lunedì 28 giugno 2010

SUSANNA, Frammento 72


I soli precedenti recensiti dalla grande stampa nazionale ed estera furono del genere sopra accennato: sette sataniche o astrusamente balorde fiorite nella giungla degli eccessi cerebrali (vengono ricordate pure le “Bestie di Satana” e “I bambini di Satana”, con i loro omicidî rituali, che agitarono la cronaca pluri-mediatica per tanto tempo). O fenomenologia del rock satanico, fra droghe della chimica esterna e iterazioni ossessive di ritmi e suoni droganti dall’interno, per via biochimica sollecitata “out of bounds”.
A Paolo Assaggi venne in soccorso un precedente più remoto. E più significativo: le streghe. Non erano loro le “spose di Satana”? Spose, amanti, concubine, vittime sedotte: quale differenza, tra queste risibili distinzioni dell’umano convenzionalismo socializzante? Ma sì, erano state loro le prime spose di Satana, quelle intense figure antropologiche double face, prima trionfanti e poi tragicamente sconfitte: le donne del vecchio satanismo dalle troppe radici e maschere.
Nella sua “avventura quotidiana” (usava questa formula, a volte, con quel pizzico di ironia che l’uso comporta) di insegnante (evitava, in privato, il pomposo nome di professore o, peggio, docente) di storia, Paolo aveva colto più volte l’occasione di leggere, anzi far leggere agli studenti, sotto la sua guida selettiva, pagine dei processi alle streghe. Cominciando dalle seconde classi dei suoi licei, dove si studiano le corrispondenti epoche storiche di torva intolleranza religiosa assassina e stragista. Esperimento non privo di incisivi effetti sull’uditorio femminile e maschile. Nel primo, di più concitato orrore, magari alonato dal sospiro di sollievo per i tempi mutati, e rilanciato dalla solidarietà con quelle ostie carnali inventate dalla ferocia umana accesa dalla superstizione. Nell’altro, con una pietà meno empatica e poco guardinga verso la stupida tentazione di qualche risolino scemo acceso dagli orribili particolari di quelle torture: impalamento, strappo dei seni a tenaglie infuocate, trafitture di aghi in tutto il corpo nudo, alla ricerca del fantasticato “punto insensibile”, preteso segno della possessione diabolica. E simili lordure di homo religiosus in veste talare con autorità di vita e di morte verso vittime indifese. E dire che, se un senso avesse quell’espressione, non potrebbe che adattarsi alle voglie di quei sadici con licenza di uccidere torturando.
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Non fu senza riflessi scolastici neppure la lettura personale del famoso saggio storico di Jules Michelet “La Strega”, un capolavoro, per Paolo, di bella, vivace, colorita scrittura (e sia pure con qualche scivolata nel “sincopato”), oltre che una miniera di ghiotte notizie dal forte impatto emozionale. Le critiche mosse al libro da certa accademia afflitta da pignoleria causidica e povera di gusto letterario (non di rado, poi, ideologica e prevenuta) non ne limitavano i pregi, ai suoi occhi di loico ben nutrito di antropologia culturale. Era soltanto una suggestiva invenzione romantico-letteraria, la sua “Strega, fosse pure nei suoi eccessi testimoniali? Paolo non lo credeva, e riteneva valida, nella sostanza, la ricostruzione (condivisa da Franco Fortini) di quella figura estrema come risposta drammatica alle infinite violenze del sistema feudale sulle classi contadine e alle blasfeme complicità della Chiesa cattolica col Castello dei Signori, prepotente e crudele. Si pensi alle troppe corvée, allo jus primae noctis, a quel tacito, e a volte conclamato, “diritto di prensione” che sospendeva a un’indifesa precarietà estrema ogni possesso del servo della gleba come del villano semi-libero. Moglie e figlie comprese. A meglio dettagliare, si aggiunga l’estenuazione della fede nelle figure della religione imposta. Né Padreterni né Cristi né Madonne né Santi, constatavano le vittime del “sistema”, davano mai leggibili segni di benevola presenza potenza esistenza. Fossero, quelle vittime, torchiate nella morsa delle quotidiane strettezze e sofferenze, o si constatassero bersagli privilegiati nelle catastrofi dei grandi flagelli, pestilenze e/o carestie, uragani o furia di vulcani: le preghiere le offerte i sacrifici davanti agli altari di umile materia delle capanne, o di marmoreo e gemmato splendore delle cattedrali ruffiane, restavano sterili gesti dell’impotenza illusa e della coattiva illusione ricorrente di fronte a icone mute.
E allora si tendeva l’orecchio ai residui del vecchio paganesimo, mai del tutto spento. Erano diavolini e diavolacci quegli dèi gloriosi, abitatori di templi sfarzosi (così li aveva declassati la Chiesa)? La povera contadina, sola in casa, non sicura di potersi conservare intatta per il vilipeso marito che si spezza la schiena sopra la zolla avara, sente un vellicamento di curiosità salire da quei piccoli tentatori (bambini, folletti, coboldi...). I quali magari mandano fuori dalle fiamme del focolare una vocina suadente: “Mi hai chiamato? Eccomi”; oppure: “Chiamami e ti farò contenta”. Resisti oggi resisti domani, esasperata in crescendo dalla sordità dell’olimpo legale, la donna finisce col dare ascolto al tentatore eslege. E’ così grazioso, così convincente: le appariva nei modi e tempi più impensati. La denutrizione accende il cervello di visioni a evidenza stereoscopica, e le lunghe solitudini favoriscono miraggi e allucinazioni. Inciso: oggi sappiamo che basta un eccesso di dopamina a provocare visioni, voci, flash di realtà di perentorio convincente rilievo. Si scivola nel “perché no?” del tentare: è poi così brutto praticare col bambolino stuzzichevole? Da questa ipotetica origine lontana si arriverà alla guaritrice esperta di erbe e intrugli, alla strega classica, al sabba, al contorno di invasate/i. Insomma, al “patto col Diavolo”. Ma (avverte l’esperto) non bisogna fare di tanti fiori distinti e di varia radice un sol mazzo omogeneo: molte differenze tra un tipo e l’altro della stessa figura standard resistono al livellamento di comodo o di pigra semplificazione operato da vari studiosi. E tuttavia qui sarà lecito un tasso meno arcigno di acribia etnologica e storica. Dando, tra l’altro, per scontato che il fenomeno non fu, in nessuna epoca, massivo, ma sempre minoritario: per quanto si allargasse nel tempo.
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Negli appunti lasciati da Paolo stagnano molti passi del Michelet trascritti (dall’edizione Bur, 1977), talvolta come epigrafi, in varie pagine di diario. Eccone alcuni.
“Non credo affatto, come piacerebbe ai monaci che ci hanno raccontato la stregoneria, che il Patto con Satana fosse un colpo di testa avventato, di un innamorato, un ingordo. Il buon senso, la natura ci fanno capire che era l’ultima risorsa, persa ogni altra speranza, che vi approdavano sotto la tremenda pressione delle infamie e delle miserie.”

Quando furono proibite dai sovrani (confortati o no dalla complicità ecclesiastica) le guerre private fra i grandi signori (e mica solo laici), questi sanguinari figli di Marte trasmigrati in Cristo da orgogliosi abusivi, si sfogarono sui sottoposti: vassalli di rango inferiore, contadini “liberi” e servi della gleba. Riferendosi alla Francia, Michelet scrive: “Negli ottanta, cent’anni che dividono questo divieto dalle guerre con gli inglesi (1240-1340), i signori, privati del passatempo abituale, non potendo più incendiare, saccheggiare la terra del vicino, si sfogarono sui loro vassalli. Questa pace fu una guerra per loro. // A leggere dei signori ecclesiastici, dei signori monaci, eccetera [...] vengono i brividi. E’ lo schifoso affresco di un infuriare scatenato, barbaro. I signori monaci si gettarono soprattutto sui conventi femminili. L’austero Rigault, confessore del re santo, arcivescovo di Rouen, conduce di persona un’inchiesta sulla condizione della Normandia. Ogni sera arriva in un monastero. Ovunque, questi monaci vivono la gran vita feudale, armati, ubriachi, duellano, infuriano cacciando per tutti i campi coltivati, stringono a se le religiose in un miscuglio caotico, ovunque le mettono incinte. //Questo, la Chiesa. E allora i signori laici? Come erano dentro quelle tetre torri, guardate con tanto terrore dalla vallata?”
Qui Michelet ci rimanda a due celebri racconti “che sono senza dubbio due storie”, “Barbablù” e “Griselda”. Nonché alla fosca crudeltà del più funesto pedofilo della storia, “Gilles de Retz, predone di bambini”, l’unico ad aver subito un processo, “e quanto tardi, nel XV secolo”. La letteratura è spesso impari alla realtà, l’attenua, quasi l’autore stentasse a credere l’uomo capace di certi orrori. “Anche il Templare del più famoso romanzo di Walter Scott, “Ivanhoe”, “diventa una creatura debole e molto artificiale. L’autore non ha avuto il coraggio di affrontare la schifosa realtà del celibato del Tempio, e di colui che regnava dentro il castello. Vi ammettevano poche donne; erano bocche improduttive.” Il sottinteso si può arguire dal poco detto. A proposito del surrogato delle proibite guerre fra uguali “La strega” rievoca quel clima di bestiale anarchia:
“non più scorribande di guerra sulle terre vicine, ma di caccia, e di caccia all’uomo, voglio dire angherie senza fine, infamie alle famiglie dei servi. Il signore sapeva benissimo che una simile massa d’uomini senza donne non sarebbe rimasta tranquilla se non scatenandola ogni tanto. / L’odiosa idea di un inferno dove Dio impiega qualche anima scellerata, le più colpevoli, per torturare le più innocenti, che lui stesso gli lascia perché si svaghino; questo bel dogma del medioevo si faceva realtà alla lettera. L’uomo sentiva l’assenza di Dio. Ogni razzia provava il regno di Satana, convinceva che bisognava rivolgersi a lui.”
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Questo progredire del “potere infernale” lungo i secoli non è una rivendicazione ideologica dei settari satanici, è una constatazione dei sapientoni di Santa Romana Chiesa Cattolica. Con la logica eccellente che sorvola, alta e impassibile (per ali, le più smaccate fantasie), le meno dubbie smentite della realtà, quei dottori delle famosissime Scholae osservano interpretano e spiegano i segni di questo strapotere del grande Nemico. Né battono ciglio sul disastro teologico implicito in tanta dottrina: se il sommo Dio è onnipotente, lo strapotere del Diavolo è una sua concessione, licenza, capriccio. Inde, ogni invasamento, ossessione, stregoneria è da riportare a tanta Causa Prima. Se la conseguenza logica non piace, oscillando si cozza con non meno autorevole deduzione: Dio non è onnipotente. E può essere battuto dalle risorse del Signore delle tenebre. Niente da fare: l’obbiezione, ove venisse espressa, portava alla gogna, e anche al rogo (dipendeva dallo status sociale): non aveva difesa l’incauto che proferisse tanta impudenza contro la sapienza ispirata delle Summae e delle cholae. Le concessioni divine a Satana sono un mistero che va rispettato: Dio non è tenuto a svelarcelo. Certo, se Dio è sommo bene, è obbligo pensare che le concessioni siano espressioni della sua bontà: una deduzione che è difficile accettare. Anche per menti “idiote”. Meno difficile fingere, sotto tortura o sua minaccia. Chi praticava col re degli abissi tentava di nascondersi.

Il Malleus, come tutti i libri di quel genere prolifico, fa una strana ammissione: il diavolo sta guadagnando terreno, quindi Dio perde; il genere umano, salvato da Gesù, viene conquistato dal Diavolo. Che, in pieno sole, si fa avanti di leggenda in leggenda. Ne ha fatta di strada dai tempi del Vangelo, quando ben contento si sistemava nei porci, a quelli di Dante: teologo e giurista, Satana discute con i santi aspre cause, e, concludendo un sillogismo vincente, si prende l’anima in questione, ridendo nel trionfo: “Tu non pensavi ch’io loico fossi”

Eh sì, ne ha fatta di strada il grande loico, se può battere in logicalia san Francesco in persona, e papparsi la discussa anima di Guido da Montefeltro (Inferno, xxvii). Va bene che il mite Fraticello non è un’aquila delle Scholae aristotelizzanti, ma è pur sempre un santo. E fa pensare: alla logica qui in causa, ma anche alla mente di Dante, che da quel pozzo profondo e pieno non tira mai fuori niente a caso! Sia come sia. Se non è un divino mysterium magnum è certamente un misero mistero umano. Uno dei tanti. Dei troppi. Che possiamo indugiare ancora qualche minuto a godere nella vivace prosa del Michelet:
“Nel primo Medioevo aspetta ancora l’agonia per arraffare e portarsi via l’anima. Santa Ildegarda (1100 circa) crede ‘che non può entrare nel corpo di un uomo vivo’, altrimenti le membra si spargerebbero; vi entrano solo l’ombra e il vapore del Diavolo”. Quest’ultima parvenza di buon senso si dissolve nel XII secolo. Nel XIII, vediamo un priore che teme follemente d’essere rapito vivo, e allora si fa proteggere giorno e notte da duecento armati. “Ha inizio un’epoca di terrori crescenti, e l’uomo si affida sempre meno alla protezione divina. Il Demonio non è più uno spirito furtivo, ladro notturno che scivola fra le tenebre; è l’avversrio coraggioso, ardita scimmia di Dio, che, nel suo sole, in pieno giorno, gli contraffà la creazione. Chi lo dice? La leggenda? No, i più grandi dottori. Il Diavolo trasfigura ogni essere, dice Alberto Magno. San Tommaso va ancor più lontano. ‘Il Diavolo può imitare ogni mutamento di natura, di germi’. Concessione straordinaria, da una fonte tanto seria, che arriva a costituire un Creatore di fronte al Creatore”.

Deduzione ineccepibile, davanti a cui le sottigliezze distintive del grande magister (il cui pensiero, si ricordi, è ancora oggi, la filosofia ufficiale della Chiesa cattolica): philosophia perennis, la Summa theologiae del Santo tenta perfino di fagocitare alcune filosofie del Novecento. O loro accessibili parcelle! Vedi caso Fenomenologia, questa prolifica allucinazione accademica!) sono ridicola pula in balia d’ogni soffio. E figuriamoci se non dell’ironia sagace del Michelet, che davanti alla distinzione tomistica: “Ma [...] il Diavolo non può nulla per quel che si fa senza germogliare, una metamorfosi d’uomo in bestia, la resurrezione di un morto”, seguita, piccato e felice del gancio:

“Ecco la particina di Dio. Dalla sua, solo il miracolo, il gesto raro e straordinario. Il miracolo quotidiano, invece, la vita, non è più soltanto sua: il Demonio, suo emulo, divide con lui la natura. // L’uomo, che nella sua debole vista non distingue tra natura creata da Dio e natura creata dal Diavolo, si trova il mondo diviso. Un’incertezza tremenda si diffonde su ogni cosa. La natura ha perso la sua innocenza. Quella fonte limpida, il fiore candido, quel piccolo uccello, appartengono a Dio o sono perfide imitazioni, trappole tese all’uomo? Vade retro. Tutto si fa sospetto. La creazione buona, come quella sospetta, si offusca, invasa. L’ombra del Diavolo vela il giorno, si stende su ogni vita. Stando all’apparenza e ai terrori degli uomini, lui non divide il mondo, intero l’ha usurpato.”

Aspetti contraddittori e rivolgimenti drastici nella carriera delle streghe. Soddisfazione per il potere riconosciutogli di operare “miracoli”; per le superbe dame dei castelli inaccessibili che sempre meno raramente venivano ai loro piedi, chiedendogli quell’aiuto che istanze umane e religiose non gli davano più. Gioia di libera vitalità nei sabba notturni, feste della fantasia e del corpo slacciato da remore nevrotizzanti. Anche incesti a gogò, come si scrisse? Non è credibile. Più plausibile, nei contesti specifici, credere all’enfatizzazione calunniosa dei sabba. Almeno nel senso che noi moderni diamo al concetto di incesto. Ma una maggiore libertà di accoppiamenti, senz’altro: c’era una zona di foresta protettiva per questi baccanali, oltre le radure illuminate del rito e delle danze. E’ lecito leggerle, queste periodiche emancipazioni del corpo totale, come lontane anticipazioni di invenzioni novecentesche? Perché no! Non si vedono difficoltà logiche agli accostamenti fra le mediazioni medievali e quelle, non meno mascherate di spiritualità estrosa, della Rivoluzione sessuale, così prodiga di invenzioni e soluzioni. Fino alle meraviglie descritte nelle “Particelle elementari”. E allo sbracamento del genere “Notte prima degli esami”, con quel branco di macchine oscillanti al ritmo dei movimenti delle coppiette di fresca lanugine occupate nella ginnastica satiresca di pacificata licenza.
Certi periodi storici furono più propizi a queste rivolte e rivincite delle prede secolari dei signori: e il periodo della Cattività avignonese, col successivo Grande scisma, fu uno di questi: la chiesa screditata, lo scandalo dei due e tre papi reciprocamente scomunicantisi, l’immane corruzione di preti monaci vescovi e compagnia alta avevano creato le condizioni psicologico-sociali per la grande avventura. Che però si volse a tragedia quando, in tempi e con intensità diverse, la Chiesa si riassettò e la nobiltà ebbe a temere continue rivolte di contadini in varie parti d’Europa. Tornò l’alleanza fra castello e sacri palazzi, tra feudo e dominio papale: bisognava troncare questa diretta minaccia alla loro complice supremazia. E via con i processi e i roghi, le torture e le accuse inventate, le testimonianze false, i testimoni comprati o ricattati e minacciati.
Ecco un altro passo esemplare sulla spietatezza del sadismo fanatico inquadrato nel sistema inquisitoriale dominante soprattutto nella Spagna:

“la Spagna, sotto Isabella la pia (1506), il cardinale Ximenez, si mette a bruciare streghe. Ginevra allora governata dal vescovo (1515) ne bruciò cinquecento in tre mesi. L’imperatore Carlo V, nelle costituzioni tedesche, invano tenta di stabilire che ‘la stregoneria, che arreca danni ai beni e alle persone, è una questione civile, non ecclesiastica’. Invano sopprime la confisca (salvo nel caso di lesa maestà). I piccoli principi-vescovi, per i quali la stregoneria è un ottimo affare di pingue introito, continuano a bruciare furibondi. L’impercettibile vescovado di Bamberga, in un fiato ne brucia seicento, quello di Würzburg novecento. Il procedimento è semplice. Prima di tutto si torturano i testimoni, creandone a carico con il dolore, il terrore. Si estorce all’accusato, a sofferenze, una confessione, e si crede a questa confessione contro l’evidenza dei fatti. Esempio. Una strega confessa di aver sottratto al cimitero il corpo di un bambino morto da poco, per consumarlo nei suoi miscugli magici. Il marito dice: “Andate al cimitero. Il bambino c’è”. Si scava, lo trovano nella bara. Ma il giudice decide, contro i suoi occhi, che è un’apparenza, un miraggio del Diavolo. Al fatto preferisce la confessione della donna. Al rogo.”

E’ la logica di ogni fanatismo: i fatti? “Ma lei crede ancora ai fatti?” – ebbe a dirmi, tempo fa, a un convegno filosofico, un cattedratico di formazione semi-idealistica – Allora risposi, piccato: “Certo: forse che lei non è un fatto? E piuttosto ingordo, visto che ruba il tempo agli altri”. Fatti, evidenze percettive, dimostrazioni logiche, magari matematiche sposate ad esiti sperimentali: niente può scalfire l’ottusa cecità di una passionalità inevoluta o involuta. L’evidenza è roba per digestioni mentali delicate. L’inquisitore Sprenger, l’autore del famigerato Malleus maleficarum è uno degli esempi più eloquenti di questa logica micidiale. Michelet lo presenta nella sua giusta luce d’inferno, iniettando nello schizzo la sua risentita ironia:

“‘Son troppo buono’ dice ‘a dar retta a questa gente. Col diavolo non si discute’. Tutto il popolo è con lui [...] Non appartiene, lui, alla categoria degli scolastici insensibili, uomini di arida astrazione. Ha un cuore. Proprio per questo uccide facilmente. Ha pietà, tanta carità. Ha pietà di questa donna in lacrime, ieri incinta; uno sguardo di strega le ha soffocato il bambino. Pietà del pover’uomo di cui questa ha grandinato il campo. Del marito che, per niente stregone, vede che la moglie è strega, e la trascina, corda al collo, da Sprenger, che la bruci. //Con un crudele, sarebbe possibile salvarsi; ma, niente da fare col buon Sprenger. Troppo umano; si va al rogo senza scampo, a meno d’essere molto abili, straordinariamente svegli.”

Ed ecco un episodio di rara eloquenza a conferma della logica sopra celebrata: un giorno vengono a lamentarsi da Sprenger “tre brave signore di Strasburgo”: si dicono bastonate da mani invisibili, tutte e tre “lo stesso giorno, la stessa ora”. Sospettano e accusano “un uomo di losca figura, che gli deve aver fatto il malocchio”

“Di fronte all’inquisitore quello protesta, giura su tutti i santi che non conosce quelle signore, non le ha mai viste. Il giudice non gli crede. Lacrime, giuramenti, tutto inutile. La gran pietà per le signore lo faceva spietato, e lo offendeva quel negare. Già si alzava. Che venga torturato, avrebbe confessato, come anche i più innocenti. Ma riuscì a parlare. ‘Mi viene in mente che ieri, a quest’ora ho bastonato...’ ‘Chi? non creature battezzate, ma tre gatte, tre furie che mi azzannavano le gambe’ Il giudice, uomo astuto, comprese tutto: il pover’uomo era innocente; le signore, certi giorni, si tramutavano in gatto, e il Maligno godeva a gettarle tra le gambe dei cristiani per perderli, e farli credere stregoni.”
C’è da dubitare che anche oggi, in questi evolutissimi tempi di alta tecnologia elettronica, si trovano persone (fin troppe) disposte a difendere il giudice?
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L’evoluzione del fenomeno conobbe grandi drammi e storie-romanzo finite anche in film: si pensi alla vicenda di Grandier, di Gauffridi. Una tragica farsa in cui pulsioni puramente uterine di feroce gelosia trasformano rivalità umane troppo umane in vicende diaboliche. Diavoli che si combattono dentro i corpi rivali di due belle creature innamorate dello stesso affascinante monaco disponibile: Louise e Madeleine, due fanciulle intorno a Gauffridi, a bearlo di squisiti piaceri, a perderlo con accuse micidiali. Scontro all’ultimo neurone fra la grintosa, amazzonica, geniale imbrogliona Louise, e la delicata, ingenua, debole Madeleine, poco più che una bambina. La prima capace di soggiogare al suo fascino con la parola calda e passionale una comunità intera, e certe eminenze della fede inquisitoriale; la seconda, fragile, incline a perdersi, incapace di resistere alle insidie dell’ossessa che la vuole morta e torturata.
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Ma non ci sono state soltanto le spose di Satana nella spassosa tragi-commedia dell’umanità. Alle sempre reiterate affermazioni del corpo appartengono invenzioni tanto incredibili quanto ingegnose. Emanano dai fertili cervelli dei sapientoni e mirano a “guarire” le monachelle dalle loro malinconie agitazioni isterismi. C’entra sempre il Diavolo? Non soltanto. Può essere perfino l’eccesso di amore per Gesù a scatenare nervosismi e parossismi. Nella immobile monotonia (salvo pestilenze e terremoti e carestie) dei conventi, nulla di più facile. Ma ci stanno per niente i dotti confessori e direttori di coscienze per suore e madri superiore? Ed ecco teorie liberatrici, dottrine farmacologiche di sicuro successo. Tra casistica e mistica, si può scialare. La casistica, dilagata nell’epoca della Controriforma, serve specialmente a compiacere peccatori e peccatrici d’alto lignaggio (o a ricattarli), la mistica è buona specialmente per sgavezzare dentro i conventi di suore. L’indottrinamento delle sorelle malate di ennui vuole mediazione garantita: magari e meglio di un uomo-angelo, un prete o monaco addetto al convento che presti “la bella persona” a uno spirito alato, a un angelo docens. La mistica degli illuminati è un caso macroscopico di utile mistificazione. Leggiamo: “Il nulla della persona e la morte della volontà, è il gran principio mistico. Desmarets ce ne mostra chiaramente la vera portata morale. I devoti, dice, immolati in loro e fatti nulla, esistono solo in Dio. ‘D’allora non possono far male’. La parte superiore è tanto divina, che non sa più quel che fa l’altra.” Una noticina impingua il testo, più esplicita e chiaramente pedagogica: “Dottrina molto antica che ricorre spesso nel medioevo. Nel XVII secolo è comune nei conventi francesi e spagnoli, mai più chiara e ingenua come nelle lezioni d’un angelo normanno ad una suora [...]. L’angelo insegna alla monaca soprattutto ‘il disprezzo del corpo e l’indifferenza alla carne’. E introduce a sostegno di tanta evidenza un precedente inattaccabile: “Gesù tanto l’ha disprezzata, che l’ha esposta nuda alla flagellazione, che tutti vedessero”. Cosa può volere di più la monachella ben disposta all’ascolto dell’angelo? Egli prosegue, sviluppa, chiarisce: la liberazione dalla servitù corporale pretende poca cosa, un gesto facile: “l’abbandono dell’anima e della volontà, la sana, docile, tutta passiva obbedienza”. E fiorisce un secondo “esempio” di solare evidenza: “la santa Vergine, che non dubitò di Gabriele, ma obbedì, concepì. Correva rischi? No. Poiché uno spirito non può recare impurità. Anzi purifica”. Nel dramma boccaccesco di Louvriers “questa bella dottrina” fu predicata e praticata da certo David, autorevole e anziano direttore spirituale di conventi, con uno sviluppo teoretico affascinante e applicazioni tanto vaste quanto disinvolte fino al cinismo più bieco. Lo “sviluppo” offre un esempio di sottigliezza e dialettica veramente satanica “far morire il peccato attraverso il peccato, per meglio tornare in innocenza”. Né manca la solita esemplarità soccorrevole: “Così fecero i nostri primi padri”. Variante: “Il corpo non può sporcare l’anima. Bisogna, col peccato che fa umili e guarisce dall’orgoglio, uccidere il peccato”. Il testimone di tanta sapienza operativa è il cappuccino Esprit de Bosroger, debitamente citato dal Michelet. Immaginare le deduzioni pratiche di siffatta teoresi non è difficile: lo spadroneggiare di “direttori” come David e il successore Picart, come il mostruoso Girard e i suoi complici (Sabatier, Grignet...) nei conventi femminili; con diletto delle bendisposte favorite (monache e no), ma anche con strazio delle creature refrattarie e resistenti, come la giovane Madeleine, terrorizzata, plagiata, infine torturata (gli spilloni conficcati in tutto il corpo alla ricerca del “punto insensibile”, marchio di Satana) e infine reclusa in un in pace. Che è uno dei più terrificanti culmini dell’orrore di “ontogenesi” religiosa: la sventurata viene murata dentro un minimo spazio verticale, una fessura per il transito del ruvido cibo e nessun’altra apertura e sfogo per prodotti catabolici.
“Le suore piene di queste dottrine, le praticavano tranquille tra loro, spaventando Madeleine con la loro depravazione”. Tra le mille storie di molteplici abusi su crerature ingenue e di indole sensitiva da parte di religiosi, più o meno autorevoli (e sempre protetti dalle loro compagnie ordini e confraternite) spicca di sulfureo splendore l’affaire Cadière. Plagiata stuprata ingravidata, variamente torturata e mille volte ingannata dal suo confessore Girard, che la “santificava” procurandole stimmate durante i deliqui indotti da intrugli droganti. In queste belle imprese Girard aveva la complicità convinta e gaudente di suore crudeli, docili al comando dei superiori: come le Orsoline, non meno corrotte e depravate dei santi padri al comando. E di figure moralmente devastate, come la Guiol e figlia. Da aggiungere, al cocktail sacro, la protezione della Compagnia al momento del rischio processuale: che fa quadrato attorno a quell’untore della peggiore peste, a difesa del presunto onore e del mondano potere reale della santa Creatura del Loyola. Ad scandalum vitandum, s’intende. E dunque, in fondo, della fede, della serenità dei semplici, della Religione in persona. I caporioni della Compagnia ricattarono e variamente terrorizzarono vescovi onesti, ma deboli, suore pronte alla testimonianza verace, due fratelli e la desolata madre della martire: e altri disposti a difendere la vittima ignara e spingere al processo il mostro Girard. Un incredibile concerto di mosse e contromosse, di azioni, queste sì, veramente diaboliche: sottrazione e distruzione di lettere intercorse fra Girard e la credula fanciulla; dichiarazioni estorte con uso di droghe, ritrattazioni dell’accusata in ripresa di coscienza seppellite sotto ritrattazioni di secondo grado; false testimonianze e prove altrettanto capovolte; mutilazioni di documenti processuali, calunnie spudorate invano contraddette dalla storia personale dell’innocente e dall’evidenza dei fatti: ecco i mezzi adoperati dai mefistofelici gesuiti per salvare il diavolo Girard e affossare l’angelo Cadière.
Nel racconto di Michelet, sempre puntualmente sorretto da prove documentali, ricorrono frasi e parole come le seguenti. La Cadière affidata a un carmelitano onesto, “raccontò vita e dolori, devozioni, visioni. Nemmeno la notte la fermò. [...] Ricominciò il giorno dopo [...] a parlare estasiata di Dio, dei misteri più alti. Il carmelitano era stupefatto, si chiedeva se il diavolo poteva lodare così bene Dio[...]La sua innocenza era evidente. Appariva una brava ragazza, obbediente, dolce come un agnello, festosa come un cucciolo [...] Sabatier, vegliardo sanguigno, collerico, andò dritto al vescovado.” A ricattare il vescovo onesto. “Lo mise spalle al muro, gli fece capire che un processo contro i gesuiti, per lui, voleva dire perdere per sempre, sarebbe rimasto vescovo di Tolone in eterno, mai lo avrebbero fatto arcivescovo. Ben di più, con la libertà di un apostolo forte a Versailles, gli disse che se questa faccenda avesse gettato in piazza la condotta di un gesuita, non avrebbe mancato di mettere a giorno quella di un vescovo. Una lettera, chiaramente combinata da Girard, farebbe credere che i gesuiti erano pronti in segreto a rivoltarsi contro il prelato con accuse terribili, dichiarando la sua vita ‘non solo indegna dell’episcopato, ma abominevole. Il perfido e subdolo Girard, Sabatier apoplettico, gonfio di bile e veleno, avrebbero spinto a fondo la calunnia; pronti a dire che era tutto per una ragazza, e se Girard l’aveva curata malata, il vescovo l’aveva avuta in buona salute”.

domenica 20 giugno 2010

SUSANNA, Frammento 71


Ricordate la setta del grande Computer? Il cervello umano, questo micidiale assemblaggio di 100 miliardi e passa di neuroni ciascuno dei quali può svolgere un milione di operazioni al secondo, è capace di tutte le pensate, anche le più astruse e ostiche a ogni corretta logica del controllo empirico. E purtroppo, spesso (da tre secoli, circa, e da mezzo, con accelerazioni turbinose) capace anche di realizzarne alcune che rasentano l’impossibile. Nessuna meraviglia, dunque, per le stravaganze dei nuovi seguaci di Satana, unico Signore del mondo.
Le stravaganze in questione vengono collocate correttamente nell’ampio spazio emozionale del variegato satanismo; e questo, a sua volta, e non meno congruamente, è assunto come un capitolo dei nuovi movimenti religiosi (in sigla, nmr in un ampio studio presente nella Rete). La giustificazione dell’assunto riposa sulle forti analogie, e spesso sostanziale identità, di azioni e matrici teoriche appartenenti all’uno e agli altri fenomeni di aggregazione forte. Ma neanche le differenziazioni fenomenologiche emergenti tra satanismo e nmr possono vantare ragioni di un distinguo drastico. I nmr, e il satanismo molteplice ivi incluso, vibrano, sinistramente, fra la granitica perentorietà dei fatti e la schiumosa fluidità delle interpretazioni: mentra l’orrore dei primi ha l’incontestabilità effettuale dell’evidenza tragica, le teorie ermeneutiche ondeggiano e slittano volentieri nell’azzardo della fantasia più sbrigliata. La quale, s’intende, invoca, anch’essa, fatti eventi e segni, ma non mostra scrupoli nel surrogarli quando le mancano, o nel riplasmarli quando l’operazione serve all’assunto ideologico emozionalmente precostituito. Sono nate così le stravaganze più ardite e incredibili e gli operatori ideologici più improbabili. Ma le une e gli altri con effetti sociali di vischiosa rilevanza: panico diffuso, insicurezza settoriale, allucinazioni che deformano la realtà percezionale, fino al limite estremo che forse si potrebbe ancora indicare con la vecchia formula, “perdita dell’innocenza”. Ecco un cenno sugli orridi eventi e un altro (più veloce) sui loro effetti teoretici (sociologici, antropologici, accademicamente ibridati...) e mediatici. Cominciando dagli eventi. E da una specie di prologo, le gesta cruente di Manson e seguaci.
“Il 7 agosto 1969 un’attrice famosa, Sharon Tate, tre suoi amici e un estraneo capitato incidentalmente sul posto furono uccisi in un modo barbaro, che non offriva moventi ma presentava tutte le caratteristiche del rituale. Due giorni dopo, la stessa sorte capitò a una coppia di facoltosi coniugi di Los Angeles, Rosemary e Leno LaBianca. Il terrore s’impadronì della California. Le piste – gioco, droga, vendetta – potevano essere molte, ma nessuna portava a un risultato concreto. // Finalmente un caso portò alla scoperta dell’atroce verità: esecutori del crimine erano giovani cittadini statunitensi che da un paio d’anni conducevano una vita errabonda, accampandosi nei deserti della zona sotto la guida di un certo Charles Manson: Sempre ai margini della legge, più volte arrestati e sempre rilasciati, questi giovani costituivano una comune dai costumi liberi, che si teneva strettamente unita intorno al suo capo, cui tributava un’obbedienza e un’adorazione fanatiche. // Che cosa abbia potuto trasformare questi giovani in una banda di assassini, quali fossero le cause dell’ascendente di Charles Manson ─ che a volta a volta si proclamava Satana e Cristo ─ è quanto Ed Santers si propone di spiegare in questo libro.” Quanto precede è, parzialmente, la presentazione del libro, il cui titolo suona una specie di paradosso o di ossimoro, bilanciato fra le parole-concetti di “famiglia” e “assassini”, esposto anche nel bicromatismo della copertina, il rosso violento del titolo e il bianco dell’autore e del sottotitolo. Ecco il “totale”: ED SANDERS, La “famiglia” di Charles Manson. Gli assassini di Sharon Tate” (Feltrinelli, 1972, trad. di Raffaele Petrillo). Il massiccio volume è frutto di una biennale fatica documentaria, non priva di rischi, e ha il merito di inserire la vicenda Manson-Tate nel contesto delle “stravaganze” occultiste, sadomaso, sataniche, animatrici di altrettante sette e “famiglie” californiane, e non solo. “Ne risulta un fosco quadro che mette sotto accusa non solo gli psicopatici e i mitomani alla Manson e ‘famiglia’, ma tutta la cultura degli anni Sessanta e Settanta in America”. Un esito che cresce intorno alla turbolenta, incredibilmente varia, biografia del Manson, narrata senza risparmi di dettagli e pericoli per l’autore. E tanto basti, per questo cenno sugli effetti tragici di questa elefantiasi della stupidità umana che si colora e accalora di religione.

1. Jonestown, 1978. La prima data tragica che offre una strage di massa. Negli Stati Uniti il “reverendo Jim Jones” aveva creato, nel 1965, una sua “chiesa” battezzata “Tempio del popolo”. Il verbo di tale invenzione era un miscuglio micidiale di biblismo rinverdito e comunismo visionario, condito di libertà sessuale, rigida disciplina gerarchica, escatologia catastrofica. Il profeta aveva plagiato la mente dei numerosi seguaci (per lo più neri) inculcando loro la convinzione che un giorno sarebbe arrivato il richiamo di dio, e tutti avrebbero dovuto rispondere concludendo in letizia la vicenda terrena per iniziare la felicità senza fine. Il suicidio di massa era la meta finale dell’avventura terrena; la via elettiva, per tanto fine, l’avvelenamento. Più volte il torvo profeta aveva fatto recitare la prova dell’evento finale, per allenare i seguaci a quella reale e risolutiva. La chiamata di dio scelse la data del 18 novembre 1978. Ognuno dei devoti bevve la sua “cicuta” e sul terreno si contarono 911 corpi esanimi. Avvelenati dalla pozione mortale? ovviamente. Ma troppo facile. Prima del veleno chimico esterno aveva agito per 13 anni il tossico biochimico della Grande Menzogna, fornito e rinnovato giorno per giorno dalla pedagogia ammaliante del funesto profeta. La cernita dell’esito non fa che gonfiarne l’orrore: 398 uomini, 293 donne, 219 bambini. La strage avvenne nei boschi della Guyana, dove il gruppo si era spostato da tempo. Il profeta, compiuto il suo dovere di contabile del macello, salì a dio con un colpo di pistola alla tempia. Jonestown è la non-città inventata da Jones.
2. Waco, Texas, 1993. David Koresh è un altro profeta segnato dal destino stragista. Quando l’fbi viene incaricata di indagare sulle reali attività della setta sospettata di truci segreti, i davidiani sono rifugiati in un ranch. Alle pressioni dei militari che li stringono d’assedio, dopo 51 giorni di resistenza e vani tentativi di soluzione indolore, i capi settari rispondono incendiando il ranch (almeno, questa è la versione accreditata). Nelle sacre fiamme muoiono le 86 persone presenti.
3. “Ordine del Tempio del Sole”, 1994. Il fondatore, Luc Jouret, predicava la morte della... morte: “La morte non esiste, è una pura illusione”. Deduzione “logica”: “Che ci sia consentito di trovare il paradiso in noi”. Un noi curioso, visto che la “destinazione finale” è la stella Sirio, ed è in quel sito celeste che il profeta dà appuntamento ai suoi seguaci per il giorno del massacro. La data dell’Evento par excellence veniva letta negli esoterici messaggi che l’illuminato era convinto di trovare nelle battute e nelle situazioni della serie televisiva Star Trek. Messaggi, manco a dirlo, provenienti da Sirio. Così la notte tra il 4 e il 5 ottobre del 1994 un triplice olocausto si consuma in tre distinte località francofone: due Cantoni svizzeri, Cheiry e Granges sur Salvan; una località vicina a Montreal. La soluzione finale è un omicidio-suicidio di massa: 53 persone, uomini donne bambini (queste tenere carni non mancano mai nel pasto umano del ghiottone Baal-Moloch). Parte “risolvono” da soli, altri si suicidano per autorizzata mano altrui. L’incendio degli chalet non lascia in terra che cadaveri, carbonizzati fino all’identità personale. Ma ci sono stati anche suicidi per soffocamento, la testa dentro sacchetti di plastica serrati. Il fondatore segue i suoi seguaci. Nel Grande Inganno, una rispettabile coerenza: niente trucchi vampirici sul patrimonio di quelle vittime. Sedici “scampati” a quel massacro hanno provveduto poco più di un anno dopo: in Francia, nei pressi di Grenoble. I cadaveri, disposti in cerchio, sono stati scoperti seminascosti dalla neve. E risuonano promesse di repliche da parte di altri seguaci. Forse prima che il presente pasticcio ibridato, questa specie di “storia infinita”, si acquieti in un vero finale ci saranno altre vittime in viaggio verso Sirio.
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La Grande Menzogna lavora in regime di non stop. E produce coincidenze significative. Paolo Assaggi registrò in uno dei suoi scritti di antropologia culturale, degli anni Settanta-Ottanta, il caso di un antropologo spiritualista (“questa specie di ossimoro vivente”) che puntava in Sirio una presunta prova di “esistenze anteriori”: dei “selvaggi” dell’etnia Dogon, descrivevano correttamente la stella in questione come un sistema triplice: due “lune” ruotano intorno all’astro maggiore. Come facevano a saperlo, ignari di astronomia scientifica e relativi strumenti di osservazione diretta? Evidente, per lo strano “scienziato”, che quei “primitivi” (peraltro, dotati di una metafisica complessa, ben nascosta in immagini corposamente fisiche) erano stati a contatto con Sirio in altra esistenza (magari del tutto disincarnata). Come se un’intuizione come quella fosse impossibile a un’osservazione assidua, distribuita in cieli di varia purezza ottica, nel decorso lungo dei giorni, anzi delle notti.
Occorre ripetere che il virus dell’imbecillità colonizza anche teste per altri versi funzionanti? O disturbare ancora l’inclito Zichichi (per i critici burloni, Zichicche)? Il quale afferma, come niente fosse, che “nella trscendenza è possibile ciò che nell’immanenza è...” vietato. Per esempio, una bella resurrezione: ed ecco spiegato il mistero fondatore del cristianesimo (ma forse di questo ha già parlato direttamente Paolo, in queste pagine ormai difficili da controllare.
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4. Tokio, 1995. Setta “Aum Shinrikyo” (traduzioni possibili “Verità sublime” o “assoluta” o “suprema”). Nella metropolitana di quella capitale, il 20 marzo, viene liberato del gas nervino. Il micidiale attentato è gloria di seguaci della setta, fondata e guidata dal cieco Shoko Asahara, che modestamente si autodichiara “l’incarnazione di Dio”. Ingegnoso quanto generoso, il guru assassino vendeva l’acqua sporca delle sue abluzioni, dichiarandola purificatrice dell’anima. E se la faceva pagare salata. Con il cospicuo ricavato, alimentava fabbriche per la produzione di gas velenosi, presunti sieri della verità, barbiturici e quant’altro. Il gas nella metropolitana ha fatto solo 11 vittime e un migliaio di intossicati guaribili: ma si pensi alle potenzialità della splendida impresa.

5. San Diego, 1997. Setta “Heaven’s Gate” (“La Porta del Cielo”). Ma anche “Higher Source”, per altre fonti. Punto di riferimento celeste, la cometa Hale Hopp. E lì, su quel vagante approdo sacro, si danno appuntamento 39 seguaci, viaggiando col propellente di un cocktail micidiale: alcol e barbiturici. La brillante, ignara e innocente cometa era in transito visibile nell’aprile di quell’anno. I “viaggiatori” erano uomini e donne dai 18 ai 35 anni: neanche la vitalità dei giovani si salva dalla “Grande Illusione”. Erano segnati da elementi di riconoscimento, questi infelici: vestiti di nero e con due triangoli di stoffa rossa addosso, uno sulla testa e uno sul petto. E via all’ascensione verso la “Fonte più alta”. Naturalmente, convinti di rinascere in quell’inabitale sito.
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Che fatti del genere (o così eclatanti o anche meno, ma pur sempre traumatici – come i molti casi che qui stiamo tacendo) suscitino allarme, sconcerto, raptus di crisi identitarie, specialmente nel prospero Occidente presunto razionale, (e magari convinto di un minimale set di target comportamentali universali), è più che comprensibile. Le teste d’uovo, però, sono pronte a fare luce (pur non ignorando che “gli uomini preferirono le tenebre alla luce”). E confezionano interpretazioni divergenti, in cui si fa largo, fra le tante, la tentazione complottarda. Fino a prevalere su ogni altra, immaginando una Internazionale satanista composta e alimentata da insospettabili personaggi di varia appartenenza sociale e professionale. Questi oscuri tramatori, miranti al dominio del mondo nel nome del Grande Satana (non vi mancherebbero neppure preti rinnegati di alto rango), sono stati chiamati colletti neri (mutuando la denominazione dal criminologo Sutherland) e li si dice attivi, con metodi e mezzi tanto sagreti quanto spregiudicati, nelle varie parti del pianeta. Ed effetti, ovviamente, spesso criminali.
A questo complottismo facile qualche studioso ha opposto la severa diagnosi popperiana, che, in Congetture e confutazioni, riesce a scovarne lontane radici nientemeno che in Omero. Secondo Popper, Omero è il modello del complottismo occulto: non rinvia, forse, al mittente delle trame olimpiche tutti gli eventi che agitano la pianura di Troia? Se al posto degli dèi olimpici (o tellurici) mettiamo figure comparabili in quanto surrogati teologici, il meccanismo mentale non cambia: colpa (o merito) di quanto accade è sempre di forze oscure e incontrollabili. Specialmente i nostri insuccessi, e un corso delle cose contrario alle nostre previsioni. Altri ha tirato in ballo Umberto Eco, che, in un saggio sulla forza del falso difende il paradosso, per cui il falso, in quanto “racconto” prima che falso, ha, come il mito, una sua fascinosa autorevolezza che lo fa motore di eventi realissimi. Ovvio, anche, a questo proposito, quanto tuttavia superfluo, il ricordo dei famigerati Protocolli dei Savi di Sion, usati da Hitler per giustificare lo sterminio di quei “nemici della razza umana”: che forse quei torvi ebrei non progettavano la distruzione della Germania e dell’intera Europa? E vi pare che la leggenda nera sia tramontata? Manco per idea: esistono fior di professionisti (medici, psicologi, “culturologi”, eccetera) ben saldi nelle convinzioni più assurde. tra le quali la negazione della Shoah e la veridicità di quei Protocolli. Indi, dalli all’ebreo. Né (ma come si divaga!) i capi d’Israele fanno nulla per scoraggiare quell’ostilità immaginifica con una politica meno ingorda e spocchiosa.
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Ma non è il caso di infilarsi, qui, in spinose questioni teoretiche, né di seguire le suggestive distinzioni (satanismo “acido”, “edonista”,” sacrilego”, e via spulciando); o il fertile campionario in progress di combriccole sataniche (“Bestie di Satana”, “Bimbi di Satana”, “Servi di Satana”, eccetera): basti avere ricordato, in veloci cenni (tolti, per lo più, dai taccuini di Paolo Assaggi), i fatti mostruosi che alimentano fantasie eccitate e menti più pacate in un caleidoscopio di visioni, teorie, enfatizzazioni speculative, deformazioni strumentali (mirate a obbiettivi divaricati), con effetti di caos teoretico e sfide da ricerche accademiche più riflessive e ponderate.
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Ma soprattutto basti ricordare ancora l’aspetto più odioso di questa ubriacatura satanica: l’abuso su minori, le forme estreme di pedofilia criminale. Con il corollario tristissimo dei documenti sulla preparazione graduale dei bambini da brutalizzare: pagine ostiche anche a palati forti, già alla sola lettura; del tutto irriproducibili nel nostro contesto per eccesso di luridume sadico.
E poi ci si sente eroi del Bene per campagne contro la pena di morte prive di distinguo e di cautele; e prive, in modo ripugnante, di pietà empatica con genitori di bimbi seviziati struprati assassinati. O predati e “parcellizzati” nel clandestino (ma di fatto, più tollerato che perseguito) commercio degli organi. Quale distinguo? Semplice, almeno in questo impegno teorico: stabilito che lo Stato non deve uccidere, a sangue freddo, nessun uomo (in guerra può mandarne al macello milioni!), è così difficile chiedersi: ma ogni bipede pensante (meglio: parlante, e magari sproloquiante) è, per natura, “uomo”? Non sarebbe più coerente con la teoresi dello spirito, del primato etico e culturale sul biologico immediato pretendere che la qualifica di uomo implichi un (sia pur minimale) corredo di qualità umanizzanti? Giusto quelle che a certi assassini, pedofili omicidi e torturatori, stragisti dei vari terrorismi che colpiscono nel mucchio, coinvolgendo bambini, e altri campioni di umanità brada mancano del tutto. Ecco un discorso irricevibile per la faciloneria rimuovente e “spettacolare” di certi personaggi della politica italiota (ma non solo) mai sazi di scena e sceneggiate. E non è un caso che questi campioni di moralità all’acqua di rosa siano liberisti dogmatici, americaneggianti in full immersion e ammiratori sbavanti di un Israele al di sotto di ogni sospetto, contro ogni evidenza di brutalità capitalistico-terroristica dei loro idoli al detersivo.
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Un appunto piuttosto lungo (che riassumeremo) svolge un ripensamento di Paolo sul satanismo rock. Informazioni più pacate e meno random gli avevano rivelato i sotterranei nessi fra rock e ideologia demoniaca. Chi ha visto un concerto rock avrà osservato quel crescendo di eccitazione che accompagna l’esecuzione dei brani negli esecutori e l’ascolto “passivo” delle folle. Quella iterazione ossessiva dei medesimi suoni scatena una pulsionalità basale che psicologi e studiosi del decadentismo europeo definivano il “demonico”. Non occorre elasticizzare molto la nozione per farvi rientare la vitalità intera (tema caro all’esistenzialismo italiano, che scosse anche l’olimpico Croce, costringendolo a inserire nella prima casella dei suoi Distinti la “selvaggia e verde vitalità”). Si tratta, insomma, dell’attivazione eccessiva del paleo-cervello, del sistema limbico e contorno, opificio molecolare delle emozioni. A definirlo demonico si ha il vantaggio di riferirsi a concetti greci – si pensi al demone socratico, che però ne rappresenta la sublimazione etica. Il demone operante nella tragedia greca è ben altro: è quella istintività che conserviamo, filogeneticamente, dal multiforme rettile giurassico (tirannosauro incluso). Bene: è constatazione ovvia che il passo dal demonico al demoniaco è breve e non difficile. Lo sapevano i greci, che avevano inventato Dioniso e le baccanti, e lo ritrae nell’orrore dell’omonima tragedia il “moderno” Euripide, quando non si ritrae dalla tradizione mitologica che vuole assassina del regale figlio (eticamente razionale) la madre di Penteo “baccantizzata” dal vendicativo Dioniso, respinto da quel saggio-incauto sovrano. Giusto in nome della sana moralità. Orbene, alla luce della fisiologia ormonico-neuronale non appare più così insensato il nesso rock-satanismo: basta metaforizzare quel Satana sinaptico per ritrovarsi nel gorgo di effetti eretistici suscettibili di sbocchi pratico-cinetici socialmente divergenti, magari fino all’esito mortale: omicidio o suicidio o loro sintesi.

mercoledì 9 giugno 2010

SUSANNA, Frammento 70


Fu un periodo di grandi e funesti eventi, quel breve precipitare di anni, nel privato di Paolo. Un paio d'anni dopo la morte di Marco (che aveva resistito al tumore polmonare conclamato circa un anno) morì il suocero: aveva superato una ventina di crisi di vario genere nella sua lunga esistenza, e ogni volta dando la sensazione di essere arrivato. Questa volta non ce la fece. Morì di arresto cardiaco durante una complessa quanto inevitabile operazione chirurgica per brutta frattura del femore sinistro. Aveva novant'anni e due mesi.
La scomparsa del vecchio rivoluzionò la vita domestica di Paolo e Rina. Non si "combatteva" più con badanti più o meno deludenti (una per il giorno e una per la notte, negli ultimi tempi), era scomparso il patema d'animo per la salute e i possibili incidenti che il debole ma intraprendente assistito poteva procurarsi uscendo di soppiatto nel breve intervallo tra la fine dell'assistenza diurna e l'inizio della notturna (quando un qualche impegno impediva a Rina di coprirlo lei). Quest'ultima era affidata a una giovane immigrata bulgara, moglie di un operoso connazionale, e madre di due ragazzi, un maschio e una femmina, adolescenti di spiriti moderni, costretti a convivere in patria con una nonna all'antica. Lavoratore instancabile, lui, ma sans papier, per colpa degli "ingaggiatori" che imponevano il “nero” senza scrupoli né pietà. Indi, una situazione precaria della famiglia, la paura di poter essere cacciati. Situazione che coinvolge la maggioranza degli immigrati balcanici della Sicania. Anche, se, nei fatti, le autorità locali lasciano correre. Ma chi può escludere un soprassalto di zelo nei Palazzi romani, e dunque il correlato risveglio coatto delle poltronerie locali?
Altra conseguenza di quella morte: Rina non doveva più controllare l'erogazione di moneta a quel padre di mano generosa, troppo esposto alla tentazione di aggiungere rapsodici extra al compenso routinario di quelle avide donne di avaro impegno assistenziale. E soprattutto, era scomparso il tenace vincolo che inchiodava i due coniugi al paese e alle sue logoranti liturgie della quotidianità banale. Rina, dei due, era la più "liberata" (ma guai a dirglielo): si trovò, di colpo, libera di fare un viaggio al quale teneva molto. Un viaggio dal nome altisonante: Lourdes. Perché con lei non "veniva" anche suo marito?
Paolo non si lasciò convincere: non l'avrebbe accompagnata. Per quanto interessato, come dilettante di antropologia culturale e di storia religiosa, a quella mega-dimostrazione di miseria umana tonitruante in gloria, non credeva di farcela: troppo reattivi i suoi neuroni. Come reggere l'immane spettacolo dell'irrimediabilià fallimentare della specie? O, anche, il peso del faticoso spostarsi da un angolo all'altro dell'immenso spazio fisico di quella pandemia superstiziosa, e del soprastante carnaio? Il curioso era che una vecchia zia di Paolo, molto inzuppata di sincero fervore e di pari miracolismo superstizioso, da tempo assediava il nipote reprobo perché si convertisse. Visti inutili i suoi racconti di mirabilia sacre, aveva puntato sull'effetto Lourdes, e insisteva perché quel nipote "buono" e generoso, quanto testardo, facesse un viaggio a quella Mecca. La cui storia, infatti, narra di tante conversioni. Ancora a 92 anni quella brava donna corazzata di blindate certezze ritornava all'assedio: temeva seriamente che l'inferno potesse inghiottire quel "cuor gentile". Paolo resisteva a negarsi, ma incoraggiava Rina: andasse senza di lui, non c'era nulla di male. Alla prossima occasione avrebbero partecipato due cugine della madre (di lunga frequentazione con la famiglia di Rina ): non le mancava, dunque, la buona compagnia. E Rina, dopo esitazioni variamente colorate, s'era convinta.
Pochi mesi dopo la morte del padre, l'ormai anziana signora partiva, serena e protesa al godimento di una specie di miracolo: sarebbe stata a Lourdes, il luogo santo da lustri bramato, l'attesa di un'esperienza "sublime", un desiderio ritardato nel suo adempimento, ma più che mai vivo. Forse più di quando aveva trent'anni di meno lei e qualche anno il desiderio. Viaggio tranquillo, fatica dolce, seduzione dei luoghi e dei panorami. Le telefonate che Paolo riceveva da quell’avventura erano trilli di gioia: Rina viveva in pieno rapimento estatico. L'unico rammarico, diceva, era di non averlo accanto a sé, quel marito miscredente: chissà, forse la magia del luogo, le sue folle di estatici imploranti avrebbero scosso anche il suo cuore "ferito dai mali del mondo". Ma no, non era possibile che Rina credesse a questa fandonia: lo conosceva troppo bene per illudersi che potesse cedere a una sirenuccia così sprovveduta. Quelle masse deliranti, semmai, avrebbero rinsaldato la sua idiosincrasia religiosa; se un sospiro potesse ancora aggiungersi alla sua non-religione dell'evidenza sconfinata, lo spettacolo sublime delle "folle oceaniche" in vana trance imploranti lo avrebbe aggiunto. Lei stessa corresse il tiro: voleva dire che quelle masse di sofferenti e di postulanti resistenti lo avrebbe comunque commosso umanamente. E questa era una possibilità reale: vedere non è esattamente come immaginare, l'impatto percettivo ha maggiore forza di qualsiasi fantasia ricostruttiva. Così come la visione diretta, carnale e fisica, ha maggiore evidenza delle immagini pur mosse e colorate e sonore dei film, delle televisioni, della nuova magia hi-tech, Internet drogante e plurivalente. Vedere, e da vicino, i corpi e i volti di quell'umanità all'incanto della Grande Menzogna gli avrebbe inferto un diverso pugno allo stomaco, acceso un "valore aggiunto" di pietà rabbiosa per la sorte di quella sterminata "carne perduta": perduta per la verità, la tracimante evidenza multipolare, la pietà empatica, l'onestà intellettuale e la stessa moralità tanto sbandierata. Perduta in cambio di un delirio drogato che esalta consola eccita e fa pagare il conto salato che tante volte è stato vanamente denunciato da pochi "veggenti" pietosi. Tra costoro Paolo poneva in posizione di plurima eminenza Tilman Moser, lo psicanalista che narrava in un agile pamphlet la sinistra avventura della sua teo-dipendenza squassante, annunciata fin dal titolo azzeccato, "Avvelenato da Dio" (Feltrinelli). Molti passi di quella spietata requisitoria contro il sadismo patogeno del precocissimo plagio mistico, attenta fino alle estreme minuzie dell'intossicazione religiosa, sono trascritti sulle pagine delle sue ultime agende-diario. Questa brezza nebbiosa di semipensieri si ricava dagli appunti di Paolo.
E non sapeva, non immaginava, quel déraciné in itinere, non aveva temuto neppure nel più remoto pensiero errante, che proprio quel luogo santo, quel colmo della fede e della fiducia filiale verso la materna Madonna impotente, quella fortezza della protezione divina da millenni disattesa nella realtà dell'imbroglio semovente e dell'illusione rinascente, avrebbe offerto al discepolo dell'evidenza, la massima (anche se, per lui, superflua) prova dell'inesistenza di qualsiasi olimpo, dello sconfinato vuoto metafisico di tutti quei cieli stellati, straripanti di inferni nucleari. Non ne aveva bisogno, il battezzato nel nome del grande Convertito sulla via di Damasco, come non ne ha bisogno ogni vero clericus della verità nuda: ma quell'ennesima prova era speciale, era una di quelle dimostrazioni più che matematiche che dovrebbero stroncare per sempre ogni illusione sul "reggimento divino del mondo". O, come va predicando, nel suo infinito peregrinare per la Terra crudele vanamente inzuppata di religione, il papa superstar di questi anni, su quello che Egli definisce "il Disegno del Dio misericordioso".
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Dalle varie tappe del lungo percorso in pullman (pernottamenti a Roma e a Torino) erano giunte a Paolo telefonate rassicuranti: tutto procedeva secondo previsione e in linea con le pie (e turistiche) attese. Finalmente da quella specie di Mecca cattolica giunse la prima telefonata, e poi le altre, cui si è accennato: Rina irradiava estatica gioia: il sogno della sua vita era realtà, il "miracolo", rinviato di anno in anno per decenni, s'era compiuto. Paolo si diceva contento per lei. E intanto pensava a come quelle dosi massive di anfetamine religiose annegassero nell'euforia mistica tutte le sue contestazioni, per quel tanto, quel poco o propter nihil, che avessero potuto introdursi nel cuore resistente della moglie.
Ed ecco, a un dato preciso scatto del tempo, in un appuntamento imprevedibile fissato da menti aliene, esplodere l'Inaudito. L'inimmaginabile. L'impossibile. Un kamikaze si fa esplodere in mezzo alla folla dei pellegrini, dentro il grande tempio. Una strage. Notizie confuse, incalzanti, frammentarie, poi via via meno vaghe, più condensate sui fatti. Le televisioni impazzite dietro l'evento clamoroso. Tutti interrotti i loro programmi da palinsesto, per dare spazio a una serie di telegiornali in edizione speciale concentrati sull'inedito orrore. L'ansia di Paolo cresceva, nelle ore lente di quell’assurda sera estiva, con il sommarsi dei particolari nei successivi Tg. Era impossibile che si potessero conoscere i nomi delle vittime quella sera stessa, ma si davano già le quantità probabili delle morti immediate e la nazionalità dei colpiti: le vittime erano sul centinaio, ma la quantità era destinata a crescere. Fra loro, molti erano gli italiani. Pareva che l'attentatore si trovasse vicino ai gruppi italiani convenuti da varie parti d'Italia.
In casi simili, si sa, la tendenza autodifensiva spinge gli interessati, e insomma i parenti delle possibili vittime, a rifugiarsi con speranza nel calcolo delle probabilità, sentito nella sua forma più grezza e ingenua: giusto a mia moglie "doveva" capitare di trovarsi vicino al folle? Proprio mia figlia, mio figlio, i miei nipoti dovrebbero essersi trovati nelle vicinanze del criminale? E così via, nella rincorsa della speranza, e magari del miracolo esclusivo. Paolo non era un ingenuo, ma neanche lui si sottraeva alla febbre generale. E quando seppe che Rina era fra le vittime, ebbe un collasso. La presenza dei figli, che dalla prima notizia sul disastro non lo lasciarono più solo, evitò il convenzionale peggio.
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Nei giorni del lento recupero, dopo la breve degenza ospedaliera nel Presidio di Realpolia, Paolo seguì, con i figli, e nuora e genero, le fasi del lungo calvario, dal riconoscimento del corpo ai funerali pubblici, dai messaggi delle autorità statali e religiose all’usurata ma sempre arzilla e rivitalizzata retorica d'occasione, non per nulla catalizzata dai servizi televisivi. Dovette subire la solita indiscreta intervista dalle tivvù locali e nazionali. Un'intervistatrice, stranamente informata della sua identità di professore in pensione scrittore pubblicista eccetera, gli chiese come mai egli, non credente, non abbia tentato di impedire quel viaggio fatale. All'idiozia umana davvero non c'è limite. La "stranezza" dell'informazione sulla propria condizione di ateo fu cancellata da un altro intervistatore sconosciuto, il quale notificò all'intervistato di avere trovato in diversi siti internet i suoi libri e di avere comprato e letto il volume sul materialismo illuminista francese: chiaro, dunque, il perché della sua assenza da Lourdes.
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Quando tornarono giorni meno convulsi, Paolo scrisse qualche riflessione, riprendendo l'abitudine quasi del tutto smessa del "diario in agenda". Eccone degli estratti, parafrasati o "interi". Fatti e cifre. Novantacinque i morti, duecentotredici i feriti. Modalità del decesso: una cinquantina "dentro" l'esplosione, il resto nel terribile indotto del panico, della folle corsa alla salvezza che si capovolge in tunnel della morte: decine di uomini e donne, più o meno anziani, morirono schiacciati dalla massa impazzita. E perfino soffocati nell'orribile calca: non era difficile, molti di quegli anziani avevano già dentro la misera carne la grinfia di qualche malanno, di cuore soprattutto. E i feriti, anch'essi, per la maggior parte, prodotti dall'amalgama infernale. Un fenomeno puntualmente reiterato in occasioni di panico collettivo: quante volte le cronache ne avevano registrato l'orrore da un anno all'altro, dall'una all'altra occasione: stadi del calcio, pellegrinaggi alla Mecca (più volte insanguinati dallo scialo da panico assassino), incendi in teatri e cinema... "Una sommatoria anche approssimativa di tutti questi incidenti darebbe un totale comparabile alle stragi di una media guerra mondiale con armi convenzionali. Ma vai a dire in giro che la parte maggiore di questa ecatombe compete alle suggestioni religiose ... Chissà dove riposa la lunga poesia (una 'canzone leopardiana': mix di endecasillabi e settenari) che scrissi sul più tragico degli incidenti targati la Mecca, quello del tunnel (oltre mille morti, se non ricordo male)"
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In uno di quei giorni del riflusso normalizzante a Paolo capitò di guardare in Tv un servizio su Lourdes, ricco di dettagli e ovvie fandonie interessate. Più che l'allucinazione della fanciulla Bernadette Soubirou e il facile credito bivalente (spontaneo-candido e peloso-progettuale), lo colpì il successo spropositato della speculazione mercantile impiantata su quel fertile terreno di fatale suggestione: cifre da capogiro sventolavano insieme vessili dell'assurdo e calcoli fin troppo realistici: 230 Alberghi di vario livello (per tutte le altezze mammoniche dei buoni e fervidi credenti), 700 milioni di visitatori in un secolo e mezzo; un mercato immenso, frammentato in varie posizioni e postazioni; 67 miracoli (appena!) riconosciuti dai marpioni eminenti della Chiesa prudente e calcolante in scialo di furbizia, su migliaia o milioni di pretese miracolistiche. E così via salendo. Incalcolabili i casi di conversioni esemplari (se non ‘miracolose’). Per esempio, tal Giovanni Battista Tomasi (1903) va a Lourdes disperato e ne torna rivoltato, gonfio di fede speranza e carità. E fonda l'istituzione umanitaria di assistenza ai malati ancora in auge di florida produttività. Ma sono, soprattutto, loro, i malati, gli storpi, i semi-moribondi il materiale antropico più sbalorditivo: quasi tutti tornano alle loro case con gli stessi malanni, ma la maggior parte rinfrescati dalla fede, dalla speranze del premio celeste, dalla rassegnazione attiva. Che arriva a spingere alcuni a benedire le sofferenze personali e universali. No, niente meraviglia: è il solito capovolgimento della realtà, la solita rimozione consolante, il solito, secolare, eterno "mistero buffo" dell'anima umana. Così trasparente, peraltro, da fare soltanto rabbia impotente: l'uomo medio, per un grano d’illusione drogante è capace di negare ogni evidenza, di mascherare qualsiasi brutalità e orrore, di dire, anzi proclamare, perfino (come quel cialtrone di popolano presente alla strage sismica degli scolari di San Giuliano molisano) che "il Signore ha voluto portare in paradiso" quegli innocenti immolati dalla bastardaggine umana, che aveva costruito quella scuola fuori da ogni normativa antisismica. Quella tenera carne era diventata, secondo l’infame esaltato, uno stormo di teneri angeli.

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Ancora appunti di Paolo: da un' agenda più recente, dove giustifica una lunga trascrizione segmentata come esempio e prova di quanto possa l'incapacità di homo medius di accettare la fatalità biologica della morte. Si tratta di un brano del più fortunato, congesto, diseguale, ma a tratti intrigante romanzo del romaziere italo-americano Don DeLillo, Rumore bianco, e precisamente lo sproloquio di un suo centrale personaggio mentre gira per i corridoi di un seduttivo supermarkt:
"Questo posto ci ricarica sotto il profilo spirituale, ci prepara, è un passaggio o una transizione. Guarda quant'è luminoso. E' pieno di dati sovrannaturali. // Mia moglie gli sorrise. //─ Tutto è celato nel simbolismo, nascosto da veli di mistificazione e strati di materiale culturale. Ma si tratta senza ombra di dubbio di dati sovrannaturali. Le grandi porte si aprono scorrendo e si chiudono spontaneamente. Onde di energia, radiazione incidente. E poi ci sono lettere e numeri, tutti i colori dello spettro, tutte le voci e i rumori, tutte le parole in codice e le frasi convenzionali. E' soltanto questione di decifrare, ricombinare, eliminare gli strati di impronunciabilità. Non che sia il caso, non che ne possa derivare alcuno scopo utile. Questo non è il Tibet. E neanche il Tibet è più quello di una volta. //Continuai a esaminare il profilo di Babette, che mise dello yogurt nel carrello. //─ I tibetani cercano di vedere la morte per ciò che essa è. Ovvero la fine dell'attaccamento alle cose. Una verità semplice ma difficile da capire. Tuttavia, una volta che si sia smesso di negare la morte, si può procedere tranquillamente a morire e poi ad affrontare l'esperienza della rinascita uterina, o l'aldilà giudaicocristiano, o l'esperienza extracorporea, o un viaggio su un Ufo, o come che lo si voglia chiamare. E possiamo farlo con chiarezza di visione, senza timore riverenziale o terrore. Non dobbiamo aggrapparci artificialmente alla vita, e neanche alla morte. Non si fa altro che procedere verso le porte scorrevoli. Onde e radiazioni. Guarda come è tutto ben illuminato. Questo posto è sigillato, conchiuso in sé. E' senza tempo. Un altro motivo per cui penso al Tibet. Morire, in Tibet, è un'arte. Arriva un sacerdote, si siede, dice ai parenti in lacrime di andarsene e fa sigillare la stanza. Porte e finestre, tutte sigillate. Ha cose serie da fare. Salmodie, numerologia, oroscopi, recitazioni. Qui non moriamo, facciamo acquisti, ma la differenza è meno marcata di quanto si creda".
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Chi era l'attentatore e quale il senso dell'attentato? Se ne discusse a lungo, e ancora oggi, a distanza di anni, differenti interpretazioni si contendono il campo. Il kamikaze era una sorpresa al quadrato, un'improbabilità logistica montata sopra una quasi impossibilità pratica. Non era un uomo, un giovane, un ragazzo delle madrasse incubatrici di polli martiri avvelenati da un Allah di comodo; non era un sanguinario robot ideologico montato da capi-branco decisi a tutto contro il Grande Nemico. Era una donna, una franco-algerina, cioè una giovane algerina di famiglia "naturalizzata" da un paio di generazioni. Alcuni ponzatori accademici e mediatici hanno voluto collegare il "folle gesto" col precedente, e soprattutto successivo, terrorismo islamico, che a metà degli anni Novanta, o giù di lì, non era né così largamente espanso né tanto bene caratterizzato e ferocemente determinato contro l'Occidente ricco prepotente arrogante e in una parola satanico. Anzi, crociato. Altri hanno utilizzato indizi raccolti dalle investigazioni di varie agenzie (polizia servizi segreti, ecc.) dei Paesi toccati dall'attentato: Francia, in primis, poi Italia, Spagna, Algeria. Gli indizi porterebbero, secondo la loro interpretazione, a una setta satanica (quale aggettivo fortunato e ossessivamente ricorrente nella gloriosa storia assassina dell'imbecillità umana!) in qualche modo riallacciabile a quelle che negli anni Sessanta, e più nei Settanta e Ottanta con rigurgiti e code in questi Novanta, fecero clamore con i loro omicidi-suicidi di massa e con omicidi orribilmente scenografici. Tra questi, il truce assassinio-ludibrio dell'incantevole attrice Sharon Tate da parte del satanista Charles Manson, con la contestuale strage consumata nella dimora del regista Roman Polansky, ex marito di Sharon (ricordo con un brivido il "semi-demenziale" film horror "Per favore non mordermi sul collo", 1967, che aveva a protagonista "l'angelica Sharon").
Si sproloquiò parecchio, nei primi giorni dall'attentato: il collegamento sfocato al Manson alimentò altre suggestioni e illazioni: si giunse a rimestare la lugubre storia del "mansonismo" contagioso, tirando in ballo i (solo presunti?) nessi fra il rock' n' roll e il satanismo; e persino certa musica dei Beatles e suoi (questi sì, del tutto a vanvera presunti) messaggi diabolici criptati. Era stato lo stesso Manson, nelle sue deposizioni in tribunale, a montare questa balla: la musica dei Beatles, in particolare quella di Paul McCartney e di John Lennon, conteneva occulti messaggi di morte, e uno, specialissimo, di questi lo aveva indotto, con irresistibile forza cogente, all'orrendo crimine. Il pezzo direttamente incriminato era il celebre "Helter Skelter", composto da Mc Cartney, e incluso (così leggo in una notizia Internet) "nel bellissimo White Album dei Fab Four" (apparso nel novembre del '68). Altre cretinate ad alto rischio pretendevano che "leggendo" in senso rotatorio invertito i dischi del vecchio rock ne sgorgassero i famosi messaggi demoniaci. Stesso fenomeno si sarebbe verificato per certe compilations dei Beatles. Né si resistette alla tentazione di ripetere la macabra storia delle morti atrocemente premature di tanti rockettari di larga fama (la cosiddetta "maledizione del J-27"): Brian Jones, il "precursore", anzi l'iniziatore della serie macabra, morto il 3 luglio 1969, annegato nella sua piscina (qualcuno ha sottolineato, con esoterica malizia, la coincidenza con il primo sbarco umano sulla luna: stesso anno, stesso mese); Jimi Hendrix, overdose, "soffocato dal suo stesso vomito" (1970); Janis Joplin, la "signora del rock", considerata la maggiore interprete storica del rock-blues (1970); per finire col grande Jim Morrison, stroncato da un infarto dentro la sua vasca da bagno (3 luglio 1971). A meno che non si voglia ricordare anche Jeff Buckley, annegato nel 1994, per richiamare il rilievo interpretativo dell'acqua come esoterico elemento fatale e comune denominatore di queste "morti anomale".

Luglio 1969: la legge associativa per concomitanza temporale richiama l'evento massimo di quel mese ed anno. la "conquista della luna". Il pot pourri événementiel avanza indisturbato. Né in quel 29 luglio di euforie imperiali e fantascientifiche il macello vietnamita conosceva tregue: quisquilie, dinanzi al sogno di John Kennedy realizzato, sei anni dopo il suo assassinio, col sorpasso dell'Urss nella gara spaziale, dopo lo choc degli sputnik a catena negli anni '57-59. Robert Kennedy, anche lui, come il fratello presidente a Dallas, impallinato a morte l'anno prima? Capricci della Storia: riposino in pace con gli altri martiri delle Idee buone. Lo "sbarco" sul vecchio satellite, presente e protagonista in millenni di poesia (e di religioni), spalmava balsamo sulle ferite e l'America cavalcava la Storia di nuovo in testa anche nella seducente accoppiata scienza-tecnologia. Il "sogno americano" tornava a galoppare. E uno pensa anche all'Ecclesiaste: vanitas vanitatum, et omnia vanitas (Thanatos auctore).
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Man mano che le indagini accumulano altre notizie e indicazioni, la visione puramente religiosa si conferma. La setta alla quale sembrano associate le due donne kamikaze avrebbe in programma una serie di attentati dimostrativi che rendano evidente il potere dell'"Unico vero Signore del mondo", Satana, appunto. Attentati nei luoghi dei culti cristiani, soprattutto della prevalente e potente versione cattolica, straricca di luoghi santi e sacri spazi di raduno massivo. Si paventa, e di fatto si attende, come un inevitabile evento naturale di prossima verifica, un attacco a Medjugorje. E forse altri a San Jacopo di Compostela, a San Giovanni Rotondo. E via pronosticando, tra brividi di paura ed eccitazione sado-maso. Altri commentano un sibillino proclama della setta, con minaccia di interventi contro tutte e tre le "grandi religioni monoteiste".
Medjugorje, come San Giovanni Rotondo, come un po' tutti i grandi siti del raduno massivo delle "anime credenti" è ancora, mentre scriviamo, al colmo dell'interesse vaticano e mediatico. Ma il sito balcanico è il caso più controverso. Quel miracolare non stop dell'ennesima madonna parlante ha generato un tale business miliardario da sollevare preocupazioni molteplici nella Madre di ogni autenticazione delle più colossali menzogne (idest, verità religiose). In Vaticano si esita ancora a legittimare quell'imbroglio che ha acceso un non sanato conflitto fra il vescovo di Mostar e i degeneri figli di un San Francesco tradito, inventori e gestori disinvolti della megatruffa caca-denari. Uno sperduto villagio insignificante s'è gonfiato a congesto centro di sacro commercio turistico con cinquanta alberghi e comfort per ogni tasca. Una replica, ancora minore (ma dagli tempo!) della tracimante Lourdes. La Santa Sede nicchia, sta col vescovo, attende e non dichiara. Il conflitto poltrisce, ma la beata e beota massa credente non se ne dà pensiero; continua a brancheggiare verso quei liti, masticando speranze e allucinazioni, alimentando l'unico culto effettualmente (avrebbe detto Sciascia) praticato: quello di Mammona. Risolta, invece, la question del sito e contesto Padre Pio. Beatificato, il frate di Petralcina pullula in statue di ogni calibro materia e somiglianza (fino alle caricature involontarie) per ogni angolo della Sicania e, forse con appena minore enfasi presenzialista, dell'Italia tutta. Anche qui, affari d'oro. E gruppi di preghiera, pellegrinaggi, percorsi di speranze mediche e apotropaiche; e questo e quello e quant'altro. Paolo pensava a Rina, che avrebbe gradito anche un viaggio a Medjugorje, accennando, di tanto in tanto, a vaghe possibilità e fattuali difficoltà.
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L'attentatrice s'era finta paralitica e si muoveva seduta nella sua carrozzella, spinta da una complice. La quale s'era allontanata con un pretesto pochi minuti prima dell'esplosione, ed aveva telecomandato, a distanza di sicurezza, l'esplosione della cintura della finta paralitica. Forse avevano atteso un momento culminante del rito. Si era salvata, l'attentatrice del telecomando, rifugiandosi in un angolo protetto del grande tempio.
Alcuni mesi dopo il massacro la configurazione dell'evento appare "logicamente" definita. A dare un contributo significativo alla compiutezza del quadro fu la donna del telecomando in un video inviato alla famosa televisione araba Al Jazira. La setta dell'attentatrice si chiama "Le spose di Satana". Una specie di sacerdotessa-profeta di nazionalità ancora imprecisata ha creato una sua teologia capovolta, con annessa un'anti-teodicea, assistita dall'immancabile sant'Uomo, unico maschio tollerato all'interno della setta. Un anziano guru che si definisce e proclama la "gola del sacro Satana", se ne sta solitario in un rifugio accessibile a poche privilegiate, che lo consultano e (si dice) vi si accoppiano a turno in piccole orge sacre che servono a ricaricarne periodicamente le attivissime “batterie” operative. La fonte di queste news? O le fonti? Vaghe, nebulose, remote da ogni possibilità di verifica di tipo "occidentale". Almeno per ora. La “rete” ci sguazza dentro ghiottamente.
La "theologia" satanistica, rivendicando l'unità e unicità ipercosmica dell'Onnipotente Sovrano intergalattico, e criticando le altre religioni come contraffazioni bugiarde e contraddittorie dell'unica sapienza, nega (ovviamente, diremmo) che il nostro sia il leibniziano e panglossiano "migliore dei mondi possibili". I seguaci, anzi le seguaci (se si vuole escludere dall'aritmetica massiva quell'extra assoluto e fuori conteggio che è il super-guru), respingono ogni giudizio etico sul carnaio drogato della biologia terrestre (inclusiva dell'intera biogamma, dal minimo batterio all'uomo), pronunciano un ignaramente nietzschiano “sì” alle sue innumerevoli "stravaganze" sadiche e scherniscono le religioni "boniste". Anzi, dicono, finto-boniste, in realtà soltanto vigliaccamente ipocrite e pronte a capovolgere nei fatti e nelle opere la dolce mitezza dei conclamati valori. Ed anche a ignorare la segreta molla delle loro "opere buone": l'egoismo iperbolico della pretesa vita eterna a premio di salvezza dalla morte per ridicoli atti di rinunzie e facile carità. Nella polemica spicca il rilievo insistito delle contraddizioni in cui si avvolgono le altre religioni e teologie: da quelle antiche e politeiste ai successvi monoteismi, che sono l'"ultima vergogna dell'uomo pervertito". Quel dio onnipotente e infinitamente buono e misericordioso che produce (in quanto Causa prima) l'infinita crudeltà del mondo (e in particolare della storia umana, questa sconfinata serie di pratiche stragiste e invenzioni sadiche prive di distinguo fra adulti colpevoli e infanti innocenti) è un capolavoro di assurdità tanto ridicole quanto micidiali. Il teologo di Satana sostiene che è lo stesso Unico a giocare con la mente dell'uomo, a fargli sparare enormità illogiche e commettere atrocità senza misura. L'evidenza dei millenni memorizzati, dell'impianto stesso della vita costretta a produrre morte e sofferenza per alimentarsi e consistere, la titanica potenza distruttiva dei flagelli naturali (dalle pestilenze agli sconvolgimenti sismici, dalle carestie ai disastri vulcanici e alluvionali) e tutto quanto rivela la potenza del "Re dei re" astrale, insegna l'unica verità del mondo. Chi la riconosce e l'accoglie ha buone speranze di salvarsi. Migliori ne ha chi si batte per la Verità assoluta, e ancora maggiori chi immola la vita per dimostrare la potenza dell'unico Dio superinfero. I fedeli del nuovo Verbo hanno appreso dai loro profeti seriali che il Grande Satana li rifarà interi e migliori subito dopo l'esplosione che li frantuma seminando morte, a sublime testimonianza della Potenza suprema e unica. Non solo li ricostruisce migliorati, ma li premia in lontani mondi ricchi di ogni delizia. In questi siti astrali non ci saranno insulse trombe a suonare la gloria delle falsità adorate inutilmente e con irreparabile danno dai sei miliardi di fedeli variamente distribuiti fra le varie "chiese", ma si godranno tutti i piaceri che l'essere umano, maschio e femmina, agogna nella sua inesorabile carnalità olistica decisa dall'Immenso all'atto della Creazione. La quale, si capisce da quanto s'è detto fin qui, è soltanto un complesso giocattolo approntatosi dall'Artista assoluto per sue misteriose ragioni che verranno, forse, chiarite nella seconda vita, a chi se la sarà guadagnata. Il Creatore non è il Demiurgo, tarato e cattivo immaginato dal filosofo Cioran, (o dall'ultra-pessimista Caraco) né, s'è detto, il banale ossimoro delle religioni monoteistiche (l'infinitamente buono che produce massacri e inferni per spaventare i deboli di testa): è – dicono le evidenze terrestri e celesti – un Super Ente assoluto, al di là del nostro bene e male, della bontà e della crudeltà, della generosità e della negazione. Ma può essere buono e cattivissimo, generoso o avaro di compiacenze, ogni cosa, insomma e il suo contrario. Nella più assoluta libertà o necessità (le due condizioni in lui, e solo in lui, coincidono). Che gli consentono di assumere ogni forma e in ogni avatar incarnarsi e ludicamente moltiplicarsi per suo esclusivo e segreto "spasso". E' ovvio pensare che non disdegni di rintanarsi nel cervello dei grandi massacratori storici, magari lasciando i comuni assassini e torturatori alla loro "libertà" di robot citologici. Malavitosi organizzati, pedofili di ogni condizione, sesso e stato sociale, sadici e serial killer fanno, insieme, la folta categoria, ampiamente diffusa in tutto il pianeta. E sempre prospera. Meno popolata la sotto-categoria degli assassini occasionali: madri e padri che uccidono i figli in impeti improvisi di aggressività motivata, e viceversa; ladri e sequestratori, e via celebrando il trionfo del male estroso. Ma, del resto, il Divino Satana, strettamente parlando, è in ogni cosa, animata o no.
Non sembra operare miracoli, come li intendono i non credenti (cioè, tutti i credenti delle altre confessioni religiose), ma certe singolarità segnalate dai fisici di frontiera sembrano averne l'aria. Probabilmente anche questo aspetto del mistero ci sarà chiarito "di là", in quell'Altrove riservato ai salvati (cioè a una minoranza di eletti). "Altrove" che non è fuori di questo mondo (come si accennava sopra) ma in certi suoi angoli segreti del tutto materiali. Domande quali "il mondo è uni- o pluri-verso?" , implica, o no, il famigerato Id, "intelligent design", e simili, vengono liquidate come futilità insensate: data la infinita potenza del Grande Satana, quelle distinzioni e preoccupazioni non hanno senso. Non esistendo un Chi o un Che Cosa possa limitare l'estro inventivo del Supremo, è assolutamente vietato (perché ridicolo) attribuirgli un unico volto antropomorfico (tanto meno fisico e morfologico). La ragione è che l'Immenso può assumere, e di fatto assume (anche se in siti non sempre riconoscibili), una molteplicità inesauribile di "volti". I quali, poi, sono tali relativamente: cioè, nei nostri miserabili rapporti con l'Horror seduttivo dell' Olon assoluto.
Abbiamo parlato di nuovi credenti e fedeli, ma bisogna aggiungere e precisare che maschi e femmine sono nettamente separati in quanto religiosi. Le loro riunioni sarebbero sempre mono-sessuali, i loro riti idem. Non solo, ma i fedeli maschi con funzioni “sacerdotali” hanno un superguru femmina: col quale si accoppiano rirualmente, come le sacerdotesse fanno col guru anziano e inaccessibile ai profani.
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Paolo, in certi suoi appunti, nota la somiglianza di queste nuove e stravaganti visioni teocosmiche con certe mitologie antiche, soprattutto del Medio Oriente remoto. Somiglianze di imput ed essenza, non certo di forme e dettagli, dove le diversità enormi delle conoscenze scientifiche marcano il nuovo. Leggo questo passo del grande etnologo Joseph Campbell: "Torniamo agli antichi sigilli sumeri del 3500 a. C. [...] e ricordiamo il loro simbolismo di una divinità che si genera da sé e che è immanente a tutte le cose. Osserviamo che questa idea è nella sua essenza la stessa della teologia di Menfi, per la quale Ptah è 'in ogni corpo e in ogni bocca di tutti gli dèi, di tutti gli uomini, di tutti gli animali, di tutte le bestie che strisciano e di qualunque essere vivente'." ("Le Maschere di Dio. Mitologia orientale", Oscar Mondadori, 1991, p.133)
Campbell è anche autore dell'"Eroe dai mille volti", dove è mostrata, con la solita dovizia di particolari documentati, il convergere di quei volti nella struttura di un “monomito”. E parallelamente tutta l'antropologia culturale, dal Frazer a Lévi-Strauss, scopre un'altra costante del sentire-pensare religioso: il sacrifico umano. Paolo scrisse più volte nei suoi saggi di antropologia (degli anni Settanta, con "straschichi" sui primi Ottanta) che i sacrifici umani non sono cessati nemmeno per un giorno in nessuna delle religioni. Non esclusi i "grandi monoteismi". Si sono soltanto mascherati e spalmati variamente. Ma non è qui il luogo di indugiare su così spinoso tema. Si aggiunga soltanto che lo studioso assimila (parzialmente, ma significativamente) alle "grandi religioni" le ideologie forti e ogni forma di fanatismo, di credenza passione e pratica che genera dipendenza più o meno assoluta e soffocante.
Fra gli appunti di Paolo trovo questa trascrizione dal romanzo mitico-storico di Paul Coelho, "Monte Cinque" (traduzione di Rita Desti, Rcs Libri:
"Prologo.All'inizio dell'anno 870 a. C., una nazione conosciuta come Fenicia, che gli israeliti chiamavano Libano, celebrava quasi tre secoli di pace. I suoi abitanti potevano ben essere orgogliosi delle proprie imprese: poiché non erano politicamente forti, erano stati costretti a sviluppare una invidiabile capacità di commerciare, unica maniera per garantirsi la sopravvivenza in un mondo devastato da continue guerre. Un'alleanza stipulata intorno all'anno 1000 a.C. con il re Salomone di Israele aveva loro consentito di modernizzare la flotta mercantile e di espandere il commercio. Da allora, la Fenicia non aveva mai smesso di crescere. [...] All'inizio dell'anno 870 a.C., in un luogo lontano chiamato Ninive, era rinuito un consiglio di guerra. Un gruppo di generali assiri aveva deciso di inviare i propri eserciti a conquistare le nazioni situate lungo la costa, sul mare Mediterraneo. La Fenicia era stata scelta come il primo paese da invadere. / All'inizio dell'anno 870 a.C. due uomini nascosti in una stalla di Gi Gileade, in Israele, attendevano di morire nelle ore successive. //"Prima parte. 'Ho servito un Signore che adesso mi abbandona nelle mani dei miei nemici,' disse Elia. / 'Dio è Dio,' rispose il levita. 'Egli non disse a Mosé se era buono o cattivo. Egli disse solo: Io sono. Egli è dunque tutto ciò che esiste sotto il sole: il fulmine che distrugge la casa, e la mano dell'uomo che la ricostruisce'"
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Inutile insistere sulle evidenti consonanze con quanto s'è scritto sopra, anche sulla teologia satanista. Insomma, fonti diverse e distanti, anche a misura di secoli e millenni, convergono nel combinare un nazionalismo religioso arcigno e spietato con un latente panteismo, a suo modo rispettoso della cruda realtà. Come se i due aspetti della religiosità fossero destinati a tempi ed occasioni diverse, quasi ad evitare l'emergere rischioso della loro intrinseca contraddizione. La coerenza etnica e nazionale importa l'esclusivismo teologico, la necessità della comprensione consolatrice consiglia di dilatare il divino all'intero cosmo-caos, dove anche la disperazione può capovolgersi in speranza e fiducia. "Può", ma non "deve" necessariamente: l'esclusivismo tribale, anzi, tende a prevalere: colonizza lo stesso latente panteismo e lo trasforma in droga che media l'assimilazione dell'assurdo più orroroso.
In un'altra pagina, l'agenda-diario Paolo ritorna sulla conversazione di Elia col levita e ne trascrive il lamento:
"Parlare era l'unica maniera per dissipare la paura. Da un momento all'altro i soldati avrebbero aperto la porta della stalla dove si trovavano, li avrebbero scoperti e offerto loro l'unica scelta possibile: adorare Baal, il dio fenicio, o essere condannati a morte. Stavano perquisendo casa per casa, convertendo o candannando a morte i profeti. / Forse il levita si sarebbe convertito e sarebbe così sfuggito alla morte. Ma Elia non aveva scelta: tutto stava accadendo per colpa sua, e Gezabele voleva comunque la sua morte. // 'E' stato un angelo del Signore a costringermi a parlare con il re Acab e ad annunciargli che non avrebbe piovuto finché Baal fosse stato adorato in Israele', disse, quasi chiedendo perdono per avere prestato ascolto alle parole dell'angelo. 'Ma Dio agisce lentamente; quando la siccità comincerà a fare effetto, la principessa Gezabele avrà già distrutto coloro che saranno rimasti fedeli al Signore' /Il levita non disse nulla. Stava riflettendo se convertirsi a Baal o morire in nome del Signore. // 'Chi è Dio?' proseguì Elia. 'E' forse Lui che impugna la spada del soldato che uccide quanti non tradiscono la fede dei nostri patriarchi? E' stato Lui a porre una principessa straniera sul trono del nostro paese, in modo che tutte queste sventure potessero accadere alla nostra generazione? Dio uccide i fedeli, gli innocenti, coloro che seguono la legge di Mosè?' // Il levita prese la sua decisione: avrebbe preferito morire. A quel punto cominciò a ridere, perché l'idea della morte non lo spaventava più. Si rivolse al giovane profeta al suo fianco e cercò di tranquillizzarlo: 'Domandalo a Lui, giacché dubiti delle Sue decisioni,'. 'Io ho accettato ormai il mio destino' / 'Il Signore non può desiderare che siamo tutti spietatamente massacrati,' soggiunse Elia. // 'Dio può tutto. Qualora si limitasse a fare soltanto ciò che chiamiamo Bene, non potremmo definirlo onnipotente. Egli dominerebbe soltanto una parte dell'universo, ed esisterebbe qualcuno più potente di Lui, che sorveglia e giudica le Sue azioni. In tal caso, io adorerei quasto qualcuno più potente' // 'Se Egli può tutto, perché non risparmia dalla sofferenza coloro che lo amano? Perché non ci salva, invece di concedere potere e gloria ai Suoi nemici?' //'Non lo so,' rispose il levita. 'Ma una ragione c'è, e spero di conoscerla presto.' // 'Non hai alcuna risposta per questa domanda.'//No, non ce l'ho."
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E così, da millenni, tra sofismi e rese a discrezione, paradossi e violazioni di ogni decenza logica ed empirica, l'homo credens ha accettato ogni orrore: fino alla Shoah. E se non ha risposta per certe truci incongruenze, pazienza: attende, fiducioso, che, magari nell'altra vita, dio gliela dia. Né lo turba l'evidenza che un siffatto onnipotente, mezzo o tutto panteistico, diventa, in questa gobba logica, l'autore diretto di Hitler e dei suoi esecutori, di gengis Kahn e dei suoi guerrieri, che cuocevano vivi i prigionieri di guerra. Ed erano capaci di sterminare l'intera popolazione di una qualsiasi Pechino che gli capitasse di conquistare. E così via, nell'immensità crudele della pretesa creazione.
"Dio può tutto", "Dio è tutto": come distinguerlo, allora, dal presunto nemico metafisico, da Satana, sovrano sconfitto, secondo la vulgata scempia, sovrano degno dell'inchiostro ammirativo degli artisti e poeti decadenti. Secondo una logica mitica, certamente, ma meno balorda di quella biblica. Dove la contraddizione più oscena trionfa ad ali spiegate, fra indiscriminate stragi e nefandezze incalzanti, e la contrizione genuflessa dei devoti copre il sadismo sanguinario di ogni religione. Il peggio è che Coelho si guarda bene dal denunciare lo scandalo etico-aletheico della confusione ontologica fra il dio persona nazionale e il dio panteistico prespinoziano, che troviamo fin dalle più remote concezioni religiose. Il nostro Elia avrebbe potuto obbiettare al levita che in quel Dio onnipotente era impossibile vedere un antagonista di Baal: il Signore e Baal sarebbero la stessa e medesima cosa, la stessissima mostruosa capricciosità. Una conclusione che, in modi e condizioni diverse, ma con monolitica logica mitica, è stata tratta dalle varie sette sataniiche e da esperienze analoghe per quanto stravaganti.

mercoledì 2 giugno 2010

SUSANNA, Frammento 69


Dunque i rapporti. Al dire di Susy erano “sostenibili”. Lei disse “discreti, e non privi degli alti-bassi di ogni relazione umana”. In sostanza, accettabili. Lui capì che non erano più il fuoco sempre vivo dei penati nelle antiche case romane, e questo gli faceva piacere. Credette di intuire anche una sorta di rimpianto per una cosa mai avuta, ma che avrebbe accettato volentieri: una vita regolare con lui. Non gli aveva confidato, per telefono, che la difficoltà maggiore fra lei e Rina era una specie di invidia? Rina aveva avuto tutto quello che lei avrebbe voluto e non aveva ottenuto. Nelle sue parole misurate, la risposta attuale evocava in Paolo quel pezzo di conversazione telefonica lontana. Comunque, nell’insieme Marco era rispettoso e leale. I loro incontri extra-lavoro? Molto più rari: “Sai, gli anni che pesano, il poco tempo disponibile fuori dal lavoro diviso fra la famiglia, le relazioni sociali connesse allo stesso lavoro e, infine, lei: l’ultima, e non fra le maggiori fette della torta. Sarà stata verità, quest’ultima crema verbale, la sua allusa riluttanza? o soltanto pietoso balsamo d’occasione? Paolo non insistette nell’indagine. A che scopo l’avrebbe fatto? E poi era troppo occupato a godere quel piccolo grande dono del “divino Burlone.”

Susanna era venuta con una cugina vedova sulla spiaggia, e questa non poteva restare a lungo fuori casa. Rimasta sulla sabbia e sotto l’ombrellone, mentre l’amica si allontanava verso il locale, l’avevano raggiunta per lasciarle la bevanda (non più tanto) fredda, lei lo aveva presentato, e poi erano ritornati nello spazio del bar. Qui sedevano a un tavolo nello spiazzo del marciapiede in concessione al proprietario del locale. Un tetto di sottili canne intrecciate garantiva ombra e discrezione col contributo di palme edera e altre ignote piante, lussureggianti fin sopra il tettuccio rustico. Sorseggiando un aperitivo al ghiaccio continuavano l’amarcord della conversazione appassionata.
Paolo era agitato dalla voglia di sapere altre notizie sul padre sciagurato, ma non aveva il coraggio di introdurre l’argomento. E del resto non era una “voglia” sicura: troppo torbido, quel caso maledetto, per ritirarlo fuori. Ma fu la stessa Susanna a farlo, rispondendo a una domanda di Paolo sui rapporti con fratelli e sorelle. Lei disse che con alcuni erano freddini, per via della sua spietata sincerità sulla “porcheria” paterna: l’aveva spifferata ai loro partner “papale papale”, a dispetto del nobile appello al “pietoso silenzio”. E così quella “vergogna di famiglia” era stata scoperchiata davanti alle mogli di Giacomino medico e di Carlo aviatore; e davanti all’anziano marito di Rosina. Insomma, l’argomento puteolente venne fuori da sé, per vie laterali. E non fu un rinforzo al godimento di quel surreale incontro. Il suo odio, disse Susy, per quel mostro di padre era intatto. A chi, in famiglia, le parlava di caso patologico, replicava che era una scusa comoda, ma infame. E che comunque, patologico o no, il fatto era una tale schifezza che non meritava nessuna attenuazione di colpa. Quel verme era normalissimo nel lavoro e in famiglia, e il ricordo di questa normalità di parata le faceva ribollire il sangue. Ce l’aveva anche con la madre, che non mostrò mai di sospettare nulla: possibile che non avesse mai notato niente di anormale nella condotta di quel marito ossessivo, e chissà di quali stranezze ghiotto? Che lo coprisse in una cosa come “quella” era escluso. Più probabile che si accorgesse del suo mandrillismo da qualche attenzione un po’ spinta verso altre donne. Magari avrà colto segnali di “tradimenti di passata”, di avventurette senza seguito, senza “effetti collaterali” di peso e code compromettenti. Ma Susanna escludeva complicità in “cose di quel genere”. E pareva incolpasse anche se stessa, dicendosi cretina e cieca: come mai, per quale cecità ostinata non aveva sospettato nulla, in tanti anni, neanche lei? L’istinto materno, dove era “traslocato” quando cercava la cause di quell’anoressia? Non poteva venirle un dubbio, un sospetto anche vago di anomalie di quel genere? Naturalmente, non puntato sul padre, questo no. Ma dagli abusi eventualmente confessati dalla ragazza (se non gia dalla bambina) si sarebbe potuto risalire al vero, “anzi al verme”, colpevole. Niente: la fiducia in “quel porco” era tale... E perché, e come, poteva essere assoluta, dopo che lei aveva avuto con lui, proprio con lui, “quell’assaggio” di vocazione incestuosa? Aveva rimosso il caso? Una madre non dovrebbe dimenticare fatti del genere se ha delle figlie bambine da affidare alla sorveglianza di un tale padre. Certo, avrà giocato ad annebbiare la vigilanza il fallimento di quel tentativo maldestro, la sua resistenza bloccante.
L’auto-processo continuò un bel po’ di minuti, a dispetto dei tentativi di fermarlo che Paolo andava facendo. Provava una cupa sofferenza, lui, ascoltando Susy parlare in quei termini truci del padre. Ovvia evidenza, la sua colpevolezza, il suo meritare quel lessico atroce, ma la sensazione sgradevole resisteva, la sofferenza non diminuiva al bagliore di tanta chiarezza giudicante. Era come la distruzione di un capolavoro d’arte pensò. La distruzione di...! Ma che paragoni gli suggeriva quella piccola, domestica bufera infernale? Era qualcosa di molto più sconvolgente, pur nella sua “piccolezza cosmica”. Né sapeva suggerire parole di perdono o altro decotto evangelico.
Ma parlare doveva. Aveva tentato anche questo argomento: pensava, Susy, a quel che sarebbe accaduto in caso di confessione della figlia? Quali effetti avrebbe avuto, lo scandalo, una volta esploso in seno alla famiglia, sulla malattia della ragazzina? S’immaginava, forse, che ne sarebbe guarita? o non piuttosto che ne avrebbe esasperato il decorso? Se la fanciulla aveva taciuto per tanti anni, vuol dire che la sua sensibilità non tollerava choc violenti. Perciò è probabile che quella deflagrazione ne avrebbe peggiorate le condizioni fisio-psichiche. Dopo tutto, le crisi non le hanno impedito di laurearsi, specializzarsi, vincere un concorso e trovarsi un lavoro, innamorarsi, sposarsi e continuare a lavorare. Naturalmente, la morte di quel nonno, poco più che sessantenne, aveva aiutato questo cursus di successo. Uno scandalo avrebbe permesso tutte queste cose?
“Io non lo so, e non mi pongo tutte queste domande. Da madre, penso solamente che avrei troncato quella violenza infame.”
“Non ti do torto, e non sto certo a misurarti la mia comprensione, che è totale, assoluta, come puoi immaginare. Dico soltanto che altre persone avrebbero sofferto di quella rivelazione sconvolgente, a cominciare da tua madre, anche lei vittima di quel marito. Per non dire di fratelli e sorelle e degli altri nipoti. Non è meglio chiudere qui la discussione?” Questo, a un di presso, il tono del discorso paolino. Un ultimo particolare, con ambizione attenuante: Paolo ricordò a Susanna che le occasioni della solitudine a due col nonno non dovettero essere poi tante. Lei ammise, ma replicò che non erano state nemmeno rarissime. E che comunque l’attenuazione della sua sofferenza non valeva la pena di occuparsene. Paolo le chiese scusa, lei capì la buona fede. E gli sorrise: in un rapido fiat.
Un ultimo pensiero attaccò una coda al discorso che andava esaurendosi. Un flash di pensiero, niente di eccezionale, anzi perfino incline all’ovvietà, ma col piglio di un soccorso all’amica sofferente. Che lei non avesse mai dubitato del comportamento paterno verso la nipotina era più che naturale anche sullo sfondo del tentativo verso di lei: non è la stessa cosa subire il fascino di una figlia ventenne e bellissima ed essere lo spregevole seduttore di una nipotina impubere. Insomma, non c’erano spazi per l’auto-flagellazione di Susanna: questo, il senso della “coda”.

La conversazione deviò verso altri argomenti. A un certo punto, Paolo osservò che, per essere più somigliante al “modello” rievocato, quella riunione avrebbe voluto la presenza di Rina. Susanna “non si fece brutta”, cioè non dissentì con fastidio, come lui aveva temuto nei primi secondi del silenzio seguito alla sua osservazione. Era addirittura d’accordo. Ma al momento non c’era tempo, né per lei né per lui: lei doveva rientrare con la cugina, lui avrebbe dovuto percorrere troppi chilometri per andare e tornare con Rina, ammesso (ma non concesso) che la moglie fosse disponibile a un tale trambusto. Per domani, allora? Vada per l’indomani. Ma sotto il segno dell’incerto: lei avrebbe potuto ricevere una telefonata che la obbligasse a partire subito, rinunciando a quel paio di giorni in più che avrebbe voluto “godere” nella terra natia, tra ricordi rimpianti e “nostalgia canaglia”. Speriamo bene.
Si lasciarono con quell’augurio, un abbraccio un po’stretto e una coppia di baci cheek to cheek, uno dei quali velocemente lips to lips per iniziativa di lui. Il massimo dell’infrazione creduto possibile contro il tacito impegno dei loro rapporti: rispetto dell’amicizia, cioè lealtà verso i rispettivi partner. E, chissà, fors’anche del loro essere well on, in là con gli anni
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Paolo tornò al paese dei cognati in stato di euforia scoppiettante: quell’incontro dal sapore tanto onirico lo aveva “rimescolato”. La ragione, a dire il vero, bussava alla porta dell’emozione (ma sì, usiamo pure la vecchia nomenclatura) per farsi ascoltare, il titolare di entrambe, però, apriva appena uno spiraglio e subito richiudeva, cacciandola “nelle tenebre esterne”. Che cosa avrebbe potuto dirgli, quella “sgualdrina ipocrita” (strana definizione di tanta dea rivoluzionaria!), che lui non sapesse? Che tutta quell’agitazione era infantile, che l’“incontro impossibile” era sterile, non portava da nessuna parte, eccetera. E allora? Aveva vissuto uno dei suoi famosi “momenti perfetti”: da molti anni non ne aveva più “ricevuti”, e questo se lo godeva in piena e indisturbata irrazionalità. E un baciamano di galante congedo a Madame la Raison. Questa puttana al servizio di ogni turpitudine teorica e pratica. Non ci sono fior di teste d’uovo cattoliche e folle di Santità tricoronate che cianciano di idillio possibile tra fede e ragione? Anzi, di compiuti sponsali!
Rina notò una luccicante accensione nello sguardo del marito, e non mancò di chiedergli se per caso avesse fatto un “buon incontro”: per esempio, con qualche anziana collega, o, meglio, con una, benevolmente meno vecchia, ex allieva. Lui aveva fatto il misterioso, trincerandosi dietro un sorrisetto ambiguo, cioè “scemo”, come ebbe a precisare lei. La quale forse non temeva più stravaganze galanti da quel marito sessantaquattrenne e acciaccato, e tuttavia lo sapeva tuttora sensibile al “secondo sesso”. E poteva, magari, replicare al sorriso “misterioso” con indulgente noncuranza, ma non senza un brivido di timore per eventuali esposizioni al ridicolo: lo sapeva purtroppo vulnerabile a quel rischio per eccesso di ammirazione galante incontrollata. Il fatto era che Paolo avrebbe voluto rivelare l’incontro e dire del desiderio suo e di Susy che lei fosse presente a un secondo rendez vous, prossimo e programmato. Ma pensò bene di aspettare. Aveva dato il numero del suo cellulare a Susy perché lo avvertisse, entro le 19, se avesse ricevuto quella telefonata. Parlare prima sarebbe stato un inutile sciupio di agitazioni e ciarle.
Purtroppo, o per fortuna? (vallo a sapere) la telefonata, temuta (o non anche, forse, un poco desiderata?) venne. Puntuale, allo scoccare dell’ora limite, squillò il cellulare. Prudenzialmente, egli s’era portato sul lungomare di Letizia Marina, in solitaria replica delle sue ormai famose (in famiglia), passeggiate mattutine. “Purtroppo”, l’aveva detto Susanna, annunciandogli una specie di SOS da Marco: la “implorava” (addirittura, sbuffò Paolo in interiore homine) di raggiungerlo entro le cinque pomeridiane dell’indomani per potere essere il giorno successivo a Panormo. Le dispiaceva, naturalmente, e si augurava un’altra, non lontana, occasione.
Paolo colse ancora una coincidenza, ma negativa, questa. In una delle “segrete” telefonate Sicania-Roma Susy gli aveva detto ripetuto e promesso che nell’eventuale contingenza di un “loro” viaggio nell’isola (probabilmente nella caotica, affascinante e mafiosa “capitale”) avrebbe fatto di tutto per venire a trovarlo. Anzi, a trovarli – aveva precisato subito dopo il singolare dal sen fuggito. Che si vedessero, un’ultima volta, prima di... E ora ecco la contingenza sfumare: veniva a Panormo lei, quando lui si trovava lontano da casa e dall’efestica Sicania. Si consolò: non si erano visti abbastanza? L’incontro con Rina era faccenda secondaria, in fondo. Cosa avrebbe aggiunto al piccolo miracolo? Al contrario, forse, avrebbe tolto qualcosa: meglio che quella improbabilità realizzata rimanesse un’esclusiva delle due Coincidenze.
Con buona pace, anche, del “profondo Jung” che alle pure e semplici coincidenze non credeva del tutto. O quasi. E magari di Sciascia, che a quelle confidava tutto (o quasi) il potenziale di verità delle umane faccende, pulite e sporche.
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Due anni e mezzo dopo l’ “incontro impossibile” Marco, il “compagno volante” (definizione di Susy, a sottolineare che non era convivente) si ammalò di cancro ai polmoni e in pochi mesi finì di soffrire. Essendo la loro relazione clandestina, Susanna poté vederlo soltanto nei primi tempi della malattia, quando ancora i sintomi erano sopportabili, e perfino ottimisticamente equivocabili. Vederlo, si capisce, nell’ospedale dove era stato ricoverato. Non era certo il caso di svelarsi e lasciare alla moglie e ai figli un’immagine compromessa del marito e padre. Finché poté, fu lui a chiamarla dalla clinica oncologica romana dove era ricoverato, badando a cancellare ogni traccia delle chiamate al cellulare.
Naturalmente, fu il telefono di Susy a comunicarlo a Paolo. Che si disse “addolorato” per lei. La quale, però, si lasciò scappare uno scettico “addirittura!” che sorprese l’anziano “amante platonico” (questa definizione, invece, era di Paolo). Sorpresa di attimi, però: era la Susy di oltre un trentennio avanti a parlare, “la Susy di sempre”, schietta e impulsiva. Non perciò insensibile alle sofferenze dell’amico né indifferente alla sua fin troppo prevista morte prematura. Se non era vero amore, era certo gratitudine sincera che la legava a quell’uomo: gli doveva un aiuto importante, e forse qualcosa di più. Certo, poi, alcuni momenti esaltanti della sua tribolata esistenza: giusto risarcimento di quei triboli esosi.

Un ricordo inatteso, anzi una delle famose intermittances du coeur, s’accese nel floppy mnestico di Paolo: quando Susy gli aveva detto che lui “non era un uomo” per lei. Ecco la scena, con tutti i suoi colori. S’era a valle degli esami di maturità felicemente “svangati”; l’ambiente, la sua casa di via Massaua, in Zefiria; loro due, Susy e Paolo, soli nella prima stanza, Rina era andata a prendere Giampiero dai vicini. Seduti al tavolo lungo del mobilio svedese, protetti dalla possibile curiosità stradale, dalle tendine opacizzanti che coprivano i rettangoli inferiori delle vetrate. Parlavano. Di che? Ora si pretende troppo. Di cose varie, di esami, dei commissari, di compagne, forse e probabilmente di Adele, della sua confessione sul voler bene privo di remore e calcoli. Ecco, questo dettaglio dovette essere decisivo: perché e come, altrimenti, si sarebbe scivolati in un argomento così delicato, così vibrante di tentazioni allusive? No, non riusciva a riavere la fase immediatamente anteriore che suscitò quella sortita di Susy: “Ma tu non sei un uomo, per me”. Riviveva, Paolo l’impressione “sconnettivante” che gli suscitò quella stramberia: “Come non sono un uomo? Che vuoi dire, cavolo?” Aveva sorriso, Susy, con pedagogica pazienza; un sorrisino deluso, però. E poi aveva esplanato: “Forse che abbiamo avuto i rapporti giusti? Dunque, finora non sei stato un uomo per me...” Ah, in quel senso, dunque. S’era quietato, Paolo. “Sì, hai ragione. Me lo sono vietato, e non credere che non ne abbia scontato con sofferenza tutti gli effetti”. No, non lo credeva Susy. Ma dove metteva, lui, quella di lei? aveva idea di quanto possa riuscire frustrante per una donna quell’assaggiare sempre e mai...? Va bene, gli orgasmi e quant’altro del non povero gioco, ma Cristo santo, si ha pure brama di un pasto completo in certe situazioni! Paolo completava quei pensieri di Susy con lessico aggiornato di ...filogenetico impatto pantrofico: “assaggiare sempre e mai mordere, mai inghiottire.” Metaforico linguaggio, va bene, ma (integrava, in pectore culto) con quelle radici abissali e lunghissime che l’antropologia culturale e tutte le mitologie della Terra hanno onorato, in modalità varie, spesso infantilmente “strambe”, eppure con un nucleo portante fisso infinitamente riproposto. L’identificazione nella “mentalità primitiva” era tale che in certi “loro” linguaggi lo stesso nome indica la bocca e il sesso femminile, lo stesso verbo mangiare e copulare. Perfino l’“astrattissimo” Sartre dell’“in sé” e del “per sé” ha riscoperto quella incombente radicalità quando definisce la vulva “una bocca vorace che divora il pene.” Per non parlare dell’estroso geniaccio prolifico Salvador Dalì, in vena di eros antropofagico con la sua amante. O del più sistematico Goffredo Parise, che nel suo “Assoluto naturale” sembra riecheggiare le tesi pantrofiste di Gulizza (Paolo lo aveva recensito sottolineandone l’ispirazione minuziosamente coerente con quella dottrina…clandestina.)
Non era stato un uomo con lei: che frase impertinente. Ma lo era, poi? La frase, intendo. A ripensare quell’ “assurda” esperienza, in quel tempo e contesto così logica, così coerente; a ripensarla ora, in un’epoca in cui perfino le espressioni più anodine (“uscire con”, “stare insieme”, “avere il ragazzo”...) hanno una sola semantica, che mena dritto al rapporto coitale (vulgo: scopare) si ha una sensazione di straniamento, di inverosimiglianza para-superstiziosa. Ma forse questa differenza “epocale” è un’altra fisima del moralismo pavido e della “dissimulazione onesta”. Né occorre disturbare la tortuosa ambiguità pioveniana, o il vecchio Tommaso Accetto per diagnosticare le infermità del peccatore moralista Paolo Assaggi.
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Ma nemmeno l’alibi della rivoluzione sessuale ancora appena ai primi vagiti in quel segmento centrale dei Sessanta: bisogna aspettare il “mitico Sessantotto”, e meglio ancora i successivi anni Settanta, per veder precipitare molti tabù e sciogliersi massivamente tanti lacci. E, forse, gli anni Settanta per registrare la folta fioritura di rotocalchi progressivamente hard e di siti dell’erotismo variamente connotati e nobilitati con referenti culturali, quali Yoga, Zen, antica religione egizia, tarocchi solari e spiritualia di ogni genere esotico (perfino un tortuoso sufismo spargitore di gioia!).

Come quelli, insomma, che largamente descrive Michel Houellebecq nel suo colto spregiudicato e polifonico romanzo utopico-apocalittico, “Le particelle elementari”: per esempio, il “Luogo del Cambiamento”, dove tutte le maschere spirituali sessualmente liberanti operano a gloria del corpo femminile restituito all’istinto; dove vulve di ogni età, e specialmente di mezza e passa, cercano e trovano la gioia del sesso disinibito, con esibizione di nudità di vario conio e fantasia applicativa disinceppata, che va dalla fellatio (magari esitalmente ingurgitante), alla sodomia dissacrante, transitando per la scopata normale. Il linguaggio del famoso narratore è esplicito fino all’azzardo, e i passi che citiamo a riprova del clima spavaldamente acceso di euforia clamante non sono fra i più sbracati. “Insopportabili all’ora di colazione, all’ora dell’aperitivo le bagasce mistiche ridiventavano donne, impegnate in una competizione disperata contro le loro simili più giovani”. I frammenti di conversazione che seguono danno il tono al genere di esplicitezze legittimate che la rivoluzione “settantina” regalò e propalò in tutto l’Occidente più o meno cristiano. Parla con uno dei due fratellastri protagonisti, il timido, nonché “os-sesso” Bruno, professore di lettere, una collega di scienze naturali sulla quarantina, davanti alla sua roulotte, nel Luogo: “E’ una cosa che mi succede ogni tanto, mi metto a scopare con chi capita […] Per la penetrazione pretendo soltanto il preservativo […] In genere gli uomini preferiscono i pompini […] La penetrazione li annoia, tutto quel su e giù li stanca. Invece quando glielo prendi in bocca ridiventano bambini. Non hanno mai voluto ammetterlo, ma credo che da questo punto di vista il femminismo gli abbia rotto le uova nel paniere.”
La dolce occhiglauca professoressa, di quel santificato Luogo copulatorio vecchia frequentatrice, ne fa un succinta storia: “All’inizio era un posto alternativo, nouvelle gauche, ora è diventato New Age; non è cambiato gran che. Già negli anni Settanta ci si interessava alle mistiche orientali; oggi, oltre i massaggi c’è la jacuzzi. E’ un posto piacevole, ma un po’ triste; c’è molto meno violenza che fuori. L’atmosfera mistica mitiga un po’ la brutalità di tutto questo gran scopare. Ma ci sono un sacco di donne che soffrono. Gli uomini che invecchiano in solitudine non sono da compiangere quanto le donne nella stessa situazione. Gli uomini soli bevono vino scadente, si addormentano e gli puzza l’alito; poi si svegliano e ricominciano; muoiono presto. Le donne sole prendono calmanti, fanno Yoga, vanno in analisi; vivono a lungo e soffrono parecchio. Il corpo che offrono è inflaccidito, imbruttito; loro lo sanno e ne soffrono. Tuttavia continuano, perché non riescono a rinunciare a essere amate. Fino all’ultimo sono vittime di questa illusione. Le donne hanno la possibilità di prendere cazzi anche quando non sono più giovani; ma non hanno più la possibilità di essere amate. L’umanità è fatta così, tutto qua.”
Una visione cruda, che non esclude momenti di schietta gioia: “‘Cristiane’, disse dolcemente Bruno, ‘tu esageri… Per esempio, io adesso avrei voglia di farti godere’. ‘Ti credo. Secondo me tu sei una persona gentile. Egoista e gentile’”. E vediamoli nel loro momento di indaffarata gioia, punteggiata di esplicite richieste e minute descrizioni: “Christiane si sfilò la felpa, si sdraiò per traverso sul letto, si mise un cuscino sotto il sedere, aprì le gambe. Dapprima Bruno le leccò a lungo i bordi della fica, poi eccitò il clitoride a piccoli e rapidi colpi di lingua. Christiane sospirò profondamente. ‘Infila un dito...’ gli disse. Bruno obbedì, si voltò per continuare a leccare Christiane mentre le carezzava il seno. Sentì i capezzoli indurirsi, sollevò la testa. ‘Continua, per favore ...’Gli chiese lei. Bruno sistemò il capo in una posizione più comoda e le carezzò il clitoride con l’indice. Le piccole labbra cominciarono a gonfiarsi. Preso da un moto di gioia, le leccò con avidità. Christiane emise un gemito. Per un istante, Bruno rivide la vulva magra e vizza della madre; poi il ricordo svanì, continuò a sfregarle il clitoride, sempre più in fretta e continuando a leccare le labbra con colpi di lingua decisi ma garbati. Lei ansimava sempre più forte, il ventre le si era un po’ arrossato. Era molto umida, piacevolmente salata. Dopo una breve pausa, Bruno le introdusse un dito nell’ano e un altro nella vagina, e tornò a dedicare al clitoride piccoli e rapidissimi colpi di lingua. Christiane godette in silenzio, a lunghi fremiti. Bruno rimase immobile, col viso appoggiato alla vulva umida, e tese le mani verso di lei; sentì le dita di Christiane richiudersi sulle sue. ‘Grazie’, disse lei. Poi si rialzò, si infilò la felpa e tornò a riempire i bicchieri”
La professoressa, appagata, cede all’ispirazione didattica e fa una dettagliata lezione di fisiologia sessuale: “Lo stelo del clitoride, la corona e il solco del glande sono rivestiti di corpuscoli di Krause, ricchissimi di terminazioni nervose. Quando vengono sollecitati, liberano nel cervello un potente flusso di endorfine. Gli uomini e le donne hanno il glande e il clitoride rivestiti di corpuscoli di Krause – in numero pressoché identico, visto che almeno in questo siamo uguali”. Qui comincia un intermezzo confidenziale spumeggiante di esplicitezze: “Io ero molto innamorata di mio marito. Gli carezzavo e gli leccavo il sesso quasi con venerazione; amavo sentirlo dentro di me. Ero fiera di provocare le sue erezioni, avevo una foto del suo sesso eretto e la conservavo nel portafoglio: per me era come un santino. Dargli piacere era la mia gioia più grande. Mi ha lasciato per una donna più giovane. Poco fa ho capito che la mia fica non ti attirava davvero; comincia a essere la fica di una donna vecchia”. Qui si chiude l’intermezzo narrativo personale e ritorna l’esperta di fisiologia genitale: “Nell’età avanzata, la diminuzione del collagene e la frammentazione dell’elastina durante le mitosi fanno progressivamente perdere ai tessuti la loro compattezza e la loro elasticità. A vent’anni avevo una vulva molto bella; oggi, mi rendo conto che le grandi e le piccole labbra sono un po’ cascanti’.”
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En passant, ricordiamo che in una di queste donne non più giovani e affamate di sesso Houellebecq raffigura l’anziana madre. La quale non ha gradito tanto onore. Indi, lite, polemica, e qualche cosa di più. Credo che sia proprio il personaggio di Christiane la proiezione materna dello spregiudicato e coltissimo romanziere. Ma potrebbe essere una qualsiasi di quelle sofferenti bramose e non rassegnate al digiuno. Il figlio intanto, poco turbato dal disappunto della vitalissima e reattiva genitrice, si gode gli effetti mammonici del suo instancabile talento produttivo da best seller. E noi gli auguriamo che sappia farne buon uso (per esempio, con generose offerte solidaristiche).
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Tornando alle “Particelle elementari”. In una vibrata e dotta conversazione tra i due fratellastri si ricorda che la rivoluzione sessuale era parte integrante dell’utopia dei fratelli Huxley. Le ipotesi del “Mondo nuovo”, di un’umanità ri-programmata dal binomio scienza- tecnica e meritocratica, secondo Bruno non prospettano quella “specie di incubo totalitario” che la vulgata ermeneutica ha attribuito all’autore come bersaglio polemico di preventiva difesa: “Il mondo nuovo”, invece, “è un paradiso, è esattamente il mondo che ci sforziamo, sin qui invano, di raggiungere”. E di esso fa parte la liberazione dell’eros. Il fratellastro biologo molecolare, Michel, concorda, e ricorda: il fratello di Aldous, Julian, nel 1931, aveva pubblicato un audace saggio intitolato “Ciò che oso pensare” in cui sono presenti tutte le idee del Mondo nuovo: “sul controllo genetico e sul miglioramento delle specie – ivi compresa quella umana.” Il tutto “viene presentato, e senza la minima ambiguità, come un fine augurabile, verso il quale è opportuno tendere.” Rincalza, Bruno: la società descritta nel “Mondo nuovo è una società felice, da cui sono scomparse tragedie e sentimenti estremi. La libertà sessuale è assoluta, non vi è più nessun ostacolo al piacere e al godimento” Le residuali patologie depressive vengono curate con farmaci. Michel richiama altri fatti.
“Dopo la guerra, nel 1946, Julian Huxley viene nominato direttore generale dell’Unesco, che era appena stata creata. Nello stesso anno suo fratello pubblicò “Ritorno al mondo nuovo”, nel quale tenta di presentare “Il mondo nuovo” come una denuncia, una satira. Qualche anno dopo, Aldous Huxley diventò il principale garante teorico dell’esperienza hippy. Era sempre stato un fautore della libertà sessuale, e aveva avuto il ruolo di pioniere nell’uso delle droghe psichedeliche. I fondatori di Esalen lo conoscevano ed erano stati influenzati dal suo pensiero. Il movimento New Age, successivamente, ha adottato integralmente gli argomenti di base dell’esperienza di Esalen. […] Julian Huxley pubbligò “Isola” nel 1962, è il suo ultimo libro […] E’ ambientato in un’isola tropicale paradisiaca – la vegetazione e i paesaggi sono ispirati probabilmente allo Sri Lanka. Su questa isola si è sviluppata una civiltà originale, lontana dalle grandi correnti commerciali del Ventesimo Secolo, una civiltà molto avanzata sul piano tecnologico ma al tempo stesso rispettosa della natura: pacificata, completamente sciolta dalle nevrosi familiari e dalle inibizioni giudaico-cristiane. La nudità è considerata naturale; la voluttà e l’amore vengono praticati liberamente. Questo libro mediocre, ma assai facile da leggere, ha influenzato enormemente gli hippy e, tramite loro, gli adepti della New Age. A ben guardare, la comunità armoniosa descritta in Isola ha parecchi punti in comune con quella di Il mondo nuovo. In realtà Huxley stesso, nel suo probabile stato di rincoglionimento, sembra non essersi accorto dell’analogia, fatto sta che la società descritta in Isola è tanto vicina a Il mondo nuovo quanto la società hippy libertaria lo è a quella della società borghese liberale, o piuttosto alla sua variante socialdemocratica svedese”

Variante, peraltro, sconfitta, in proiezione globale, da due conseguenze della “mutazione metafisica che ha creato materialismo e scienza moderna: il razionalismo e l’individualismo. L’errore di Huxley è stato quello di non aver valutato adeguatamente il rapporto di forza tra queste due conseguenze”. L’eccesso di individualismo neutralizza i vantaggi di una società ideale, dove il controllo dell’economia e la dissociazione sesso/procreazione eliminerebbe i relativi conflitti (economico: “metafora del dominio dello spazio”; e sessuale, “metafora, tramite la procreazione, del dominio del tempo”). Evolvendo in senso narcisistico, l’individualismo mina i vantaggi della società utopistica. La conflittualità rimane e tende a rafforzarsi, “perché la mutazione metafisica operata dalla scienza moderna si porta dietro …la vanità, l’odio, e il desiderio”. “Di per sé il desiderio – contrariamente al piacere – è fonte di sofferenza, di odio e di infelicità. E, questo, tutti i filosofi – non solo i buddisti, non solo i cristiani, ma tutti i filosofi degni di questo nome – l’hammo capito e insegnato. La soluzione degli utopisti – da Platone a Huxley passando per Fourier – consiste nell’annientare il desiderio, e le sofferenze connesse, organizzandone l’immediata soddisfazione. All’opposto, la società erotico-pubblicitaria in cui viviamo si accanisce a organizzare il desiderio, a svilupparlo fino a dimensioni inaudite, al tempo stesso controllandone la soddisfazione nel campo della sfera privata. Affinché la suddetta società funzioni, affinché la competizione continui. Occorre che il desiderio cresca, si allarghi e divori la vita degli uomini.”
Riflessioni tanto suggestive quanto inclini all’azzardo ermeneutico: quanta benevola violenza ha giocato l’intrepido autore sulle tesi di quegli ispirati utopisti e filantropi? Bella questione. Che però non affronteremo in questa tappa del lungo viaggio attraverso il romanzo vissuto di Paolo e Susanna. Ce ne congediamo con un sospiro di rimpianto per la felicità tradita. Maiora premunt.
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No, non c’era ancora la rivoluzione sessuale in quel segmento di Saturno e di Gea, ma non c’entrava niente con la storia di Paolo e Susanna: altre studentesse nelle condizioni di lei avevano saltato il fosso con i loro professori. E la sua amica Adele non s’era tirata indietro: il paese era estrema provincia, certo, e le rivoluzioni metropolitane vi arrivavano tardive e addomesticate, ma c’era il sole a scaldare i corpi. Quel sole africano delle estati calienti. Niente da ricamarci, dunque: l’impegno di Paolo era stato quello che, non una né due, ma tante volte egli estesso aveva chiarito.
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In quella prima telefonata funerea vinse la discrezione, e Paolo frenò la lingua sulle responsabilità soggettive di quella morte. Ma alla seconda, qualche mese dopo, non si parlò soltanto delle sue conseguenze materiali nella vita di Susy: Paolo disse che non si poteva fumare quanto quel Marco senza aspettarsi effetti letali, comunque li si voglia allontanate nel tempo. E, ovviamente, nemmeno quanto l’impenitente Susanna, ostinata nel vizio a sfida dei suoi 52 anni. Era chiaro che le crude parole di Paolo non erano pula di “curiosità ciarliera”; ma dell’appassionato consiglio e reiterato monito la “vecchia Susy” che conto faceva? quale vantaggio traeva? Nessun conto, in pratica; vantaggio nullo; totale zero. La testolina matta insisteva nell’antico ritornello: aveva vissuto abbastanza, aveva “assaggiato il mondo schifoso fin troppo”, la morte sarebbe stata per lei “una liberazione”. E via salmodiando, in capovolto senso di camusiana, e ignara, “rivolta metafisica”. A provocarla, Paolo non trovava di meglio che mettere in dubbio la sincerità delle sue parole: “Sei ancora troppo vitale, troppo grintosa per poter desiderare davvero la morte”. Diceva sul serio, il “vecchio”, o voleva soltanto farla arrabbiare? Diceva sul serio. Non capiva che la sua presunta grinta era soltanto rabbia da impotenza disarmata? Sì, lo capiva: ma pure una rabbia reattiva è vitalità. Piuttosto si guardasse dal mostro che aveva ucciso il suo amico. Non è in gioco soltanto la morte, che, al limite, si può anche non temere troppo – diciamo, per eccesso di “conoscenza” – ma il morire, i modi del chiudere la partita. I quali potrebbero essere spaventosi. Come accade fin troppo spesso, come a Paolo è accaduto di vedere in tanti amici e parenti straziati dal drago dai mille volti e astuzie del più ingegnoso sadismo liquidatore.
Riuscì a farle promettere che avrebbe fumato di meno. In quella stessa occasione Paolo le chiese come si svolgesse la sua esistenza quotidiana dopo la scomparsa di quel sostegno vitale. Lei rivelò che le figlie l’aiutavano, e con pieno consenso dei mariti. In quel tratto di conversazione, Paolo notò una sonorità insolita nella voce di Susy, una nota di tremula commozione. Non frenò l’impulso di un commento “morale”.
“Vedi, dunque, che qualcosa di buono resiste ancora nell’inquinatissima realtà naturale e umana?”
“Sì, lo vedo e me ne compiaccio. Ma io non voglio pesare sulla famiglia delle mie figlie.”
“Sei la solita esagerata. Che peso sarà mai un’integrazione dei tuoi alimenti per due coppie fornite di doppio guadagno personale? Non hai questi grandi vizi e stravaganti pretese di divertimento eleganza o che. E allora?”
Eccola là, la gaffe della sua Mneme scotomica! Aveva dimenticato che lei aveva rinunciato a quegli avari “alimenti” pur di tenere con sé entrambe le figlie? E ora mancava poco gli sfuggisse la curiosità di sapere quali somme, e con quale criterio di periodicità, le venissero dalle brave figliuole. Si scusò, un Paolo mortificato e quasi balbettante, della “dimenticanza imperdonabile”; ma fu Susy stessa a minimizzare l’incidente e, cambiando argomento, a precisare che pensava lei a dimezzare, o comunque a ridurre, le somme in offerta filiale. E poi, era in corso la pratica per avere quella piccola pensione Inps che i contributi pagati le riserbavano. Intanto comunicava all’amico che la maggiore, Claudia, attraversava un periodo di più serena stabilità emotiva. A Paolo venne un’idea che tenne per sé: e se la sensibilissima Claudina non soffrisse soltanto del cronicizzato ricordo dell’antica violazione ma anche della relazione della madre, della sua posizione irregolare? Che le pesasse come un destino questo succedersi di anomalie nella sua famiglia? L’ipotesi aiuterebbe a capire quel miglioramento psicofisico. Ma forse era un inutile azzardo dell’immaginazione paolina: forse sull’eventuale senso di “liberazione” prevaleva il dispiacere per la nuova perdita e solitudine della sfortunata madre. Una creatura complicata, quella Claudia, che la vulnerata maternità di Susy continuava a “svalutare” come un’adolescente bloccata.
Ora Paolo fu turbato da un flash di memoria spontanea, ricorrente, a lunghi intervalli, parlando di Claudia con Susanna. In una delle poche occasioni che riunirono sulla spiaggia di Zefiria Susy con le figlie e Paolo-Rina con la piccola Manuela, la poco più che tredicenne Claudina, con un movimento innocente aveva scoperto un po’ della tricotica flora pubica. E lui, che per caso volgeva gli occhi verso la ragazzina, ne aveva distolto lo sguardo con uno scatto rapido e l’impaccio di chi avesse involontariamente profanato una delicatezza sacra. Remore di antica fattura, frutto un po’ ridevole di quella infantile educazione cattolica, così sessuofobica da confondere l’insignificante emozione del guardare involontario con la sensazione di avere commesso una sconvenienza.