lunedì 22 dicembre 2008

Susanna frammento cinque


23 agosto


L’incontro con Ciaccò ha evitato, ancora una volta, la rottura, o il calo di temperatura, che il suo ricorrente silenzio epistolare (magari non privo di giustificazioni di mia involontaria ispirazione) mi tentava a provocare e mi faceva temere. Ieri, nella ridente Giardini, alias Naxos, già prima colonia greca in terra siculo-ionica, c’è stato finalmente quell’incontro a tre che Ciaccò si provava a combinare da più di un anno. A Nasso, infatti, Mimì aspettava Gulizza, incredibilmente vincitore del Premio Calamagna, e atteso ospite dei suoceri del giornalista nella casa montana di Vallerossa. Il mio programma era di incontrare soltanto l’amico nella turistica cittadina e tornarmene a casa solo soletto. Invece l’insistenza degli amici mi ha portato prima in casa di quei suoceri, aggiunto ai commensali della programmata agape, e poi a Villa Jonica, la città del premio letterario. Al lauto e vario pranzo ricco di ghiottonerie di domestica fattura ispirata (quella suocera esperta in antiche ricette locali: una vera chef!) c’era tutta la famigliola Gulizza, Ciaccò e consorte; e un correttore di bozze della Gazzetta dello stretto.

Varie peripezie veicolari ci hanno fatto arrivare a destinazione con quasi un’ora di ritardo. La sede del premio era il Lido Sibilla. Ho assistito alla prevedibile cerimonia della premiazione, ho conosciuto alcune personalità calamagnesi, ricevuto qualche complimento per i miei articoli sulla pagina culturale della Gazzetta dS. e del Gazzettino dg. E soprattutto ho fatto amicizia con il prof. Nino Pioppo, docente di medicina veterinaria presso l’ateneo Zanclese ed ex deputato nazionale del Pci: uomo poliedrico, tra scienza e belle lettere, amicissimo di Ciaccò e di Gulizza, collaboratore della Gazzetta. E come avevo immaginato, e poi saputo, artefice, con altri amici, della vittoria di Gulizza al Premio in questione. Avevo letto alcune sue cose (articoli critici e poesie) sul giornale zanglese e non ne avevo ricavato una grande impressione: l’incontro personale ha mutato i miei sentimenti (non proprio la valutazione critica). E’ un uomo semplice e cordialissimo, magari un po’ candide, ma sincero. Ha preteso subito che ci dessimo del tu, ed io, per la prima volta, mi sono arreso alle delicate insistenze di una persona autorevole e più anziana di me.

24 agosto, ore 20


Il mese precipita, le vacanze sono quasi alla fine, è tempo di bilanci. Che cosa ho fatto e che cosa non ho fatto, di quanto avevo previsto e semi–programmato, in questi tre mesi di ferie e di torpida estate? L’eterna domanda della mia pigrizia torna a picchiare sul tamburo stonato della coscienza. Con monotonia coerente, la risposta di sempre mortifica il mio tempo sciupato: poco, ho fatto, e molto di quanto speravo realizzare è rimasto nel limbo delle buone intenzioni senza nerbo. Sfogliamo.

Ho lavorato a due saggi minori su Camus e sono riuscito a finirli. Ma non ho sviluppato abbastanza la monografia che contavo di concludere entro questa ampia estate di giornate lunghe. Né ho completato il terzo saggio, di maggiore impegno, sullo stesso autore prediletto. La verità della pietra e La seduzione della Natura, i minori, possono tentare le vie della linotype (la rilettura paziente me ne conferma la validità), ma il volume che dovrebbe raccogliere tutti i miei sparsi scritti camusiani (la monografia è cosa a sé) si allontana di nuovo nella nebbia dell’incerto futuro. Lo segue il sognato e mezzo scritto (come tesi di laurea) libro su Nicola Abbagnano. E brancola, in un’improvvisa atassia, La danza palinsesto dell’arte, che Rama mi sollecita in omaggio e a nome del suo, e ormai quasi nostro, amico Gulizza. Ho pubblicato un articolo su Mastronardi e uno su Rèpaci, entrambi sulla Gazzetta d. s. e sul Gazzettino d. g. Quattro o cinque attendono la luce della stampa locale, qua e là. Ho anche cominciato, ma non finito, anzi sono lontano dal concluderlo, un saggio sull’amore in garbata polemica con Erik Fromm. Lo finirò?

La volontà di vivere è ancora e sempre altalenante: ora energica e zampillante, ora fiacca e disamorata. Al solito, trovo nel piccolo erede un energetico ricostituente. Ma non è facile vedere in rosa il suo futuro, e di conseguenza il mio, anzi il nostro (mio e di Rina). Ora sono stanco, stanco e “malato” più del solito. I dolori alla testa e alla colonna vertebrale ritornano con frequenza più fitta, episodi di vertigini e nausea mi tengono supino sul letto per giornate intere. Devo essermi stressato. Ma, penso, più che per il lavoro fatto, per quello non fatto. Vale a dire, per le promesse non mantenute. Agli amici, ma soprattutto, a me stesso. Ritorna (vecchia storia noiosa) il sospetto che non sia destinato a vivere a lungo. Anche questo pensiero mi incupisce: penso a mio figlio, che temo di non veder crescere abbastanza. E anche a Rina: che farebbe, da vedovella giovane? Qualche offerta di rimpiazzo non le mancherebbe, così bellina com’è… Pensiero, forse, poco generoso: lei non è il tipo di vedova virtuale pronta al rimpiazzo. Soprattutto, a quello del padre del suo bambino: un padrigno, forse, le ripugnerebbe dietro al suo vispo tesoro. Ma poi, vai a saperlo: le vie della diabolica improvvidenza sono più delle divine. Intanto dovrei vergognarmi di avere scritto qui pensieri tanto sciagurati.


Al contempo, come dicevo, traggo dal bambino la consapevole forza di resistere alla demoralizzazione. A volte sto a guardarlo mentre dorme. Il disegno delle sue forme rotondette, abbandonate alla beatitudine del sonno, mi riempie di trepidante tenerezza. E capita che l’onda emotiva tracimi in luccichii a stento frenati. Se lui si sveglia, lo prendo in braccio e lo copro di baci, stringendolo forte come per mimare una fusione di corpi. Il contatto della sua tenera carne premuta alla mia cancella il mondo esterno in una specie di estasi, un fermento di umori molteplici e in parte contrastanti: amore, ansia, speranza, paura si fondono in quel brillio poco virile che monta agli occhi arrossati di fatica contro ogni freno di inutile pudore. Ha due anni e due mesi ed è molto sveglio: parla di tutto, e si fa capire bene, capisce tutto quanto lo riguardi concretamente, interviene di continuo nelle mie cose, porta disordine e guasti fra le mie carte, scarabocchia libri e quaderni, taglia e sporca, se non lo si blocca in tempo. Capita che il danno mi intristisca, ma è questione di minuti; dopo, il disappunto cede il posto alla gioia per tanto attivismo e così estrosa vitalità. Mi rendo conto che devo frenarlo, inculcargli la nozione di limite e di non concesso, ma non mi riesce facile. Non si stanca mai di saltare correre giocare nei modi più vari. Ama uscire di casa e smania se non lo portiamo fuori, almeno nel tardo pomeriggio. E’ allegro, rumoroso, vivacissimo, e viene fuori con certe espressioni da farti scoppiare di gioia e sorpresa. Lo aiuta una buona memoria, che gli fa ricordare parole e situazioni anteriori di settimane e talvolta di mesi. Non consente che io lavori in sua presenza: in un modo o nell’altro, richiama la mia attenzione e finisce per concentrare totalmente su di sé il mio vagolante interesse. Insomma, lavorare, per me significa, essere libero dal piccolo invasore. Quando la madre o altro familiare lo prende in consegna, e solo allora, posso dedicarmi alle mie nugae. Lo so, scopro l’acqua calda. E’ egocentrico, assorbente, esclusivista come tutti i bambini che non soffrano tare, ma la vivacità e personalità sono sue; e per un padre sono sempre eccezionali. Non si stanca mai di giocare con me, e mi preferisce alla madre e a chiunque in casa e fra la parentela.



25 agosto, ore 23


Oggi, ai giardini pubblici, miei amici e compaesani mi hanno fatto gli elogi del bambino. Ciccio Bella mi chiede come ci si sente nella veste di padre; Mario Merisi completa: padre di così bello e vivace bambino. Dico che mi sento fiero, lieto, appagato. E preoccupato. Ai loro interrogativi perché rispondo come ripeto a me stesso in questo diario: è un ometto, un bambino precoce che mi riempie d’orgoglio, ma anche di malinconia; è la mia più sicura sorgente di felicità, ma pure la più spinosa delle mie preoccupazioni. So quanto sia fragile la carne di un bambino, e temo i mali che ogni padre appena sensibile teme per i propri figli, specialmente di questa tenera età. Vorrei che tutto il male che dovesse minacciare lui cadesse sopra di me e lasciasse lui indenne.

Come se uno straccio di padre malato potesse non riguardare “sospettosamente” anche il tenero figlio. Ho lavorato un poco, oggi, a uno degli articoli in cantiere per la Gazzetta d. S. Domani rileggerò e concluderò (spero).

Mi giungono altre cartoline dalle mie allieve del magistrale zefirese. Alcune particolarmente care. Eminente come un vessillo al vento la postcard “occhi di risacca” (appellativo rimemorante dell’Innominata).



26 agosto



Nella Gazzetta di oggi è uscito il mio articolo su Sartre con il titolo Un soffio sul fuoco, occhiello, Polemiche sull’ultimo Sartre. E’ venuto fuori abbastanza decente: pochi gli errori di stampa, e tutti evidenti. Per scriverlo, ho utilizzato molto gli appunti presi dagli articoli di Franco Simone apparsi sulla torinese Stampa e trascritti nel precedente quaderno. Togliendo, aggiungendo, inserendo citazioni e considerazioni personali, e soprattutto una citazione dal saggio di Enzo Paci sull’autobiografia sartriana Le parole (Aut Aut, luglio ). Vorrei mandare un ritaglio al prof. Paci, ordinario di filosofia teoretica all’Università di Milano. Ma chissà se lo farò: i miei desideri di rado si fanno decisioni. Mi piacerebbe riprendere i contatti con Paci, che tre anni fa mi scrisse, di sua iniziativa, per ringraziarmi del mio saggio ospitato da Teoretica, e mi mandò tanti suoi scritti (estratti della rivista), e in più il Diario fenomenologico, appena pubblicato, con lusinghiera dedica. Bah!

Ecco l’incipit dell’articolo: “La polemica intorno all’opera di Sartre non è affatto una novità: quella di oggi è soltanto una nuova tappa, “montata”, questa volta dai giovani più reattivi, da coloro, cioè, che un tempo erano sempre pronti a giurare in verba magistri. Ascoltiamo uno di questi critici giovani, Jacques Houbart, autore di uno spietato saggio: Un père dénaturé; essai critique sur la philosophie de Jean-Paul Sartre, (Paris, Julliard, 1964). / Secondo l’Houbart il pensiero e l’arte di Sartre sarebbero – scrive Simone – “l’espressione di una mentalità tradizionale, priva di aperture, del tutto insincera e inefficace”. La prosa di Sartre “provoca in Houbart una dolorosa vertigine”: in essa “il mondo fisico diventa metafisico, la chimica si trasforma in alchimia, il razionalismo diventa misticismo, gli uomini si tramutano in donne [sic!], Hegel diventa un giocoliere, Lenin un prete.” Sartre, insomma, sarebbe “un sofista” tarato “da una prudenza universitaria” che “riduce il vantato materialismo ad un idealismo mascherato” e deforma “l’ateismo in una metafisica dell’angoscia.” Di più: fraintende Marx e tenta di “sviare su posizioni borghesi gli intellettuali impegnati nella rivoluizione sociale”.

Non mancano intuizioni plausibili, in questa demolizione sospetta (di evidente passionalità), né riesce facile negare la fondatezza di quelle insinuazioni sull’idealismo mascherato che smaterializza il mondo sartriano; ma i suoi eccessi capovolgenti finiscono con l’affiancarsi alle colpe dell’Idolo infranto: cripto-idealismo, metafisica spalmata su Marx, rigidità ideologica.



Siderato, 10 settembre


Da due giorni sono di nuovo a Siderato (Calamagna), con la famigliola. Dopodomani avrò il primo turno di “assistenza” agli esami di riparazione al magistrale di Zefiria, dove insegno per il terzo anno. Bei paesoni o cittadine di mare, entrambi i borghi, di non lontana origine ottocentesca. Rappresentano il ritorno alle spiagge delle vecchie popolazioni cacciate sulla montagna dalle scorrerie piratesche arabo-turche.


Oggi è uscito il mio articolo sul saggio di Curzia Fernari. Ciaccò lo ha sistemato in bella evidenza sulla pagina settimanale del quotidiano dedicata alla cultura, la “Gazzetta letteraria”. Lo ha un po’ mutilato (su mia autorizzazione) per evitare le note più pungenti della sostanziale stroncatura. L’articolo, così come è stato “ridotto”, conserva una sua composta dignità. Né ha perso il suo mordente di deciso e documentato dissenso. Spero che la signora Curzia e il suo patron letterario non se la prendano troppo. Non fino al punto, cioè, da guastare i loro, finora cordiali, rapporti con Ciaccò e il giornale. Il contesto titolante condensa in allusività discreta il senso del mio severo intervento: titolo, Ancora su D’Annunzio; catenaccio: Pur promettendo analisi critiche e approfondimenti filosofici, questo libro non è che un nuovo atto d’amore per il poeta. Due titoletti “spezza-testo” ironizzano dietro un’apparente neutralità: L’uomo luce, Il “pensatore”. L’autrice, fra le poche cose giuste che accenna, riconosce che il superuomo di Nietzsche c’entra poco con gli eroi dannunziani, ma resta lontana da una comprensione plausibile della differenza. Il mio testo chiarisce in questi termini: “…D’Annunzio non capì l’anima profonda del grande Scontento. Gli eroi dannunziani, si chiamino Andrea Sperelli o Giorgio Aurispa, Tullio Hermil o Carrado Brando, banalizzano il superuomo e lo spirito libero del poeta filosofo in figure di velleitari gaudenti dell’estetismo decadente fin de siècle, estranei all’aspra insoddisfazione che muove il Freigeist nietzschiano”


Sulla stessa pagina, di spalla, c’è l’ultima fatica minore del prof. Gulizza, titolo Le due culture, apparso già due giorni addietro, con uguale titolo, sulla Sicania liotriana. Si tratta di una valutazione originale della polemica in corso sul binomio cultura umanistica e cultura scientifica. Gulizza nega la qualifica di scientifica alla prima, così com’è stata e come si presenta a tutt’oggi, e auspica che se ne renda degna in un futuro non troppo remoto. Quella negazione-limitazione esclude che l’umanistica si possa qualificare come autentica cultura: retorica, forse, variamente atteggiata e più o meno dignitosa, ma non abbastanza cultura per difetto di esprit scientifique. Frecciatine consuete verso questo o quel campione del dualismo in questione, segnatamente al prof. Geymonat. Una sua espressione suona particolarmente ironica: “Saremmo ricchi senza saperlo? Abbiamo due culture...”. Per farsi scientifica, scrive Gulizza, la cultura umanistica dovrebbe assumere i connotati impressi da Galileo alla meccanica. Indagare corpi, non anime e inesistenti spiriti disincarnati. Corpi e, nel caso specifico (corpi umani), relative fisiologie. Applicare, insomma, la “migliore novella”, la critica fisiologica, che appunto indaga il corpo degli autori, cioè il loro temperamento, le loro attitudini operative, la disposizione morale ricondotta a disciplina relazionale degli appetiti, e via innovando, diversamente esplorando. Il movimento critico oscilla dal corpus al corpo e viceversa, cercando nell’una dimensione i riscontri delle qualità, positive e negative, trovate nell’altra; e viceversa. Rispunta così l’unità tra arte e morale sostenuta dai nostri Padri e derisa dalla marea estetico-crociana. La quale, nonché ridimensionata e attenuata, risulta peggiorata negli epigoni, contro gli stessi correttivi de facto che nel patriarca di via Trinità Maggiore trovava la pretesa “metafisica” di una delibazione estetica pura, cioè “disincarnata”.

La tentazione gulizzana, la semplificazione, così drastica, la priva di mordente accademico, e perciò di consensi autorevoli. Eppure un certo appeal si fa sentire. Quasi a riscatto da troppa eiaculazione verbale superdotta e metafisica.

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Notizie-culmini. Il consiglio dei ministri approva i provvedimenti anti- congiunturali: l’Italia è salva. E lo Stato ci pagherà meglio, noi professori. Il presidente Segni torna a migliorare, dopo l’aggravamento dei giorni scorsi: fibra di sardo. Auguri di prossima guarigione. Anche per non sovraccaricare la coscienza umida dello zelante Saragat, paladino di libertà e democrazia, indiziato principale del malanno segnico: si raccontano scene drammatiche fra i due.

E’ morto Goffredo Bellonci, ottantaduenne: per i suoi meriti, ha avuto abbastanza dal padre Crono. Condoglianze alla signora vedova (e auguri di ancora lunga vita battagliera). Il Premio Strega, in cordoglio, piange il signorile patron. Ecco un premio che non avrò mai.

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Ricordi freschi. La sera del 29 agosto ho visto alla Tv la serata conclusiva del “Premio Viareggio”. Hanno vinto: Giuseppe Berto con Il male oscuro per la narrativa; e Manara Valgimigli con Poeti e filosofi di Grecia per la saggistica. Cinque milioni ciascuno, che il tutto-candido Répaci ha gioiosamente deposto nelle pudiche mani vittoriose sotto la specie di un luminoso assegno bancario. Hanno parlato, tra gli altri, Sapegno, Répaci, Ungaretti, Piovene. Il quale ha un terribile tic alla bocca e riesce inguardabile. Ecco – direbbe l’amico Ciaccò – il corpo invocato da Gulizza a riscontro del corpus: sarà proprio senza significato quel tic sull’opera, latu sensu, letteraria del Piovene-autore, quando non può esserlo nel suo corpo, nella sua fisiologia? Il problema è che non sarebbe facile trovarlo, il significato. Di più: proporlo dopo averlo, magari, trovato, a una cultura polarizzata da secoli di fluiloqui eloquenti de dignitate et excellentia hominis, e insomma da un esplicito o implicito assunto di radicale diversità di homo sapiens al quadrato rispetto al resto del mondo zoologico circostante e filogeneticamente “precedente.” Epperò resta simpatico, il tic, come testimone muto (anzi, eloquente) del disagio da ex fascio-razzista che l’aristocratico autore non ha mai del tutto smaltito. E viva l’ambiguità. E le code di paglia.

Guardabile, invece, e godibile per ogni fisiologia discretamente sadica (non ci può essere critica scientifica, pretende Gulizza, senza una vivace disposizione al sadismo traspositivo) il roco e fragoroso Ungaretti, uomo di penna più che di pena, e di penna arrabbiata. Ha dichiarato, spiccio spiccio, con candida spudoratezza, che in Italia, ormai, sono rimasti solo due poeti veri, e viventi, lui e Montale. Alla buonora! Ci voleva un parlachiaro! Questo poetuccio fortunato e piroettante, che vale sì e no la metà del pur non immenso Quasimodo, non ha digerito ancora quel premio Nobel del 1959 al suo diretto rivale. E son passati cinque anni. Ecco, insomma, un altro magnifico soggetto di studio per un’indagine di critica fisiologica alla Gulizza. Non si troverebbe un riscontro a questa indisciplinata animosità diretta nella produzione del poeta ruggente? Se ne parlava l’altro giorno con Ciaccò: lui fedele al Verbo del Maestro, io esitante e interessato.

Leònida, tutto in bianco, dalla chioma al vestito, ha ricordato quattro illustri scomparsi che avevano avuto a che fare col Premio Viareggio. Tra essi, Peppino Ravegnani, suo caro amico e riconoscente sponsor, autore di un lusinghiero Répaci controluce (che sto centellinando per una prossima recensione. Anzi, a questi lumi di fatica, una maxi-recensione da Gazzettino d. g.). Il fluviale Rupe ha pure ringraziato pubblicamente Gabriella Sobrino, sua segretaria (e non so che altro).

Ieri ho spedito a Répaci, e alla editrice Nuova Accademia, che me lo aveva mandato su segnalazione dell’autore, la mia recensione alla sua Calabria grande e amara. Il mio articolo è apparso, il 21 agosto, sulla Gazzetta d. S., col titolo, facile ma azzeccato, Calabria primo amore. E stato “purgato” di alcune frasi di Répaci assai vere, ma anche assai aspre per la coscienza moderata di quel cosmo variamente bigotto. Dirette contro la Santa Madre Chiesa, sempre intoccabile, anche dopo l’ultimo grande macello mondiale della Seconda guerra mondiale, della shoah e dell’altro infernale bendiddio che nega ogni dio. Amen. Con tanti ossequi alla signora Borsino, moglie del proprietario della Gazzetta e piissima donna, incapace di tollerare il benché minimo soffio d’irriverenza verso la Religione e la sua Santissima custode in terra.


12 settembre


Sul Gazzettino di oggi è uscito il mio articolo dal titolo tranchant: Goldwater e la crociata del diavolo. E’, anche stavolta, in apertura. Ecco l’incipit: “E’ innegabile una certa somiglianza di tono tra l’atteggiamento elettorale di Goldwater e quello tenuto a suo tempo da Eisenhower. La somiglianza salta all’occhio, soprattutto, nelle dichiarazioni di politica estera. Nel 1952 Eisenhower prometteva di riportare il comunismo nei suoi ‘confini naturali’. Era la cosiddetta politica del roll back e veniva enfaticamente contrapposta a quella del containement seguita da Truman. I fatti dimostrarono, pero, che il roll back era soltanto una formila verbale, esposta, per di più, a una ridicola parentela lessicale con un notissimo ballo scapigliato di gioventù bruciacchiata. Ebbene, c’è oggi chi, cogliendo quella somiglianza, ritiene, ottimisticamente, che la baldanza di Goldwater, in caso di elezione, si rivelerebbe identica a quella di Eisenhower e di Foster Dulles. Luigi Salvatorelli, per fare un esempio illustre, in un recente editoriale (La Stampa, 29 luglio) trae proprio la conclusione sopraddetta.” L’articolo procede sviluppando questa lineare sequenza: dal 29 luglio sono accaduti fatti gravi, che forse hanno modificato, magari in parte, le convinzioni di Salvatorelli. Gli Stati Uniti sono una realtà antropologica complessa, piena di problemi irrisolti. Tra questi, oltre il vecchio razzismo negrofobo, si attesta sempre meglio (o peggio, dato il genere ) una mentalità dicotomica radicale. Goldwater la esprime al livello di guardia. Questi rozzi semplificatori vedono il mondo nettamente diviso in due parti irriducibilmente contrapposte. Naturalmente, loro stanno dalla parte giusta, sono il Bene, gli altri sono senz’altro la parte sbagliata, il male. Siamo, insomma, all’assolutezza metafisica, alla rigidezza del dogma religioso. E qui s’annida il veleno: la mentalità metafisica si sottrae alla logica delle verifiche, rilutta alla pazienza della ricerca empirica. E dunque del confronto possibilista, del dialogo disponibile alle correzioini suggerite dagli eventi e dal minor male. La semplificazione rimuovente riesce gratificante ai portatori di quella forma mentis (Gulizza dice senz’altro fisiologia), li carica di anfetamine e adrenalina. Perciò questi rẻvenants dell’era giurassica sono aperti a qualsiasi avventura ordinata al trionfo della Buona Causa: in fattispecie, il Bene si schiude in un bel mazzolino di maiuscole: Libertà, Democrazia, Libera iniziativa e liberissimno Mercato. Il male, per contro, si può condensare in una sola parola: comunismo. Una parola, però, gonfia di veleni: Tirannide, Servitù, Anticapitalismo bellicoso, eccetera. Senza sfumature né variazioni.

Se questa “lettura” dell’America è valida, niente si può escludere: nemmeno una conflitto nucleare. C’è della gente alto-locata, negli States, che è convinta di poter sopravvivere a un conflitto così estremo. Probabilmente, le frange più dommatiche di questo estremismo tendenzialmente autolesionistico, non arretrebbero nemmeno davanti al rischio di una strage universale se la ritenessero utile alla gloria del “Bene”. Scrivo, nell’articolo: “Questa assolutezza importa la radicale subordinazione di ogni valore a se stessa, al proprio trionfo: si tratti di idee o di uomini in carne ed ossa; di individui o di popoli: del mondo intero, se necessario. Una guerra di sterminio non sarebbe sacrificio impossibile per il trionfo di tanto moloch. L’immane messe di sangue che conseguirebbe il trionfo dell’Idea non è peso insopportabile per le spalle dei credenti in questa divinità stravolta: il paradiso dei Cieli, o quello della Storia, riscatterà le atrocità e le sofferenze del Secolo”. Ed ecco alcune dichiarazioni del senatore repubblicano che stillano il veleno qui sottinteso: “Tra la democrazia e il comunismo la coesistenza è impossibile. Guerra fredda o calda, noi siamo in guerra contro i sovietici. Sono per la rottura di tutte le relazioni con l’Urss e per moltiplicare gli sforzi allo scopo di liberare dal giogo sovietico i Paesi dell’Est europeo”. Ma la distensione, la coesistenza pacifica? Contano zero: Stalin o Kruscev, questo o quello per me pari sono. Ma le divergenze tra Urss e Cina? L’ispirato non ha esitazioni: “Sono divergenze sul modo migliore per sotterrarci. Lentamente, come vogliono i russi, o in un sol colpo come vogliono i cinesi.” Alla domanda se sia favorevole all’uso di atomiche nel Vietnam il funesto cow-boy texano esita ancora meno: “In maniera limitata, per far uscire il nemico dalla sua tana, sì”. Fidel Castro? Stesso tipo di risposta: “Niente coesistenza con lui. Noi abbiamo i mezzi per mettere fine al suo regime”. Evidente preferenza del rude vaccaro: Batista, tiranno peggiore, nel suo piccolo, di molti Stalin, sadico torturatore di avversari e castratore di peones dissidenti, è sempre meglio del comunista Castro che lo ha cacciato. Il primo, stava con i miliardari americani, il secondo non li ama. La scelta è facile. Moderazione? Roba per monaci, noi guerrieri yankee scegliamo il virile estremismo: “La moderazione al servizio della giustizia non è una virtù. L’estremismo al servizio della Libertà non è un vizio […] Sì, sono un estremista al servizio della libertà e della giustizia.” Le sue preferenze sono per “una politica estera sull’orlo della guerra”. Niente mediazione e compromessi: fare la voce grossa, sempre: forse basterebbe a impaurire il Cremlino. E se no, tanto peggio: all’attacco.

C’è bisogno di essere più chiari? Un tipo simile garantirebbe contro uno scivolone catastrofico? Intanto i fatti recenti e meno recenti sono segnali poco favorevoli per qualsiasi ottimismo: il fallito sbarco di cubani anticastristi alla Baia dei Porci, con l’umiliazione dei complici americani (1962), l’assassinio del presidente John Kennedy (1963), il fresco incidente del Tonchino, l’inasprirsi del conflitto razzista negli Usa, la Palestina sempre sotto pressione della spavalda aggressività israeliana; e quant’altro. C’è da sperare che, almeno, non sia eletto il cow-boy che disprezza la cultura e “affitta” (così afferma, vantandosi della propria ignoranza) gli intellettuali quando gli servono. Dopo tutto, teste pensanti ce ne sono ancora fra i capi in soglio e i virtuali in itinere di quella metà del mondo.

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E adesso una pulce di notizia che vellica l’orecchio: stranamente, il mio nome s’è perso per strada: non c’è, non figura, né sotto il titolo né in calce al totale del lungo articolo. Una distrazione, un incidente di percorso? Così ero incline a credere, io. Poi un amico di peso, mi insinua un mezzo sospetto: l’articolo gli è piaciuto tanto, al direttore, che ha finto la dimenticanza, la svista. Accusandone, no?, redattori e tipografi. Possibile? Non senza irritazione, ho segnalato la macula all’incriminato direttore Tiziano Voti, naturalmente, confermandogli la mia fiducia e stima. Lui si scusa, si meraviglia, impreca contro i distratti collaboratori eccetera. Rimedierà, chiarendo al prossimo numero del settimanale. Vedremo.

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