lunedì 22 dicembre 2008

Susanna frammento cinque


23 agosto


L’incontro con Ciaccò ha evitato, ancora una volta, la rottura, o il calo di temperatura, che il suo ricorrente silenzio epistolare (magari non privo di giustificazioni di mia involontaria ispirazione) mi tentava a provocare e mi faceva temere. Ieri, nella ridente Giardini, alias Naxos, già prima colonia greca in terra siculo-ionica, c’è stato finalmente quell’incontro a tre che Ciaccò si provava a combinare da più di un anno. A Nasso, infatti, Mimì aspettava Gulizza, incredibilmente vincitore del Premio Calamagna, e atteso ospite dei suoceri del giornalista nella casa montana di Vallerossa. Il mio programma era di incontrare soltanto l’amico nella turistica cittadina e tornarmene a casa solo soletto. Invece l’insistenza degli amici mi ha portato prima in casa di quei suoceri, aggiunto ai commensali della programmata agape, e poi a Villa Jonica, la città del premio letterario. Al lauto e vario pranzo ricco di ghiottonerie di domestica fattura ispirata (quella suocera esperta in antiche ricette locali: una vera chef!) c’era tutta la famigliola Gulizza, Ciaccò e consorte; e un correttore di bozze della Gazzetta dello stretto.

Varie peripezie veicolari ci hanno fatto arrivare a destinazione con quasi un’ora di ritardo. La sede del premio era il Lido Sibilla. Ho assistito alla prevedibile cerimonia della premiazione, ho conosciuto alcune personalità calamagnesi, ricevuto qualche complimento per i miei articoli sulla pagina culturale della Gazzetta dS. e del Gazzettino dg. E soprattutto ho fatto amicizia con il prof. Nino Pioppo, docente di medicina veterinaria presso l’ateneo Zanclese ed ex deputato nazionale del Pci: uomo poliedrico, tra scienza e belle lettere, amicissimo di Ciaccò e di Gulizza, collaboratore della Gazzetta. E come avevo immaginato, e poi saputo, artefice, con altri amici, della vittoria di Gulizza al Premio in questione. Avevo letto alcune sue cose (articoli critici e poesie) sul giornale zanglese e non ne avevo ricavato una grande impressione: l’incontro personale ha mutato i miei sentimenti (non proprio la valutazione critica). E’ un uomo semplice e cordialissimo, magari un po’ candide, ma sincero. Ha preteso subito che ci dessimo del tu, ed io, per la prima volta, mi sono arreso alle delicate insistenze di una persona autorevole e più anziana di me.

24 agosto, ore 20


Il mese precipita, le vacanze sono quasi alla fine, è tempo di bilanci. Che cosa ho fatto e che cosa non ho fatto, di quanto avevo previsto e semi–programmato, in questi tre mesi di ferie e di torpida estate? L’eterna domanda della mia pigrizia torna a picchiare sul tamburo stonato della coscienza. Con monotonia coerente, la risposta di sempre mortifica il mio tempo sciupato: poco, ho fatto, e molto di quanto speravo realizzare è rimasto nel limbo delle buone intenzioni senza nerbo. Sfogliamo.

Ho lavorato a due saggi minori su Camus e sono riuscito a finirli. Ma non ho sviluppato abbastanza la monografia che contavo di concludere entro questa ampia estate di giornate lunghe. Né ho completato il terzo saggio, di maggiore impegno, sullo stesso autore prediletto. La verità della pietra e La seduzione della Natura, i minori, possono tentare le vie della linotype (la rilettura paziente me ne conferma la validità), ma il volume che dovrebbe raccogliere tutti i miei sparsi scritti camusiani (la monografia è cosa a sé) si allontana di nuovo nella nebbia dell’incerto futuro. Lo segue il sognato e mezzo scritto (come tesi di laurea) libro su Nicola Abbagnano. E brancola, in un’improvvisa atassia, La danza palinsesto dell’arte, che Rama mi sollecita in omaggio e a nome del suo, e ormai quasi nostro, amico Gulizza. Ho pubblicato un articolo su Mastronardi e uno su Rèpaci, entrambi sulla Gazzetta d. s. e sul Gazzettino d. g. Quattro o cinque attendono la luce della stampa locale, qua e là. Ho anche cominciato, ma non finito, anzi sono lontano dal concluderlo, un saggio sull’amore in garbata polemica con Erik Fromm. Lo finirò?

La volontà di vivere è ancora e sempre altalenante: ora energica e zampillante, ora fiacca e disamorata. Al solito, trovo nel piccolo erede un energetico ricostituente. Ma non è facile vedere in rosa il suo futuro, e di conseguenza il mio, anzi il nostro (mio e di Rina). Ora sono stanco, stanco e “malato” più del solito. I dolori alla testa e alla colonna vertebrale ritornano con frequenza più fitta, episodi di vertigini e nausea mi tengono supino sul letto per giornate intere. Devo essermi stressato. Ma, penso, più che per il lavoro fatto, per quello non fatto. Vale a dire, per le promesse non mantenute. Agli amici, ma soprattutto, a me stesso. Ritorna (vecchia storia noiosa) il sospetto che non sia destinato a vivere a lungo. Anche questo pensiero mi incupisce: penso a mio figlio, che temo di non veder crescere abbastanza. E anche a Rina: che farebbe, da vedovella giovane? Qualche offerta di rimpiazzo non le mancherebbe, così bellina com’è… Pensiero, forse, poco generoso: lei non è il tipo di vedova virtuale pronta al rimpiazzo. Soprattutto, a quello del padre del suo bambino: un padrigno, forse, le ripugnerebbe dietro al suo vispo tesoro. Ma poi, vai a saperlo: le vie della diabolica improvvidenza sono più delle divine. Intanto dovrei vergognarmi di avere scritto qui pensieri tanto sciagurati.


Al contempo, come dicevo, traggo dal bambino la consapevole forza di resistere alla demoralizzazione. A volte sto a guardarlo mentre dorme. Il disegno delle sue forme rotondette, abbandonate alla beatitudine del sonno, mi riempie di trepidante tenerezza. E capita che l’onda emotiva tracimi in luccichii a stento frenati. Se lui si sveglia, lo prendo in braccio e lo copro di baci, stringendolo forte come per mimare una fusione di corpi. Il contatto della sua tenera carne premuta alla mia cancella il mondo esterno in una specie di estasi, un fermento di umori molteplici e in parte contrastanti: amore, ansia, speranza, paura si fondono in quel brillio poco virile che monta agli occhi arrossati di fatica contro ogni freno di inutile pudore. Ha due anni e due mesi ed è molto sveglio: parla di tutto, e si fa capire bene, capisce tutto quanto lo riguardi concretamente, interviene di continuo nelle mie cose, porta disordine e guasti fra le mie carte, scarabocchia libri e quaderni, taglia e sporca, se non lo si blocca in tempo. Capita che il danno mi intristisca, ma è questione di minuti; dopo, il disappunto cede il posto alla gioia per tanto attivismo e così estrosa vitalità. Mi rendo conto che devo frenarlo, inculcargli la nozione di limite e di non concesso, ma non mi riesce facile. Non si stanca mai di saltare correre giocare nei modi più vari. Ama uscire di casa e smania se non lo portiamo fuori, almeno nel tardo pomeriggio. E’ allegro, rumoroso, vivacissimo, e viene fuori con certe espressioni da farti scoppiare di gioia e sorpresa. Lo aiuta una buona memoria, che gli fa ricordare parole e situazioni anteriori di settimane e talvolta di mesi. Non consente che io lavori in sua presenza: in un modo o nell’altro, richiama la mia attenzione e finisce per concentrare totalmente su di sé il mio vagolante interesse. Insomma, lavorare, per me significa, essere libero dal piccolo invasore. Quando la madre o altro familiare lo prende in consegna, e solo allora, posso dedicarmi alle mie nugae. Lo so, scopro l’acqua calda. E’ egocentrico, assorbente, esclusivista come tutti i bambini che non soffrano tare, ma la vivacità e personalità sono sue; e per un padre sono sempre eccezionali. Non si stanca mai di giocare con me, e mi preferisce alla madre e a chiunque in casa e fra la parentela.



25 agosto, ore 23


Oggi, ai giardini pubblici, miei amici e compaesani mi hanno fatto gli elogi del bambino. Ciccio Bella mi chiede come ci si sente nella veste di padre; Mario Merisi completa: padre di così bello e vivace bambino. Dico che mi sento fiero, lieto, appagato. E preoccupato. Ai loro interrogativi perché rispondo come ripeto a me stesso in questo diario: è un ometto, un bambino precoce che mi riempie d’orgoglio, ma anche di malinconia; è la mia più sicura sorgente di felicità, ma pure la più spinosa delle mie preoccupazioni. So quanto sia fragile la carne di un bambino, e temo i mali che ogni padre appena sensibile teme per i propri figli, specialmente di questa tenera età. Vorrei che tutto il male che dovesse minacciare lui cadesse sopra di me e lasciasse lui indenne.

Come se uno straccio di padre malato potesse non riguardare “sospettosamente” anche il tenero figlio. Ho lavorato un poco, oggi, a uno degli articoli in cantiere per la Gazzetta d. S. Domani rileggerò e concluderò (spero).

Mi giungono altre cartoline dalle mie allieve del magistrale zefirese. Alcune particolarmente care. Eminente come un vessillo al vento la postcard “occhi di risacca” (appellativo rimemorante dell’Innominata).



26 agosto



Nella Gazzetta di oggi è uscito il mio articolo su Sartre con il titolo Un soffio sul fuoco, occhiello, Polemiche sull’ultimo Sartre. E’ venuto fuori abbastanza decente: pochi gli errori di stampa, e tutti evidenti. Per scriverlo, ho utilizzato molto gli appunti presi dagli articoli di Franco Simone apparsi sulla torinese Stampa e trascritti nel precedente quaderno. Togliendo, aggiungendo, inserendo citazioni e considerazioni personali, e soprattutto una citazione dal saggio di Enzo Paci sull’autobiografia sartriana Le parole (Aut Aut, luglio ). Vorrei mandare un ritaglio al prof. Paci, ordinario di filosofia teoretica all’Università di Milano. Ma chissà se lo farò: i miei desideri di rado si fanno decisioni. Mi piacerebbe riprendere i contatti con Paci, che tre anni fa mi scrisse, di sua iniziativa, per ringraziarmi del mio saggio ospitato da Teoretica, e mi mandò tanti suoi scritti (estratti della rivista), e in più il Diario fenomenologico, appena pubblicato, con lusinghiera dedica. Bah!

Ecco l’incipit dell’articolo: “La polemica intorno all’opera di Sartre non è affatto una novità: quella di oggi è soltanto una nuova tappa, “montata”, questa volta dai giovani più reattivi, da coloro, cioè, che un tempo erano sempre pronti a giurare in verba magistri. Ascoltiamo uno di questi critici giovani, Jacques Houbart, autore di uno spietato saggio: Un père dénaturé; essai critique sur la philosophie de Jean-Paul Sartre, (Paris, Julliard, 1964). / Secondo l’Houbart il pensiero e l’arte di Sartre sarebbero – scrive Simone – “l’espressione di una mentalità tradizionale, priva di aperture, del tutto insincera e inefficace”. La prosa di Sartre “provoca in Houbart una dolorosa vertigine”: in essa “il mondo fisico diventa metafisico, la chimica si trasforma in alchimia, il razionalismo diventa misticismo, gli uomini si tramutano in donne [sic!], Hegel diventa un giocoliere, Lenin un prete.” Sartre, insomma, sarebbe “un sofista” tarato “da una prudenza universitaria” che “riduce il vantato materialismo ad un idealismo mascherato” e deforma “l’ateismo in una metafisica dell’angoscia.” Di più: fraintende Marx e tenta di “sviare su posizioni borghesi gli intellettuali impegnati nella rivoluizione sociale”.

Non mancano intuizioni plausibili, in questa demolizione sospetta (di evidente passionalità), né riesce facile negare la fondatezza di quelle insinuazioni sull’idealismo mascherato che smaterializza il mondo sartriano; ma i suoi eccessi capovolgenti finiscono con l’affiancarsi alle colpe dell’Idolo infranto: cripto-idealismo, metafisica spalmata su Marx, rigidità ideologica.



Siderato, 10 settembre


Da due giorni sono di nuovo a Siderato (Calamagna), con la famigliola. Dopodomani avrò il primo turno di “assistenza” agli esami di riparazione al magistrale di Zefiria, dove insegno per il terzo anno. Bei paesoni o cittadine di mare, entrambi i borghi, di non lontana origine ottocentesca. Rappresentano il ritorno alle spiagge delle vecchie popolazioni cacciate sulla montagna dalle scorrerie piratesche arabo-turche.


Oggi è uscito il mio articolo sul saggio di Curzia Fernari. Ciaccò lo ha sistemato in bella evidenza sulla pagina settimanale del quotidiano dedicata alla cultura, la “Gazzetta letteraria”. Lo ha un po’ mutilato (su mia autorizzazione) per evitare le note più pungenti della sostanziale stroncatura. L’articolo, così come è stato “ridotto”, conserva una sua composta dignità. Né ha perso il suo mordente di deciso e documentato dissenso. Spero che la signora Curzia e il suo patron letterario non se la prendano troppo. Non fino al punto, cioè, da guastare i loro, finora cordiali, rapporti con Ciaccò e il giornale. Il contesto titolante condensa in allusività discreta il senso del mio severo intervento: titolo, Ancora su D’Annunzio; catenaccio: Pur promettendo analisi critiche e approfondimenti filosofici, questo libro non è che un nuovo atto d’amore per il poeta. Due titoletti “spezza-testo” ironizzano dietro un’apparente neutralità: L’uomo luce, Il “pensatore”. L’autrice, fra le poche cose giuste che accenna, riconosce che il superuomo di Nietzsche c’entra poco con gli eroi dannunziani, ma resta lontana da una comprensione plausibile della differenza. Il mio testo chiarisce in questi termini: “…D’Annunzio non capì l’anima profonda del grande Scontento. Gli eroi dannunziani, si chiamino Andrea Sperelli o Giorgio Aurispa, Tullio Hermil o Carrado Brando, banalizzano il superuomo e lo spirito libero del poeta filosofo in figure di velleitari gaudenti dell’estetismo decadente fin de siècle, estranei all’aspra insoddisfazione che muove il Freigeist nietzschiano”


Sulla stessa pagina, di spalla, c’è l’ultima fatica minore del prof. Gulizza, titolo Le due culture, apparso già due giorni addietro, con uguale titolo, sulla Sicania liotriana. Si tratta di una valutazione originale della polemica in corso sul binomio cultura umanistica e cultura scientifica. Gulizza nega la qualifica di scientifica alla prima, così com’è stata e come si presenta a tutt’oggi, e auspica che se ne renda degna in un futuro non troppo remoto. Quella negazione-limitazione esclude che l’umanistica si possa qualificare come autentica cultura: retorica, forse, variamente atteggiata e più o meno dignitosa, ma non abbastanza cultura per difetto di esprit scientifique. Frecciatine consuete verso questo o quel campione del dualismo in questione, segnatamente al prof. Geymonat. Una sua espressione suona particolarmente ironica: “Saremmo ricchi senza saperlo? Abbiamo due culture...”. Per farsi scientifica, scrive Gulizza, la cultura umanistica dovrebbe assumere i connotati impressi da Galileo alla meccanica. Indagare corpi, non anime e inesistenti spiriti disincarnati. Corpi e, nel caso specifico (corpi umani), relative fisiologie. Applicare, insomma, la “migliore novella”, la critica fisiologica, che appunto indaga il corpo degli autori, cioè il loro temperamento, le loro attitudini operative, la disposizione morale ricondotta a disciplina relazionale degli appetiti, e via innovando, diversamente esplorando. Il movimento critico oscilla dal corpus al corpo e viceversa, cercando nell’una dimensione i riscontri delle qualità, positive e negative, trovate nell’altra; e viceversa. Rispunta così l’unità tra arte e morale sostenuta dai nostri Padri e derisa dalla marea estetico-crociana. La quale, nonché ridimensionata e attenuata, risulta peggiorata negli epigoni, contro gli stessi correttivi de facto che nel patriarca di via Trinità Maggiore trovava la pretesa “metafisica” di una delibazione estetica pura, cioè “disincarnata”.

La tentazione gulizzana, la semplificazione, così drastica, la priva di mordente accademico, e perciò di consensi autorevoli. Eppure un certo appeal si fa sentire. Quasi a riscatto da troppa eiaculazione verbale superdotta e metafisica.

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Notizie-culmini. Il consiglio dei ministri approva i provvedimenti anti- congiunturali: l’Italia è salva. E lo Stato ci pagherà meglio, noi professori. Il presidente Segni torna a migliorare, dopo l’aggravamento dei giorni scorsi: fibra di sardo. Auguri di prossima guarigione. Anche per non sovraccaricare la coscienza umida dello zelante Saragat, paladino di libertà e democrazia, indiziato principale del malanno segnico: si raccontano scene drammatiche fra i due.

E’ morto Goffredo Bellonci, ottantaduenne: per i suoi meriti, ha avuto abbastanza dal padre Crono. Condoglianze alla signora vedova (e auguri di ancora lunga vita battagliera). Il Premio Strega, in cordoglio, piange il signorile patron. Ecco un premio che non avrò mai.

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Ricordi freschi. La sera del 29 agosto ho visto alla Tv la serata conclusiva del “Premio Viareggio”. Hanno vinto: Giuseppe Berto con Il male oscuro per la narrativa; e Manara Valgimigli con Poeti e filosofi di Grecia per la saggistica. Cinque milioni ciascuno, che il tutto-candido Répaci ha gioiosamente deposto nelle pudiche mani vittoriose sotto la specie di un luminoso assegno bancario. Hanno parlato, tra gli altri, Sapegno, Répaci, Ungaretti, Piovene. Il quale ha un terribile tic alla bocca e riesce inguardabile. Ecco – direbbe l’amico Ciaccò – il corpo invocato da Gulizza a riscontro del corpus: sarà proprio senza significato quel tic sull’opera, latu sensu, letteraria del Piovene-autore, quando non può esserlo nel suo corpo, nella sua fisiologia? Il problema è che non sarebbe facile trovarlo, il significato. Di più: proporlo dopo averlo, magari, trovato, a una cultura polarizzata da secoli di fluiloqui eloquenti de dignitate et excellentia hominis, e insomma da un esplicito o implicito assunto di radicale diversità di homo sapiens al quadrato rispetto al resto del mondo zoologico circostante e filogeneticamente “precedente.” Epperò resta simpatico, il tic, come testimone muto (anzi, eloquente) del disagio da ex fascio-razzista che l’aristocratico autore non ha mai del tutto smaltito. E viva l’ambiguità. E le code di paglia.

Guardabile, invece, e godibile per ogni fisiologia discretamente sadica (non ci può essere critica scientifica, pretende Gulizza, senza una vivace disposizione al sadismo traspositivo) il roco e fragoroso Ungaretti, uomo di penna più che di pena, e di penna arrabbiata. Ha dichiarato, spiccio spiccio, con candida spudoratezza, che in Italia, ormai, sono rimasti solo due poeti veri, e viventi, lui e Montale. Alla buonora! Ci voleva un parlachiaro! Questo poetuccio fortunato e piroettante, che vale sì e no la metà del pur non immenso Quasimodo, non ha digerito ancora quel premio Nobel del 1959 al suo diretto rivale. E son passati cinque anni. Ecco, insomma, un altro magnifico soggetto di studio per un’indagine di critica fisiologica alla Gulizza. Non si troverebbe un riscontro a questa indisciplinata animosità diretta nella produzione del poeta ruggente? Se ne parlava l’altro giorno con Ciaccò: lui fedele al Verbo del Maestro, io esitante e interessato.

Leònida, tutto in bianco, dalla chioma al vestito, ha ricordato quattro illustri scomparsi che avevano avuto a che fare col Premio Viareggio. Tra essi, Peppino Ravegnani, suo caro amico e riconoscente sponsor, autore di un lusinghiero Répaci controluce (che sto centellinando per una prossima recensione. Anzi, a questi lumi di fatica, una maxi-recensione da Gazzettino d. g.). Il fluviale Rupe ha pure ringraziato pubblicamente Gabriella Sobrino, sua segretaria (e non so che altro).

Ieri ho spedito a Répaci, e alla editrice Nuova Accademia, che me lo aveva mandato su segnalazione dell’autore, la mia recensione alla sua Calabria grande e amara. Il mio articolo è apparso, il 21 agosto, sulla Gazzetta d. S., col titolo, facile ma azzeccato, Calabria primo amore. E stato “purgato” di alcune frasi di Répaci assai vere, ma anche assai aspre per la coscienza moderata di quel cosmo variamente bigotto. Dirette contro la Santa Madre Chiesa, sempre intoccabile, anche dopo l’ultimo grande macello mondiale della Seconda guerra mondiale, della shoah e dell’altro infernale bendiddio che nega ogni dio. Amen. Con tanti ossequi alla signora Borsino, moglie del proprietario della Gazzetta e piissima donna, incapace di tollerare il benché minimo soffio d’irriverenza verso la Religione e la sua Santissima custode in terra.


12 settembre


Sul Gazzettino di oggi è uscito il mio articolo dal titolo tranchant: Goldwater e la crociata del diavolo. E’, anche stavolta, in apertura. Ecco l’incipit: “E’ innegabile una certa somiglianza di tono tra l’atteggiamento elettorale di Goldwater e quello tenuto a suo tempo da Eisenhower. La somiglianza salta all’occhio, soprattutto, nelle dichiarazioni di politica estera. Nel 1952 Eisenhower prometteva di riportare il comunismo nei suoi ‘confini naturali’. Era la cosiddetta politica del roll back e veniva enfaticamente contrapposta a quella del containement seguita da Truman. I fatti dimostrarono, pero, che il roll back era soltanto una formila verbale, esposta, per di più, a una ridicola parentela lessicale con un notissimo ballo scapigliato di gioventù bruciacchiata. Ebbene, c’è oggi chi, cogliendo quella somiglianza, ritiene, ottimisticamente, che la baldanza di Goldwater, in caso di elezione, si rivelerebbe identica a quella di Eisenhower e di Foster Dulles. Luigi Salvatorelli, per fare un esempio illustre, in un recente editoriale (La Stampa, 29 luglio) trae proprio la conclusione sopraddetta.” L’articolo procede sviluppando questa lineare sequenza: dal 29 luglio sono accaduti fatti gravi, che forse hanno modificato, magari in parte, le convinzioni di Salvatorelli. Gli Stati Uniti sono una realtà antropologica complessa, piena di problemi irrisolti. Tra questi, oltre il vecchio razzismo negrofobo, si attesta sempre meglio (o peggio, dato il genere ) una mentalità dicotomica radicale. Goldwater la esprime al livello di guardia. Questi rozzi semplificatori vedono il mondo nettamente diviso in due parti irriducibilmente contrapposte. Naturalmente, loro stanno dalla parte giusta, sono il Bene, gli altri sono senz’altro la parte sbagliata, il male. Siamo, insomma, all’assolutezza metafisica, alla rigidezza del dogma religioso. E qui s’annida il veleno: la mentalità metafisica si sottrae alla logica delle verifiche, rilutta alla pazienza della ricerca empirica. E dunque del confronto possibilista, del dialogo disponibile alle correzioini suggerite dagli eventi e dal minor male. La semplificazione rimuovente riesce gratificante ai portatori di quella forma mentis (Gulizza dice senz’altro fisiologia), li carica di anfetamine e adrenalina. Perciò questi rẻvenants dell’era giurassica sono aperti a qualsiasi avventura ordinata al trionfo della Buona Causa: in fattispecie, il Bene si schiude in un bel mazzolino di maiuscole: Libertà, Democrazia, Libera iniziativa e liberissimno Mercato. Il male, per contro, si può condensare in una sola parola: comunismo. Una parola, però, gonfia di veleni: Tirannide, Servitù, Anticapitalismo bellicoso, eccetera. Senza sfumature né variazioni.

Se questa “lettura” dell’America è valida, niente si può escludere: nemmeno una conflitto nucleare. C’è della gente alto-locata, negli States, che è convinta di poter sopravvivere a un conflitto così estremo. Probabilmente, le frange più dommatiche di questo estremismo tendenzialmente autolesionistico, non arretrebbero nemmeno davanti al rischio di una strage universale se la ritenessero utile alla gloria del “Bene”. Scrivo, nell’articolo: “Questa assolutezza importa la radicale subordinazione di ogni valore a se stessa, al proprio trionfo: si tratti di idee o di uomini in carne ed ossa; di individui o di popoli: del mondo intero, se necessario. Una guerra di sterminio non sarebbe sacrificio impossibile per il trionfo di tanto moloch. L’immane messe di sangue che conseguirebbe il trionfo dell’Idea non è peso insopportabile per le spalle dei credenti in questa divinità stravolta: il paradiso dei Cieli, o quello della Storia, riscatterà le atrocità e le sofferenze del Secolo”. Ed ecco alcune dichiarazioni del senatore repubblicano che stillano il veleno qui sottinteso: “Tra la democrazia e il comunismo la coesistenza è impossibile. Guerra fredda o calda, noi siamo in guerra contro i sovietici. Sono per la rottura di tutte le relazioni con l’Urss e per moltiplicare gli sforzi allo scopo di liberare dal giogo sovietico i Paesi dell’Est europeo”. Ma la distensione, la coesistenza pacifica? Contano zero: Stalin o Kruscev, questo o quello per me pari sono. Ma le divergenze tra Urss e Cina? L’ispirato non ha esitazioni: “Sono divergenze sul modo migliore per sotterrarci. Lentamente, come vogliono i russi, o in un sol colpo come vogliono i cinesi.” Alla domanda se sia favorevole all’uso di atomiche nel Vietnam il funesto cow-boy texano esita ancora meno: “In maniera limitata, per far uscire il nemico dalla sua tana, sì”. Fidel Castro? Stesso tipo di risposta: “Niente coesistenza con lui. Noi abbiamo i mezzi per mettere fine al suo regime”. Evidente preferenza del rude vaccaro: Batista, tiranno peggiore, nel suo piccolo, di molti Stalin, sadico torturatore di avversari e castratore di peones dissidenti, è sempre meglio del comunista Castro che lo ha cacciato. Il primo, stava con i miliardari americani, il secondo non li ama. La scelta è facile. Moderazione? Roba per monaci, noi guerrieri yankee scegliamo il virile estremismo: “La moderazione al servizio della giustizia non è una virtù. L’estremismo al servizio della Libertà non è un vizio […] Sì, sono un estremista al servizio della libertà e della giustizia.” Le sue preferenze sono per “una politica estera sull’orlo della guerra”. Niente mediazione e compromessi: fare la voce grossa, sempre: forse basterebbe a impaurire il Cremlino. E se no, tanto peggio: all’attacco.

C’è bisogno di essere più chiari? Un tipo simile garantirebbe contro uno scivolone catastrofico? Intanto i fatti recenti e meno recenti sono segnali poco favorevoli per qualsiasi ottimismo: il fallito sbarco di cubani anticastristi alla Baia dei Porci, con l’umiliazione dei complici americani (1962), l’assassinio del presidente John Kennedy (1963), il fresco incidente del Tonchino, l’inasprirsi del conflitto razzista negli Usa, la Palestina sempre sotto pressione della spavalda aggressività israeliana; e quant’altro. C’è da sperare che, almeno, non sia eletto il cow-boy che disprezza la cultura e “affitta” (così afferma, vantandosi della propria ignoranza) gli intellettuali quando gli servono. Dopo tutto, teste pensanti ce ne sono ancora fra i capi in soglio e i virtuali in itinere di quella metà del mondo.

*

E adesso una pulce di notizia che vellica l’orecchio: stranamente, il mio nome s’è perso per strada: non c’è, non figura, né sotto il titolo né in calce al totale del lungo articolo. Una distrazione, un incidente di percorso? Così ero incline a credere, io. Poi un amico di peso, mi insinua un mezzo sospetto: l’articolo gli è piaciuto tanto, al direttore, che ha finto la dimenticanza, la svista. Accusandone, no?, redattori e tipografi. Possibile? Non senza irritazione, ho segnalato la macula all’incriminato direttore Tiziano Voti, naturalmente, confermandogli la mia fiducia e stima. Lui si scusa, si meraviglia, impreca contro i distratti collaboratori eccetera. Rimedierà, chiarendo al prossimo numero del settimanale. Vedremo.

sabato 6 dicembre 2008

Susanna frammento quattro


21 agosto, ore 23,30

Giornata intensa, oggi, Stamane sono stato al mare (frazione cittadina del Faro) con mia moglie. Nel pomeriggio, alle 17, ho ricevuto una telefonata dal prof. Rama, ritornato a Liotria dalla capitale, dove ha una seconda dimora (un doppio appartamento condominiale). Alle 18 ero nella sua casa di Liotria, via Contea 36. Vi ho trascorso quasi due ore, in piacevole conversazione, spaziante per decine di argomenti: letterari e di relazioni umane (in quel d’Accademia). Ha accennato, tra l’altro, alla carriera troncata del suo amico e collega Gulizza. Partito col vento in poppa, costui è stato bloccato alla libera docenza. Eziologia di tanto accanimento, giudizi controcorrente su idoli del Parnaso di ieri e di oggi. La disinibita demolizione di troppi contemporanei, critici e narratori, in vari saggi specifici, ne ha scatenato la furibonda reazione. A una prima sventagliata di critiche negative seguì un silenzio polare, così vasto e plurale, da far pensare a una vera e propria “congiura del silenzio”. Solo da critici non coinvolti nelle sue analisi severe, anche se lontanissimi dalle sue idee di ateo riflessivo, ricevette segnalazioni di meditato consenso, con lodi particolari per la sua indipendenza di giudizio: è il caso di un autorevole gesuita. Da allora, riferisce Rama, il povero Gulizza è rimasto un libero docente, e un incaricato annuale protetto da un paio di amici esterni al coro dei silenti pugnalatori. Il riverbero dell’avversione corale si è fatto sentire anche sulle nuove edizioni delle sue precedenti opere, tra le quali una Storia della letteratura italiana a suo tempo apprezzata, incidentalmente, da Benedetto Croce. Rama sembra sinceramente dispiaciuto di questa persecuzione, anche se non riesce a reprimere un sospiro di rammarico verso il “benedett’uomo”, che avrebbe potuto essere un tantino più cauto, almeno fino al conseguimento della cattedra. Ma per concludere, poi, che molto probabilmente non gli sarebbe bastato, non essendo, Gulizza, un lecchino accodato a nessun “barone”. Infine, aggiunge che la svolta biologistica (così definisce il Pantrofismo dell’amico) lo ha isolato ancor di più (se mai fosse possibile). Quando stavo per congedarmi da Rama, una telefonata da Gulizza offre l’occasione all’ospite di informarlo della mia presenza. Me lo passa e lui mi invita a casa sua, “se non ho impegni cogenti”. Prometto di andare a trovarlo: da casa sua telefonerò a Rina che ritarderò un po’per la cena.
E così, uscendo dalla dimora di Rama, sono andato a trovare Gulizza, che abita in una via del centro cittadino. Anche qui, rimpatriata, ricordi, impegni di lavori prossimi e sollecitazioni non nuove contro la mia (presunta?) pigrizia.
Mi ha regalato un suo volume, che non possedevo: una raccolta di saggi (più o meno sintetici); titolo Rapsodia romantica: scrittori e poeti francesi. E un suo recente articolo apparso sul quotidiano di Liotria, La Sicania. Domani dovrà recarsi a Zancle per lezioni all’Università, dove i pochissimi amici gli hanno procurato un incarico per quest’anno accademico; e poi a Villa Jonica per il Premio Calamagna (fa parte della giuria). Gulizza ha due figli, una bella ragazza bionda (di ventiquattro anni) e un ragazzo (venti), entrambi studenti universitari; la prima prossima alla laurea in filosofia, il secondo al primo anno di legge. Prima di ricevere la telefonata stavo per spedirgli, a Roma, un bustone con tre articoli: tra cui una recensione severa (che dice di voler ospitare nella sua rivista) al D’Annunzio di Curzia Fernari. Un saggio, questo, pieno di adorazione imbambolata per l’Idolo, e di autentici strafalcioni, anche lessicali e sintattici. Come mai il prefatore Quasimodo non li ha eliminati? Non avrà letto con attenzione il “manoscritto”. Gli altri due, glieli sottopongo per giudizi e suggerimenti.
*
Il telegiornale della notte ha dato la “dolorosa notizia” della morte di Togliatti. Ne ha parlato per un buon quarto d’ora, tracciandone un profilo politico e biografico. Un fatto tutt’altro che usuale, ma consentito dal clima politico di questi ultimi due anni, agitato dai tentativi di spostare moderatamente a sinistra l’orientamento del governo. In altri tempi, questa morte non avrebbe impegnato il notiziario per più di tre minuti, e chissà con quali riserve (più o meno contorte) sull’ispirazione democratica del leader comunista. Immagino, insieme alla gioia per la morte del nemico n.1, il disappunto dei democristiani più bigotti, e soprattutto dei fascisti, per tanto riguardo. La rievocazione storico-biografica mi ha commosso: una vita di battaglie, fede ideologica, illusioni, delusioni, tenacia. E qualche rospo indigesto da digerire comunque, per “etica della responsabilità” e priorità della Causa. Telegrammi di condoglianze da varie parti: dal presidente supplente, Merzagora, da Moro, dal presidente della Camera, dal segretario Dc... La morte fa tacere rivalità e rancori, onorando l’umanità e l’ipocrisia insieme. “La sacra maestà della morte”: è un’espressione che si è sentita stasera e si sentirà ancora nei prossimi giorni, elevata a promotrice del “cordoglio unanime e sincero” per il “grande estinto”. Si è ricordato anche l’“insano attentato” del ‘48 e la saggezza del ferito nel frenare la rabbia dei compagni pronti al peggio. “Merito” di Yalta e dell’altra saggezza: quella predatorio-staliniana.
Qualche dubbio su quella saggezza esala dalla gratitudine capovolta del moderatismo alto e medio borghese, confindustriale e vaticanesco, nonché, ovviamente, ligio ai suggerimenti del grande Alleato-padrone d’oltre oceano. Da quel ’48 che regalò alla Dc la strepitosa vittoria elettorale la storia politico-economica dell’Italia è stata tutto un regredire delle classi operaie e contadine a vantaggio della grande e media (e poi anche piccola) industria, della finanza speculativa, del commercio padronale. I recenti sforzi di migliorare le condizioni di vita dei ceti poveri sono, peraltro, osteggiati da un vasto sbarramento variamente conservatore, che ne teme derive populiste incontrollabili. Ma certo, una sollevazione rivoluzionaria non avrebbe avuto nel suo cielo che l’esito greco. E tuttavia la tentazione di ipotizzare altri scenari insiste.
Quel ’48, anno della svolta moderata o centrista, fu un momento di scontri all’ultimo sangue politico: i famigerati comitati civici inventati dal capo dell’Azione Cattolica, Luigi Gedda, non badarono a mezzi nell’asperrima competizione: deformazione sistematica della realtà, “mostrificazione” del nemico di classe, minacce di inferni e altra punizione divina per chi avesse votato contro la democrazia la religione la civiltà e via strombettando. E dato che nel periodo della campagna elettorale, mentre le madonne d’Italia peregrinavano tra le case dei buoni cattolici (figurarsi un rifiuto!) per una santa notte di preghiera propiziatrice, il compagno Palmiro si fece venire la bella idea di rompere con la legittima moglie e stabilizzare la sua relazione con Nilde Jotti, la canea cattolica si scatenò contro i distruttori della famiglia, i dissacratori del sacro vincolo indissolubile. E giù dai pulpiti valanghe di improperi minacce previsioni fosche nel caso di una vittoria comunista (il famoso Fronte popolare tra Pci e Partito socialista); e altra artiglieria. Che, come non bastasse tanto aggressivo affannarsi, venne potenziata da una misura estrema, anzi di estrema indecenza: la minaccia di scomunica per coloro che avessero votato comunista, e perfino per chi non denunciava in confessione mariti e parenti di quel luciferino colore.
Tornando a quel momento drammatico, non si può non ricordare come il “vento del Nord” avesse risposto all’attentato contro Togliatti con una mobilitazione strepitosa e pronta a tutto: si arrivò a sequestrare il patron politico-amministrativo della Fiat, Valletta. Un assaggio di “primavera dei popoli” che ai miei sedici anni non capii, ma che mi appassionò in seguito, da giovane insegnante di storia. Ricordo la sensazione buia che mi suscitò un corteo di operai marcianti nella sera di quella primavera malata alla luce dei lampioni cantando Bandiera rossa e sventolandone una: vi sentii puzza di invasione straniera. Ero ancora dentro l’innocenza del plagio risorgimentale orchestrato dalla scuola di Stato, dalle elementari ai licei. E orientato dal contagio dell’Azione cattolica.
Né mancarono le zuffe crudeli in quel molteplice confronto con le forze del disordine capitalistico che, dopo la vittoria del 18 aprile, avevano cacciato i social-comunisti dal governo, con la benedizione della Santa Madre e della santissima Casa-madre del Libero mercato. Non furono pochi i morti dall’una e dall’altra parte: la polizia di Mario Scelba, ministro degli Interni, siciliano di ispirazione cripto-fascista e anticomunista teologale, picchiava forte. Ebbi il privilegio di provarlo sulla mia pelle: proiettato a Roma, quale vincitore di un viaggio-premio dell’Azione Cattolica (ero riuscito il più bravo ripetitore delle verità catechistiche acculturate!), giravo solitario per la città in uno dei tempi disponibili per l’uso personale; una dimostrazione popolare era in corso contro la svolta centrista e fieramente anticomunista imposta dal binomio Vaticano-Casa Bianca dopo il viaggio invernale (e penitenziale) di De Gasperi a Washington (gennaio ’47). D’un tratto mi trovai nel vortice del “conflitto”, una camionetta di celerini mi si avventò quasi direttamente contro, mentre portavo a spasso l’euforia adolescente del primo viaggio “continentale” (per giunta gratis e guadagnato dai miei meriti). Pochi secondi di caos cinetico, il mio balzo sul marciapiede e quella diavola che vi salta su come se mi puntasse a bersaglio: la evito saltando lateralmente e schiacciandomi contro il muro di un palazzo. A mente fredda, esclusi che ci fosse intenzione omicida in quell’assurdo “attacco”, ma restò, e resta, l’impressione di averla scampata per un pelo: quel figlio di buona donna, quel proletario plagiato (quasi certamente un meridionale) rischiò di travolgermi per divertirsi un po’ con l’azzardo terroristico. Avevo capito il senso di certe denunce sulle violenze dei celerini.
Ancora cartoline da alunne calamagnesi. Quella di S., alunna zefirese promossa in terza, è la preferita: né solo per il suo sincero affetto filiale.

22 agosto, ore 23,30

Sono andato a cercare fogli di vecchi giornali che parlano dell’attentato a Togliatti riportando anche i comunicati Ansa:
Roma, 14 luglio – Stamane, verso le ore 11,30, mentre l’onorevole Togliatti usciva dalla porta del palazzo di Motecitorio, in compagnia dell’on. Leonilde Jotti, veniva affrontato da un giovane, che poi si è appreso essere tale Antonio Pallante, studente universitario venticinquenne, il quale gli sparava contro alcuni colpi di rivoltella – sembra quattro,– tre dei quali lo raggiungevano in varie parti della regione toracica. (comunicato Ansa, ore 12)
Roma 14 luglio – Il ministro dell’interno, on. Scelba, ha diramato tassative disposizioni a tutti i prefetti per impedire qualsiasi manifestazione, di qualunque genere (ib. Ore 13.05)
Roma, 14 luglio – la Camera del lavoro ha impartito disposizioni per la sospensione immediata di ogni attività lavorativa a Roma (ib. ore 14.30)
Precauzioni e misure inefficaci: le dimostrazioni ci furono, e gli incidenti non mancarono: provocati spesso più dalla durezza della “prevenzione” celerina che dalla rabbia dei dimostranti. I comunicati dell’Ansa mutano lessico e tensione emotiva:
Roma, 14 luglio – Incidenti a Roma, morti a Napoli, Livorno e Genova.– Incidenti si sono verificati a Roma, nel corso della manifestazione di protesta per l’attentato a Togliatti. Sin dalle prime ore del pomeriggio masse di dimostranti sono andate confluendo verso piazza Colonna. I manifestanti che tentavano di invadere Palazzo Chigi sono stati respinti dalle forze di polizia che, sotto la pressione della folla, hanno esploso alcuni colpi di arma da fuoco in aria: altri gruppi hanno disselciato in alcuni punti il manto stradale […] fatto barricate sotto la Galleria. Si sono avuti feriti e contusi tra i dimostranti e agenti di polizia. Alle ore 18 la massa si è concentrata in piazza Colonna…” (ib. ore 2)
A Napoli una grande massa di dimostranti giungeva in piazza Dante dove però veniva affrontata dalla “Celere” che cercava di disperderla. I dimostranti reagivano. Durante i tafferugli la forza pubblica sparava alcuni colpi s’arma da fuoco. Si deplorano due morti e un ferito grave[...]

I comunicati Ansa si fanno sempre più drammatici, ma non cambiano stile: la forza pubblica spara sempre in alto, e non si capisce come fa a uccidere e ferire. Scelba accusa i comunisti di “strumentalizzare lo sciopero per una insurrezione civile”, soffiando sul fuoco. Le “agenzie” s’ingolfano di incidenti e vittime, la tensione cresce ovunque. Una nota di colore, per così dire, marca quella del 15 luglio, là dove segnala l’occupazione della Fiat e il sequestro di Valletta: L’esercito vuole intervenire ma con grande senso di responsabilità Valletta rifiuta questa soluzione traumatica ritenuta quasi irresponsabile che potrebbe portare a conseguenze disastrose. / Esemplare il sangue freddo di Valletta, che nonostante il sequestro, rivolgendosi ai suoi dieci carcerieri, li apostrofa con un “intanto andate a lavorare altrimenti domani vi licenzio tutti e dieci”

Qual è stato il contributo di Bartali nel dirottare la crescente tensione verso la gioia euforica per la vittoria al Tour de France? Difficile “quantificare”, ma è evidente un suo ruolo incisivo: a Milano, piazza Duomo è “una polveriera che può esplodere da un momento all’altro”, quando, verso le 17,15 le radio dei bar diffondono la notizia che Gino Bartali sta dominando la corsa nelle tappe alpine, recuperando, “di collo in collo”, ben 22 minuti di distacco dalla “Maglia Gialla”: si profila una vittoria a dieci anni da quella “nostalgica” del ’38 e la eteroclita folla si compatta in quella speranza che matura in quasi certezza. E vittoria sarà, con sedative conseguenze sui bollori rivoltosi e accensioni anfetaminiche nella gioia del successo nazionale che vola al di sopra della conflittualità politica. E pensare che la squadra italiana aveva deciso di ritirarsi dalla gara e rientrare in Italia dopo l’annuncio dell’attentato. Fortuna che le teste fredde non mancano: quelle del momento seppero cogliere l’occasione. De Gasperi telefonò il suo “vai e vinci!” a Bartali, il papa liberò la colomba della sua benedizione verso il cielo, il credente Bartali ne uscì galvanizzato. E realizzò quel prodigio di tappe sempre primo e in fine la “miracolosa” vittoria: “In piazza Duomo (ma anche in tutte le altre città d’Italia) comunisti, democristiani e poliziotti si abbracciarono tutti in delirio. Bartali aveva stracciato Bobet.” E qualcuno postillò: “Bartali, se proprio non aveva salvato l’Italia, certamente fece un gran favore a Scelba.” Col senno di poi, possiamo sospirare un forse: non è mai piacevole un bagno di sangue. Né facile da controllare nelle inevitabili code drammatiche.
Il quale Scelba (non va dimenticato) era ben colui che aveva dichiarato: “L’avvenire ci prepara giorni difficili. Non nutro la minima fiducia che gli avversari rinuncino alla violenza per scardinare con la forza ciò di cui non riescono ad avere ragione con il metodo democratico. Ma se il momento dovesse giungere, noi useremo la forza dello Stato contro ogni tentativo di violenza.” Il pessimismo del ministro si dimostrò infondato, anche se la molteplice e appassionata reazione all’attentato costò una ventina di morti e alcune centinaia di feriti. Le parole del leader comunista al suo risveglio, dopo il delicato intervento chirurgico del professor Valdoni, furono, sostanzialmente, ascoltate: “State calmi, non perdete la testa.” Yalta aveva vinto e scongiurato il bagno di sangue.
Nell’intreccio degli eventi, la droga religiosa definì drasticamente il dualismo Bartali-Coppi: il primo, benedetto dal papa, è lo sportivo perfetto, anzi, con suggello papale, il “perfetto atleta cristiano”, il secondo sarà il “pubblico peccatore”, il “rovina famiglie”, e la sua amante, la famosa Dama Bianca, subirà il ludibrio dell’accusa spietata e del carcare per “flagranza di adulterio”. Scrisse un giornalista: “Si volle demolire il Coppi di sinistra, ateo, e l’Italia si spaccò in due tifoserie; sportive, ma anche in un fanatismo ideologico; irrazionale, ma ben strumentalizzato”
Raccogliendo gli appunti del ’48 mi cade l’occhio sopra una sortita comiziale di “von Gaspar” (vale a dire l’ex deputato al Parlamento austriaco Alcide De Gasperi secondo gli avversari) nell’imminenza delle “fatali” elezioni del 18 aprile ’48: “Io non vorrei vedere quel giorno in cui al governo andassero coloro i quali si sono compromessi in una lotta contro l’America; non vorrei vedere quel giorno perché temerei che il popolo italiano, attendendo dalla riva le navi cariche di carbone e di grano, le vedrebbe volger la prora verso altri lidi…” Un concreto analogon dell’argomento invincibile dei filosofi delle medievali Scholae. Argomento cucinato in tutte le salse di tutte le cucine socio-politiche: dalla stampa moderata ai pulpiti. Con speziature varie, ora forti e cupe di minacce orripilanti intrinsiche a una (dio liberi) vittoria social-comunista; ora suadenti e sorridenti, come queste rassicurazioni di don Alcide: “Ho detto e ripeto agli operai: non avete nulla da temere, avete molto da sperare nella vittoria della Democrazia Cristiana, perché non rappresentiamo privilegi, non rappresentiamo la reazione, ma rappresentiamo il progresso e l’evoluzione delle classi operaie… Alla borghesia agiata io dico: non siate sordi, non siate ostinati, non tenete il capo rivolto all’indietro; il mondo cammina, il lavoro chiede la sua parte e l’avrà, riconoscetelo, collaborate anche con il vostro sacrificio…” Che peccato, la sordità della maggiore porzione di quella borghesia agiata.

mercoledì 3 dicembre 2008

Susanna frammento tre

7 agosto

La quale bellicosa vocazione, semplice modalità della fisiologia belluina della specie, trova conferma largamente plurale e quotidiana in accadimenti sbalorditivi. A pagina 9 di questo giornale si legge (e del resto lo sapevamo dal telegiornale di ieri sera – e dai precedenti dei mesi scorsi): Ondata di violenza minorile, si invocano severe misure. Tre giorni di scontri in Inghilterra fra bande rivali di teppisti: due morti. “Mods” e “Rockers”, (4 mila giovani in tutto) si danno battaglia sulla spiaggia di Hastings: risse selvagge con sbarre di ferro, mattoni, coltelli, cinture con borche metalliche. Altri combattimenti a Brighton e Great Yarmaouth. Due ragazzi (di 18 e 15 anni) trovati cadaveri, con ferite e lesioni. Tre agenti all’ospedale. La polizia invia rinforzi in aereo.

Sembra il parto inverosimile di fantasie malate ed è cruda realtà di oggi, di questi primi anni Sessanta pieni di cultura e civiltà teoriche, semplici fatti di cronaca. Hastings, poi: i piccoli avvenimenti dei nostri giorni non copriranno di oblio Guglielmo il Conquistatore e i suoi tagliagole normanni; ma il battesimo del sangue sarà il viatico per un’associazione onesta dei due complessi évenementiels su quel glorioso nome. La Battaglia di Hastings segnò, quasi novecento anni fa, nel 1066, il destino dell’Inghilterra nel suo passare dal dominio sassone a quello normanno. E viva la memoria che lega eventi lontani negli stessi spazi. E spazi distinti nello stesso tipo di eventi.

Ancora cartoline dalle care studentesse della mia classe IV sez. E. Da vari luoghi di vacanza e dai rispettivi paesi. Variamente illustrate e debitamente vibranti di “affettuosi” o “distinti” saluti, secondo il sensorio e l’ardire della mittente. Taluna salda i due aggettivi divaricati: “Distinti e affettuosi saluti a lei e famiglia”. Firmata, Susanna Castrato (ma che brutto cognome!).

8 agosto

Torno, quaderno, al tema “bellicosità giovanile teppistica in England”. Che cosa spinge questi ragazzi a tanta volenterosa e così assurda violenza? L’infelicità, la noia, la carenza di ordine morale nelle famiglie, la mancanza di affetto, l’assenza dei genitori troppo assorbiti dai tempi del lavoro? Tra queste risposte possibili va caracollando l’intellighentsia sociologica e psicologica, sparando parole grosse e diagnosi monche, reticenti, non radicali. L’etologia contemporanea suggerisce di frugare tra le cellule organiche e chiedere alla loro intrinseca aggressività strutturale una luce più remota a illuminazione dei fatti più recenti. Se l’aggressività non fosse una propensione radicale, anzi una necessità biologica universale, come farebbero le condizioni socio-ambientali a scatenarla? La creerebbero, secondo quei valentuomini. Ma la cosa sa di magia: “cause seconde” e concause sarebbero capaci di generare un quid assolutamente assente nelle condizioni componibili di un contesto esplicativo. Saremmo a un emergentismo miracolistico. L’aggressività deve essere presupposta ad ogni spiegazione socio-psicologica – obiettano gli etologi. E hanno ragione. Ma anche loro si fermano al di qua della possibile condizione originaria del bios. E qui sembra assumere autorità la teoria del Gulizza: a che pro l’aggressività, se non radicata nella struttura trofica come totalità germinale del fenomeno vivente? Cioè, non più soltanto come mezzo di acquisizione del cibo, ma come esercizio globale dell’esperienza fondante, quella nutritiva: in una parola, la fame. Come dire: mangiare ed esercitare violenza sono una sola cosa. Un contesto scandibile, bensì, in fasi e momenti distinti, ma olisticamente unitario nel suo processo.

Si parla, allora, di regressione a stadi anteriori alla sublimazione morale. E la domanda si sposta: cosa fa regredire il ragazzo? Si tira in ballo una (o più) di quelle cause seconde, che effettivamente possono agire da catalizzatori. Ma solo questo: catalizzatori della regressione a una funzione ben più lontana delle cause seconde. E forse converrebbe parlare piuttosto di scarsa sublimazione (o progressione traspositiva verso forme ritualizzate e incruente della carica aggressiva fisiologica) che di regressione tout court. Oppure combinare le due cose. La domanda si sposta, allora, su questa carenza di trasposizione: donde viene? E qui possono giocare un ruolo significativo le concause catalizzanti e risveglianti: per esempio, la scarsa presenza affettiva dei genitori, con relativa ribelle insofferenza verso di loro: la loro assenza, i valori pretesi e traditi, l’ipocrisia che ne esala, a loro giudizio. Donde la necessità di violenza come esternazione di quella rivolta non consumabile, in linea generale, contro il vero bersaglio.

Ma il monito a risalire verso le origini citologiche ritorna anche in questo assetto esplicativo, che valorizza come eccitatori le concause socio–psicologiche: perché non tutti i ragazzi manifestano la stessa aggressività? Alcuni sono lontani per incapacità nativa di arruolarsi nei gruppi violenti, altri, all’interno degli stessi gruppi, benché ugualmente stimolati mostrano una sensibile variabilità dell’inclinazione violenta. Evidentemente, dirà il sociologo, dipende dalle famiglie, dalle loro capacità educative. Non meno evidentemente riteniamo di dovere disturbare, chiamandolo in causa, il dna individuale (e dunque anche il familiare). Che tutto filtra e dimensiona: ambiente, cultura, esempi, occasioni e contingenze varie.

Il ping pong continua. Tornando alla sociologia. La famiglia: certo che ha gravi responsabilità: l’eccesso di libertà concessa ai ragazzi (o piuttosto imposta?) dall’assenza dei genitori assorbiti nel lavoro (e magari, in parte, nella vita sociale e socio-edonistica) giocherà un suo ruolo nel lasciarli in balia del branco. E qui l’effetto contagio si fa avanti, a favorire quella regressione. O nello sfruttare quella carenza di trasposizione eticizzante di cui soffrono certe (moltissime, la stragrande maggioranze) famiglie e comunità. Chi lo nega? C’è una meccanica, o logica, del branco che riesce a prevalere anche sulla eventuale timidezza e mitezza del singolo. Ma sempre nel gioco del più e del meno: un ragazzo sfugge alla pressione mimetica e al ricatto del giudizio svalutante isolandosi dal branco; un altro non riesce a vincere la minaccia della svalutazione, e vi resta invischiato. E così via per una gamma indefinita di possibilità e soluzioni individuali, tutte condizionabili socialmente, ma altrettanto incollate al primo dittatore interno: il dna. A sua volta incardinato sul senso primordiale e universale della vita, la nutrizione, impossibile senza una qualche forma di violenza sull’ “alterità” (animali, piante, uomini...) suscettibile di ingestione untritizia.

10 agosto

L’argomento spinge ancora: altre righe mi tentano sulla presenza attiva delle ragazze agli scontri. Attiva, appunto, e grintosamente partecipe: mica da semplici spettatrici, magari eccitate. Queste figlie di mamma si gettano nella mischia come gattine infuriate: non si limitano ad aizzare i loro amichetti, ma colpiscono, partecipano alla “battaglia” come possono, con i loro mezzi. Che suppongo siano più naturali che artificiali. Comunque, si azzuffano anche loro. La cosa è parecchio eccitante. Non solo per gli attori in campo e le stesse attrici-gatte; anche per l’osservatore. Il quale ci legge l’evidenza dell’aggressività femminile e della smentita al mito romantico della donna tutta mitezza e disponibilità al potere maschile. Ma è stato mai creduto, poi, questo mito? Temo, mai. Nemmeno quando visse la florida stagione della poesia provenzale, del dolce stilnovo e della donna angelicata. O del romanticismo “lunare”.

Ma c’è di più in questa esperienza. Gulizza vi troverebbe la prova della natura originariamente fagica dell’eros. Non mi pare dubbio che le ragazzine-gatte sperimentino un sapore erotico nell’eccitazione della lotta e nelle sue concomitanze tattili e muscolari. Vuoi mettere le insipide occasioni di deboli contatti nel sorbire passeggiando un gelato insieme al compagnuccio con le mille chances, che offre la lotta, di contatti molteplici in strette e abbracci e saporite botte? Sì, l’Escluso vi troverebbe conferme alla sua teoria dell’eros come diramazione traspositiva del primum movens fagico, che, secondo lui, l’omicidio a sfondo sessuale mostrerebbe in modo drastico. E che talvolta finisce con la materiale ingestione cannibalica, più o meno parcellare, del partner assassinato: vedi caso recente dello studente giapponese che uccide l’amica sciatrice e ne mangia pezzi debitamente riposti in frigo. Allora si potrebbe paragonare la lotta promiscua a una sorta di orgia regressiva appena frenata nell’esito sessuale e accentuata nella violenza agonale. Intanto il fenomeno s’impone all’attenzione sempre più: è il terzo episodio di violenza sociale “orgiastica” in pochi mesi, dalla Pasqua in qua.

Hastings, prurito di una domanda: scelta del tutto casuale o ispirazione di qualche capetto a conoscenza della celebre battaglia? Ipotesi, quest’ultima, alquanto peregrina, in un ambiente giovanile urbano così alieno dalla cultura, quella seria, e così incline a musica leggera e rock. Ma tant’è.

*

Sfoglio di nuovo lo stesso giornale. Ancora morti accidentali: una zingarella di due anni annegata a Milano, un’altra bimba, di tre, pure, a Venezia. Ancora: una contadina travolta da un’auto; un’altra zingara, questa giovane, trovata morta in un prato; un operaio annegato. Un’estate prodiga di sciagure, non c’è che dire. Se ampliamo il campo di osservazione, qui assai ristretto, le cifre raggiungibili sono davvero di pura prodigalità sprecona. E stiamo ignorando i focolai di guerra locale. Anche se con uno sguardo muto ma pieno di senso allo scenario che si apre nell’Estremo Oriente. E forse anche nel vicino: vuoi che, dopo la guerra del ’48 e quella del ’56, entrambe a piena vittoria israeliana, e con lo stillicidio di “incidenti” confinari, graffi palestinesi e sbrigative risposte con la stella di David, non sia in gestazione un altro splendido conflitto su vari fronti, con tanti bei morti e feriti, e riconferma della soverchiante superiorità ebraica?

Le due bambine, loro in particolare, mi si inchiodano al centro della scena memoriale. E me ne richiamano altre, nipotine, o della parentela comunque; e altre ancora. Sono il centro dello scandalo. Il ventre molle di ogni teodicea.

Transitiamo alla scienza di Ippocrate per trovare nuove benedizioni. A pagina 11 le “Cronache della medicina” offrono articoli molto interessanti. Tra i quali spicca quello del prof. Paolo Tolentino, ordinario di malattie infettive all’università di Genova, il quale ci ragguaglia su Infezioni batteriche un tempo sconosciute. Eccone un sommario: Molti germi una volta creduti non patogeni e sprovvisti di “potere invasivo”, possono invece provocare, in determinate circostanze, malattie anche gravissime. Aggrediti gli individui più deboli e i “prematuri”. Non sono belle notizie? Ad maiora, per dirla in latinorum.

Continua la polemica sollevata dal prof. Maspes per la trasmissione televisiva sull’operazione del prof. Olivecrona. Mi pare si esageri. E sia detto con tutte le giustificazioni possibili e i dovuti riguardi per l’interesse generale e le dignità offese. Come al soltio in Italia. Né, per la verità, solo da noi.

Lezioni di economia dalla Francia. La pagina 12 riprende un articolo de Le monde, autore Jean Luc: L’impossibile svalutazione della moneta italiana. L’interesse della Comunità europea comanda: frenate i prezzi, bloccate i salari, fermate le spese pubbliche, o le esportazioni italiane diventeranno troppo invadenti. E naturalmente, provocheranno “misure di ritorsione degli altri governi”. Chi fa le spese della “scienza economica” sono sempre i poveri cristi. Com’è inevitabile (e per gli avvantaggiati perfino giusto) nel sistema economico in auge e vigore nel felice Occidente. Il che segue necessariamente al difetto di analisi dei signori economisti, che si fermano a mezza altezza del problema e celano la motrice non tanto segreta del convoglio classista. Si spingessero più a fondo, troverebbero la chiave delle lamentate distorsioni: la fame scarsamente evoluta dei nostri imprenditori avidi di profitti progressivamente pingui. E perciò insensibili alle sofferenze dei ceti sacrificati a tanto progredire. Salvo, qualche elemosina mediata da sollecitazioni religiose, fra suggestione evangelica e paure trascendentali per induzione cronologica e debilitazione corporale.

Sfogliando ancora, a pagina 13 altri tre morti ci accolgono: uno studente folgorato dal frigorifero, una donna suicida dopo avere litigato col marito, un vecchio sposino settantenne. Trenta morti in un solo giorno per incidenti: l’impresa di una dimostrazione dell’esistenza di Dio per via di cronaca nera si mostra assai difficile per eccesso di materiale probatorio: meglio rinunciare. Cioè, limitarsi all’assaggio qui già offerto.

La Gazzetta dello Stretto riporta, nella pagina “Gazzetta letteraria” il testo integrale di una intervista fatta da Claudine Jardin a Carlo Cassola. Lo scrittore toscano s’è lasciato andare. Ecco alcune delle sue affermazioni, che in buona parte condivido (basta far la tara a certe iperboli polemiche).

Domanda. Da voi adesso c’è un’avanguardia letteraria.

Risposta. Si tratta di un fenomeno recente; finora questa avanguardia ha prodotto poco, ma in compenso ha fatto molto chiasso

D. E’ un po’ come in Francia.

R. La guerra fra tradizionalisti e avanguardisti è un nonsenso. Non si può discutere di stili e di linguaggi come di questioni isolate. L’abolizione della sintassi e della punteggiatura, non è fenomeno nuovo, risale a prima del 1914.

D. I giovani autori hanno generalmente un ideale politico?

R. Certamente. Essi invocano il marxismo, Kruscev... Vorrei che un giorno arrivasse Mao. Naturalmente a me danno del fascista. Ma intanto io ho vissuto la Resistenza, e loro no.

D. Può darsi che non abbiano conosciuto quell’epoca.

R. Qualcuno sì. Noi abbiamo il nostro piccolo Sartre, che si chiama Vittorini. Egli grida che il mondo capitalista è vergognoso, che i valori sono falsati. E’ assolutamente ridicolo dire queste cose a proposito dell’Italia, dove il livello di vita è considerevolmente migliorato. E’ facile oggi essere un intellettuale. Basta ripetere quattro o cinque parole alla moda.

D. Secondo te a cosa si deve il successo della Ragazza di Bube?

R. Ho raccontato i veri drammi della Resistenza, così come li ho vissuti. Per me il conflitto tra lo spirito della non violenza che ci faceva detestare la guerra e la necessità di battersi, di fare violenza era un dramma interiore... come tutti i drammi veri.

Poi Cassola dice che per lui non esiste la società, ma soltanto gli individui presi singolarmente. Aggiunge che è “ossessionato dai personaggi femminili perché non capisce nulla delle donne” (le trova “assolutamente inesplicabili”). Primato dell’individuo sulla società: è un modo di rispettare il concreto fisiologico contro le astrazioni categoriali. Utili, queste, e inevitabili, ma finché le si usa con l’occhio attento alla carnalità degli uomini vivi e reali. Le donne, un mistero impenetrabile? Aiutiamo Cassola con un monito di Goethe: “Il loro eterno ohi ahi / in un sol punto tu lo curerai”. O qualcosa del genere. Cassola non ha indagato bene quel punto. Forse lo trova troppo prosaico?

sabato 29 novembre 2008

SUSANNA Seguito. Frammento 2


3 agosto


La Gazzetta letteraria, sezione settimanale della Gazzetta dello Stretto, quotidiano zanclese, nel numero del 28 luglio, ospita il mio articolo su Mastronardi. Ciaccò lo ha sistemato bene: posizione centrale, su 4 colonne. Ma ha messo titoli di sua libera scelta e privato piacere personale: Uno scrittore che non sa ritrovarsi (occhiello) Il maestro Mastronardi è tutto da rimpiangere (titolo). Il meridionale di Vigevano, scritto per l’ottanta per cento in dialetto, offre non poche pagine felici. L’insieme è però di una sconsolante aridità (cappello e catenaccio). Insomma, Ciaccò ha accentuato le mie riserve sul nuovo Mastronardi e ha goduto di sventolarle, esagerate, sui pennoni dei suoi titoli (non tutte presenti nel mio testo le espressioni da lui usate). Poco male. Non poco, invece, nell’altra abbondanza: ben 21 refusi seminati nella mia sudata prosa. Con un picco di nonchalance nel mio cognome, deformato da una s fantasiosa dislocata davanti all’ultima lettera. Quasi un attentato. Vuoi vedere che ci sono miei nemici nel corpaccio redazionale della opulenta Gazzetta? Scherzo, naturalmente: per siffatti esiti, basta la cialtronesca pigrizia di qualche correttore di bozze, e una congrua ignoranza della lingua italiana. Eppure il gazzettone ha un ricco (relativamente alla latitudine) mercato tra la Sicania orientale e la Calamagna: potrebbe, la proprietà, tenerci un po’ di più alla correttezza linguistica.
A ripensarci, l’ipotesi dell’attentato non è poi così peregrina. Ne riparleremo. Non tutti mi vogliono bene in quel covo di vanità e servilismo plurale.
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Titolo su nove colonne nella prima pagina della Gazzetta dello Stretto: Primi risultati della ricognizione del Ranger. La superficie lunare è solida. Possibile lo sbarco dell’uomo. Davvero esaltante. A parte il titolo, che, d’amblé, farebbe supporre una mai pensata possibilità che quel suolo fosse liquido (o pasto-gassoso, come quello di Venere e Giove?). Mentre non sembra si sia neanche temuto fondatamente che potesse presentarsi come profonde masse di mobile sabbia (che è quanto quel titolo vorrebbe sottintendere). Tre grandi fotografie della superficie lunare riempiono buona parte della pagina. L’intera “sequenza” di queste foto sarebbe costata 17 miliardi di lire! E qui un altro brivido di malinconico disagio: con tanta fame e sofferenza nel mondo, sono queste le priorità del progresso?
Si andrà presto sulla luna, dunque. Un altro effetto collaterale di siffatte conquiste della scienza sul mio cervello è un certo disgusto per le civetterie dei letterati (più o meno) puri: con le loro avanguardie e retroguardie, le loro polemicucce, la suscettibilità da numi incompresi. Un tempo consideravo il letterato come il culmine della specie homo sapiens sapiens (una vecchia pretesa umanistica): da qualche anno, non più. Progredisco.

Interessante articolo-recensione di Walter Tauro su un gruppo di libri che parlano di alcuni retroscena dell’ultimo conflitto mondiale. Uno di questi, I generali del deserto, di Barnett, è tutto una requisitoria, ben documentata, contro i generali inglesi operanti, appunto, nel deserto africano. Barnett smentisce le affermazioni calunniose di Montgomery sui soldati italiani “pessimi combattenti”, presenta lo stesso Montgomery come un “pallone gonfiato”, definisce Cunningham “inetto”, Ritchie un “ottuso professionista fedele ai regolamenti quanto incapace di efficaci iniziative personali”. O’Connor e Auchnileck appaiono “i soli veramente in grado di condurre una guerra, messi tuttavia di continuo in ombra dalla prevaricante campagna pubblicitaria orchestrata da Montgomery. Al quale ultimo [continua Tauro] l’autore dedica un capitolo a parte, nel quale mette l’accento sulla natura ambigua di questo generale, che gli impedì di sfruttare a dovere la schiacciante superiorità di uomini e di mezzi e di non (sic) arrischiarsi a cogliere i frutti della vittoria, permettendo così a Rommel di organizzarsi indisturbato”.
Quest’ultimo periodo di Tauro, variamente brutto, mi suggerisce alcune (amare) considerazioni: comincia con un Al quale cui fa seguito a troppo breve distanza il cacofonico nel quale. La natura ambigua di questo generale che gli impedì di sfruttare, ecc. è una combinazione sintattica non meno brutta; ma quando a gli impedì si fa reggere la subordinata di non arrischiarsi a cogliere... siamo alla matita blu: protestano la grammatica e, più ancora, la logica stretta. E se quel permettendo non è, tecnicamente, sbagliato, resta pur sempre inelegante, mentre direi improprio quel natura ambigua messo lì a denunciare le esitazioni e rinunce del generale verso lo sconfitto nemico: non sarebbe stato più coerente un “poco intrepida”? La natura ambigua andrebbe bene per far sospettare un tradimento. Ma è questo che si vuole insinuare? Non pare plausibile.
Di questi pezzi di prosa alquanto sbracati se ne incontrano spesso negli articoli e nei libri di Tauro. E di tanti altri collaboratori delle pagine culturali. I quali, tuttavia, collaborano indisturbati, pubblicano quello che vogliono e nessuno gli rompe l’anima. Quando offro qualcosa io, almeno per la quotidiana terza pagina, affiorano spesso inconvenienti: mi fanno aspettare troppo, se mi pubblicano scaricano nello scritto un buon numero di strafalcioni, qualche volta non me lo pubblicano proprio. Le alate ragioni sarebbero quelle che l’amico Ciaccò mi illustra da sempre: io scrivo troppo difficile per una normale terza pagina, faccio articoli lunghi, scopro idee sinistrorse, sono poco prudente in materia di religione e competente (folto, anzi straripante) contesto socio-antropologico. Questi due ultimi motivi sono credibilissimi, dato quell’incanto di contesto. Per lo stile, invece, non riesco a capacitarmi: io mi sono sforzato di adeguarmi al livello medio dell’elzeviro, e sono persuaso di esserci riuscito. Il più delle volte. Riuscito, preciso, senza rinunciare a quel gusto ritmico e quel tanto di eleganza lessical-sintattica di cui sono capace (senza pretendere di essere un campione di écriture artiste e un parnassiano della prosa). Quanto all’estensione degli articoli, be’ mi sembra di essere riuscito anche in questa difficile auto-disciplina o censura che sia. So che non sono ben visto per via delle mie idee, e non ignoro che, per quanto mi sforzi di mascherarmi e costringermi, il mio pensiero, più o meno, affiora sempre. Anche quello critico, cioè la severità, in parte connaturata in parte catalizzata dalla frequentazione dei professori Rama e Gulizza. E così mi tocca vedere un Bombardi Sartani rifilare indisturbato nei suoi articoli espressioni fieramente tecniche a base di “trascendenze ontologiche”, “datità esistenziali” e simili cime verbali. E anche leggere articolesse lunghe tre colonne buone e magari con la coda del terzo o quarto di colonna: e nessuno blocca simili eccessi (e talvolta ascessi).
Ancora (lagne). Nei primi tempi della mia collaborazione riuscivo a far passare articoli piuttosto “duri”, cioè di tono saggistico: perché in seguito non mi è stato più possibile? Soppesando tutte le ragioni probabili, credo che quella ideologica sia la prevalente e decisiva  nel determinare, voglio dire, l’ostilità dei gazzettieri di peso.  A neutralizzare, o ridurre drasticamente, la quale non ci sarebbe altro che l’antidoto di un protettore autorevole. Proprio quello che mi manca. Ciaccò fa quel che può, e se mi nasconde qualche dettaglio non dovrei imputarglielo a colpa. Mi disse una volta che il direttore Camarco preferiva “passare” articoli di sicura fede, anche mediocri, anziché i miei, che pure apprezzava: quelli, non era costretto a leggerli, i miei sì; e attentamente, cioè sciupando tempo e sforzando il cervello per coglierne l’eventuale veleno ideologico da spremere via. Questa attività censoria lo stanca, e perciò capita che i miei scrittarelli siano costretti a lunghe attese (qualche volta fino a perdere attualità). Triste, ma inevitabile. Intanto Ciaccò non è più tornato sull’argomento: forse s’è convinto che io faccio del mio meglio per “emendarmi” sui due o tre fronti (ideologia, lunghezza, stile) e che ormai la situazione s’è stabilizzata e spetta a Camarco ammorbidirsi un po’ di più. Chi lo sa?
Se penso ai primi tempi, che nostalgia! In quei primi mesi su questo fanatico giornale centro-destrorso sono riuscito a far passare una serie di pezzi abbastanza eretici: un elogio di Gramsci (in polemica con fior di baroni in cattedra supercattolici), due “celebrazioni” dell’ateo Camus, un Kierkegaard polemico con la Chiesa ufficiale del suo Paese (e gli “dèi presenti”), due Sartre comunisteggianti, un Kafka anti-brodiano, cioè “irredento” e tragicamente laico. E altre cosette non prive di frizzante appeal.
Ora alla Gazzetta giacciono, di mio: due vecchi articoli (quelli che lamentavo sopra come probabili cestinati), due altri più recenti, su Aldo Capitini (e la “pietà” gesuitica) e su un ghiotto saggio intorno agli sviluppi della filosofia matematica; due recensioni. Di queste ultime, una pizzica la signora Curzia Fernari, che intanto si becca i premi letterari senza sapere scrivere; l’altra bacchetta un esaltato filosofante, che pasticcia con mitologia pagana e antropologia, religione ebraica e cristiana, fisica quantistica e biologia molecolare per sbrodarsi in un enfatico prolisso clamante salmo di mera propaganda cattolica. Poi, avrei in cantiere due altri scritti (non sarà vero che scrivo troppo?): il più avanzato è una recensione al candido Leonida Répaci, autore di una raccolta saggistica, Calabria grande e amara; l’altro è uno sfogo (ma ben documentato) su Goldwater e compagnia non bella (anzi, bellicosa).
Previsioni sul materiale in campo. Sono quasi sicuro che i primi due siano ormai “superati”. Dei successivi, quello sulla Fernari sarà in sofferenza, dato che la signora è una beniamina di don Salvatore Quasimodo, amico e pupillo del rettore Pugliatti, a sua volta in ottimi rapporti con il giornale e con Ciaccò; e dato, altresì, che la stessa autrice ha regalato il suo libro a Ciaccò con tanto di dedica. L’altro pezzo, su e contro il dottor Cusmana Calerca, l’eclettico folle, sarà sembrato, o sembrerà, troppo aspro come stroncatura a un autore zanclese. Dei due più recenti, quello su Capitini, per cautelato che sia in virtù di auto-censura obbligata, sarà apparso troppo impietoso con La pietà dei gesuiti. La recensione-esposizione su Mutamenti del pensiero matematico, dell’ottimo Meschkovskij è troppo tecnica per una comune pagina letteraria. Dell’ambo da finire e mandare, la recensione a Répaci, ad onta della severità del rupestre calabrese verso la santa Chiesa maculata, potrebbe passare, in omaggio a quel bacino di lettori gazzettari (magari con qualche taglietto o sostituzione minimale di lessico). Nessuna speranza, invece, per il Goldwater, troppo “antiamericano”, per lorsignori. Cioè, spavaldamente onesto.
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Continua la Decima rassegna cinematografica internazionale di Messina -Taormina. Sherley Mac Laine, “madrina” della Rassegna per il decennale, ha spento le 10 candeline. Vorrei fare un salto alla “Perla dello Jonio”, ma non so se ce la farò a sganciarmi dal vischio familiare.
A pagina 10 della Gazzetta una notizia allarmante per gli occidentali: Prossima in Cina una prova atomica. Eh sì, è solo questione di tempo: prima o poi tutti i grandi Stati avranno la loro atomica. Si faranno tentativi di arginarne la proliferazione, ma gli effetti non saranno né generali né soddisfacenti. Ad maiora.
Agiubei torna dalla RFT. Butler chiede all’India una mediazione per il Laos. Due militari americani uccisi in un bar a Saigon dallo scoppio di un ordigno. Inconvenienti del mestiere. Di “liberatori” col pelo sulla pancia (non alludo ai soldati, ma a chi li manda). Sono morti anche sei civili sudvietnamiti. I guerriglieri comunisti alle porte della capitale. Situazione esplosiva nello scacchiere Sud-orientale. Se ci sarà un conflitto, la miccia sarà il Vietnam.
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Nella trepidante attesa, cerchiamo di fare qualche buon bagno di mare. Bisogna che cominciamo a portare a Nettuno anche il bambino. Ma oggi siamo andati soli, io e mia moglie Rina: il piccolo lo abbiamo lasciato con la nonna, mia madre, e la zia ancora nubile, la piccola delle mie sorelle. Con loro Gianpiero si trova bene. Siamo passati a prenderlo al ritorno dal mare di Akulia.
Arriva qualche cartolina di alunne calamagnesi. Cartoline illustrate, con distinti o affettuosi saluti “per lei e famiglia”. Una, con un suggestivo scorcio panoramico dell’entroterra silano, mi giunge particolarmente apprezzabile: è di una efebica Venere nero-chiomata dagli occhi rapinosi (impossibile da ignorare). I suoi saluti sono altrettanto distinti che affettuosi (ovviamente, sempre “per lei e famiglia”). La classe di questa alunna è particolarmente fortunata quanto a belle figliole: nessuna racchiotta e una decina di soggetti variamente attraenti.


3 agosto, tarda sera

Allarme nel mondo: Nave da guerra americana attaccata nel Golfo del Tonchino. Il presidente Johnson convoca i capi militari e politici alla Casa Bianca. Brutto affare: la miccia è accesa. Riusciranno a spegnerla? Vorranno spegnerla? Ho paura che ci siamo già: sarà l’inizio di una nuova guerra locale, come quella di Corea di dieci anni fa. Cioè di quelle che non sono meno micidiali e crudeli delle guerre totali, se non per il minore coinvolgimento di Paesi.. E anche, quando va bene (cioè, meno male) per il minore numero di morti malmorti feriti mutilati. E psicotici.
Naturalmente, a leggere i nostri giornali, a sentire i nostri telegiornali, la colpa è tutta comunista, e le buone ragioni interamente americane. Si accetta per buona, da noi più che nel resto dell’Europa natificata, qualsiasi iniziativa americana: per cinica e illegale che sia. Protestano soltanto i comunisti e una parte dei socialisti; ma loro, si sa, sono sempre in malafede: per definizione. E’ il verbo dei nostri moderati, cattolici o laici che si dicano. Una volta, i nostalgici del glorioso ventennio erano abbastanza antiamericani da saper dubitare delle loro “spiegazioni” e pretendere una “terza via” fra gli schieramenti planetari opposti e prevalenti: oggi tendono, (almeno in parte, ma in sempre più larga parte) se non a fondersi, almeno a civettare con la benemerita Democrazia Cristiana, baluardo di libertà, non meno del transatlantico Campidoglio, casa madre delle nuove democrazie europee, e specialmente della nostra.
Pare normale e naturale, ai nostri democratici bi e tri-colore che le navi americane facciano la ronda giorno e notte lungo le coste nordvietnamite con i cannoni puntati sulle città di un Paese sovrano, riconosciuto e garantito da trattati internazionali; che gli aerei a stelle e strisce sorvolino incessantemente il territorio di quello Stato; che continuino a provocarlo. Per noi benemeriti del destino, che ci ha assegnati al “Mondo libero”, la provocazione è sempre del mondo comunista, questi tartari del ventesimo secolo. Ora si dà per scontato che la nave americana navigasse in acque internazionali, come proclamano quelle massime autorità. Chi ne dubita, chi sospetta una montatura è preso per imbecille o plagiato dalla “propaganda comunista” (questa, sì, sempre bugiarda e incessantemente all’opera, per confondere gli ingenui). Di tanto in tanto mi lascio tentare dal bisogno di comunicare alle mie allieve magistraline considerazioni di questo genere. Gli effetti? Discreti, direi. Per delle classi femminili, s’intende. Spicca un gruppetto della quarta classe per sensibilità indotta. Quella soprattutto.
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4 agosto

I minatori francesi sempre bloccati nel ventre della miniera. Tento di immaginare lo stato d’animo di questi sventurati sepolti vivi. Di immedesimarmi con le loro menti sconvolte dal terrore più squassante. Morire da sepolti vivi è la morte più straziante che io riesca ad immaginare.
Tuttavia, mi nutro lo stesso, rido alle situazioni comiche, guardo gli spettacoli d’evasione alla tivvù, vado al mare. E spalmo una mia estetizzante cupidigia visiva sulle appetitose nudità di giovani bagnanti stese al sole sulle sabbie dorate o sulla minutaglia ciottolosa delle nostre “variegate” spiagge (magari badando a non farmi sorprendere da mia moglie).
Qualche volta, ma non troppo di rado, mi avviene di pensare al destino di crudeltà casuale e di indifferenza assoluta che incombe sugli uomini, anzi su tutti i viventi sensibili. Ogni giorno – penso – in tutte le ventiquattro ore, in ogni minuto di queste ore, e in ogni secondo di questi minuti accadono nel mondo cose atroci. Ogni attimo del nostro tempo è colmo di sofferenza, in questa o quella parte del nostro pianeta (e chissà in altri lontani); ogni battito del nostro polso coincide con mille gemiti di dolore sparsi per il mondo. Non scatta minuto ai nostri orologi senza che una certa quantità di esseri umani vi vengano uccisi feriti mutilati: in guerre, rivolte, insurrezioni, agguati personali, incidenti su strada o sul lavoro. Né il peggio è la morte istantanea: questa, se capita in età “compatibile”, è un dono del...cielo; quello, il peggio, sta nelle torture che una parte dell’umanità subisce ad opera di un’altra parte. Negli inferni delle prigioni politiche, nei Paesi delle dittature fasciste come (purtroppo) anche in alcune di quelle comuniste (o del “socialismo reale”). Ma lo si fa, e non si dice, anche nei Paesi ufficialmente democratici: dove più dove meno, le garanzie giuridiche sono sub conditione, ed è facile trovare o inventare emergenze che “impongono” di sospenderle. A danno delle vittime e per godimento dei sadici sempre presenti fra le cosiddette “Forze dell’Ordine” (che spesso sono quelle di “un determinato ordine” e di un correlato disordine). Quand’ero ragazzo credevo che la religione funzionasse da freno pressoché infallibile sulla crudeltà umana; oggi so, dalla storia e dall’esperienza, altrui e personale, che le religioni funzionano meglio come catalizzatori e moltiplicatori della naturale inclinazione sadica degli uomini. E non abbiamo accennato alle morti a volte non meno crudeli provocate dalle malattie, da certe mostruose varietà specialmente. Lunghe agonie tormentose sono ordinaria quotidianità in certe forme di cancro (tra l’altro, in florida crescita). Ma anche altre non scherzano: peste lebbra cirrosi sclerosi a placche ... Insomma, tutto il mondo è un solo carnaio di uomini e bestie che urlano di strazi, e l’infinita messe di sangue sofferente che riempie gli ipocriti granai della Storia cresce senza tregue, senza intervalli che non siano semplici ondulazioni di intensità, un più o meno nel continuum del dolore.
Nello stesso tempo, dentro gli stessi spezzoni di Crono, altri godono, mangiano, bevono, fornicano, gridano e sfiatano di ben riusciti orgasmi. Come sottrarsi a questa “legge”? “Dio d’amore, perché permetti questo?” – gridava l’altro ieri un mio ex professore di latino al liceo scientifico di Realpolia. Colpito da una malattia atroce, che lentamente lo paralizza in tutte le sue funzioni e capacità, cominciando da quelle motorie e in esse giocando con lenta perfidia, l’infelice, sta conoscendo l’assurdo multiforme della fede consolatrice e ne ha moti di rivolta. Ritengo, tuttavia, non radicali né destinati a durare e solidificare. Troppo intriso di educazione catechistica, il buon Beppe Spoda.
Il dio d’amore permette questo e altro fin dal primo giorno che atomi e molecole si organizzarono in assetti viventi. Solo che non è lui l’autore di tanto miracolo e sfascio. Lui, che è soltanto favola e invenzione di tardi cervelli umani troppo spaventati dalle mortali minacce degli spinosi ambienti in cui si trovarono a vivere, cioè a lottare per la sopravvivenza, tra prede e predatori spesso incombenti minacciosi e invincibili. Cervelli, in fondo, ancora infantili, se afflitti da tutte le categorie della mentalità infantile (vedi Piaget).
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E penso anche al Dio di Tennessee Williams nella commedia Improvvisamente l’estate scorsa: rivedo le “aquile del mare” volteggiare nel cielo sopra le assolate spiagge oceaniche dove si schiudono le uova delle tartarughe marine e mi si riaccende la sequenza visiva delle minuscole creaturine appena sgusciate dall’uovo che fuggono disperatamente verso l’acqua salvifica del mare vicino: sanno, per memoria genetica, che devono farlo per sfuggire a quei predatori incombenti, anch’essi stampati nella memoria specifica insieme al loro moto di morte. Vedo il loro brulichio affannato, già esperto del destino di catastrofe che le attende sulla soglia della vita, e le aquile planare in cerchi di nembi neri e rapide avventarsi, in un ultimo guizzo, sulle tenerissime carni. Si è calcolato che scampino a quel mattatoio dall’1 al 10 per cento al massimo delle ghiotte bestioline in fuga: un intervallo beffardamente breve, fra la trepidante nascita e la morte atroce. Come la durata di moltissime specie viventi. Questa visione non mi ha più abbandonato dalla sera che ho visto per la prima volta la commedia tradotta in film con la radiosa e carnale Elisabeth Taylor. E mi risuona da allora la frase rivelatrice: “Ho visto il volto di Dio”. Riferita appunto al banchetto di cui sopra.
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5 agosto, sera tarda

Il piano di una nuova dimostrazione dell’esistenza di dio registra questi progressi: Tre persone, presso La Spezia, schiacciate da un autotreno. Sempre in incidenti, due altre, Padre e figlio, morti a Venezia. Sembra la parodia di un celebre titolo: Morte a Venezia. Ma certamente le due vittime ignoravano la coincidenza e forse avevano fatto il callo anche allo scenario fantastico di Piazza San Marco. Seguitiamo. Una donna perde la vita sull’Autostrada del Sole, nel Casertano. (Gazzetta dello Stretto). Qualcuno giudica che la famosa A18 abbia accumulato già meriti sufficienti per un nome alternativo: “Autostrada della morte” . Dal commento, ritorno ai fatti: Annegano dieci persone (ibidem). Ancora: Ragazzo francese ucciso da un leone. Ci fermiamo qui.
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Ho ricevuto, oggi, un pacco da Gulizza. Contiene un libro postumo del filosofo Luigi Ferratti messo insieme da lui, che fu suo allievo, con gli appunti manoscritti del suo maestro; una lettera di mezza risposta alla mia ultima, speditagli circa un mese fa, e il dattiloscritto di un mio articolo sul suo pensiero con qualche richiesta “intromissione” personale. Il libro ferrattiano si intitola Linguaggio del sogno, ed è un pingue volumotto di 350 pagine, ivi compresa l’introduzione del curatore (dieci paginette scarse). Naturalmente, devo leggerlo e recensirlo. Nella missiva Gulizza mi fa tante scuse per non avermi risposto prima. Sono convinto di averlo irritato con le mie due ultime lettere schiette. Ho preso l’abitudine di parlargli chiaro: sto diventando un buon allievo, no?
Quanto al mio articolo su di lui, posso proporlo, se mi va, al direttore e fondatore della rivista La Procella, che si stampa a Reggiùli. Vedremo.

6 agosto

Titoli di 1a pagina su La Stampa: Johnson ordina alla Marina di distruggere “qualsiasi unità che attacchi le nostre navi” L’annuncio del Presidente in una conferenza stampa alla Casa Bianca.”Questi ordini – ha detto con voce ferma – saranno eseguiti” La VII Flotta rafforzerà il settore nel Golfo del Tonchino: una potente squadriglia aerea da combattimento proteggerà le navi da guerra. Washington è decisa a dimostrare alla Cina che gli Stati Uniti non sono una “tigre di carta”

Ci si preparano giorni di afa supplementare. La Stampa riporta il commento del francese Le Monde all’incidente del Tonchino. Il giornale francese teme che la tendenza russa a un disimpegno in quel settore possa incoraggiare “la Destra del Laos” e “i suoi padrini americani” a “intensificare le operazioni militari e riguadagnare il terreno perduto”. Teme, del pari, un’estensione del conflitto nel Vietnam del Nord. “Ci si può chiedere – continua il giornale – se l’attacco all’incrociatore americano non avesse precisamente il fine di far sapere a chi di dovere che non ci si spaventa ad Hanoi o a Pechino di uno scontro con l’imperialismo americano”. Ipotesi plausibile. Resta da sapere, comunque, se l’incrociatore americano navigasse veramente in acque internazionali. Cosa che non credo affatto.

Nella 3a pagina La Stampa del 3 agosto ospita un articolo di Nicola Abbagnano, L’animale che parla. L’articolo tratta della filosofia del linguaggio, e rileva l’opportunità che i filosofi del neopositivismo logico non dimentichino, col loro assolutismo linguistico, la natura originariamente strumentale del linguaggio, la costituzione ugualmente legittima di molti linguaggi e la necessità di vedere il linguaggio nei contesti non linguistici dai quali emerge come mezzo di orientamento (biologicamente motivato). Ecco un passo particolarmente significativo per certe espressioni che denotano, appunto, una non trascurabile sensibilità biologica):

[...]il più delle volte il linguaggio viene considerato e studiato in se stesso, prescindendo dall’uomo che parla e dalle situazioni in cui parla, in espressioni e frasi analizzate indipendentemente dal contesto non linguistico in cui esercitano la loro funzione e dai fini cui sono dirette. Ma se il linguaggio è lo strumento fondamentale di cui dispone per la costruzione del suo mondo quell’animale che è l’uomo, in esso è sempre un animale che parla: un animale, cioè un essere fornito di bisogni. Dipendente dal mondo, soggetto a limitazioni di ogni specie, errori e illusioni”.
Ciò esclude la possibilità (almeno attuale) di un “linguaggio perfetto”, secondo la pretesa di alcuni filosofi e linguisti. Pur restando vero che il linguaggio della scienza, e particolarmente quello matematico, sia, oggi, il linguaggio più perfetto (o meno imperfetto). Il discorso di Abbagnano risveglia in me l’idea (non proprio recente, ma sempre “rimandata”) di un articolo (da Terza pagina o da rivista culturale) sulle Convergenze filosofiche. Lo scritto dovrebbe accostare alcuni pensatori contemporanei (Abbagnano, Camus, Merleau-Ponty, Nietzsche, Paci, Russell, Rensi, Schopenhauer... a Gulizza), mostrando la tendenza prevalente del pensiero contemporaneo più vitale verso una rivalutazione della corporeità e animalità dell’uomo, della mondanità e naturalità assoluta del mondo umano, e di un empirismo duttile come metodo filosofico coerente con quella tendenza. La rivalutazione è favorita dagli sviluppi delle più recenti e fortunate scienze biologiche, dall’etologia alla genetica e biologia molecolare, a loro volta soccorse e alimentate dalla fisico-chimica e dalla cibernetica. Sarebbe un omaggio al “vecchio” e un tentativo di avvicinargli alcuni astri dell’odierno firmamento di Sophia. Lo farò? La mia fucina è ricca di idee e buoni propositi, ma povera di esecuzioni.

La pagina 5 dello stesso quotidiano ospita un articolo di Carlo Arturo Jemolo sulla Crisi degli italiani nel 1914-15. Un anno, poi l’intervento. Mi permetto di dubitare del presunto “stato d’animo” che “venne a crearsi per i più degli italiani”, secondo l’illustre giurista e storico: “di schietto, sincero entusiasmo, di fede, sia pure ingenua, ma sentita, nei valori ideali della guerra che si combatteva da parte dell’Intesa” contro “la barbarie tedesca, l’autoritarismo e così via”. I più forse piangevano e maledicevano la guerra e chi la imponeva ai poveri operai e contadini; forse imprecavano contro l’indistinta congrega dei responsabili di entrambe le parti per essere stati brutalmente strappati alle loro case, terre, lavoro; alla serena o tribolata, ma sempre più sopportabile, vita domestica del tempo di pace. Come avviene, nella realtà dei più, sempre, quando gli fanno scoppiare sopra la testa una guerra. La quale, fra le varie forme e occasioni di barbarie, non teme confronti. Quella fede entusiasmo eccetera poté nascere, sotto la spinta della propaganda, dopo, quando era inutile piangere e conveniente darsi un conforto purchessia, una forza morale che reggesse l’immensa fatica dell’anima nei rischi sacrifici sofferenze quotidiani del corpo. Ma che c’entrano, pur sempre, i più? L’articolo finisce, poi, in gloria Dei. Ed io mi stupisco come un intellettuale, una mente repleta di cultura informazione memoria storica possa trovare compatibile con tanta consapevolezza e coscienza etica una fede religiosa, e quella cristiana e cattolica in particolare. Come non bruci di sgomento, un uomo di normale sentire e sapere, al cospetto dell’orrore sconfinato di sofferenze inenarrabili che mondo e storia, e proprio la guerra in primis, oppongono alle eiaculazioni verbali sui mirabolanti attributi del Dio giusto misericordioso amoroso onnipotente. Per tacere degli orrori stragisti pullulanti in quell’Antico Testamento, e, a pimento-contesto del sadismo teoconico, le contraddizioni e favole.
La guerra, le guerre: la prova maggiore fra le massime che mostrano il guasto originario del mondo, la sua assoluta nudità contro le ciarle mistificatrici, il vero male radicale che attossica l’uomo. Eppure è nelle guerre che s’alzano al cielo le preghiere più accorate e le più spudorate ruffianerie; eppure dopo l’immane macello dei cinquanta milioni di morti e lo sconfinato seminario dei feriti e mutiliati della seconda guerra mondiale un revival religioso senza precedenti portò al potere dei Paesi occidentali partiti cattolici. E che non ci furono tentativi di inquinare la Costituzione italiana col nome di dio, pretese di agganciare al progetto ignominioso la complicità vaticana? Che non ci furono fior di risvegli spirituali e santi frenetici prestati alla politica dell’Italia rinsavita (in parte) dalla sbornia fascista? Nell’occasione i marpioni del Vaticano furono più saggi dei cervelloni proponenti il dio costituzionale. Sì, l’uomo è davvero capace di qualunque paradosso, di qualsiasi irrazionalità.
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Lo so quaderno, lo abbiamo già notato e annotato sulle tue pagine, mi ripeto, ci ripetiamo: in gloria Dei, anche noi. Sia pure in modo dialettico (vedi, usiamo una parola aristocratica, di alto lignaggio). E torniamo, con questi intenti imperativi e igienico-sanitari, alla nostra piccola privata e inutile Dimostrazione dell’esistenza di dio attraverso la cronaca nera. Dal quotidiano La Stampa. Pag. 6: Quattro ferrovieri svizzeri in permesso s’uccidono precipitando per 700 metri sul Massiccio del Bianco (titolo) Sono già 34 le vittime di quest’anno sulla tragica montagna (occhiello). Ma sorvoliamo sul resto: per risalita esofagea di nausea metafisica.
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E cambiamo argomento. All’Esposizione di Losanna meno visitatori del previsto. Cinque milioni di persone in tre mesi: se ne attendevano 7-8 milioni. Spiegazioni eziologiche? Pare che i padiglioni siano troppo culturali e poco folkloristici. Eppure ho visto in un documentario televisivo la grandiosa bellezza della manifestazione. Losanna: il gomitolo di Mneme svolge il filo di dolci ricordi e scioglie nodi di rimpianto. Sono passati sei anni da quel viaggio nel meraviglioso di Bruxelles, Expo 1958, Viaggio-premio per la media più alta della facoltà di filosofia, io, il primo, e il secondo, a notevole distanza, il caro Enzo, amico e collega che da un paio di anni non vedo e non leggo (nella sua nervosa grafia epistolare). te. *
E’ stato pubblicato il Censimento delle vittime del Vajont: 2014 morti. Finora il più autorevole “sillogismo” nella presente “dimostrazione” dell’esistenza di Dio, creatore di questo mondo meraviglioso. Certo, un Dio che può “assistere” ad uno spettacolo come “il Vajont” è un’immagine da meditare anche nel cervello meno alacre e più contorto: ma la gente naturaliter credente preferisce litigare coi parenti increduli piuttosto che imparare e disimparare. Disimparare il dio gonfio di virtù benefiche e imparare, per esempio, gli dèi di pietra di Epicuro e Lucrezio, di Spinoza o di Camus: un’idea teologica che s’impone con schiacciante autorità. Ma la devozione degli umani è di buona lega: si chiama paura. Un argomentare alla prof. Gulizza suonerebbe, pressappoco, così. La paura teologica è il primo derivato dalla sostanza del mondo biologico: la fame. Come tutti gli animali, anzi tutti i viventi, gli uomini mangiano e, correlativamente, temono, per fisica necessità, di essere mangiati. Unificando in poche figure espanse la copiosa molteplicità delle minacce trofiche (grandi carnivori predatori, altri uomini di vario colore, ecc), si inventano gli dèi, potenze invisibili, ma variamente incarnate, e virtualmente assassine, cioè pantofagiche: perciò, da rabbonire con offerte sacrificali per ricavarne protezione e vantaggi materiali (salute, caccia feconda, vittoria negli inevitabili scontri fra tribù e via spalmando). Quando e dove al politeismo succede il monoteismo, questa logica si semplifica ma non crolla: gli dèi e il dio unico sono la stessa sostanza monistica modificata nella forma, nelle sembianze (sempre zoomorfiche o, “progredendo”, antropomorfiche). La stessa corona di attributi promozionali (potenza, giustizia, amore, misericordia...) fa parte del trattamento propiziatore. E’ bensì vero che molti credenti, a cominciare dai mistici confessionali, credono in buona fede di amare dio, ma in realtà lo temono. Al punto da ingannare se stessi sforzandosi di credere nel suo amore e di ricambiarlo. O che non si è arrivati al paradosso comico di dichiarare (al momento non ricordo quale campione della favolistica teologica l’abbia detto) che il proprio amore per dio fosse tale e tanto da offrirgli non solo la vita, ma l’anima addirittura. Bello, no? Uno dice al suo buondio: se vuoi una prova assoluta del mio amore, dannami pure. E certi beoti di accademia a ostentare rispetto per tanta offerta.
Insomma, il dio monoteistico, concentrato di virtù senza limite, è, nei fatti del culto, un Moloch bulimico variamente mascherato. Nella gloriosa Cartagine imperiale, quei comprensivi devoti, nei momenti di maggiore pericolo per la città-stato, offrivano a quel buongustaio la carne più tenera, quella dei bambini. I quali, a suggello della civiltà e del suo pilastro maggiore, la fede religiosa, venivano scaraventati vivi e croccanti nelle fauci incendiarie del dio antropofago. Pare che tale fortuna molto metafisica toccasse con precedenza assoluta ai primogeniti. E nelle contingenze di maggiore pericolo, erano i personaggi eminenti della Città a immolare per primi quella carne purissima. La pratica era diffusa presso i fenici, che, fondatori di quella città sventurata, nelle sue leggi la importarono, a garanzia di felice fortuna. Né la deliziosa teologia pratica era confinata sulle rive del mare nostrum: i classici dell’antropologia culturale ci hanno insegnato che diffusissima era anche presso le popolazioni del centramerica. Insomma, è falso che i credenti sentano un dio buono: lo sanno e sentono crudelmente cattivo, e perciò lo adùlano, lo blandiscono e vestono di eccelse virtù, contraddette invano dalla tragica baraonda della vita cieca: hanno un vitale bisogno di farselo amico, di scongiurarne la bulimia cronica, e non badano a spese in fatto di sacrifici: per millenni, prevalentemente umani, e poi animali e vegetali. Ma non è detto che i sacrifici umani siano del tutto scomparsi: a ben guardare, se ne potrebbero scoprire ancora abbondanti tracce e code, sotto mentite spoglie e con percorsi tortuosi. Ma questo è un altro discorso, per altri tempi e occasioni.
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E torniamo a leggere cronaca nera e al sangue. A pagina 9, della stessa Gazzetta, tre bambine e tre adulti uccisi dall’ennesimo incidente d’auto; e dieci feriti sempre in quel tipo di incidenti. Che, in periodicità annuale, pare sommino un totale di tutto rispetto: nella sola Italia, tra gli otto e i diecimila morti: in tutta Europa, sui centomila. Ci vuole troppa fantasia per associarli ai vecchi sacrifici umani, visto e considerato che l’auto è, tra i nuovi idoli, il più venerato? Sacrifici più spicci, privati della prosopopea rituale delle vecchie pratiche, surroganti il sacro altare e le marmoree o litiche statue dei vecchi dèi con l’anonimo asfalto delle seducenti arterie e gli inutili guard rail. Posso spendere, quaderno delle mie solitudini serali e notturne, un minuto, anzi tre, pensando alle tre bambine assassinate sui nuovi altari di pietre all’asfalto, a quelle sconosciute ostie immacolate per i nuovi moloch autostradali? Come saranno morte (anzi, volate in grembo al Signore, dicono i credenti loici)? Hanno sofferto molto? Spero di no. E si può confrontarne l’esiguo numero con quelle troppe affogate nel sonno dalla sovrabbondanza divina dell’acqua propiziata dalla sudiceria umana? Vajont: un altro sacrifico a Mammona, avatar dell’onnipotente pantocrator Moloch. Un monumento megaliquido di sacrificio, un pantagruelico banchetto. Altro che i giganti litici dell’isola di Pasqua, qui si va per le spicce, si risparmia fatica e tempo.
Ecco come, trascinati dall’onda della logica fluente, ci si dimentica dei propositi di tregua e rispetto della misura: siamo tornati alla lettura teologica della pandemia trofica. E dei suoi derivati: aggressività, lotta, guerra, scontri...