il quaderno. La fretta: come mai? Era ricominciata la scuola, e facevo anche qualche lezione privata, di preparazione al concorso magistrale: non avevo più a disposizione il tempo libero che mi aveva permesso le lunghe cronache (e relative divagazioni). Ora devo cercare di ricostruire, da pochi indizi, e magari da un singolo frammento “osseo”, fatti assenti dalla memoria non meno dei dinosauri ricostruiti in questo modo dai paleontologi.

Cominciamo dalle ricostruzioni più agevoli (o meno complesse). Ecco qua un incontro con Didia nella mia casa libera da moglie e figliolino. Che giorno era? Non lo saprò mai più. A meno che non salti fuori qualche pagina dimenticata che ne riporti la cronaca. Un futuro trasloco potrebbe farmi questo dono. Ma ne dubito forte. Tutto questo bianco, che oggi mi sfida (e forse schernisce) significa una sola cosa possibile: la promessa, allora, o semplice speranza, di riempirle, quelle pagine, quando che fosse. Anzi, “appena possibile”. E riempire non solo quelle intercalate tra una cronaca e l’altra, già cospicue, ma anche quelle finali, quasi un terzo di quaderno vuoto bianco immacolato in vana attesa per mesi anni e lustri di un incontro con l’infiacchito autore. E invece non è accaduto. Le pagine sono rimaste lì, neglette e seppellite, protette con serrature dal pericolo sempre attuale, in qualsiasi epoca della mia, della nostra, vita coniugale: il pericolo della gelosa Severina detta Rina, sempre pronta, ut supra dixi. L’appena possibile, in sostanza, non mi soccorse: un virtuale che non si realizzò.
Riflettendo, mi viene incontro (anzi, mi sbatte in faccia) la ragione prima di queste mie larghe assenze dalle pagine diaristiche: il libro, il libro filosofico “commissionatomi” da Gulizza e incoraggiato da Rama. Mi suggeva la gran parte delle mie energie creative.

L’incontro, dunque. Non ricordo il giorno, ma il mese doveva essere ottobre. E l’ora, questa, all’ingrosso, la rammento: era l’imbrunire. Didia era felice. Aveva raggiunto il suo scopo, il suo ideale fatto realtà di corpi in contatto, di corpi stretti nell’abbraccio, di bocche congiunte nel bacio reiterato. E io? Ero “felice”, io? E come avrei potuto – fosse anche nella modesta misura implicita nel sospettoso virgolettato? Devo averlo scritto in qualcuna delle pagine precedenti: il ricordo dell’altra era troppo forte, il confronto con Susanna lasciava vuoti incolmabili. Cara Didia, te ne chiedo perdono ora, a distanza di sette lustri. Mi sforzavo, credimi. Mi sforzavo, e penso che riuscissi a convincere la tua speranzosa disponibilità, di sentirti, di rivivere il pasto erotico sacrale della precedente chance, ma lei era sempre fra noi. Lei, l’unica dominatrice di quel tempo stravolto. Ma ti baciavo ugualmente, grato del tuo involontario soccorso, del tuo improbabile rimpiazzo. Ti feci anche dono di confidenze sull’assente ingrata, sugli aiuti e la protezione prodigatile e così mal ricompensati. Non ti rivelai, certo, il mio segreto piagato, e ricordo di avere opposto, a un tuo cenno alle dicerie correnti, che si trattava appunto di dicerie, pettegolezzi senza fondamento. Spiegabili, si capisce, alla luce della frequentazione assidua di Susy, del suo trovare sempre la porta di casa mia pronta ad aprirsi e la mia opera sempre disponibile all’assistenza professionale e psicologica. A quest’ultima si aggiungeva, s’era aggiunto per mesi e mesi, il concorso di mia moglie, fidente nell’amicizia di lei. E giudice leale, anche, della sua riconoscente generosità verso il nostro bambino (che, pour cause, non era meno preso del padre). E ora, a scopo conseguito, lo strappo di questa ingratitudine, una lontananza senza termine che ha il sapore dell’abbandono.
Non è un falso ricordo quello che mi presenta, sia pure un poco sfocate, le nostre figure, me e te, cara Didia, nei pressi del porto degli aliscafi, io intento a sturare dentro le tue avide orecchie il serbatoio surriscaldato delle confidenze susannali. Che ci facevo, io, in quei posti, con te? Ma come, che ci facevo? Ti accompagnavo, in macchina, alla fine di una delle tue visite, all’approdo aliscafesco. Ecco che ci facevo. Era il meno che ti potessi offrire. E si parlava, aspettando l’arrivo dell’Aliscafo da Zancle, dove ritornavi (erano tempi di lezioni universitarie) e tu ascoltavi assorta. Mi chiesi, allora, e mi chiedo di nuovo oggi, quasi vecchio, che cosa rimestavano dentro di te quelle rivelazioni. Forse un certo dispiacere per la mia sofferenza. Quasi certamente una naturalissima soddisfazione imbavagliata, per un tuo supposto vantaggio nel confronto con l’ingrata. Tu non eri, non saresti stata mai sleale e ingrata con me. Questo, certo, lo pensavi. In perfetta buona fede.

Ricordo quando Didia mi si accostò alla macchina, nel casuale incontro sulla via Gramsci, parallela al centrale corso Garibaldi, lei a piedi, pallida e balbettante. Io avevo rallentato per salutarla, lei mi fermò. E, appunto, balbettò dicendomi che stava giusto pensando a me e che quell’incontro inatteso le sapeva di miracolo. Non usò quel termine, ma la descrizione che me ne fece il giorno dopo avrebbe meritato una trascrizione puntuale, giusto per il senso di miracolo che ne emanava. Be’, se non lo feci allora, ora non potrei. L’aura, però si risveglia: tu, Didia, stavi “monitorando” la mia immagine e mi parlavi, preparavi un discorso per l’incontro che ti proponevi di chiedermi (si era ancora in periodo scolastico e tu cercavi conforto, soccorso di acconce parole e consigli, io così buon psicologo – nel vostro giudizio di ragazze – e, di psicologia, insegnante): quell’improvviso sovrapporsi della percezione reale all’immagine virtuale del ricordo ti sconvolse come il materializzarsi di un fantasma, un evento metafisico. Ti mancò la voce, dicesti, e quando il parziale ritorno ti consentì di parlare, balbettavi con uno scampolo di sonorità arrochita.
Come fu che quella sera di autunno ci trovammo distesi sopra la sdraio rossa, tu sotto di me disteso? E io: perché concessi che la mia mano esplorasse la tua cedevolezza innamorata? Quel piccolo sferoide di salda carne destata al desiderio premeva la mia palma destra come un’effrazione non sospettata: difficile temerne l’emergenza durante il mite linguaggio dei baci, degli abbracci, più teneri di riconoscenza che ardenti di passione. E la ritrassi presto, quasi subito, al primo contatto di pelle, la mano sacrilega. Non eri una bambina, e non opponevi resistenza a quell’impeto improvviso: ti fidavi, certamente. Sapevi che mi sarei fermato prima di entrare in quell’umida intimità indifesa. E così fu. Mi ritrassi come se avessi toccato un oggetto sacro e proibito. Pentito di averti fatto sentire l’inevitabile consistenza del desiderio stanato, ma soprattutto imbarazzato di quel contatto carnale offensivo (pur se vestito). Non nel tuo giudizio, certamente: eri troppo presa dalla novità a lungo (ma, certo, anche vagamente) sognata per concedere attenzione e tempo a perplessità che spettava a me affrontare. Forse non eri neppure così sicura che la mano prensile si arrestasse a distanza dalle umide pieghe. E, se non reagisti, se non afferrasti il mio braccio a fermarla, forse la novità tracimante non te ne aveva lasciato spazio. Spazio mentale, voglio dire. Ti giudico? Neanche per sogno. Avesti allora, e hai ora, tutta la mia comprensione per la tua naturalissima infatuazione pupillare e conseguenti incuriosite cedevolezze. O giudico, semmai, me stesso, così scarso in difese contro la suggestione dell’Assente: non era stata lei, in fondo e sostanza, a calamitarmi sopra quella sdraio rossa che, nella stagione felice, aveva sopportato i nostri corpi allacciati, e conosciuto le mie esplorazioni “subtrascendentali”?

Com’è strano riaccendere questi ricordi, a trent’anni e passa di lontananza: sforzarsi di ricostruirli incollando frammenti. Che senso ha, a parte la voglia di assemblare a romanzo (o comunque narrazione) questo recupero trascrittivo e parzialmente integrativo di vecchi diari, l’insistente girovagare nel passato più vissuto? Ma non voglio rispondermi qui e ora: vedremo più in là. Ora e qui mi preme la ricostruzione, e sia pure parziale e imprecisa in qualche dettaglio.
Respirasti di sollievo quando io ritirai la mano? Ah, saperlo! Ma non so neppure, ormai, se la coppa del mio palmo carezzò uno solo dei tuoi glutei o, rapidamente, fugacemente, entrambi, uno dopo l’altro. Né se, carezzando, stringendo, si fermò davvero a distanza implume dalla trepida soglia o sulla tricologia terminale di essa turbata non-meta. Quel che so, ancora bene, è che l’evento rimase isolato. Non altro che brevi bacetti, da allora.
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Fra i ricordi erratici poveri di riscontri diaristici un non-incontro con Susy abbastanza sbilenco. Ero andato al cinema più vicino, dei due gestiti dallo zio, e mi guardavo, più che gustare, il film (non so più quale). Nel buio della proiezione, un movimento da uno degli ingressi laterali, attirò la mia attenzione. Guardai: esemplari giovani del bel sesso entrarono occupando i posti della fila precedente la mia, brevemente illuminati dalla luce elettrica liberata dal sollevamento della tenda divisoria. Mi ritrovai Susanna che volgeva le spalle alla mia faccia in ombra. Ai suoi fianchi, la sorella Rosina e la sorella Tina. Il cuore prese ad accelerare. Finii di guardare lo schermo. Guardavo le spalle, sempre esili, di Susanna, i suoi capelli ondulati e neri, le sue braccia, ogni minimo movimento di quel torso, di quella testa, di quegli arti e mani. Ad un certo punto, afferrando la spalliera del suo sedile, spinsi un dito fino alle sue spalle. Un tocco rapido, lieve, ma avvertibile. E non equivocabile come un contatto involontario: quei pochi secondi della sua durata bastavano a escludere la casualità. Susy non si voltò. E in quel momento io fui certo che mi sapeva dietro di lei, che quel minimo rapporto corporale veniva inserito dentro una lunga storia di precedenti molto più invasivi, più largamente pervasivi, ed era un piccolo test esplorativo. Sì, Susanna sapeva che le stavo dietro. Ho montato i pochi elementi disponibili in un mini-totale esplicativo di media plausibilità: mi avrà visto venendo a sedersi. Susanna sapeva che l’avevo toccata io. E anche per lei la visione del film dovette essere sostituita dall’attesa ipotizzante dell’intervello: che cosa avrei osato, io? Mi sarei fatto avanti, a salutare? Dopo mesi di silenzio, di incontri occasionali con la famiglia pieni di reticenze, di imbarazzati rinvii e quant’altro? E lei, lei come avrebbe risposto a un mio eventuale saluto, magari condito di sorridente disponibilità al colpo di spugna sul recente passato? Ma – avrà pensato – lui come saluterebbe? Non è poi così sicuro che sarebbe, il suo, un saluto cordiale.
Quello che feci io mi sorprende ancora oggi: me ne uscii qualche minuto prima che s’accendessero le luci dell’intervallo. Non volli incontrarle, lei e le sorelle. Perché, – mi sono chiesto, per giorni mesi e infine anni – se non per paura di un’accoglienza imbarazzante? Forse fredda, poco cordiale, evasiva? Non fu un bel gesto. E, soprattutto, non fu un atto di coraggio. Di colpo, mi sentii disarmato. Gli ultimi eventi e mancamenti mi avevano inchiodato nella mente la certezza che la famiglia sapesse del mio interesse extra-amicale per Susy. E, se pur diminuita delle “applicazioni”, l’informazione, quella informazione, doveva aver prodotto un riassetto nelle disposizioni affettive dei suoi componenti verso di me. Ero quasi sicuro che Susy li avesse anche informati del mio sogno di sposarla a un cugino di mia moglie, professore di lettere a Roma. Insomma, ancora oggi tento di minimizzare quel poco virile “mancamento”. Sì, è vero, non pensavo che avrei potuto non avere più occasione di incontrarla: speravo sempre che si facessero vivi, ora che Susanna era tornata. Come potevano rimangiarsi le promesse tante volte fatte a me e a mia moglie? Forse in quella ritirata fermentava anche questa motivazione: mettere alla prova la loro buona fede, la sincerità delle loro promesse. Fatto sta che me la squagliai. Ed ecco la debole attenuante che mi sono ruminato per anni. Sette, per la precisione

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Quando scrissi quella cronaca-ricordo ero convinto che mancasse qualsiasi traccia del suo contenuto sui miei quaderni. Ma poi, qualche tempo fa, mi capitò fra le mani (saltuariamente affannate nella ricerca di documenti susanneschi) uno dei quaderni-deposito con appunti frettolosi, ma significativi per interventi di parziali rettifiche. Era uno di quelli che conservavo nel cassetto sottochiave del tavolo da studio presente nella vecchia casa terrana della Sicania. Li tenevo lì per riempirli di note diaristiche nei periodici ritorni ad Akiskene. In questo sono raccolte pagine disparate relative a un triennio: dal luglio seguente alla promozione di Susy in quarta magistrale al novembre successivo alla maturità, dal santo Stefano dello stesso anno al febbraio e marzo del successivo.
E’ una pagina del marzo, una delle ultime del quaderno dunque, a recare la nota sull’incontro al cinema, ricostruito sopra. La nota è sbrigativa. Uno stacco dal testo sovrastante e dal sottostante (in tutt’altre faccende affaccendati) racchiude queste righe (graficamente sgangheratissime, tra l’altro):

Dall’ultima volta, novità. L’Assenza si è fatta, inaspettatamente, Presenza. Al cinema. Passarono in tre a me dinanzi: madre, sorella piccola e lei. Elegante. Mi ha visto la sorella piccola. In un casuale coup d’oeil. Contatto di dita sur les épaules. Nessuna parola, nessuno scambio di sguardi. Io me ne sono andato senza, ovviamente, salutare. Chiedendo permesso, ho fatto sentire la mia voce nel caso, non probabile, che non mi abbia avvistato la sorellina.
Comincia a maturare l’indifferenza? Forse. Ma resta, potente, il bruciore per lo smacco e la sete di revanche. Specie in fratrem.
Ora, al cinema, paghiamo. Abbiamo convinto il signor padre e il fratello, che insisteva sulla consuetudine dell’omaggio. Non era più il caso. Non lo è più.
Ho detto al secondo fratello, Roberto, di chiedere alla signorina sorella Susy come vuole che le facciamo pervenire le cose sue rimaste in casa nostra: libri, orecchini, foulard. Non ho ancora avuto la risposta.

Come si vede, pur nella sua scarna stringatezza, la nota integra e corregge in qualche punto la mia ricostruzione congetturale. E offre, nelle ultime righe, un’aggiunta significativa su quel tempo, ormai remoto, inoculato dell’inevitabile biochimica mitizzante. Eccole:

Ho incontrato l’ex alunna Stella Cammàra, compagna di classe della Traditrice. Sempre bella e pienotta, la cara occhi-glauchi, s’è sposata. Ma nemmeno per ischerzo vuole sentirne della mia ipotesi di passare al lei (o al voi, che nella Magna è di prammatica confidenziale ma non troppo): lei, dice, è sempre la mia allieva e le spetta il tu, ancora e sempre, il latino tu. Mi ha detto di avere incontrata Susy, all’interno dell’ospedale nuovo di Zefiria, in occasione del parto di sua sorella. L’Assente vi si trovava in visita, con madre e sorella Rosina, di suoi parenti ivi ricoverati, non so più perché. Stella le ha chiesto di me. Dalla risposta evasiva, dice, ha capito il suo allontanamento da noi, dalla nostra famigliola, già tanto corteggiata e lodata. La sua ingratitudine, insomma. Che io non nascosi. Anche se Stella non osò utilizzare la parola.

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1. SETTE ANNI DI BLACK OUT
[…] si scrive per popolare il deserto; per
non essere più soli nella voluttà di essere soli; per distrarsi dalla tentazione del niente o almeno procrastinarla. A somiglianza della giovane principessa delle Mille e una Notte, ognuno parla ogni volta per rinviare l’esecuzione, per corrompere il carnefice.
Gesualdo Bufalino, Le ragioni dello scrivere
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[…] perché un romanzo deve per forza andare avanti? […] Se invece provassimo a immaginare che un romanzo non ha direzioni ma polarità? Gangli, plessi, come il sistema nervoso …? […] Il romanzo è una pompa aspirante…pompa tutto[…] un romanzo dovrebbe essere tutto pieno di cose casuali, niente di ben meccanizzato. (Giuliano Gramigna, Marcel ritrovato, Rizzoli, 1969, passim)



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INTROIBO

Un momento di esitazione. Quasi di smarrimento. Chi è, chi è diventato, colui che sta tentando di richiamare alla memoria un passato in frantumi per montarne un qualche assetto narrativo coerente? Non è il caso di guardarsi allo specchio della coscienza attuale e vedere se riesco a reggere il peso di un confronto inevitabile con quel passato spoglio degli eventi allora futuri, che hanno modificato negli anni percezioni edonistiche e valutazioni morali fino alla condizione attuale? Modificazioni indotte, tra le altre concause ed esperienze, anche dalle mutazioni privative ed acquisitive della corona parentale più intima, quella che più condiziona la (almeno parzialmente) nuova disposizione mentale. Parliamone, dunque, sia pure per elettrici cenni in fuga.
I figli, innanzitutto. Giampiero ha conosciuto difficoltà di salute e ritardi negli studi, con un culmine depressivo ad alto rischio, durato poco più di un anno. Non senza riprese variamente contrastabili negli anni successivi. Oggi, però, è uno psicologo a stipendio presso un pubblico Centro di Igiene Mentale inserito nel Sistema Sanitario Nazionale. Ha vinto il competente concorso per titoli ed esami pochi anni dopo la laurea e lavora con oscillante passione. Si è anche sposato: con una pediatra più giovane di lui di cinque anni. Dopo quattro anni di “solitudine coniugale” (dovuti esclusivamente alla paura del problematico marito davanti alle responsabilità incollate al generare), il primo figlio (ce ne saranno altri?). Che è già al quarto anno di residenza terrena. E’ un bel bambino, vivace e curioso, ma un po’ cagionevole. Frequenta la scuola materna. Residenza vicina, a pochi chilometri dal nostro paese sicanico. Comincia a zampettare sulla tastiera del computer per certi giochini adatti alla sua età. Timori: vedo i segnali della timidezza introversa del padre (e del nonno, in primis. Ma qui con discreti “anticorpi”). E della zia, cioè la mia Manuela, che è stata, ed è, più timida e taciturna del fratello. Eppure, a via di sforzi e di sacrifici, suoi e miei, si è laureata in lettere classiche (naturalmente, l’aiuto maggiore l’ho dato per la tesi): Oggi insegna in una scuola media. Dire che se la gode, sarebbe una spudorata bugia: troppo stressante impresa è per lei tenere a bada i vispi ragazzini e le precocissime fanciulline delle medie. Alla timidezza genetica non c’è rimedio (con buona pace dei parolai della psico-pedagogia, ancora drogati di libero arbitrio, forza di volontà, ed altro bene “spiritale”. Sposata anche lei, con un bravo collega di matematica e fisica, ordinario al liceo scientifico della nobile e vescovile città sicaniota di Realpolia, irta di chiese monumentali e campanili. Un primatista dei concorsi vinti: quattro in contemporanea sfornata multipla del competente ministero, che da allora, in fatto di concorsi a cattedre, tace e riposa (e son passati parecchi anni). Superamento delle rispettive prove con ottimi voti e conseguente collocazione in graduatoria. Inde, ampia facolta di scelta del tipo di cattedra. E dire che già insegnava, da incaricato annuale, durante la preparazione ai vari concorsi, con un cospicuo consumo energetico. Insegnava, per giunta, in un paese lontano, sciupando circa tre ore in viaggi di andata e ritorno. E non è finita: aveva anche il peso di qualche lezione privata, non rifiutabile per via di amicizia e parentela. Uno stakanovista, insomma. Oltre che un buon ragazzo. Ma la sua costituzione poco robusta mi inocula qualche preoccupazione per la sua futura resistenza alla fatica e la dipendente integrità di salute fisica. Abitano, nella periferia affollata della stessa Realpolia dove insegnano entrambi, un appartamento con ampia terrazza, in un residence nuovo e pletorico, capolavoro della res aedificatoria dei nostri fertili tempi di speculazione selvaggia. Niente figli. Soltanto per ora? I due matrimoni si sono seguiti a distanza di un anno: primo celebrato, quello del maschio. Siamo dunque, Rina ed io, già nonni. E piuttosto curiosi della lotteria genetica prossima ventura.
Ecco, insomma, una doppia buona ragione per smetterla con l’amarcord narrativo. In mancanza della quale soluzione (ottimale), l’obbligo di stare attento a non lasciare trasparire troppo l’autobiografismo del racconto. Indi, maschere e più o meno lievi spostamenti: di nomi, luoghi, circostanze, eventi. Non è operazione facile per me, ma è imperativa.
Nel capitolo “sottrazione” la “corona parentale intima” accusa “defezioni” ancora sanguinanti a distanza di lustri: mio padre ci lascia, all’improvviso, a settantun’anni, sul finire degli anni Settanta. Un ictus, disse la scienza ippocratica nella sezione cardiologica. E da allora non ho finito più di incontrarlo nei miei sogni congesti. Diradando gli incontri con lo scorrere dei mesi, certo, ma non cessando del tutto neppure oggi. Quattordici anni dopo se ne va mia madre. Anche lei, all’improvviso, passando dal sonno alla morte, seduta in poltrona. Ma il transito non ebbe luogo nella casa di uno dei figli, bensì in una Casa per anziani di un paesino calamagnese. E furono, quei suoi 14 anni di sopravvivenza, anni di pianti, di tribolazioni fisiche e sofferenze morali per insospettabili défaillances che il trascorrere del tempo assistenziale scoprì nella disponibilità ospitale verso la madre e suocera vedova, sempre più leggera di corpo ma non di malanni e loro conseguenze. Coincidenza: la mamma morì pochi giorni dopo il matrimonio di Giampiero. E ancora mi chiedo quanto possa avere accelerato la “partenza” quel distacco dal calore filiale decretato dalla poco amorevole nuora giovane della Calamagna. Cieca, la sofferente vecchina, non si era resa conto subito del “trasloco”: quante volte, la notte, avrà chiamato invano il figlio assente, il figlio lontano, il figlio amatissimo? Questo pensiero ritornante, a intervalli bradi, mi soffoca con la sua rapsodica presa di artigli.
Per tacere di altre morti, precedenti quelle dei genitori: di zii e zie, per esempio, troppo vicini alla mia famiglia paterna, quindi alla mia. Con conseguenze mangia-tempo e qualche impegno finanziario poco compatibile con il mio stipendio dell’epoca, e tuttavia inevitabile. Ci ritornerò, forse, con più dettagli, nel corso della ricostruzione-narrazione di quei tempi lontani.
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Susanna, dunque. Non la vidi più, appunto, per i successivi sette anni. E fu un settennio denso di eventi: pubblici e privati. Ricordarli? Mah, un cenno, forse, non farà male allo zoppicante racconto di fatti sfrangiati: non foss’altro, per coerenza con la parte strettamente diaristica, sempre intrigata di “evenemenzialità” pubblica. E perché le piccole vicende sentimentali del binomio protagonista si vengono a trovare spesso intercalate fra gli eventi grossi delle tragedie planetarie. O delle commedie e feste di grande rimozione. Fra gli eventi mondiali, nuovi e vecchi, inerziali feroci conflitti mostruosamente armati: dal Vietnam all’Indonesia, dall’Africa affamata, e infestata dal molteplice indotto patogeno della condizione basale, all’incancrenito Medio Oriente arabo-israeliano. La frattura URSS-Cina fu, fra quegli eventi, il più traumatico per metà del mondo. Appassionò e divise drammaticamente anche la “Primavera di Praga” e il successivo inverno (altri, esagerando ad usum Delphini, preferisce dire inferno). La Guerra dei Sei Giorni (del giugno ’67) accese entusiasmi deliranti presso gli ammiratori senza riserve del “miracolo ebraico” in Palestina. Ricordo l’orgasmo sbavante di certi professoroni e professorini universitari (con e senza barba) sulle colonne del Corsera e di altri illustrissimi fogli del moderatismo filoamericano assoluto, cioè più strabico e cinicamente balordo. A me provocò rabbia, frustrazione, paura. Su una pagina dell’agenda-diario di quel giugno scrissi una specie di frase-definizione: “Israele, spina nel fianco dell’umanità”. Sbalordito dalla superiorità militare dello Stato ebraico, non me ne compiacevo come la stragrande maggioranza del “mondo democratico”, idest occidentale, perché la tracotanza e la sottintesa filosofia del grosso bastone di quella classe dirigente oscurarono il mio “cielo interno” di una cupezza previsionale mai più smessa. E purtroppo sempre confermata nel suo peggio, ancora virente, mentre proiettiamo su schermo di video-scrittura brandelli di ibrido passato.
Insomma, gli eventi pubblici e storici continuavano a influenzare la mia vita emotiva e intellettuale turbando le mie ore, ispirandomi articoli per i giornaletti locali cui collaboravo. E inserzioni nella routine, del resto per niente monotona, del mio lavoro scolastico: le classi miste del liceo classico, quando vi approdai rientrando nella Sicania, offrivano realtà umane più reattive agli chocs della storia in fieri e ai suoi nessi con quella dei libri. Il settennio comprese anche quella parziale rivincita e riscossa araba che fu la Guerra del Kippur. Per la prima volta nella sua insuperbita storia trionfale, lo Stato ebraico ebbe pan per focaccia: fu colto di sorpresa, e per alcuni giorni le prese di santa ragione. L’Egitto attaccante, dopo anni di preparazione militare assistita da’ un Urss discreta, fu in grado di applicare una specie di contrappasso al suo nemico storico. Mi si risveglia la soddisfazione di veder precipitare bruciando i caccia israeliani “bucati” in kulo dai “Sam 6” russi, i missili che inseguivano gli aerei, calamitati dal calore dei reattori: quanti ne caddero, sulle umiliate alture del Golan!
E non blasonare di calunnioso cinismo, quaderno, questo compiacimento a distanza. Non sono stato mai antisemita, e nei primi tempi del dopoguerra, quando non ero ancora bene informato, mi stupivo che si potessero “trattare male” gli sventurati ebrei scampati al macello infame della Shoah. Ogni volta che vedevo, al cinema o in televisione, documenti di quell’oscenità senza limiti, un ingorgo di lacrime mi stringeva la gola. Anzi, non raramente si scioglieva e tracimava dagli occhi: specialmente quando mostravano al martirio l’innocenza assoluta fatta carne, i bambini. Dentro, maturava la coscienza viscerale che enormità di quel livello avevano dato la misura definitiva dell’homo necans che s’annida nel cervello giurassico a insidiare, costantemente, l’homo sapiens del neopallio. Il quale peraltro, spesso celebrato come tempio inviolato della dea Ragione, domatrice dei ferini istinti, si mostra così indifeso verso l’“imperialismo” cogente del primo da fornirgli alibi speciosi e tortuose giustificazioni potenziatrici. Naturalmente, a suon di “maiuscole”. Che è, poi, il suo ruolo eminente e inconfessato. Basti pensare alla forza invincibile di “religio”.
Ancora oggi so, di questo sapere labirintico-pervasivo, che la razza umana è capace di tutto, anche del proprio annientamento. So che potrebbe ripetere una cento mille volte l’olocausto, questo sfregio inguaribile sul volto dell’umanità celebrata a parole e icone d’arte. E che, di fatto, l’ha ripetuto, sia pure in piccolo. O, a meglio dire, senza l’inarrivabile cima dello sterminio massivo scientificamente programmato. Sì, non mi vergogno a dirlo, ho pianto per le straripanti sofferenze di quel popolo, dei suoi individui in carne, umiliati, torturati, eliminati come insetti infestanti dalla più grossa sbornia della distruttività umana (per dirla con Fromm). Ma quando ho dovuto constatare la sbrigativa perentorietà assassina di certe rappresaglie israeliane ad atti di resistenza palestinesi paragonabili, nella luce di quelle “risposte” eccessive e ripetitive, a punture di spillo, mi sono sentito forzato a vedere che il nuovo Stato, incuneato nel cuore di un territorio straniero, da tredici secoli arabo-palestinese, usava con i cugini semiti metodi non paragonabili, no, ma certo compatibili, in scala, con quelli dei loro carnefici di ieri. Insomma, che stava facendo pagare, con durezza di modi sbrigativi, agli incolpevoli arabi le colpe degli europei. Dei cristianissimi civilissimi coltissimi europei, nonché inventori della democrazia tollerante accogliente umanitaria, e via celebrando. Come se secoli di pogrom, nell’Europa dell’ovest e dell’est, fossero stati invenzione dei palestinesi o di qualche altro popolo arabo. Come se l’iperbole infernale di ogni olocausto, la shoah, non l’avessero inventata e puntigliosamente realizzata dei cervelli tedeschi, cioè di una non secondaria porzione di Europa. Come se il nazismo e i nazisti non fossero parte e prodotto di quei tedeschi europei supercivili, cultori emeriti di arte filosofia letteratura scienza e musica. E i silenzi, le rimozioni, la finta ignoranza di popoli uomini politici autorità statali istituzionali e religiose non fossero complicità europee cristiane occidentali. Facile, oggi, salmodiare di dialogo fra religioni, irenismo multi-culturale e altro para-platonico flatus, anzi Bonum, vocis: ma chi ha inventato, e rispettato in sensibus et rebus, per venti secoli l’immonda assurdità del “popolo deicida”? indi, segnato da maledizione storico-metafisica? E pertanto fauna e terreno di bracconaggio per Stati predatori e popoli cristiani fertili di pogrom e “sacri macelli” ad Est e ad Ovest.
Come rifiutare, per chiudere, un omaggio a un primatista dell’oscenità sacrale al mitico fondatore dell’Università cattolica, il gesuita di cinica fama Agostino Gemelli? Questo capolavoro della cultura cattolica commentò la shoah sentenziando che gli ebrei stavano pagando la colpa di avere ucciso il Figlio di Dio. Mirabile esempio di come, in certe fisiologie, un’assurda favoletta metafisica possa generare mostri. E mostruosità settoriali.
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Ma dove Cristo mi vado a cacciare? Al solito, mi lascio prendere la mano dalla passione. Bel filosofo, sono. In conclusione: non mi sento affatto anti-ebraico, continuo a pensare che l’Uomo, per quello che ha fatto agli ebrei e ad altri popoli, meriterebbe di sprofondare nel pozzo senza fondo del nulla eterno. Ma non smetterò di condannare, in pubblico e in privato, la sciagurata, sadica, e, a lungo andare, anche autolesionistica politica castrense dei Responsabili israeliani e della loro destra torvamente biblica. Come se dagli aguzzini storici, i capi israeliani, avessero imparato la durezza spietata dei conquistatori antichi. Ed eccoli a inseguire il sogno del Grande Israele, foraggiati e garantiti dalla superpotenza che ha usato, prima, e ancora unica nazione, l’inferno disumano detto bomba atomica, e per soprammercato contro inermi popolazioni civili. Una bella accoppiata. Alla quale dobbiamo il più recente regalo della perversione antropica: il radicalismo islamico. Novità crescente, ancora infante nel settennio, ma destinato a un fiammeggiante avvenire adulto.
La vocina del coboldo si è fatta sentire dentro l’orecchio medio: non ti vergogni di gioire per la morte dei piloti ebrei abbattuti sul Golan? Risposta, più o meno ponderata: non gioisco della morte di quei giovani, ma della lezione che hanno ricevuto i loro capi e la parte biblico-reazionaria della popolazione. Che sofista, sei, Paolo non di Tarso (forse di “metatarso” in fuga?). Sia come sia, a me dispiace sapere di esseri carnali (le piante soffrono di meno) che muoiono bruciati; ma quanti palestinesi, armati e inermi, sono stati massacrati e bruciati da quei guerrieri fino a ieri intoccabili? E quanti di quei bambini rientrano nella contabilità comoda degli “errori”? Unicuique suum.
Quanto alla facile risorsa di un polemos zoppo di sputare in faccia l’accusa di antisemistismo anche a chi si permette di criticare certi aspetti poco edificanti della cultura religiosa ebraica, be’, bisogna farci, come saggezza popolare suggerisce, e dice, il callo. E lasciar dire, e onorare l’evidenza e la verità fattuale. Ai miei studenti leggo, da qualche tempo, il testo della scomunica comminata al mite saggio pacifico Spinoza dalla comunità ebraica olandese. Quasi quasi la trascrivo: alla peggio, sarà un altro documento della mia dabbenaggine autolesionista. Ma sì, eccola, facciamola splendere in tutto il sulfureo orrore delle sue truci parole di odio teologico. Magari solo un passo esemplare.

Col giudizio degli angeli e la sentenza dei santi, noi dichiariamo Baruch de Espinoza scomunicato, esecrato, maledetto ed espulso, con l’assenso di tutta la sacra comunità, al cospetto dei sacri libri, nei quali sono scritti i seicento e trenta precetti, pronunciando contro di lui tutte le maledizioni con cui Eliseo colpì i fanciulli [sic] e tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge. Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia egli maledetto quando si corica e maledetto quando si alza; maledetto nell’uscire e maledetto nell’entrare. Possa il Signore mai più perdonarlo, né riconoscerlo; possano l’ira e la collera del Signore ardere d’ora innanzi quest’uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge e cancellare il suo nome dal cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità, da tutte le tribù d’Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni del Cielo contenute nel Libro della Legge; e possiate tutti voi, che siete obbedienti al Signore Iddio nostro essere salvi fin d’ora. / Siete tutti ammoniti, che d’ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dimorare sotto lo stesso suo tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti, e nessun leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno”

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