sabato 21 novembre 2009

Susanna, frammento 46


25 novembre,
primo pomeriggio

Dal serio-frivolo personale al tragico della storia universale: oggi ricorre il terzo anniversario del funerale di J.F.K. Tre giorni fa, quello dell’attentato mortale nella città del petrolio miliardario e del dollaro mammonico. Ne ho parlato a scuola, e i nuovi alunni di sesso maschile hanno seguito con partecipe attenzione la mia rievocazione. Ho fatto leggere nella classe IV il mio editoriale di due anni fa (Gazzettino d. g.) sul Rapporto Warren, offesa alla verità e al dolore dei Kennedy: ho segmentato il lungo articolo fra i tre studenti più interessati alla politica. Poi ho invitato la classe a commentare lo scritto. I più condividevano le mie argomentazioni (per nulla originali, peraltro, ma nuove per loro) in appoggio alla tesi del complotto. Qualcuno, di famiglia democristiana e padre politico, ha espresso dubbi sulla tesi, cioè si è schierato con l’interpretazione indolore del tragico evento avallata dalla Commisione d’inchiesta. Ho replicato aggiungendo altre notizie e considerazioni personali sull’impossibilità che un mezzo squilibrato come Oswald potesse architettare ed eseguire da solo quel po’ po’ di progetto criminale. E ricordato tutti gli elementi di prova contro l’unicità esecutiva e direzionale degli spari (provenienti, in realtà, da più parti), la troppo facile uccisione di Oswald da parte del grassone Ruby in mezzo ai tanti poliziotti di scorta, la morte in carcere del giustiziere improbabile e tanti altri segnali e indizi convergenti sull’ipotesi ferrigna della congiura a più teste. Senza trascurare il fatto che il povero Oswald dal passato serpentino si era sempre dichiarato capro espiatorio di ben diverse presenze in campo. Il ragazzo rimase perplesso, ma meno di prima, e certamente scosso dai miei argomenti cui non poteva opporre nessuna informazione di altra fonte.
Il discorso si allargò alla politica e alla personalità del presidente assassinato. Ho spiumato un po’ il mito di J.F.K., ma non ho sminuito i meriti e le buone intenzioni in senso più realmente democratico (la parità di diritti tra bianchi e negri, un welfare più generoso, una maggiore attenzione verso gli svantaggiati in generale, una politica estera più distensiva, dopo lo show down nucleare al limite dell’azzardo apocalittico, eccetera). Quanto ai punti neri della sua politica, è presto detto: la sciagurata avventura della “Baia dei porci” (assistenza militare al fallito tentativo di sbarco dei fuorusciti cubani, nostalgici di una pacchia finita con la sconfitta del sadico Batista e la vittoria di Castro), l’ampliamento dell’impegno militare in Vietnam, a difesa di una causa sbagliata, la sfida frontale all’URSS di Krusciov nel contenzioso dei missili russi a Cuba.
Ho spiegato ciascuno dei temi con una certa larghezza. Sul tentativo di invadere la Cuba di Castro (ancora fresca di liberazione dal cancro Batista, dittatore fucilatore e castratore di “teste calde”, cioè di oppositori popolari al suo regime spietato e corrotto) ho illustrato l’iniziativa dei fuorusciti cubani, esponenti di quella borghesia che s’era arricchita con l’acquiescenza agli Usa e da questi accolti e protetti in Florida; l’azione fanatica della Cia al servizio del dio dollaro, l’ingenuità di Kennedy nel credere alle panzane degli esuli e all’incauto ottimismo di quell’Agenzia dei giochi sporchi, ritenendo perciò facile l’impresa; la reazione decisa e vincente delle forze armate e di tutto il popolo cubano; il fallimento del velleitario sbarco e l’interruzione dei bombardamenti sull’isola, ordinata da un tardivo ma rinsavito Kennedy (cui prodest il rischio di un più micidiale conflitto con l’Urss?). Il che non vuol dire che i successori di John Kennedy rispetteranno lealmente l’impegno di non molestare Cuba: non l’occuperanno, ma azioni pretestuose di canagliesco disturbo non incruento sono più che probabili.
Ad attenuare le responsabilità dirette di Kennedy conviene ricordare che il piano d’invasione contro la nuova Cuba era stato merito sinistro del vicepresidente Nixon e dei suoi servizi segreti: appena eletto, Kennedy se lo trovò sul tavolo, ben rifinito nei dettagli, e non osò fermarlo. Fermò, invece, con lodevole grinta, le folli tentazioni dell’America reazionaria in due occasioni cruciali: la prima, allorchè bloccò il governatore razzista George Wallace, che, in posa mussoliniana, aveva deciso di mantenere la promessa fatta ai suoi elettori di non fare entrare nessun negro nell’università dell’Alabama, e a tale nobile fine aveva schierato la Guardia nazionale davanti all’ingresso; la seconda volta, durante la crisi dei missili, quando impose l’alt a quei criminali dello Stato maggiore che ne avevano già innescato un po’ per una risposta militare alla sfida di Kruscëv. Nel primo caso Wallace ricevette questo “messaggio”: o lasci entrare i giovani neri, secondo le disposizioni dei Tribunali federali, “opppure l’ordine sarà fatto eseguire dai soldati dell’esercito federale americano entro 24 ore”. Nel secondo, al “non possiamo tornare indietro” degli arroganti generaloni dello Stato maggiore rispose: “Il Presidente degli Stati Uniti vi proibisce di fare la guerra e vi ordina di disarmare le testate atomiche. Oppure io dichiarerò pubblicamente che i miei generali non ubbidiscono a un ordine del Comandante supremo, che è il Presidente degli Stati Uniti.” Che sono due buone decisioni: due rilucenti dobloni nel suo medagliere politico.
Sull’errore vietnamita di Kennedy i ragazzi erano più informati: la sporca guerra essendo ancora in pieno e vieppiù cruento corso. Ai pochi che credevano alle menzogne americane e dei telegiornali, che quei campioni di democrazia si fossero cacciati in quel pantano di sangue per difendere la libertà dell’Occidente, ho cercato di chiarire un po’ le idee. Vedremo gli effetti del tentativo (peraltro, non il primo dei miei dall’inizio di quest’anno scolastico) nei prossimi mesi. Sul muso duro Usa nella crisi dei missili, ho anche dovuto contrastare la versione ufficiale e trionfalistica di una resa a discrezione dell’Urss, ricordando la contropartita del ritiro russo: l’impegno americano di non attaccare mai Cuba. Particolare rivelato e ripetuto dai leader sovietici, ma obliterato dalla propaganda americanisant dell’Europa e dell’Italia ufficiale. Cosa naturale, d’altronde: dopo il flop dello sbarco fallito, il meno che si potesse dare in pasto ai delusi fans di zio Sam era un bel trionfo della superpotenza bianca sui barbari rossi, ridotti a un’umiliante fuga atlantica. Favoletta per gonzi blindati.

A questo punto dell’animata esposizione-discussione un giovane mi chiese se fosse vero che il “compianto presidente” era anche un emerito dongiovanni e aveva avuto una relazione pure con la molto compianta Marylin Monroe. Ho risposto che sì, si diceva si scriveva e si spettegolava sulla relazione; e che in effetti né John né il fratello Robert (suo fedele consigliere e “complice” come ministro della Difesa) si risparmiavano gli extra moenia galanti. Aggiunsi i sospetti che circolano nei media su una responsabilità dei due versatili Dioscuri nella morte della divina super-sexy, bambola di carne costruita dalla fabbrica holliwoodiana e dalla stessa, forse, abbandonata alle sue nevrosi dopo cannibalica spremuta. Sospetti, indizi, ricerche, testimonianze su strani movimenti intorno al corpo esangue; e poi libri e reportage a iosa, per far luce su quel suicidio ai barbiturici poco credibile, secondo la passione dei milioni di amanti virtuali della bionda seduttrice troppo fragile. La gran parte di questi interventi (che non sembrano destinati a finire) sono appuntati su quei dubbi e sospetti, su quella presunta, non incredibile, ma scarsamente provata responsabilità diretta, ma ben coperta, dei fratelli sciupafemmine. La lugubre tesi è che quei politici al vertice del potere fossero stati costretti a tappare una bocca già diletta e usatissima, ma rivelatasi, poi, pericolosa (minacciava di rivelare “urbi et orbi” i suoi rapporti con i due “farabutti”), servendosi di collaboratori al di sopra di ogni sospetto. Sopratutto di... inefficienza mortuaria. Un particolare gode di una larga convergenza testimoniale: Bob Kennedy in visita trova Marilyn morta e “cancella” la propria presenza in quella casa compromettente con l’aiuto di servizi segreti e complementare assistenza mediatica. Non priva, peraltro, di buchi e flatus vocis.





28 nov.
Ore 7, 15

Piove. Una pioggia fitta, uniforme, frusciante. Un filato di monotonia, con un fondo continuo e sottile, bucato da ritmici scrosci brevissimi e da sonori stillicidii a intervalli regolari. Il cielo è un denso grigiore di cenere, un unico colore da venerdì santo, leale, accorante, senza sorprese. Lo strillone annuncia La gazzetta, ma oggi è lunedì, il giornale è pieno di sport, come tutti i quotidiani: non la compro.
*
Ho fatto un sogno stamane, nell’ultima ora di sonno, più o meno. Un altro della serie “Susanna domina”, lungo, complicato, articolatissimo. E, appunto, tutto pieno di quella figlia di buona donna. Eravamo in Sicania, nella mia cittadina, e ci si trovava (chissà come e perché) nella casa paterna, sulla strada periferica che congiunge la mia città con il prossimo paese a nord. Il primo scorcio mnestico mi mostra addirittura dentro la stanza da letto dei miei genitori, e non da solo, ma con loro due, più mia moglie e Susanna. Siamo in un momento di silenzio, forse successivo a una fase parlata. Io mi guardo intorno, c’è nell’aria un imbarazzo tangibile. Mi sento come la massa magnetica che genera il relativo campo e percepisco le altre presenze come nuclei metallici che ne distorcono le linee di forza. A un certo punto, sotto i miei occhi colmi di muti rimproveri, forse un po’anche per la suggestione dei luoghi cari che lei tornava a vedere, quel velo di mortificata tristezza che copriva come una cipria pasquale il volto pallido di Susy si fece più denso ed ella cercò di nascondere un improvviso luccichio nei magnifici occhi. Gonfia di tensione pronta a scoppiare, chiese di poter uscire nel cortile. Forse, pensai, con l’intenzione di salire al primo piano lungo la scala esterna. Dopo un po’ io, quasi convinto che nessuno avesse badato a Susy, poiché tutti i presenti (se n’erano aggiunti altri?) apparivano indaffarati (ma intorno a che cosa?), uscii dalla camera per raggiungerla e poterle parlare a tu per tu. Ma nel cortile (piastrellato con mattonelle quadrate bianco-cenere cesellate a geometriche fantasie) c’era zia Vanna, l’unica sorella di mio padre. Indossava un abito color senape con sopra le spalle uno scialletto rosso. Che contrasti cromatici, pensai. La zia mi sorrise ammiccante, mentre stendeva del bucato ai fili di zinco, tesi alti sul cortile. Mi avviai alla scala in muratura pensando “ora mi viene dietro”. Infatti, avevo appena esaurito le due rampe ad angolo retto della scala quando, guardando in basso dal ballatoio che conduce al terrazzino sud, mi vedo dietro lei, che davvero mi ha seguito. Ha, disteso sul viso, dalle labbra agli occhi, lo stesso sorriso maliziosamente allusivo di poco prima. Feci un gesto di stizza. “Ah, vuoi essere lasciato solo”, disse, con aria allegramente conciliante. “Va bene, vai!” Mi salutò, con quel sorriso indisponente, e mi lasciò solo a raggiungere Susy (ma non era sparito il timore che potesse ripensarci: era così rompiscatole, la zia). Guardo dentro la prima e dentro la seconda stanza del primo piano: Susy non c’è. E dunque non può essere che sul terrazzino (una stanza mancata, in realtà, con due lati coperti da pareti di stanze: ad ovest, dalla nostra seconda; ad est, da quella dei vicini.). E lì stava, infatti, Susy. Precisamente, vicino al balcone sulla strada provinciale. Ma non guardava la strada sottostante, lo sguardo puntava al pavimento del balcone. E gli occhi grondavano lacrime. Sembrava disperata. Mi avvicino, comincio a parlare, sbattuto fra la rabbia accumulata e una certa commozione che germogliava, umida e vischiosa, lungo la gola. Lei mostrava lo sforzo di calmarsi.
“Perché non ci hai pensato prima?” Dissi (forse, ma non ne sono sicuro): le parole mi danzano sfuggenti davanti agli occhi della memoria incerta. Sicuro sono, invece, di essermi sentito vieppiù gonfio di emozioni contrastanti, un groviglio in turgida espansione multipolare. V’era quel bisogno di arringa inquisitoriale che m’era cresciuto dentro, inarrestabile e perentorio, nei mesi dell’“esilio”; fermentava quell’intenerimento che le sue lacrime, la sua sofferenza, manifestamente sincera, avevano seminato nella polpa mai troppo dura dei miei poveri neuroni vibranti di contrastato risentimento. Insomma, tra endorfine e anfetamine, neuro-trasmettitori confusi e memorie drogate, ero così emozionato che le parole mi uscivano impacciate, impulsive, in sofferenza di ordine sintattico. Ne avevo appena pronunciate alcune, raccolte in concitate frasi di accuse stemperate, quando entra in scena mia moglie: un ectoplasma improvviso, condensato in un flash di oblio. Da dove sbucava? L’aveva avvertita la zia? Forse. Mandai via anche lei: “Insomma! Sarà permesso dire due parole da solo a Susanna, no?” Mia moglie la vide rossa in viso, gli occhi gonfi del pianto appena sgorgato, si turbò come chi sospetta confidenze a lei precluse, ma acconsentì a lasciarci soli sul terrazzino. Di sicuro il mio tono non consigliava opposizioni al buio. E cominciai quella requisitoria che ribolliva nel pentolone del risentimento accumulato. “La mia amicizia sarà eterna, io non cambierò mai, non sono un’ingrata, non dimentico chi mi ha fatto del bene”: ricordi, Susy, queste tue belle frasi rivolte a me e Rina? E quando eravamo soli: “I miei sentimenti verso di te non muteranno mai”. E io, timoroso dell’imminente lontananza, scettico sulla promessa brevità del soggiorno pugliese, replicavo con amare parole di fede in difficoltà: “Cambierai. Sì, cambierai. Quando avrai conquistato il diploma, andrai a Taranto, e quando sarai lontana da noi, a poco a poco ci dimenticherai. E soprattutto, mi dimenticherai.” “No, mai!” “Vorrei poterlo credere, Susy”. “Devi crederlo, ti costringerò a credermi”. “Beh, forse dimenticarci non potrai, ma cambiare nei sentimenti, questo sì. Ci saranno tentazioni, allettamenti nuovi, più radiose prospettive di futuro...”. “Balle, non cambierò.” Ricordi, Susy? Questi erano i discorsi che scorrevano fra noi prima che finissero gli esami, e subito dopo. Come avevo ragione! Come sentivo la tua incostanza, la tua suggestionabilità!” “No, nessuno mi convincerà contro di voi, nessuno mi può suggestionare.” E questo nel sogno ripeteva: “Io non mi sono fatta suggestionare da nessuno.” “Davvero? Allora eri bugiarda quando dicevi a quel modo.” “No, non ero bugiarda.” “Come no? Ma se ci hai propinato una ‘storia infinita’ di bugie variamente motivate!”
Forse fu a questo punto che tornò Rina. Chiese come andasse, se avessimo finito di parlare da soli, se Susy si fosse calmata. Ma Susy era tutt’altro che calma. Poco dopo, non ricordo come, fummo di nuovo soli, io e lei (che ne era di Rina? L’avevo allontanata di nuovo? Ma poteva essere stato così facile?). Nello stesso terrazzino dal balcone nero di vecchia ruggine incorporata riprese il malinconico duetto delle accuse e delle scuse, dello scavo impietoso e della patetica difesa. Le dissi che si erano comportati tutti male con noi, prima lei e poi i suoi familiari. Specialmente con mia moglie, che l’aveva trattata come una sorella. Lei, Susy, era stata la prima a tradirla, a ingannarla.
Non m’accorgevo nemmeno dell’ovvio garbuglio in cui m’impigliavo: si capisce che l’aveva ingannata: sempre, dal primo momento della loro conoscenza. Avevo compiuto il mio bel lavoro, io in persona, per questo poco nobile risultato. La responsabilità, qui, andava divisa in parti uguali tra me e lei. Ma io alludevo ad altro inganno, s’intende. Io, o quella parte della “finzione grammaticale” che mi faceva comodo in quel momento, badavo alle promesse mancate di Susy sulla durata del soggiorno pugliese, su quel tanto di affetto che inevitabilmente era germogliato verso la rivale-amica così prodiga di aiuti nel cuore imbarazzato di Susy. E calcavo la mano sulle sofferenze di Rina per questo tradimento. Bersaglio principale, nella requisitoria, era il fratello tenente: com’era stato maleducato, il bel tenente, a non farsi vivo per nulla. Dopo le ripetute promesse del padre, secondo cui il figlio avrebbe chiarito le ragioni del prolungato soggiorno. E anche loro, padre e madre, non erano più venuti a casa mia. Perché?
“Non lo so. Ma non si sono comportati male”, annaspava Susy.
“No? E come posso qualificare il loro comportamento? M’incontra tua sorella Rosina e mi fa: non vinistivu cchiù a casa mia. Come se niente fosse accaduto. Io rispondo ribaltando la domanda: “E voi, siete venuta da noi?” E senti un po’ che spiegazione per l’insolita latitanza: Ma sapiti com’esti, u lavuru... Fantastico: un lavoro così ingombrante da non lasciare il tempo per una visitina più che doverosa. E io, a Rosina: “Davvero? Perché, al cinema dello zio non andate, forse? Dal cinema a casa mia quanti passi ci sono? E poi, noi siamo venuti a casa vostra, dopo che Susy era partita, ma voi non avete ricambiato la visita”. Rosina, sempre più confusa: ma, a sira, viditi, ci pari mali, esti tardu quannu niscimu du cinima, e tanti voti macari quannu trasimu. “Tardi, alle nove? Tempo fa venivate anche alle undici”. “Allora c’era Susy, era diverso.” “Ma forse che al cinema andate solo alle nove?” Pausa. Silenzio di Susy. Riattacco. “Ecco i discorsi che abbiamo fatto con la tua sorella maggiore. Vi siete comportati tutti in un modo indegno, va là.”
Susy era sempre velata da quel rapinoso rossore in viso, anzi anche un po’ gonfia, non sembrava più lei. A un tratto si sentì da basso (chi l’aveva detto?) che c’era alla televisione una cerimonia militare, un saluto al presidente della Repubblica, non so bene per cosa. Susy scatta: “Debbo andare, c’è mio fratello fra quegli ufficiali.” E io: “Caspita, come gli sei devota!” Al mio dispetto, Susy rispose scappando, muta, a vedere il fratello in televisione. Non era un modo palese di tirarsi fuori da quella impietosa sofferenza inquisitoriale? E dunque che infierivo a fare con quelle sciocche, superflue parole d’accusa verso un naturalissimo affetto fraterno? Ma l’inconscio, direbbe un clone freudiano, ha le sue ragioni che la ragione non intende.
Dopo chissà quale tempo onirico, mi ritrovai in una delle stanze del primo piano, insieme a mio padre che ascoltava la radio. Una strana radio, che era anche una sveglia: oggetto sofisticato mai posseduto dalla mia famiglia. Mi diceva di non abbassare il volume, piuttosto alto, della radio, perché lui stava nella prima stanza, steso sul letto, e la radio (improvvisamente, e misteriosamente) si trovava nella seconda, sopra un tavolo vicino alla porta interna che divideva le due stanze. Allora pensai di avere sognato Susy e tutta la manfrina intorno a lei. Il solito sogno, pensai. Pazienza. Ma come sembrava vero.

Stesso giorno,
ore 22,30

Continuo il resoconto, tra puntuale e congetturale, della medesima notte onirica, così poco artemidoriana.
Altro tempo virtuale mi separa da una nuova apparizione inattesa: Susy, di nuovo, ancora nella nostra vecchia casa, sotto, al pianterreno, credo. Allora, pensai, risognando, non è stato un sogno, non è un sogno, stavolta è vero, Susy è qui, la vedo bene, e io le ho parlato realmente, e posso parlare ancora con lei, viva vera in carne di non sciupata bellezza. Incredibilmente, il sogno si ricarica e riparte. Si riprende il battibecco (ma dov’era finita Rina? e le altre presenze?) Susanna partecipava al “contrasto” pacatamente, con innaturale remissività. Parlavamo toccandoci. Io le stringevo ora l’uno ora l’altro braccio, o le prendevo le mani. E anche lei mi toccava, in un modo o nell’altro, ma timidamente, non con la mia sicurezza un po’ padronale o giudiziaria. Né con la sua di un tempo, quel tempo svanito per sempre, e già mitizzato dal rimpianto. Nella realtà a fare così era la sorella Rosina, parla mettendoti le mani addosso, con ignara malizia. Lei, invece, Susy, non si permetteva mai di toccarmi in presenza di Rina.
Comincia, a un certo punto, un altro singolare privilegio del sogno: la metamorfosi multipla. Ad un tratto, Susy non è più Susy ma Elisa, la mia prima fiamma. E subito dopo (ma fino a che punto è lecito parlare di prima e dopo nel migma onirico?) torna ad essere Susy pur restando Elisa. Ancora un passaggio me la fa diventare Renza, la ragazza dell’estate Sessanta, che ha insidiato il trono di Rina, allora soltanto fidanzata ufficiale. E ancora l’amalgama s’impone: Susy è se stessa, è Elisa, è Renza. Né le metamorfosi si arrestarono a queste tappe: altre ve ne furono, e altri volti di precedenti e lontane avventure coprirono e carpirono quello impareggiabile di Susy. Ma lei, l’incomparabile, finiva sempre col prevalere, col riportare ai suoi nobili tratti le linee e i colori degli altri volti, così diversi l’uno dall’altro, tutti carini, ma tanto lontani dalla perfezione di Lei. Fiumi di emozioni allagavano il mio corpo vanamente intento al riposo ristoratore delle forze stanche, che invece venivano scatenate da quel turbinio fantastico a chissà quali eccessi ormonali e pressori dei parametri ematico-circolatori. Un sogno complicatissimo, composito, stratificato in quella finzione di risveglio che riconosce il sogno come sogno per scoprire una finta realtà che invece continua il sogno. A nuovi livelli, beffardamente, interminabilmente.
Quando faranno uno studio approfondito dei mondi onirici? Quando riusciremo a proiettare i sogni su qualche monitor? Quando sapremo salvarli dall’inevitabile cancellazione parziale (che con l’età si farà spesso totale)? Nell’attesa (dell’improbabile rivoluzione scientifico-tecnologica) continuo a godermi, centellinando, il ghiotto e corposo studio plurale Il sogno e le civiltà umane, appena pubblicato da Laterza. Sono ancora alle prime pagine della folta introduzione di Vittorio Lanternari).

Donde, questo sogno “estremo”? Si tratta di una serie di transfert di facile reperimento. La spinta capitale viene dall’incontro col padre di Susanna: sabato scorso ci siamo visti sulla via centrale e mi ha comunicato la lieta novella dell’ammissione di Susanna al Magistero, facoltà di Lettere. Naturalmente, mi sono congratulato col felice genitore. Nel “foro interno”, invece, mi tocca registrare un poco nobile disappunto. Avrei preferito un insuccesso. E non chiedermi perché, quaderno sornione. Ti potrei dire più d’una verità. Una sarebbe l’attitudine mediocre di Susy alla scrittura “letterata”, e il conseguente sdegno per l’incapacità premiata (avrà avuto un tema svolto da copiare?). Un’altra, la sottrazione di una robusta ragione al loro oblio di come siano veramente andate le cose agli esami di maturità. Una terza sa di puro spirito vendicativo. Nell’intrico, l’una verità sfuma nell’altra e ne risulta un pasticcio di forte sapore agro. Che l’ammissione, poi, non avalli nessuna garanzia di valore intellettuale per i soggetti ammessi, è un’ulteriore verità secreta da fatti e misfatti ben noti nell’area mamertina e sue espansioni magnogreche. A Zancle sono state ammesse ragazze che prendevano tre e quattro nei compiti di italiano del quadriennio; e sono state bocciate ragazze che prendevano otto. Assurdo? Nel merito, ma realtà fattuale, purtroppo. Come spiegarlo? Probabilmente, un tema originale svolto molto bene ha insospettito certi colleghi diffidenti (e mediocri): e zac, scatta il vade retro. E’ capitato a un paio di miei colleghi commissari alla maturità classica. Mentre è facile capire le ammissioni per grazia ricevuta: svolgimenti introdotti dall’esterno previa fuoruscita di traccia variamente realizzata; temi copiati e segnalati, con piccoli accorgimenti di riconoscimento in assenza del nome (sigillato, ope legis, dentro una bustina a parte: a blindata garanzia teorica di anonimia davanti al commissario giudicante e facile vulnerabilità pratica della blindatura. Il vecchio gioco della forma e della sostanza...); intervento benevolo del giudicante per segnalazione cifrata del testo e complicità intra moenia. Eccetera.
*
Ieri, poi, ho avuto una mezza lite con mia moglie per via di un mio scherzo: le avevo detto che avrei accettato la nomina a commissario di pedagogia al prossimo, e imminente, concorso magistrale. Nella sede di Camanzaro, per colmo di provocazione, con la precisazione carogna che sarei rimasto a dormire in quella città per ovvie ragioni di tutela fisica, e sarei venuto a Zefiria solo una volta la settimana, il sabato. Caso mai la misura non fosse colma, ho aggiunto una punta di veleno sulla coda del discorso “dissennato”: spero di svagarmi con qualche candidata. O, al limite, con una collega fisicamente accettabile, e disponibile. Rina l’ha presa proprio storta: non ha inveito, come le capita qualche volta, ha fatto di peggio: è scoppiata a piangere. Cioè, non è che abbia pianto clamorosamente, anzi ha spremuto lacrime silenziose. Silenziose, ma convinte. Direi meglio, che le sono sgorgate senza sforzo né ostacoli. Come non aspettassero che il piccolo spunto, e la piccola spinta. E sono le lacrime più pericolose: per la salute sua e della pax domi. Non solo: ha aggiunto uno sciopero della fame e della parola. Non rispondeva alle mie proteste, che avevo scherzato, che lei aveva esagerato nella sua reazione, che non ha il senso dell’umorismo. E via tentando. Ha perfino anticipato il ristoro del letto. Infine, mi ha rimproverato la mia insensibilità. “Tu non capisci quanto male mi fanno certe cose.” “Ma scherzavo, dovevi capirlo.” Ci aveva creduto. Più tardi, precisava che mi sapeva ben capace di certe alzate di testa. E sbaglia. Sono talmente pigro, che, potendo senza eccessiva spesa, evito fatiche fisiche e mentali: un lungo malumore di lei, per esempio. Mi stresserebbe troppo.
Orbene. Nel sogno, Susy che si trovava in casa di mio padre era, simbioticamente, anche mia moglie. Poi, la logica della sua necessaria distinzione corporale aveva evocato anche la presenza fisica di Rina. Ma le due figure continuavano, sfaccettandola, la loro unità simbolico-emozionale, si intrecciavano e scambiavano le parti di una totalità affettiva. Susanna che piangeva, Susanna col volto rosso e le guance pienotte, era anche Rina. Avveniva, nel sogno, perfino una modificazione morfologica, lieve, ma sensibile: le guance pienotte sono di Rina, non di Susy. Soprattutto, il bel colorito rosato è di Rina, non di Susy, prevalentemente bruno-pallida. Forse, a ben ricordare, c’era sul viso di Susy anche un poco della sua compagna fedele e formosa, Adele, la brunetta succosa che ti ho già descritto, quaderno impiccione. Come mai, quest’altro “aggregato”? Una spiegazione esiste anche per l’aggregato: tempo fa la laboriosa maldicenza paesan-popolare mi ha attribuito, con Adele, un caso sentimentale assolutamente falso (en passant, non è senza fondamento, invece, un flash erotico lieve con mio cognato). Dunque, anche Adele veniva convocata nel sogno dalle più perentoria legge psichica, l’“associazione delle idee”: a condensare il mélange affettivo al massimo del possibile. Una specie di sovra-determinazione del condensare onirico. Che sviluppa anche il prolungamento verso la mia prima ragazza e relative gioie-pene d’amore: Elisa, dal nome profumato. E dopo Elisa, anche Renza, ben più recente, ma anche lei molto coinvolgente, e con drammi, pianti, sofferenze di ambedue i termini del rapporto furtivo (ero fidanzato con Rina, e non pensavo di poterla lasciare) al momento del fatale scioglimento. Non mi è chiaro, ma forse c’è stato, nel sogno, perfino un trasferimento magico dalle dimore sicaniche (paterna e nostra) a questa di Zefiria. Ho luminescenze confuse in proposito, ma l’altro amalgama incoraggia la supposizione su questo transfert ambientale. Insomma, un miscuglio interessante, che rimpiango di non potere analizzare più serenamente. Per mancanza di tempo, certo (ne ho già sottratto fin troppo ad altre urgenze prioritarie); ma soprattutto per estinzione di dettagli, ormai irrecuperabili. E dunque il più largo approfondimento dell’affascinante analisi resta... un sogno.
*
Intanto Susanna è sempre a Taranto. Verrà il fratello per Natale, ha detto il genitore. E certamente non verrà a trovarci. Devono essere accadute novità che impediscono l’evento. Che lo sconsigliano, intendo dire. Lo sconsigliano a lui, che ne sarebbe imbarazzato. Se Susy si fosse confidata sui nostri rapporti, sia pure minimizzando? Se l’avesse fatto per spiegare la sua riluttanza a tornare, e soprattutto a ritornare a frequentare noi, me e la mia famigliola? Niente di più congruo che atteggiarsi a vittima-eroina di una situazione incresciosa sfuggitale di mano, ma inevitabile nella sua genesi quasi coatta: come rinunciare al mio aiuto scolastico, alla mia (perfino sfacciata) protezione? La famiglia capirebbe. E non potrebbe condannare lei. Né, ritengo, me, che non potrei essere presentato da Susy come un mascalzone “iniziatore” di indifese fanciulle sensibili. E bisognose, appunto, di non poca protezione scolastica. Anzi, dovrebbe rassicurare genitori e fratello (e magari sorelle) sulla mia eroica autodisciplina di “digiunatore” ben poco kafkiano. O, se preferisci, di paladino etico degli imeni prematrimoniali. Verrà e se ne tornerà a Taranto. O verranno e se ne torneranno, là, di faccia allo stesso mare Jonio, nella vecchia e gloriosa colonia greca, fondata (dicono i testi) nel 706 a. C. da coloni di Sparta, poi inutilmente difesa da Pirro dall’ingordigia imperiale di Roma. Da quelle parti, certamente, si sta troppo bene: perché ritornare nel pettegolo paese asfittico, mafioso, episcopale e bigotto (anche se non meno glorioso di Taranto per storia remota, dalla colonia greca in poi)?
Al diavolo. Mi irrita soltanto il fatto che la cosa mi disturbi tanto. Ancora, dopo mesi di esercizi liberatori. E che lei invada il mio stento sonno. Che, addirittura, domini e colonizzi i miei sogni. Comincio a detestarla. Che impudenza, che falsità. E quale puntuale verificarsi delle mie previsioni e diagnosi.

30 novembre,
ore sette.

Sto scoprendo le canzonette, a furia di ascoltare “Divertimento musicale”, con la transistor accanto, sul tavolo di lavoro: Vedrai che ritornerà, ritornerà da te... Vado a cercare un dollaro d’amore... Non avevo mai badato tanto alle parole, prima; ora le capto benissimo. E vedo che tutte, o quasi, parlano di amori perduti, di donne che abbandonano l’uomo (più raramente l’inverso), di invocazioni perché lei ritorni a lui. Et similia. Avevo dimenticato di essere sul filo della più classica dialettica amorosa: lui, lei, l’intromissione di un coibente più o meno lungo, la tensione tra le armature, in attesa che si scarichi da sola, la speranza che, invece, si ristabilisca, tra loro, il contatto veicolare e la corrente torni a fluire dall’una all’altra attraverso il filo conduttore. Immagine prosaica, lo so; anche imprecisa, perché la corrente erotica scorre dall’uno all’altro polo nei due sensi, mentre nel condensatore reale in un solo senso. A meno che non si immagini una polarità alternata delle armature. Come che sia, la comparatio s’è presentata e imposta da sola e la lascio. Non foss’altro, a testimonianza del mio disordine interiore.
*
Stanotte, ancora lei, ancora sogni straripanti di lei e dei suoi. Mi sta ossessionando. Sarà perché durante il giorno mi accade di impegnare ripetutamente, e per non poco tempo, le mie sinapsi nella sua direzione. La registrazione, di giorno, per quanto eccitata (o proprio perché sovreccitata) non risponde bene alla realtà “trafugata” e lontana. Di notte, libera immagini più evidenti, più calde e precise, più carnali.
Fausto Tozzi: e mi rimpiangerai... non la cercherò più... lo so che altre meglio di te... soffriranno meglio di te... Uno come me, no, non scorderai mai... uno come me non lo troverai più...
Mi gratto con le canzonette. E del resto, è naturale: né la lirica né la classica e sinfonica si presterebbero a sì mediocri servizi. Mediazioni di alto livello solo nella Poesia si possono trovare: mi torna in mente, di tanto in tanto, il vecchio caro fedele Leopardi, complice e promotore nobilitante delle sofferenze d’amore. Ma poi mi accorgo che nessuna poesia del suo repertorio calza al caso mio: “Aspasia”? Troppo forte. E distante dalla mia fattispecie. “A Silvia”? Susy è ben viva. E ha riempito la mia vita della sua presenza corporale. “Le ricordanze”? La mia Nerina, le mie Nerine sono state carne con la mia carne, corpo fra le mie braccia. E Giacomino sa che “Il corpo è tutto”. Insomma, non calza. Sì, un po’ degli insulti aspasiani mi tentano, ma solo al comando della mia contingente rabbia. E perfino la rastremata rivolta e l’estremo urlato di “A se stesso”, ma sarebbe una sconcezza accostare la mia delusione alla disperazione leopardiana. E un’offesa alla mia blindata difesa: Giampiero e Rina, la mia famigliola mai rinnegata anche se, in qualche modo, tradita. (Sentilo: in qualche modo!)

Come ho zittito madama mater gaudiosa, stanotte, nel sogno. Intendo, la madre di Susanna. Aveva osato alzare la voce, rimproverarmi non so che offese alla figliuola, tirare in ballo ancora una volta la famigerata lettera gonfia, non di insulti, ma di sacrosanta verità pudenda sotto maschera: più che di insulti, di accuse motivate. Le ho gridato che non avrebbe cavato nulla con me, sfidandomi, arrabbiandosi. Come si permetteva? Ingrata e insolente! Aveva dimenticato quel che eravamo stati per sua figlia, io e mia moglie? E via di questo passo. Con lei, invece, con Susy, rentrée patetica: “Mi hai dimenticato, hai cancellato le tue vibranti parole d’amore, o almeno di sincero, grato affetto (tale mi traspariva dalle tue tenere frasi ripetute): Sarò sempre tua, non avrò nessun altro uomo... E forse già allora pensavi a quanto presto mi avresti messo da parte come uno strumento fin troppo proficuamente usato, ma ormai inutile.” Da lei, naturalmente, le solite proteste di innocenza buona fede sincerità. La ormai ben memorizzata e reiterata (nei vari sogni, oltre che nella realtà) protesta di innocenza, accuse al destino cinico e baro, scarico di responsabilità su familiari e malattie. Dialogo collocato in altro angolo di tempo e di spazio, ma non precisabile, né l’uno né l’altro, secondo la solita “alogica” dei sogni. Posso ricordare soltanto che eravamo soli, quando fluirono queste parole dalla mia bocca, e dalla sua le dimesse proteste di autodifesa. Dov’era finita la madre, la già compianta vittima del mandrillo, ora impudente “guerriera contro”?
C’è stata, nel sogno, anche una certa fusione con Didia. Che, nell’altro sogno, quello dell’effettualità spaziale che diciamo realtà, stenta, anzi non riesce proprio a rimpiazzare e surrogare tanta assenza. Nemmeno parzialmente. Scoccano Küsse timidi, tremuli di Furcht. Lei li riceve, li aspetta, timidamente li ricambia. Ma quale distanza da quell’incanto! Eppure, si mostra così disarmata nella sua infatuazione sbandata. Così teneramente disponibile. E non è che non sia carina. Ma c’è quella distanza! Baciavo anche lei nel sogno. Nel solito imbroglio onirico. E lei, la piccola vicaria improbabile, vi figurava com’è nella realtà: trasognata estatica incredula.
Quale sarà la terapia meglio mirata? La mia famigliola è componente centrale, ma non basta. Didia? Come complemento del farmaco? Magari, come eccipiente? Intanto, però, con Rina litigo “più del necessario”. Appaio irritabile, impaziente. E temo che lei colga la filigrana del cruccio reale sotto le trame ridicole dei pretesti occasionali. Certe allusioni strozzate sembrano avviate a completarsi in un nome magnetico, inevitabile: quello. Rina non è ingenua fino al punto da credere alla pura amicizia desessuata tra suo marito e una bella ragazza troppo vicina per troppo tempo. Ha detto e ridetto che aveva più fiducia in lei che nel mio self control. Ora che cosa le impedirebbe di risvegliare quel giudizio ad ogni occasione che la mia lingua battente sul dente colpito le offre? Lei pizzica, io scatto, e i suoi sospetti si rinforzano. Magari, ormai, soltanto con la speranza che la sua diagnosi fosse vera, e non più con l’ostentata certezza. E si litiga. Due giorni senza parlarci. Ed è dura. Per lei e per me. Perché non cedo prima? tanto più che, poi, sono sempre io a cedere e rivolgerle per primo la parola. Lei non ha un carattere remissivo, ma io so, nell’angolo più buio della cantina-coscienza, che tra le due colpe, la mia pesa molto di più.

Metà di me... Porti con te metà di me... ragion per cui ti pregherei, se puoi, di dirmi dove sei...Porti con te metà di me... Prima c’eri tu, ora ci sono solo io...
Ora svampa un mito domestico del distretto canzonette: nientedimeno che Turiddu Adamo, l’idolo della mia Rina, innamorata delle sue canzoni, della sua voce, del suo stile: Ecco voce e note della Notte: Se il giorno posso non pensarti, la notte maledico te…la notte tu mi fai impazzir Ma la mia malattia attraversa Rina per sfociare altrove. In quell’altrove che comprime meinen Herz di strette al limite delle spremiture oculari. La notte tu mi appari immensa, invano cerco di afferrarti… Ora si passa a Cade la neve. Buona parte del repertorio del sicanico belgizzato veniva suonata, nei tempi morti delle pause e delle attese, dalle due amiche. Rina rimaneva la più “fanatica”: cade la neve, non ti vedrò questa sera… L’altro idoletto canoro della mia metà innocente è Gianni Morandi, il bravo ragazzo che avrebbe desiderato come fratello, il cantante delle canzonette assimilabili come dolcetti da sciogliere in bocca. Ne riparleremo. Forse.
Sembra lo facciano apposta. Ma in realtà queste coincidenze, codesti incastri tra love’s labours lost e frasi di canzonette, sono la cosa più facile che si possa incontrare nel regno affollato del dio Caso.
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Forse è più utile, in chiave terapeutica, tornare a tuffarmi nel bagno dell’eccesso sado-maso delle “Vergini funeste”. Apriamo a caso e trascriviamo.
“Teofana fa sgozzare dall’amante il marito dormiente, Ariadne ordina che il suo venga murato vivo, Eudossia sposa un capo ribelle che aveva visto trascinare al supplizio, la dissoluta Teodora uccide il figlio bastardo. Questo tipo di imperatrice abbietta, al vertice di una Bisanzio nevropatica, sempre sul punto di sfasciarsi, d’una civiltà tutta gemme, carne e sangue, questi genii femminili rapaci e scintillanti, calamitano buona parte del sadomasochismo palese e latente dell’équipe simbolista (“Irène et les eunuques” di Paul Adam, “Byzance” di Jean Lombard, “Théodora” di Pétros Botzarès, tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou). //Il sadismo della Teodora di Botzarès-Sardou, invaghita del cospiratore Andréas e morta strangolata dal boia, avendo tradito Giustiniano nell’intento di salvare il giovane amato che non solo la rifiuta ma, sino all’ultimo, l’insulta, il sadismo di questa imponderabile Teodora è affatto involontario ma non per questo improprio: anche se nolente, i gesti criminali della sovrana germinano dal fato, da un humus in cui sesso, sfarzo e violenza formano una stessa, indissociabile lega. /Costretta, a fin di bene, trafigge il cuore d’un centurione servendosi di una spilla che ‘attraversava la sua fulva chioma come un giavellotto’, imbavaglia Andréas col velo di garza, tessuto d’oro, che le copriva il volto, e ciò per impedirgli di ingiuriarla in pubblico e di venir pugnalato immediatamente dal boia, lo avvelena infine col liquido contenuto in una fialetta che lei portava appesa al collo, credendo si trattasse d’un filtro d’amore. La pratica del sadismo è dunque trasferita agli accessori dell’abbigliamento sacrale e questo sadismo riflette masochismo perché commesso da una Teodora spacciata per integra e benevola. E’ un po’ la sorte toccata a Mademoiselle de Faxelange, la derelitta di Sade, obbligata dal marito brigante ad ordinare stragi di ostaggi./ Per significare l’implacabile misantropia di Antinéa, che ordina di uccidere gli amanti europei di una notte e di esporli imbalsamati, Pierre Benoit impiega le consuete traslazioni tolte dal bestiario delle belve castratrici: la gigantesca pelle di leone su cui giace, il leopardo Hiram-Roi accucciato ai suoi piedi e pronto a difenderla, splendido animale con cui la regina sembra intrattenere rapporti zoofilici, l’aspide d’oro dagli occhi di smeraldo e la lingua di rubino attorcigliato attorno alla sua fronte e due altri, simili, attorno ai bicipiti, le teste erette sin sotto le ascelle, quindi lo sparviero cui Benoit assimila il mobile e fine profilo di Antinéa.”
No, non è che voglia paragonare una pollastrella ancora intatta a queste scintillanti sparvieresse dell’eros infesto: è che un certo prurito sadico tenta una parte dei miei cilindrassi stressati a cercare conforti letterari più o meno bislacchi.

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