mercoledì 2 giugno 2010

SUSANNA, Frammento 69


Dunque i rapporti. Al dire di Susy erano “sostenibili”. Lei disse “discreti, e non privi degli alti-bassi di ogni relazione umana”. In sostanza, accettabili. Lui capì che non erano più il fuoco sempre vivo dei penati nelle antiche case romane, e questo gli faceva piacere. Credette di intuire anche una sorta di rimpianto per una cosa mai avuta, ma che avrebbe accettato volentieri: una vita regolare con lui. Non gli aveva confidato, per telefono, che la difficoltà maggiore fra lei e Rina era una specie di invidia? Rina aveva avuto tutto quello che lei avrebbe voluto e non aveva ottenuto. Nelle sue parole misurate, la risposta attuale evocava in Paolo quel pezzo di conversazione telefonica lontana. Comunque, nell’insieme Marco era rispettoso e leale. I loro incontri extra-lavoro? Molto più rari: “Sai, gli anni che pesano, il poco tempo disponibile fuori dal lavoro diviso fra la famiglia, le relazioni sociali connesse allo stesso lavoro e, infine, lei: l’ultima, e non fra le maggiori fette della torta. Sarà stata verità, quest’ultima crema verbale, la sua allusa riluttanza? o soltanto pietoso balsamo d’occasione? Paolo non insistette nell’indagine. A che scopo l’avrebbe fatto? E poi era troppo occupato a godere quel piccolo grande dono del “divino Burlone.”

Susanna era venuta con una cugina vedova sulla spiaggia, e questa non poteva restare a lungo fuori casa. Rimasta sulla sabbia e sotto l’ombrellone, mentre l’amica si allontanava verso il locale, l’avevano raggiunta per lasciarle la bevanda (non più tanto) fredda, lei lo aveva presentato, e poi erano ritornati nello spazio del bar. Qui sedevano a un tavolo nello spiazzo del marciapiede in concessione al proprietario del locale. Un tetto di sottili canne intrecciate garantiva ombra e discrezione col contributo di palme edera e altre ignote piante, lussureggianti fin sopra il tettuccio rustico. Sorseggiando un aperitivo al ghiaccio continuavano l’amarcord della conversazione appassionata.
Paolo era agitato dalla voglia di sapere altre notizie sul padre sciagurato, ma non aveva il coraggio di introdurre l’argomento. E del resto non era una “voglia” sicura: troppo torbido, quel caso maledetto, per ritirarlo fuori. Ma fu la stessa Susanna a farlo, rispondendo a una domanda di Paolo sui rapporti con fratelli e sorelle. Lei disse che con alcuni erano freddini, per via della sua spietata sincerità sulla “porcheria” paterna: l’aveva spifferata ai loro partner “papale papale”, a dispetto del nobile appello al “pietoso silenzio”. E così quella “vergogna di famiglia” era stata scoperchiata davanti alle mogli di Giacomino medico e di Carlo aviatore; e davanti all’anziano marito di Rosina. Insomma, l’argomento puteolente venne fuori da sé, per vie laterali. E non fu un rinforzo al godimento di quel surreale incontro. Il suo odio, disse Susy, per quel mostro di padre era intatto. A chi, in famiglia, le parlava di caso patologico, replicava che era una scusa comoda, ma infame. E che comunque, patologico o no, il fatto era una tale schifezza che non meritava nessuna attenuazione di colpa. Quel verme era normalissimo nel lavoro e in famiglia, e il ricordo di questa normalità di parata le faceva ribollire il sangue. Ce l’aveva anche con la madre, che non mostrò mai di sospettare nulla: possibile che non avesse mai notato niente di anormale nella condotta di quel marito ossessivo, e chissà di quali stranezze ghiotto? Che lo coprisse in una cosa come “quella” era escluso. Più probabile che si accorgesse del suo mandrillismo da qualche attenzione un po’ spinta verso altre donne. Magari avrà colto segnali di “tradimenti di passata”, di avventurette senza seguito, senza “effetti collaterali” di peso e code compromettenti. Ma Susanna escludeva complicità in “cose di quel genere”. E pareva incolpasse anche se stessa, dicendosi cretina e cieca: come mai, per quale cecità ostinata non aveva sospettato nulla, in tanti anni, neanche lei? L’istinto materno, dove era “traslocato” quando cercava la cause di quell’anoressia? Non poteva venirle un dubbio, un sospetto anche vago di anomalie di quel genere? Naturalmente, non puntato sul padre, questo no. Ma dagli abusi eventualmente confessati dalla ragazza (se non gia dalla bambina) si sarebbe potuto risalire al vero, “anzi al verme”, colpevole. Niente: la fiducia in “quel porco” era tale... E perché, e come, poteva essere assoluta, dopo che lei aveva avuto con lui, proprio con lui, “quell’assaggio” di vocazione incestuosa? Aveva rimosso il caso? Una madre non dovrebbe dimenticare fatti del genere se ha delle figlie bambine da affidare alla sorveglianza di un tale padre. Certo, avrà giocato ad annebbiare la vigilanza il fallimento di quel tentativo maldestro, la sua resistenza bloccante.
L’auto-processo continuò un bel po’ di minuti, a dispetto dei tentativi di fermarlo che Paolo andava facendo. Provava una cupa sofferenza, lui, ascoltando Susy parlare in quei termini truci del padre. Ovvia evidenza, la sua colpevolezza, il suo meritare quel lessico atroce, ma la sensazione sgradevole resisteva, la sofferenza non diminuiva al bagliore di tanta chiarezza giudicante. Era come la distruzione di un capolavoro d’arte pensò. La distruzione di...! Ma che paragoni gli suggeriva quella piccola, domestica bufera infernale? Era qualcosa di molto più sconvolgente, pur nella sua “piccolezza cosmica”. Né sapeva suggerire parole di perdono o altro decotto evangelico.
Ma parlare doveva. Aveva tentato anche questo argomento: pensava, Susy, a quel che sarebbe accaduto in caso di confessione della figlia? Quali effetti avrebbe avuto, lo scandalo, una volta esploso in seno alla famiglia, sulla malattia della ragazzina? S’immaginava, forse, che ne sarebbe guarita? o non piuttosto che ne avrebbe esasperato il decorso? Se la fanciulla aveva taciuto per tanti anni, vuol dire che la sua sensibilità non tollerava choc violenti. Perciò è probabile che quella deflagrazione ne avrebbe peggiorate le condizioni fisio-psichiche. Dopo tutto, le crisi non le hanno impedito di laurearsi, specializzarsi, vincere un concorso e trovarsi un lavoro, innamorarsi, sposarsi e continuare a lavorare. Naturalmente, la morte di quel nonno, poco più che sessantenne, aveva aiutato questo cursus di successo. Uno scandalo avrebbe permesso tutte queste cose?
“Io non lo so, e non mi pongo tutte queste domande. Da madre, penso solamente che avrei troncato quella violenza infame.”
“Non ti do torto, e non sto certo a misurarti la mia comprensione, che è totale, assoluta, come puoi immaginare. Dico soltanto che altre persone avrebbero sofferto di quella rivelazione sconvolgente, a cominciare da tua madre, anche lei vittima di quel marito. Per non dire di fratelli e sorelle e degli altri nipoti. Non è meglio chiudere qui la discussione?” Questo, a un di presso, il tono del discorso paolino. Un ultimo particolare, con ambizione attenuante: Paolo ricordò a Susanna che le occasioni della solitudine a due col nonno non dovettero essere poi tante. Lei ammise, ma replicò che non erano state nemmeno rarissime. E che comunque l’attenuazione della sua sofferenza non valeva la pena di occuparsene. Paolo le chiese scusa, lei capì la buona fede. E gli sorrise: in un rapido fiat.
Un ultimo pensiero attaccò una coda al discorso che andava esaurendosi. Un flash di pensiero, niente di eccezionale, anzi perfino incline all’ovvietà, ma col piglio di un soccorso all’amica sofferente. Che lei non avesse mai dubitato del comportamento paterno verso la nipotina era più che naturale anche sullo sfondo del tentativo verso di lei: non è la stessa cosa subire il fascino di una figlia ventenne e bellissima ed essere lo spregevole seduttore di una nipotina impubere. Insomma, non c’erano spazi per l’auto-flagellazione di Susanna: questo, il senso della “coda”.

La conversazione deviò verso altri argomenti. A un certo punto, Paolo osservò che, per essere più somigliante al “modello” rievocato, quella riunione avrebbe voluto la presenza di Rina. Susanna “non si fece brutta”, cioè non dissentì con fastidio, come lui aveva temuto nei primi secondi del silenzio seguito alla sua osservazione. Era addirittura d’accordo. Ma al momento non c’era tempo, né per lei né per lui: lei doveva rientrare con la cugina, lui avrebbe dovuto percorrere troppi chilometri per andare e tornare con Rina, ammesso (ma non concesso) che la moglie fosse disponibile a un tale trambusto. Per domani, allora? Vada per l’indomani. Ma sotto il segno dell’incerto: lei avrebbe potuto ricevere una telefonata che la obbligasse a partire subito, rinunciando a quel paio di giorni in più che avrebbe voluto “godere” nella terra natia, tra ricordi rimpianti e “nostalgia canaglia”. Speriamo bene.
Si lasciarono con quell’augurio, un abbraccio un po’stretto e una coppia di baci cheek to cheek, uno dei quali velocemente lips to lips per iniziativa di lui. Il massimo dell’infrazione creduto possibile contro il tacito impegno dei loro rapporti: rispetto dell’amicizia, cioè lealtà verso i rispettivi partner. E, chissà, fors’anche del loro essere well on, in là con gli anni
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Paolo tornò al paese dei cognati in stato di euforia scoppiettante: quell’incontro dal sapore tanto onirico lo aveva “rimescolato”. La ragione, a dire il vero, bussava alla porta dell’emozione (ma sì, usiamo pure la vecchia nomenclatura) per farsi ascoltare, il titolare di entrambe, però, apriva appena uno spiraglio e subito richiudeva, cacciandola “nelle tenebre esterne”. Che cosa avrebbe potuto dirgli, quella “sgualdrina ipocrita” (strana definizione di tanta dea rivoluzionaria!), che lui non sapesse? Che tutta quell’agitazione era infantile, che l’“incontro impossibile” era sterile, non portava da nessuna parte, eccetera. E allora? Aveva vissuto uno dei suoi famosi “momenti perfetti”: da molti anni non ne aveva più “ricevuti”, e questo se lo godeva in piena e indisturbata irrazionalità. E un baciamano di galante congedo a Madame la Raison. Questa puttana al servizio di ogni turpitudine teorica e pratica. Non ci sono fior di teste d’uovo cattoliche e folle di Santità tricoronate che cianciano di idillio possibile tra fede e ragione? Anzi, di compiuti sponsali!
Rina notò una luccicante accensione nello sguardo del marito, e non mancò di chiedergli se per caso avesse fatto un “buon incontro”: per esempio, con qualche anziana collega, o, meglio, con una, benevolmente meno vecchia, ex allieva. Lui aveva fatto il misterioso, trincerandosi dietro un sorrisetto ambiguo, cioè “scemo”, come ebbe a precisare lei. La quale forse non temeva più stravaganze galanti da quel marito sessantaquattrenne e acciaccato, e tuttavia lo sapeva tuttora sensibile al “secondo sesso”. E poteva, magari, replicare al sorriso “misterioso” con indulgente noncuranza, ma non senza un brivido di timore per eventuali esposizioni al ridicolo: lo sapeva purtroppo vulnerabile a quel rischio per eccesso di ammirazione galante incontrollata. Il fatto era che Paolo avrebbe voluto rivelare l’incontro e dire del desiderio suo e di Susy che lei fosse presente a un secondo rendez vous, prossimo e programmato. Ma pensò bene di aspettare. Aveva dato il numero del suo cellulare a Susy perché lo avvertisse, entro le 19, se avesse ricevuto quella telefonata. Parlare prima sarebbe stato un inutile sciupio di agitazioni e ciarle.
Purtroppo, o per fortuna? (vallo a sapere) la telefonata, temuta (o non anche, forse, un poco desiderata?) venne. Puntuale, allo scoccare dell’ora limite, squillò il cellulare. Prudenzialmente, egli s’era portato sul lungomare di Letizia Marina, in solitaria replica delle sue ormai famose (in famiglia), passeggiate mattutine. “Purtroppo”, l’aveva detto Susanna, annunciandogli una specie di SOS da Marco: la “implorava” (addirittura, sbuffò Paolo in interiore homine) di raggiungerlo entro le cinque pomeridiane dell’indomani per potere essere il giorno successivo a Panormo. Le dispiaceva, naturalmente, e si augurava un’altra, non lontana, occasione.
Paolo colse ancora una coincidenza, ma negativa, questa. In una delle “segrete” telefonate Sicania-Roma Susy gli aveva detto ripetuto e promesso che nell’eventuale contingenza di un “loro” viaggio nell’isola (probabilmente nella caotica, affascinante e mafiosa “capitale”) avrebbe fatto di tutto per venire a trovarlo. Anzi, a trovarli – aveva precisato subito dopo il singolare dal sen fuggito. Che si vedessero, un’ultima volta, prima di... E ora ecco la contingenza sfumare: veniva a Panormo lei, quando lui si trovava lontano da casa e dall’efestica Sicania. Si consolò: non si erano visti abbastanza? L’incontro con Rina era faccenda secondaria, in fondo. Cosa avrebbe aggiunto al piccolo miracolo? Al contrario, forse, avrebbe tolto qualcosa: meglio che quella improbabilità realizzata rimanesse un’esclusiva delle due Coincidenze.
Con buona pace, anche, del “profondo Jung” che alle pure e semplici coincidenze non credeva del tutto. O quasi. E magari di Sciascia, che a quelle confidava tutto (o quasi) il potenziale di verità delle umane faccende, pulite e sporche.
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Due anni e mezzo dopo l’ “incontro impossibile” Marco, il “compagno volante” (definizione di Susy, a sottolineare che non era convivente) si ammalò di cancro ai polmoni e in pochi mesi finì di soffrire. Essendo la loro relazione clandestina, Susanna poté vederlo soltanto nei primi tempi della malattia, quando ancora i sintomi erano sopportabili, e perfino ottimisticamente equivocabili. Vederlo, si capisce, nell’ospedale dove era stato ricoverato. Non era certo il caso di svelarsi e lasciare alla moglie e ai figli un’immagine compromessa del marito e padre. Finché poté, fu lui a chiamarla dalla clinica oncologica romana dove era ricoverato, badando a cancellare ogni traccia delle chiamate al cellulare.
Naturalmente, fu il telefono di Susy a comunicarlo a Paolo. Che si disse “addolorato” per lei. La quale, però, si lasciò scappare uno scettico “addirittura!” che sorprese l’anziano “amante platonico” (questa definizione, invece, era di Paolo). Sorpresa di attimi, però: era la Susy di oltre un trentennio avanti a parlare, “la Susy di sempre”, schietta e impulsiva. Non perciò insensibile alle sofferenze dell’amico né indifferente alla sua fin troppo prevista morte prematura. Se non era vero amore, era certo gratitudine sincera che la legava a quell’uomo: gli doveva un aiuto importante, e forse qualcosa di più. Certo, poi, alcuni momenti esaltanti della sua tribolata esistenza: giusto risarcimento di quei triboli esosi.

Un ricordo inatteso, anzi una delle famose intermittances du coeur, s’accese nel floppy mnestico di Paolo: quando Susy gli aveva detto che lui “non era un uomo” per lei. Ecco la scena, con tutti i suoi colori. S’era a valle degli esami di maturità felicemente “svangati”; l’ambiente, la sua casa di via Massaua, in Zefiria; loro due, Susy e Paolo, soli nella prima stanza, Rina era andata a prendere Giampiero dai vicini. Seduti al tavolo lungo del mobilio svedese, protetti dalla possibile curiosità stradale, dalle tendine opacizzanti che coprivano i rettangoli inferiori delle vetrate. Parlavano. Di che? Ora si pretende troppo. Di cose varie, di esami, dei commissari, di compagne, forse e probabilmente di Adele, della sua confessione sul voler bene privo di remore e calcoli. Ecco, questo dettaglio dovette essere decisivo: perché e come, altrimenti, si sarebbe scivolati in un argomento così delicato, così vibrante di tentazioni allusive? No, non riusciva a riavere la fase immediatamente anteriore che suscitò quella sortita di Susy: “Ma tu non sei un uomo, per me”. Riviveva, Paolo l’impressione “sconnettivante” che gli suscitò quella stramberia: “Come non sono un uomo? Che vuoi dire, cavolo?” Aveva sorriso, Susy, con pedagogica pazienza; un sorrisino deluso, però. E poi aveva esplanato: “Forse che abbiamo avuto i rapporti giusti? Dunque, finora non sei stato un uomo per me...” Ah, in quel senso, dunque. S’era quietato, Paolo. “Sì, hai ragione. Me lo sono vietato, e non credere che non ne abbia scontato con sofferenza tutti gli effetti”. No, non lo credeva Susy. Ma dove metteva, lui, quella di lei? aveva idea di quanto possa riuscire frustrante per una donna quell’assaggiare sempre e mai...? Va bene, gli orgasmi e quant’altro del non povero gioco, ma Cristo santo, si ha pure brama di un pasto completo in certe situazioni! Paolo completava quei pensieri di Susy con lessico aggiornato di ...filogenetico impatto pantrofico: “assaggiare sempre e mai mordere, mai inghiottire.” Metaforico linguaggio, va bene, ma (integrava, in pectore culto) con quelle radici abissali e lunghissime che l’antropologia culturale e tutte le mitologie della Terra hanno onorato, in modalità varie, spesso infantilmente “strambe”, eppure con un nucleo portante fisso infinitamente riproposto. L’identificazione nella “mentalità primitiva” era tale che in certi “loro” linguaggi lo stesso nome indica la bocca e il sesso femminile, lo stesso verbo mangiare e copulare. Perfino l’“astrattissimo” Sartre dell’“in sé” e del “per sé” ha riscoperto quella incombente radicalità quando definisce la vulva “una bocca vorace che divora il pene.” Per non parlare dell’estroso geniaccio prolifico Salvador Dalì, in vena di eros antropofagico con la sua amante. O del più sistematico Goffredo Parise, che nel suo “Assoluto naturale” sembra riecheggiare le tesi pantrofiste di Gulizza (Paolo lo aveva recensito sottolineandone l’ispirazione minuziosamente coerente con quella dottrina…clandestina.)
Non era stato un uomo con lei: che frase impertinente. Ma lo era, poi? La frase, intendo. A ripensare quell’ “assurda” esperienza, in quel tempo e contesto così logica, così coerente; a ripensarla ora, in un’epoca in cui perfino le espressioni più anodine (“uscire con”, “stare insieme”, “avere il ragazzo”...) hanno una sola semantica, che mena dritto al rapporto coitale (vulgo: scopare) si ha una sensazione di straniamento, di inverosimiglianza para-superstiziosa. Ma forse questa differenza “epocale” è un’altra fisima del moralismo pavido e della “dissimulazione onesta”. Né occorre disturbare la tortuosa ambiguità pioveniana, o il vecchio Tommaso Accetto per diagnosticare le infermità del peccatore moralista Paolo Assaggi.
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Ma nemmeno l’alibi della rivoluzione sessuale ancora appena ai primi vagiti in quel segmento centrale dei Sessanta: bisogna aspettare il “mitico Sessantotto”, e meglio ancora i successivi anni Settanta, per veder precipitare molti tabù e sciogliersi massivamente tanti lacci. E, forse, gli anni Settanta per registrare la folta fioritura di rotocalchi progressivamente hard e di siti dell’erotismo variamente connotati e nobilitati con referenti culturali, quali Yoga, Zen, antica religione egizia, tarocchi solari e spiritualia di ogni genere esotico (perfino un tortuoso sufismo spargitore di gioia!).

Come quelli, insomma, che largamente descrive Michel Houellebecq nel suo colto spregiudicato e polifonico romanzo utopico-apocalittico, “Le particelle elementari”: per esempio, il “Luogo del Cambiamento”, dove tutte le maschere spirituali sessualmente liberanti operano a gloria del corpo femminile restituito all’istinto; dove vulve di ogni età, e specialmente di mezza e passa, cercano e trovano la gioia del sesso disinibito, con esibizione di nudità di vario conio e fantasia applicativa disinceppata, che va dalla fellatio (magari esitalmente ingurgitante), alla sodomia dissacrante, transitando per la scopata normale. Il linguaggio del famoso narratore è esplicito fino all’azzardo, e i passi che citiamo a riprova del clima spavaldamente acceso di euforia clamante non sono fra i più sbracati. “Insopportabili all’ora di colazione, all’ora dell’aperitivo le bagasce mistiche ridiventavano donne, impegnate in una competizione disperata contro le loro simili più giovani”. I frammenti di conversazione che seguono danno il tono al genere di esplicitezze legittimate che la rivoluzione “settantina” regalò e propalò in tutto l’Occidente più o meno cristiano. Parla con uno dei due fratellastri protagonisti, il timido, nonché “os-sesso” Bruno, professore di lettere, una collega di scienze naturali sulla quarantina, davanti alla sua roulotte, nel Luogo: “E’ una cosa che mi succede ogni tanto, mi metto a scopare con chi capita […] Per la penetrazione pretendo soltanto il preservativo […] In genere gli uomini preferiscono i pompini […] La penetrazione li annoia, tutto quel su e giù li stanca. Invece quando glielo prendi in bocca ridiventano bambini. Non hanno mai voluto ammetterlo, ma credo che da questo punto di vista il femminismo gli abbia rotto le uova nel paniere.”
La dolce occhiglauca professoressa, di quel santificato Luogo copulatorio vecchia frequentatrice, ne fa un succinta storia: “All’inizio era un posto alternativo, nouvelle gauche, ora è diventato New Age; non è cambiato gran che. Già negli anni Settanta ci si interessava alle mistiche orientali; oggi, oltre i massaggi c’è la jacuzzi. E’ un posto piacevole, ma un po’ triste; c’è molto meno violenza che fuori. L’atmosfera mistica mitiga un po’ la brutalità di tutto questo gran scopare. Ma ci sono un sacco di donne che soffrono. Gli uomini che invecchiano in solitudine non sono da compiangere quanto le donne nella stessa situazione. Gli uomini soli bevono vino scadente, si addormentano e gli puzza l’alito; poi si svegliano e ricominciano; muoiono presto. Le donne sole prendono calmanti, fanno Yoga, vanno in analisi; vivono a lungo e soffrono parecchio. Il corpo che offrono è inflaccidito, imbruttito; loro lo sanno e ne soffrono. Tuttavia continuano, perché non riescono a rinunciare a essere amate. Fino all’ultimo sono vittime di questa illusione. Le donne hanno la possibilità di prendere cazzi anche quando non sono più giovani; ma non hanno più la possibilità di essere amate. L’umanità è fatta così, tutto qua.”
Una visione cruda, che non esclude momenti di schietta gioia: “‘Cristiane’, disse dolcemente Bruno, ‘tu esageri… Per esempio, io adesso avrei voglia di farti godere’. ‘Ti credo. Secondo me tu sei una persona gentile. Egoista e gentile’”. E vediamoli nel loro momento di indaffarata gioia, punteggiata di esplicite richieste e minute descrizioni: “Christiane si sfilò la felpa, si sdraiò per traverso sul letto, si mise un cuscino sotto il sedere, aprì le gambe. Dapprima Bruno le leccò a lungo i bordi della fica, poi eccitò il clitoride a piccoli e rapidi colpi di lingua. Christiane sospirò profondamente. ‘Infila un dito...’ gli disse. Bruno obbedì, si voltò per continuare a leccare Christiane mentre le carezzava il seno. Sentì i capezzoli indurirsi, sollevò la testa. ‘Continua, per favore ...’Gli chiese lei. Bruno sistemò il capo in una posizione più comoda e le carezzò il clitoride con l’indice. Le piccole labbra cominciarono a gonfiarsi. Preso da un moto di gioia, le leccò con avidità. Christiane emise un gemito. Per un istante, Bruno rivide la vulva magra e vizza della madre; poi il ricordo svanì, continuò a sfregarle il clitoride, sempre più in fretta e continuando a leccare le labbra con colpi di lingua decisi ma garbati. Lei ansimava sempre più forte, il ventre le si era un po’ arrossato. Era molto umida, piacevolmente salata. Dopo una breve pausa, Bruno le introdusse un dito nell’ano e un altro nella vagina, e tornò a dedicare al clitoride piccoli e rapidissimi colpi di lingua. Christiane godette in silenzio, a lunghi fremiti. Bruno rimase immobile, col viso appoggiato alla vulva umida, e tese le mani verso di lei; sentì le dita di Christiane richiudersi sulle sue. ‘Grazie’, disse lei. Poi si rialzò, si infilò la felpa e tornò a riempire i bicchieri”
La professoressa, appagata, cede all’ispirazione didattica e fa una dettagliata lezione di fisiologia sessuale: “Lo stelo del clitoride, la corona e il solco del glande sono rivestiti di corpuscoli di Krause, ricchissimi di terminazioni nervose. Quando vengono sollecitati, liberano nel cervello un potente flusso di endorfine. Gli uomini e le donne hanno il glande e il clitoride rivestiti di corpuscoli di Krause – in numero pressoché identico, visto che almeno in questo siamo uguali”. Qui comincia un intermezzo confidenziale spumeggiante di esplicitezze: “Io ero molto innamorata di mio marito. Gli carezzavo e gli leccavo il sesso quasi con venerazione; amavo sentirlo dentro di me. Ero fiera di provocare le sue erezioni, avevo una foto del suo sesso eretto e la conservavo nel portafoglio: per me era come un santino. Dargli piacere era la mia gioia più grande. Mi ha lasciato per una donna più giovane. Poco fa ho capito che la mia fica non ti attirava davvero; comincia a essere la fica di una donna vecchia”. Qui si chiude l’intermezzo narrativo personale e ritorna l’esperta di fisiologia genitale: “Nell’età avanzata, la diminuzione del collagene e la frammentazione dell’elastina durante le mitosi fanno progressivamente perdere ai tessuti la loro compattezza e la loro elasticità. A vent’anni avevo una vulva molto bella; oggi, mi rendo conto che le grandi e le piccole labbra sono un po’ cascanti’.”
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En passant, ricordiamo che in una di queste donne non più giovani e affamate di sesso Houellebecq raffigura l’anziana madre. La quale non ha gradito tanto onore. Indi, lite, polemica, e qualche cosa di più. Credo che sia proprio il personaggio di Christiane la proiezione materna dello spregiudicato e coltissimo romanziere. Ma potrebbe essere una qualsiasi di quelle sofferenti bramose e non rassegnate al digiuno. Il figlio intanto, poco turbato dal disappunto della vitalissima e reattiva genitrice, si gode gli effetti mammonici del suo instancabile talento produttivo da best seller. E noi gli auguriamo che sappia farne buon uso (per esempio, con generose offerte solidaristiche).
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Tornando alle “Particelle elementari”. In una vibrata e dotta conversazione tra i due fratellastri si ricorda che la rivoluzione sessuale era parte integrante dell’utopia dei fratelli Huxley. Le ipotesi del “Mondo nuovo”, di un’umanità ri-programmata dal binomio scienza- tecnica e meritocratica, secondo Bruno non prospettano quella “specie di incubo totalitario” che la vulgata ermeneutica ha attribuito all’autore come bersaglio polemico di preventiva difesa: “Il mondo nuovo”, invece, “è un paradiso, è esattamente il mondo che ci sforziamo, sin qui invano, di raggiungere”. E di esso fa parte la liberazione dell’eros. Il fratellastro biologo molecolare, Michel, concorda, e ricorda: il fratello di Aldous, Julian, nel 1931, aveva pubblicato un audace saggio intitolato “Ciò che oso pensare” in cui sono presenti tutte le idee del Mondo nuovo: “sul controllo genetico e sul miglioramento delle specie – ivi compresa quella umana.” Il tutto “viene presentato, e senza la minima ambiguità, come un fine augurabile, verso il quale è opportuno tendere.” Rincalza, Bruno: la società descritta nel “Mondo nuovo è una società felice, da cui sono scomparse tragedie e sentimenti estremi. La libertà sessuale è assoluta, non vi è più nessun ostacolo al piacere e al godimento” Le residuali patologie depressive vengono curate con farmaci. Michel richiama altri fatti.
“Dopo la guerra, nel 1946, Julian Huxley viene nominato direttore generale dell’Unesco, che era appena stata creata. Nello stesso anno suo fratello pubblicò “Ritorno al mondo nuovo”, nel quale tenta di presentare “Il mondo nuovo” come una denuncia, una satira. Qualche anno dopo, Aldous Huxley diventò il principale garante teorico dell’esperienza hippy. Era sempre stato un fautore della libertà sessuale, e aveva avuto il ruolo di pioniere nell’uso delle droghe psichedeliche. I fondatori di Esalen lo conoscevano ed erano stati influenzati dal suo pensiero. Il movimento New Age, successivamente, ha adottato integralmente gli argomenti di base dell’esperienza di Esalen. […] Julian Huxley pubbligò “Isola” nel 1962, è il suo ultimo libro […] E’ ambientato in un’isola tropicale paradisiaca – la vegetazione e i paesaggi sono ispirati probabilmente allo Sri Lanka. Su questa isola si è sviluppata una civiltà originale, lontana dalle grandi correnti commerciali del Ventesimo Secolo, una civiltà molto avanzata sul piano tecnologico ma al tempo stesso rispettosa della natura: pacificata, completamente sciolta dalle nevrosi familiari e dalle inibizioni giudaico-cristiane. La nudità è considerata naturale; la voluttà e l’amore vengono praticati liberamente. Questo libro mediocre, ma assai facile da leggere, ha influenzato enormemente gli hippy e, tramite loro, gli adepti della New Age. A ben guardare, la comunità armoniosa descritta in Isola ha parecchi punti in comune con quella di Il mondo nuovo. In realtà Huxley stesso, nel suo probabile stato di rincoglionimento, sembra non essersi accorto dell’analogia, fatto sta che la società descritta in Isola è tanto vicina a Il mondo nuovo quanto la società hippy libertaria lo è a quella della società borghese liberale, o piuttosto alla sua variante socialdemocratica svedese”

Variante, peraltro, sconfitta, in proiezione globale, da due conseguenze della “mutazione metafisica che ha creato materialismo e scienza moderna: il razionalismo e l’individualismo. L’errore di Huxley è stato quello di non aver valutato adeguatamente il rapporto di forza tra queste due conseguenze”. L’eccesso di individualismo neutralizza i vantaggi di una società ideale, dove il controllo dell’economia e la dissociazione sesso/procreazione eliminerebbe i relativi conflitti (economico: “metafora del dominio dello spazio”; e sessuale, “metafora, tramite la procreazione, del dominio del tempo”). Evolvendo in senso narcisistico, l’individualismo mina i vantaggi della società utopistica. La conflittualità rimane e tende a rafforzarsi, “perché la mutazione metafisica operata dalla scienza moderna si porta dietro …la vanità, l’odio, e il desiderio”. “Di per sé il desiderio – contrariamente al piacere – è fonte di sofferenza, di odio e di infelicità. E, questo, tutti i filosofi – non solo i buddisti, non solo i cristiani, ma tutti i filosofi degni di questo nome – l’hammo capito e insegnato. La soluzione degli utopisti – da Platone a Huxley passando per Fourier – consiste nell’annientare il desiderio, e le sofferenze connesse, organizzandone l’immediata soddisfazione. All’opposto, la società erotico-pubblicitaria in cui viviamo si accanisce a organizzare il desiderio, a svilupparlo fino a dimensioni inaudite, al tempo stesso controllandone la soddisfazione nel campo della sfera privata. Affinché la suddetta società funzioni, affinché la competizione continui. Occorre che il desiderio cresca, si allarghi e divori la vita degli uomini.”
Riflessioni tanto suggestive quanto inclini all’azzardo ermeneutico: quanta benevola violenza ha giocato l’intrepido autore sulle tesi di quegli ispirati utopisti e filantropi? Bella questione. Che però non affronteremo in questa tappa del lungo viaggio attraverso il romanzo vissuto di Paolo e Susanna. Ce ne congediamo con un sospiro di rimpianto per la felicità tradita. Maiora premunt.
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No, non c’era ancora la rivoluzione sessuale in quel segmento di Saturno e di Gea, ma non c’entrava niente con la storia di Paolo e Susanna: altre studentesse nelle condizioni di lei avevano saltato il fosso con i loro professori. E la sua amica Adele non s’era tirata indietro: il paese era estrema provincia, certo, e le rivoluzioni metropolitane vi arrivavano tardive e addomesticate, ma c’era il sole a scaldare i corpi. Quel sole africano delle estati calienti. Niente da ricamarci, dunque: l’impegno di Paolo era stato quello che, non una né due, ma tante volte egli estesso aveva chiarito.
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In quella prima telefonata funerea vinse la discrezione, e Paolo frenò la lingua sulle responsabilità soggettive di quella morte. Ma alla seconda, qualche mese dopo, non si parlò soltanto delle sue conseguenze materiali nella vita di Susy: Paolo disse che non si poteva fumare quanto quel Marco senza aspettarsi effetti letali, comunque li si voglia allontanate nel tempo. E, ovviamente, nemmeno quanto l’impenitente Susanna, ostinata nel vizio a sfida dei suoi 52 anni. Era chiaro che le crude parole di Paolo non erano pula di “curiosità ciarliera”; ma dell’appassionato consiglio e reiterato monito la “vecchia Susy” che conto faceva? quale vantaggio traeva? Nessun conto, in pratica; vantaggio nullo; totale zero. La testolina matta insisteva nell’antico ritornello: aveva vissuto abbastanza, aveva “assaggiato il mondo schifoso fin troppo”, la morte sarebbe stata per lei “una liberazione”. E via salmodiando, in capovolto senso di camusiana, e ignara, “rivolta metafisica”. A provocarla, Paolo non trovava di meglio che mettere in dubbio la sincerità delle sue parole: “Sei ancora troppo vitale, troppo grintosa per poter desiderare davvero la morte”. Diceva sul serio, il “vecchio”, o voleva soltanto farla arrabbiare? Diceva sul serio. Non capiva che la sua presunta grinta era soltanto rabbia da impotenza disarmata? Sì, lo capiva: ma pure una rabbia reattiva è vitalità. Piuttosto si guardasse dal mostro che aveva ucciso il suo amico. Non è in gioco soltanto la morte, che, al limite, si può anche non temere troppo – diciamo, per eccesso di “conoscenza” – ma il morire, i modi del chiudere la partita. I quali potrebbero essere spaventosi. Come accade fin troppo spesso, come a Paolo è accaduto di vedere in tanti amici e parenti straziati dal drago dai mille volti e astuzie del più ingegnoso sadismo liquidatore.
Riuscì a farle promettere che avrebbe fumato di meno. In quella stessa occasione Paolo le chiese come si svolgesse la sua esistenza quotidiana dopo la scomparsa di quel sostegno vitale. Lei rivelò che le figlie l’aiutavano, e con pieno consenso dei mariti. In quel tratto di conversazione, Paolo notò una sonorità insolita nella voce di Susy, una nota di tremula commozione. Non frenò l’impulso di un commento “morale”.
“Vedi, dunque, che qualcosa di buono resiste ancora nell’inquinatissima realtà naturale e umana?”
“Sì, lo vedo e me ne compiaccio. Ma io non voglio pesare sulla famiglia delle mie figlie.”
“Sei la solita esagerata. Che peso sarà mai un’integrazione dei tuoi alimenti per due coppie fornite di doppio guadagno personale? Non hai questi grandi vizi e stravaganti pretese di divertimento eleganza o che. E allora?”
Eccola là, la gaffe della sua Mneme scotomica! Aveva dimenticato che lei aveva rinunciato a quegli avari “alimenti” pur di tenere con sé entrambe le figlie? E ora mancava poco gli sfuggisse la curiosità di sapere quali somme, e con quale criterio di periodicità, le venissero dalle brave figliuole. Si scusò, un Paolo mortificato e quasi balbettante, della “dimenticanza imperdonabile”; ma fu Susy stessa a minimizzare l’incidente e, cambiando argomento, a precisare che pensava lei a dimezzare, o comunque a ridurre, le somme in offerta filiale. E poi, era in corso la pratica per avere quella piccola pensione Inps che i contributi pagati le riserbavano. Intanto comunicava all’amico che la maggiore, Claudia, attraversava un periodo di più serena stabilità emotiva. A Paolo venne un’idea che tenne per sé: e se la sensibilissima Claudina non soffrisse soltanto del cronicizzato ricordo dell’antica violazione ma anche della relazione della madre, della sua posizione irregolare? Che le pesasse come un destino questo succedersi di anomalie nella sua famiglia? L’ipotesi aiuterebbe a capire quel miglioramento psicofisico. Ma forse era un inutile azzardo dell’immaginazione paolina: forse sull’eventuale senso di “liberazione” prevaleva il dispiacere per la nuova perdita e solitudine della sfortunata madre. Una creatura complicata, quella Claudia, che la vulnerata maternità di Susy continuava a “svalutare” come un’adolescente bloccata.
Ora Paolo fu turbato da un flash di memoria spontanea, ricorrente, a lunghi intervalli, parlando di Claudia con Susanna. In una delle poche occasioni che riunirono sulla spiaggia di Zefiria Susy con le figlie e Paolo-Rina con la piccola Manuela, la poco più che tredicenne Claudina, con un movimento innocente aveva scoperto un po’ della tricotica flora pubica. E lui, che per caso volgeva gli occhi verso la ragazzina, ne aveva distolto lo sguardo con uno scatto rapido e l’impaccio di chi avesse involontariamente profanato una delicatezza sacra. Remore di antica fattura, frutto un po’ ridevole di quella infantile educazione cattolica, così sessuofobica da confondere l’insignificante emozione del guardare involontario con la sensazione di avere commesso una sconvenienza.

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