venerdì 9 gennaio 2009

Susanna frammento sesto


16 settembre

L’uomo porse la gabbietta in fil di ferro al grosso gatto grigio. Dal balcone proteso parcamente sopra la stradina secondaria vedevo la scenetta. Dentro la trappola, un piccolo topo saltellava da una traversina all’altra. Come un fluido elettrico, la sua angoscia entrava nel mio corpo con un effetto empatetico intenso. Giù, nella straducola, bambini facevano cerchio intorno all’uomo accovacciato, al gatto impaziente e scodinzolante, al topo ghermito dal destino. C’era mio figlio fra quei bambini: avevo detto a mia moglie di portarselo via, di non farlo assistere all’odiosa scenetta, che tanto divertiva gli altri presenti. Uno scatto incontrollato di rivolta viscerale: che poteva capire un bambino di due anni? E tuttavia, la cosa mi riusciva molesta. Del resto, il bambino era precocemente sensibile, chi mi assicurava che non capisse e mi domandasse spiegazioni su quel dramma?
La gabbia si aprì, il topolino saltò fuori, il gatto lo coprì subito d’una perentoria zampa. Poco dopo l’ebbe in bocca. Assaporò la festa per qualche secondo, tenendolo fra i denti senza azzannarlo. Poi fece tre movimenti. Infine si leccò i baffi. Ed ecco ancora una volta il volto vero di ciò che chiamano dio.

Più tardi Giampiero mi chiese le temute spiegazioni sullo spettacolo. Perché il gatto ha mangiato il topo? Il gatto aveva fame, e i gatti mangiano i topi. Ma il topolino era vivo. Ahi! Ma, sai, poi il topolino uscirà dalla pancia del gatto e tornerà vivo. È tutto un gioco. Non mi parve convinto. A nessuno dei presenti, bambini ragazzini e adulti sulle soglie aveva sentito sbrodolare una simile ermeneutica del mors tua vita mea. Continuò con le domande, via via più imbarazzanti. E io a mentire come uno sprovveduto non convincente. Ma che cacchio gli potevo dire? Lo vedevo impressionato, tutto serio e pensoso. A due anni e due mesi e mezzo aveva assistito a una dimostrazione reale (idest, crudele) del senso primario del vivere: troppo precoce, come esperienza filosofica. Lo so, dimenticherà, il ricordo sprofonderà nel gran serbatoio dell’autodifesa mnestica. Il cosiddetto inconscio. Ma sì, un bambino farà presto a lasciarsi occupare da altri fatti e spettacoli, per lo più meno drammatici. Ma intanto, che bell’impiccio. E pensare che insegno anche psicologia.
Comoda conclusione dell’imbarazzo. In quel pozzo buio chiamato inconscio non si cancellerà del tutto la cruda pedagogia. La scenetta si annebbierà, particolari verranno cancellati, ma un segno rimarrà. Obliterato, e pronto a riaffiorare spinto da un richiamo compatibile. E a ricomporre, nell’essenziale, la visione oscena. Quali effetti potrà produrre sul bambino?
Forse esagero nei paterni timori e tremori. Forse.


Akiskene, 18 settembre

Rientro in Sicania, e trovo lo stesso genere di musica. Un giovane di 23 anni è morto in fondo a un pozzo, asfissiato. Tentava di controllare il motore per tirare su l’acqua. La sua famiglia è vicina di casa dei miei genitori. Era un bel ragazzo, e anche rispettoso e pacifico. Stamane, verso mezzogiorno, uscito per fare una raccomandata all’Enpas, mi sono imbattuto nel funerale. Molte ghirlande di fiori, varie macchine in corteo, tanta gente. L’evento ha colpito il vicinato. L’ingresso della chiesa di santa Sofia era coronato da immensi drappi neri. Poi ho preso l’autobus per Realpolia e al ritorno, sulla via Campicelli, dove abitava il ragazzo, siamo rimasti intrappolati nel corteo funebre, avviato al cimitero. Per un quarto d’ora circa siamo rimasti dietro il serpentone di gente e macchine, che avanzava lento. Ai due lati della strada, berline in sosta, uomini (pochi) e donne (tante) sulle soglie, spettatori d’ambo i sessi anche ai rari balconi. Guardavo le facce dei curiosi. Alcune erano “onestamente” indifferenti o appena incuriosite; altre, le più, affettatamente dolenti, poche veramente toccate dalla brutalità dell’accaduto (prevalenti, donne, e madri) fatto. Capannelli di curiosi commentavano, costeggiando qua e là il corteo e la colonna delle macchine. Dentro l’autobus, un deficiente di giovane bigliettaio scherzava grossolanamente sul morto sconosciuto, e per poco non mi fece esplodere. Al quartiere di san Giovanni, davanti alla chiesa, sul breve sagrato e sui gradini che lo saldavano alla strada, c’erano invitati di un matrimonio in corso di celebrazione. Stavano fuori perché la chiesa è piccola e non sempre può contenere la totalità degli invitati. Sposava un mio mezzo parente, vicinissimo di casa del giovane morto. Macchine del funerale e macchine dello sponsalizio s’incrociavano o si seguivano nella stessa direzione.
Insomma, il volto prevalente e normale della vita: tragico e beffardo. Ovverosia, indifferente. Come il mondo, di cui è la parte drammatica. La morte, un funerale, uno spettacolo. La gente che s’affaccia curiosa, commenta, conta le ghirlande, le macchine, misura l’accompagnamento, ne trae valutazioni sugli onori resi al defunto, sul rispetto dimostrato alla famiglia. Altri che sposano nello stesso giorno, nelle medesime ore del funerale, i due eventi s’incontrano, s’incrociano. I “matrimoniali” si sforzano di commuoversi, forse; ma certamente maledicono la coincidenza. Almeno, gli intimi degli sposi. Fra gli invitati ci sarà qualcuno che ne ride, magari divertito da questi scherzi del Caso, ma la maggioranza e quasi totalità è tuttavia abbastanza superstiziosa per indurre nel casualissimo chiasmo significati oscuri e timori chiari: quel morto ha gettato ombre sinistre sulla felicità degli innocenti sposi. E, chissà, qualche vegliarda in dimestichezza col paranormale forse ne dedurrà macule di colpa sul velo bianco della sposa o sul candore morale dello sposo (che però sono lontanissimi da ogni sospettabile macula). L’inventiva umana è inesauribile quando vomita perniciose stupidaggini sull’invisibile. Quanto a loro, gli sposi, stanotte dimenticheranno il morto col suo strascico di coincidenze e superstizioni. Per loro fortuna. Oppure se ne ricorderanno, magari in qualche improvviso flash birichino di Mneme giocosa?

20 settembre

Ha scritto il prof. Enzo Paci. E’ la seconda lettera che ricevo in questo mese. Una scrittura quasi indecifrabile. Voglio trascrivere l’ultima.

Caro Assaggi, ho trovato la sua lettera all’università. Le avevo già scritto alla Gazzetta dello Stretto, ma forse lei non ha visto la lettera. Grazie anche dell’articolo sulla Gazzetta [errore per Gazzettino] dei gelsomini, per quanto io abbia dei dubbi sul termine “decadentismo”. L’articolo su Sartre va molto bene – lei è fra i primi che abbia capito qualcosa. Le spedisco al suo indirizzo la Funzione [titolo completo Funzione delle scienze e significato dell’uomo] e l’estratto di un articolo che uscirà sul prossimo numero di Aut Aut. Nell’articolo c’è un breve riassunto del mio pensiero e della rinascita della fenomenologia in Italia (di questo argomento la Révue internationale de Philosophie parlerà. La famosa rivista dedicherà un numero intero a Husserl – con uno scritto che io sto preparando). Lei prenda nota di quello che dico in Fenomenologia e...[non capisco una parola]. Noti che io nel mio libro, ad un certo momento [?] dico che per certi aspetti il marxismo critica la religione, per altri il marxismo stesso si muove sul piano di interessi religiosi. Veda quello che dico dei rapporti tra marxismo e religione alle pagg. 359 – 60 di Funzione. Le mando anche il Diario fenomenologico.
Con i più cordiali saluti e ringraziamenti, suo Enzo Paci

Lettera di Enzo Paci del 2 sett.

Caro Assaggi, grazie di aver ricordato Aut Aut e il mio saggio su Les mots nel suo interessante articolo Un soffio sul fuoco. Perché non ritorna sull’argomento parlando anche della Critique?
Con i migliori auguri di buon lavoro. Suo Enzo Paci

La lettera, indirizzata così: Paolo Assaggi. Gazzetta dello Stretto, Zancle mi è stata rispedita da quelli della Gazzetta (ma, credo, personalmente da Ciaccò) a Siderato di Calamagna.

9 ottobre, ore 23,30

Commemorazione, oggi, sui giornali e nella televisione, del Vajont. Giusto un anno fa accadeva quel disastro immane, così poco naturale, così e tanto umano. Accadeva quanto si prevedeva, quanto s’era previsto, e tentato, invano, di scongiurare: vinse, ha vinto, il Valore che continuerà a prevalere e dominare in questo schifo di società prona al dio profitto. E che però si pretende democratica civile cristiana; e, nella sua sezione che qui è chiamata in causa, si vuol dire la borghesia italiana delle imprese e speculazioni annesse, è anche attentissima a non inquietare col benché minimo sospetto la pasciuta pace dell’Oltre-Tevere.
Chi tentò, negli anni e nei mesi precedenti la tragedia, di torcere all’evidenza dei drammatici rischi prevedibili l’ingordigia di imprenditori ingegneri collusi e altre complicità politiche prive di scrupoli, fu deriso, accusato di allarmismi ideologici, sospettato di complicità occulte con forze economiche concorrenti e alternative. Tanti paesi distrutti, 2500 corpi umani inghiottiti dall’infernale combutta tra acqua e fango, scatenata dal cedimento della diga. La diga fatale, che mai avrebbe dovuto sorgere in quel sito scricchiolante. Mai, se homo edens non fosse, in troppi esemplari, ignoranti e colti, un bulimico del profitto e un devoto di Mammona-Moloch: quale spanciata di carne umana, in gran parte tenera di tempi e di innocenza, ha fornito alla bifida divinità la combriccola creatrice della Diga!


10 ottobre

Sul Gazzettino è uscito, oggi, l’altro mio editoriale dedicato all’America infetta, Il rapporto Warren offesa alla verità e all’intelligenza, sopra il titolo un simil -occhiello promette Argomenti per la storia (denominazione di una specie di rubrica fissa). Grande rilievo al pezzo, titolato su cinque colonne, e con inevitabile (data l’estensione) rinvio alle “Continuazioni” dell’ultima pagina. Come per il Goldwater, insomma. E purtroppo con la medesima “stranezza”: manca il nome dell’autore. Lo stesso amico ridacchia: “Gli piacciono troppo, te l’ho detto.” “Ma posso credere a tanta piccineria?” “Ha chiarito l’altra volta?” “No.” “Vedi? E non lo farà neanche questa.” “Ha detto che l’ha dimenticato. Ma questi sono veri e propri furti.” “Sì, furti …d’autore.” “Protesterò più vibratamente, e gli dirò che attendo la restituzione anche dell’altro articolo.” “Auguri.”
Inutile riassumere lo scritto: il sunto è già nel titolo. Certo che fa impressione leggere sui grandi quotidiani americani un’approvazione quasi unanime di quel documento “confezionato” per insabbiare. Eccone un esempio: “Il rapporto della Commissione Warren è un resoconto ampio e convincente sulle circostanze dell’assassinio del presidente Kennedy. […] I fatti, esaurientemente raccolti, controllati con imparzialità e presentati in modo persuasivo, distruggono le basi delle teorie della cospirazione, sviluppatesi come erbacce in questo Paese e altrove” (New York Times). Il New York Herald Tribune fa di meglio: polemizza, con risibili ragioni storiche, contro lo scetticismo europeo. Rileggiamo, quaderno (che hai portato in grembo l’articolo in gestazione): “E’ in Europa che la teoria della cospirazione per spiegare la morte del Presidente è stata in maggior misura accolta con favore. E’ in Europa che, specialmente da parte della sinistra, si è più che mai ansiosi di considerare l’intera triste vicenda, compresa la stessa formazione della Commissione Warren, come un mostruoso intrigo”. Malafede della sinistra, sempre pronta a scagliare sospetti e accuse peregrine a quella meraviglia di Civiltà. La quale, al massimo, liquida qualche presidente infetto di aliena divergenza: ha una tradizione da difendere, dopo tutto, no? Insomma, niente complotto, niente misteri, tutto chiarito, tutto chiaro. E luminoso come l’aurora di un Mondo Nuovo. Leggiamo: “Ma coloro che leggeranno con mente aperta il voluminoso e palesemente onesto rapporto della Commissione non potranno non concludere che la Commissione stessa ha fatto veramente quanto di meglio menti giuridiche avrebbero potuto fare, con vaste risorse, per cercare e reperire i fatti. Le loro conclusioni hanno fatto svanire il fantasma di un torbido complotto”.
Conclusioni subito accolte dalla stampa borghese italiana, con più o meno vivace e ostentato entusiasmo, dal famigerato Tempo alla più flessibile Stampa, che offre una specie di peloso contentino alla sinistra: “Il presidente Kennedy fu ucciso da Lee Harvey Oswald. Nessuno aiutò l’assassino a compiere il suo crimine. Non esiste nessuna prova che autorizzi a credere che dietro il feroce delitto di Dallas ci sia stato un complotto ordito in Russia, a Cuba o in qualsiasi altro Paese. Oswald fu a sua volta colpito a morte da Jack Ruby senza che i due uomini si fossero mai visti né conosciuti in precedenza”. Niente complotti, né da destra né da sinistra. E siamo contenti tutti. Anche i parenti stretti dell’eminente vittima (così dicono “le fonti”). Tranne pochi irriducibili. Fra i quali mi onoro di schierarmi, più che mai convinto del complotto e avvinto agli argomenti che, leggendo illustri commentatori, svolgo nell’ampio articolo: complotto della destra reazionaria, petrolifera, imperiale e negrofoba. Parere fatto proprio dalla grande stampa francese e dallo stesso De Gaulle. Neanche la stampa nord-europea beve la frottola del “non complotto”. Quanto al sempre lucido Bertrand Russell, ecco come la pensa: il Rapporto è “un documento spiacevolmente incompetente [che] copre i suoi autori di vergogna”. Circola già un libro a difesa della lettura complottistica dell’evento: è dell’onesto Thomas Buchanan, e già tradotto in diciotto lingue: s’intitola Chi ha ucciso Kennedy, ed è un ritratto spietato dell’altra America, quella goldwateriana, “l’oligarchia più potente e ricca del mondo”, ma, caso unico, “composta di individui che non hanno l’istinto degli uomini d’affari, ma quello dei giocatori d’azzardo”. Insomma, sono i bei tipi che credono possibile una guerra atomica vincente, “soprattutto se attaccassero per primi”. In un Rapporto da Dallas, Nerin Gun, su Epoca (8 dic.‘63) illustra con dettagli raccapriccianti il clima di Dallas fanaticamente ostile a Kennedy, additato come un traditore sovietizzante ed effigiato in manifesti murali largamente diffusi con la scritta Wanted. Alla notizia della morte, alunni e insegnanti di certe scuole texane giubilarono. E si udivano ragazzi gridare: “Che bellezza! Papà sarà così contento che mi comprerà l’auto che mi ha promesso!” L’inglese Daily Worker scrive: “Ciò che è avvenuto dopo l’assassinio di Kennedy dimostra quanto potenti siano le forze di destra negli Stati Uniti. L’annacquamento del Rapporto Warren è un servizio reso ad esse”. Il curioso è che lo stesso Warren ebbe a dire, al momento di iniziare le indagini, che molti fatti legati al delitto Kennedy “non saranno rivelati per varie generazioni.”
Un po’ deluso rimane anche Ricciardetto, che fu tra i primi a sospettare un diabolico complotto. Naturalmente, cubano. Anzi, sovieto-cubano.

31 ottobre, tarda sera

Il sideratese Gazzettino uscito oggi ospita il mio lungo articolo su Sartre, occasionato dal rifiuto del Nobel. Titolo del saggio: Genesi di un gran rifiuto, una specie di occhiello recita: Itinerario di Jean Paul Sartre. Il cubitale titolo si stende su sette colonne, il testo occupa due colonne piene e quattro mezze della terza pagina, e un bel po’ ancora di spazio sull’ultima. L’occasione mi ha ispirato una presentazione globale del poliedrico Sartre, articolata per titoli differenziali e specialistici: “Il filosofo”, “Il romanziere”, ecc. Ecco l’incipit: “Quando il premio Nobel per la letteratura fu assegnato ad Albert Camus, Sartre pare abbia detto: gli sta bene. Poteva accettarlo lui, oggi? Quel premio è troppo ‘caratterizzato’: viene da gente che è in regola con la società e in pace con la vita. Anzi, ambirebbe, giusta il regolamento, concedersi ad autori che abbiano contribuito, con l’‘ispirazione idealistica’ della loro opera, al progresso dell’Umanità con la maiuscola. Sartre ha indubbiamente contribuito al progresso dell’umanità, ma non certo con l’ispirazione ‘idealistica’” (nel senso nobelesco).

7 dicembre, Akiskene, ore 19,30

Dopo quasi due mesi (a parte la nota sul Sartre del “gran rifiuto”) di silenzio assoluto mi riprende il prurito del piccolo diario, o almeno del quaderno-zibaldone. La mole degli eventi è tale, che sarebbe impossibile tentare di darne un riscontro completo, fosse pure per anemici accenni. Selezionerò, dunque, con avaro rigore.
Cominciamo coi “grandi eventi” della mia piccola storia culturale privata. Dal 19 settembre, la corrispondenza illustre mi si è ingrossata: ne diamo notizia, per le...nuove generazioni.
Ancora una lettera di Paci. Questa indirizzata ad Akiskene, via Roma, 55 – 57, mia dimora domiciliare, dove trascorro le vacanze scolastiche, in attesa del trasferimento (non bramato). Risponde a una mia lettera accompagnata da un ritaglio del mio articolo su Funzione delle scienze e significato dell’uomo, l’ultimo libro del filosofo, gentilmente (e speranzosamente) inviatomi in omaggio dall’autore, in vista della presente recensione (propiziata anche da una gentile dedica autografa).

Via Burlamacchi n.11, tel. 54 10 26
Milano
Caro Assaggi, la ringrazio della sua recensione a Funzione delle scienze. E la ringrazio del suo interesse per la mia opera. Ho visto anche il suo articolo su Valori. Valori è serio e molto bravo, le consiglio però di leggere, – oltre noi italiani – i testi degli autori che hanno fondato la fenomenologia. Presto uscirà un’antologia fenomenologica a cura di Carlo Sini, presso Garzanti. Farò in modo che le venga spedito.
I più cordiali saluti
Enzo Paci

Mentre la lettera di Paci viaggiava verso la sicanico-liotrica Akiskene, io rientravo a Siderato Marina, il bel paesone calamagnese; cosicché, non avendola ricevuta, ho temuto che il professore non avesse risposto. Perciò gli mandai un’altra lettera con un secondo ritaglio dello stesso articolo, nel frattempo uscito sul Gazzettino del 24 ottobre, e quindi da questo ritagliato. Ecco la risposta pacifica:

4 novembre
Caro Assaggi, le avevo scritto ad Akiskene (dove bisogna scrivere?). Il suo articolo è bello, scritto in modo fluente, e, per un quotidiano, abbastanza fedele. Anche l’avviso[sic] dell’eclettismo non mi ha affatto offeso. Mi riconosco – sia pure in parte – in quello che lei ha scritto. Non pensi che mi sia dispiaciuto. Anzi, la ringrazio.
Devo farle notare, per un’altra volta, alcune inesattezze: 1) Non sono anconitano, ma di Monterado, provincia di Ancona: è meglio dire “marchigiano” o “monteradese”. 2) Nel testo dell’articolo c’è Funzione delle coscienze errore di stampa. 3) Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl è del 1961.
Il risveglio dell’interesse husserliano è del 1955-56. e dovuto al fatto che la relazione doveva radicarsi al soggetto fondante e alla monadologia dei soggetti. Bene quello che dice della Lebenswelt e dei Leibe.
Mi auguro che ritorni sull’argomento, magari tenendo conto dell’interesse per la scienza che si rivela negli ultimi Sensi delle parole in Aut Aut e delle operazioni dei soggetti (operazionismo fenomenologico).
La ringrazio ancora e la prego di gradire i miei più cordiali saluti.
Enzo Paci

Nell’articolo avevo scritto 1951 come data di pubblicazione di Tempo e verità, riprendendo, senza riflettere, un errore della copertina di Funzione delle scienze. Questo errore me ne aveva figliato un altro, facendomi correggere la data giusta, segnata nel dattiloscritto, del “risveglio fenomenologico”, con quella sbagliata indotta dal primo abbaglio. Monteradese: vedi precisione patriottica. Io dicevo anconitano come direi liotrese di me. Per indicare la provincia. Ma sembra che Paci ci tenga alla gloria del suo paesino natale (intravede già il monumento in bronzo sulla piazza principale?). Eclettismo: è l’accusa (benevola, neppure una vera accusa) mossa a Paci nel 1961, nel primo saggio sul suo pensiero. Piccolo significato morale del gesto: io non vorrei lisciare nessuno, mai, neppure i “grandi”. Sensi delle parole: Il senso delle parole è una rubrica della sua rivista. Valori: avevo mandato a Paci una mia vecchia recensione al libro di Paolo Valori, Il metodo fenomenologico e la fondazione della filosofia, apparsa su Teoretica, la rivista del prof. Lastrada.
A questa lettera risposi annunciando, tra l’altro, la prossima pubblicazione di un articolo in cui metto a confronto il pensiero di Abbagnano con quello di Paci sulla scienza. Confronto in apparenza limitato, ma di fatto implicante una comparatio più larga, che attraversa necessariamente le rispettive valutazioni della fenomenologia husserliana: due posizioni che si presentano in sommessa o sottintesa polemica nei loro scritti. Paci non ha risposto alla mia lettera. Già una prima volta la nostra corrispondenza si era insabbiata sul nome di Abbagnano. Semplice coincidenza? Giochi del Caso? Oppure, più plausibilmente, quando gli parlo di Abbagnano, Paci silet? Non ne vuol sentir parlare? Eppure, un tempo il Monteradese era poco più che un’entusiastica appendice del filosofo salernitano. Mi pare di vedere, nei loro rapporti, l’eterna vicenda dei fratelli separati, dei grandi protagonisti del Pensiero che procedono concordi per un più o meno lungo tratto e poi si allontanano l’un dall’altro, ciascuno segue una personale via e vicenda, e infine si scontrano (quasi sempre per, e con, incidenza di fatti e fattori pragmatico-biografici). Una nuova coppia Gentile-Croce, Platone-Aristotele, Schelling-Hegel (salve le diverse dimensioni storiche fra quel blocco e la coppia)? O la versione dialettica maestro-discepolo, padre-figlio, con la fisiologica ambivalenza amore-odio, consenso-dissenso? Un po’ di tutto questo, direi. Un florilegio di emozioni pensose.
Verso la fine di ottobre, ritornando da Siderato calamagnese in Akiskene sicanica, ho trovato in casa le bozze del mio articolo filosofico che dovrebbe apparire sulla rivista di Volpicelli I Problemi della pedagogia. Si tratta di una “appassionata” stroncatura del libro più strampalato che abbia letto negli ultimi mesi: un viaggio euforico attraverso la scienza più aggiornata che finisce in gloria, celebrando la Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana, infrangibile forziere di verità rivelate, il papa, l’intera gerarchia competente, e perfino monaci e suore, tutta gente, a sentire l’imbranato autore, repleta di sante virtù, altruismo, spirito di sacrificio e altro nettare elisio. Che sfogo salutare poterle cantare papale papale a certi tangheri papalini!
Ho rispedito le bozze corrette, accompagnandole con una lettera nella quale, tra l’altro, manifestavo l’intenzione di fare l’abbonamento alla rivista per il mio liceo. Volpicelli ha risposto con questa lettera:

Caro Assaggi, le ho fatto spedire il numero speciale della rivista dedicato alla Scuola rumena. Ci sono cose interessanti. Ad esempio, hanno messo un maestro per ogni disciplina fin dalla prima classe elementare. La cosa si inserisce in una rivalutazione della materia d’insegnamento, che, vedo, sta facendo proseliti in USA. Le sarei molto grato se ne potesse parlare sulla Gazzetta dello Stretto. Vorrei far vedere ai rumeni che il fascicolo ha destato interesse.
Molte grazie di tutto e cordiali saluti
Luigi Volpicelli

Anche Volpicelli ha una grafia “faticosa” (la stanno “attaccando” a me). Ho ricevuto il fascicolo annunciato dei Problemi, l’ho letto in buona parte, e ho scritto l’articolo richiesto in due versioni: una più lunga, che dovrebbe uscire sul Gazzettino, e una breve, che è già apparsa sulla Gazzetta zanclesca del 24 novembre, col titolo Cultura rumena (una colonna e due terzi, circa).
Prima di fare l’articolo, avevo risposto a Volpicelli promettendogli di scriverlo. Coglievo l’occasione per offrire la mia collaborazione alla rivista, iniziando con recensioni di testi filosofici o letterari. Ho avuto questa risposta:

Caro Assaggi, di ritorno da Bruxelles trovo la sua lettera del 16. La ringrazio vivamente. Sarò ben lieto di pubblicare Sue recensioni quando vorrà. Non ho ancora ricevuto il giornale, ma intanto la ringrazio vivamente anche di questo.
Con molta cordialità, mi creda
Suo Luigi Volpicelli

Qualche giorno dopo, ho spedito un ritaglio dell’articolo gazzettiero Cultura rumena, con una lettera in cui, ahimè, proponevo al direttore due miei saggi su Camus per un esame che ne giudicasse l’eventuale ricevibilità sulla rivista. Mandavo anche un ritaglio della mia recensione al bel libro di Meschkovsli, Mutamenti nel pensiero matematico.

Volpicelli mi ha risposto con questa cartolina intestata a I Problemi della pedagogia

Carissimo, grazie! Assai bene la recensione a Meschkovski. Mi mandi il saggio su Camus. Rielabori per me una recensione a Meschkovski. Il numero in cantiere della rivista esce fra giorni.
Cari saluti
Volpicelli

Ho mandato i due saggi camusiani, ma con la quasi certezza che non saranno accettati per la rivista, così dichiaratamente filosofico-pedagogica: non sono adatti, stonerebbero, ma ho voluto tentare. Vedremo. Non sarà la fine del mondo, se Volpicelli li respingerà per ragioni tecniche. Magari li dirotterà verso altra rivista di sua conoscenza e di tematica pertinenza. Ho messo in busta anche una lunghissima recensione-analisi all’ubertoso, stimolante libro di Erich Kahler, La torre e l’abisso. Mi era stato inviato, a suo tempo, da Bompiani in “omaggio per recensione”. Il rapporto con l’editore risale al tempo del mio primo articolo su Camus, tre anni fa. Allora Bompiani mi ringraziò, entusiasta, con una letterina autografa, dicendosi pronto a mandarmi in omaggio tutti i libri della sua editrice che io volessi recensire. La cosa mi stupì, perché io non gli avevo mandato nessun ritaglio (non conoscevo neppure la “pratica del ritaglio”); e m’incoraggiò (ma non so se fu soltanto un bene) nella rischiosa vocazione di recensore, divoratrice di tempo e fatica. La mia ingenuità di principiante ignorava ancora l’efficienza dell’Eco della stampa verso i grandi editori. La recensione è stata scritta l’inverno scorso, ma per un periodico culturale è sempre “fresca”. Non ho ancora mandato, invece, la recensione a Meschkovski (“rielaborata”).
*
L’evento più coinvolgente di questo periodo è stato la pubblicazione sulla Gazzetta del 10 novembre di un mio corsivo polemico sulla critica in Italia. L’articolo (titolo: Ma la frusta è davvero in soffitta?) prende lo spunto dal dibattito sulla critica in Italia ospitato dal settimanale L’Espresso del 4 ottobre e da un articolo di Enrico Emanuelli sul Corriere della sera dell’11 ottobre. In quest’ultimo si deplora la scomparsa, nella critica militante italiana, della stroncatura (o comunque dell’onesta severità: la frusta, appunto).
Il mio intervento svolge la tesi che, se la critica italiana (al contrario di quella anglo-americana, difesa dai convenuti) è, nella stragrande maggioranza dei suoi esponenti, davvero accomodante (salvo capricciose eccezioni “personalistiche”), non è però vero che non ci siano eccezioni serie. E cito, illustrandolo, il caso Gulizza, critico onesto, senza peli sulla lingua, capace, al caso, di stroncature impietose, ma tutt’altro che umorali e capricciose, anzi ben documentate nei puntuali rilievi negativi. L’articolo rinfaccia anche il silenzio dei conversanti su quel nome, da tempo ostracizzato proprio per il suo “ben fare”. L’intervento, “commissionatomi” da Gulizza tramite l’amico comune Rama, è piaciuto al “committente”, il quale mi ha telefonato lusingandomi con “la stoffa del grande giornalista”, che io possiederei (come dono degli dèi a me poco noto?). Be’, mi ha fatto piacere, sapendo che il terribile “Vecchio” è piuttosto avaro di complimenti, anche nel privato. E’ rimasto contento (mi fa sapere) pure della mia recensione al libro postumo del filosofo Ferrotti, da lui curato sulla base di appunti e provvisorie stesure parziali del defunto. Titolo del libro, Linguaggio del sogno, La recensione è uscita sulla Gazzetta il 20 ottobre.

Ho mandato un ritaglio dell’articolo sulla critica (apparso, intanto, anche sul Gazzettino sideratese col titolo Pane al pane) ad alcuni fra gli autori interessati (e citati). Einaudi, Arrigo Benedetti, Enrico Emanuelli, Alberto Moravia. Hanno risposto i primi tre. Per l’editore risponde l’addetto stampa, Ferrero, che mi ringrazia cortesemente e annuncia l’invio (per recensione) di due nuovi libri: Il cacciatore, di Cassola, e un recente romanzo americano.
Emanuelli mi ha scritto una simpatica letterina (su foglio intestato al Corriere) spedita all’indirizzo del Gazzettino (il cui direttore, “per errore”, l’ha aperta e letta). Eccola.
Corriere della sera. Sezione letteraria-culturale Milano, tel. 63-39 (urbano) 665 - 941 (interurbano) 5044/27. 11. 64 [questa la cornice a stampa del foglio intestato]

Milano, 25 novembre 1964
Gentile Assaggi,
grazie per il ritaglio, che mi ha fatto molto piacere. Non sono abbonato a nessun “Eco della stampa“, e quindi non l’avrei altrimenti visto.
Le cose che lei scrive sono giuste; le condivido. Ma lasciamo da parte l’accusa di “non fare i nomi”. Come, d’altra parte, sarebbe possibile? Certe cose si sanno ma non si possono “provare”. Per esempio: che il critico X, di un quotidiano milanese, sia anche consulente della casa editrice Garzanti, lo si dice, ma come provarlo? Quindi tutto resta, per forza, allo stato fluido.
Si tratta di far aprire gli occhi al pubblico, di metterlo in guardia. Non si può andare, purtroppo, più in là.
Molti cordiali saluti dal suo
Enrico Emanuelli

Ho risposto a Emanuelli, ringraziandolo a mia volta per la sua cortese disponibilità, convenendo con lui sulla difficoltà del “fare nomi”, e suggerendogli infine, con un giro “dialettico”, di leggere Gulizza. Non ha scritto più. E in fondo non mi aspettavo un’altra immolazione del suo tempo ingorgato. Il nome del Maestro proibito, del resto, provoca simili non-risposte. Ho consultato la Storia del romanzo italiano del Gulizza al nome-paragrafo Emanuelli e ho visto che l’autore della famigerata Storia lo tratta piuttosto avaramente (secondo suo costume).
Ha risposto anche Arrigo Benedetti, al quale, tra l’altro, rimproveravo, garbatamente, di non avere fatto seguito a una mia lettera di due anni fa, che lo pregava di far pervenire ad Alberto Moravia il mio primo articolo su di lui (apparso sulla Gazzetta col titolo, provocatorio, di Ciaccò, Decadenza di Moravia). La letterina di Benedetti, indirizzata al Gazzettino

Roma, via Monserrato 20
25 npv 64

Caro Assaggi,
grazie di avermi inviato il ritaglio. Ho letto con interesse il lungo corsivo, anche per la parte che mi riguarda.
Se lei non ebbe risposta, è perché forse non ebbi il suo articolo giacché io risponde sempre.
Rinnovo i ringraziamenti e aggiungo i più cordiali saluti
Suo Arrigo Benedetti

Ho risposto ringraziando e manifestando la simpatia con cui lo seguo su L’Espresso. E naturalmente, accettando la spiegazione (del resto plausibile) del suo silenzio epistolare dietro l’invio del ritaglio moraviano. Le redazioni! I giornalisti-tipo! Gli editori degli autori frustati!

10 dicembre, ore 23

Mi sono stufato di questa processione di lettere e risposte con ricami circostanziali: come farla accettare ai probabili (anzi, improbabili) lettori del 2050? Bisogna che stacchi per un po’. E che riprenda la cronaca spicciola e gli affetti quotidiani.
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Cominciamo dalla famiglia. Rapporti con Rina, ma femme: ondulati come l’esistenza quotidiana. Con creste e ventri diagrammatici modulati dalla sua impulsività e dal mio self control non sempre eccelso. Contingenze scatenanti dei rapsodici attriti, il mio eccesso di carta in casa (libri, giornali, riviste... ), il troppo (secondo suo metro di massaia) tempo dedicato alla mia attività cultural- giornalistica, la mia idiosincrasia per le lezioni private (che riduco al minimo inevitabile), qualche telefonata di alunne, a suo parere non abbastanza allenate alla distanza pedagogica (traduco il suo malumore verbale nel mio slang). In realtà, il nocciolo duro (come si dice nella koiné televisiva) dell’inghippo causale (sic) è questa mini-sequenza logica: se legge e scrive tanto (oltre a fare lezione a scuola), si affatica più che a fare lezioni private. Ma l’attività culturale, come è costretto a praticarla lui, rende poco; le lezioni, al contrario, potrebbero integrare validamente il magro stipendio: perché dunque le rifiuta? Forse la mia “mezza arancia” mi attribuisce una dose esorbitante di masochismo. E io non so se abbia torto o ragione. A volte veramente mi fa dubitare della mia vocazione. E tutte le nobili parole che si recitano quando si tratta di Cultura mi sembrano vesciche gonfie di flatus vocis, pronte a scoppiare al minimo tocco della ruvida realtà antropica.

Tra le alunne che non rispettano la corretta “distanza pedagogica” una in particolare suscita le diffidenze di Rina: telefona un po’ troppo, secondo la mia sospettosa metà. Mi prende per... suo fratello? Lui sì, che è un dongiovanni. E, con mio disappunto, ne possiede, intero, il fisico (ah, le physique du rôle, questa tormentosa assenza nella mia sartriana situation!). Lei, l’innominata, è certamente una gran bella ragazza, ma è anche seria e di buona educazione familiare. In verità, Rina è gelosa di tutte le femmine che destano il mio interesse estetico. Non si convince dell’esclusiva estetica. E se pensi, quaderno confidente, che le mie tre classi sono tutte e tre al toto-femminile, vedi bene che occasioni di gelosia per Rina non mancano.
Giampiero ci dà qualche problema con la salute: cinque-sei volte l’anno prende febbre e mal di gola. Forse dovremmo “tagliare” le tonsille. Ma è ancora troppo piccolo.

15 dicembre, ore 22’30

L’Innominata della seconda classe sezione E oggi s’è messa in evidenza ancora una volta, chiedendomi di ripetere la spiegazione della sillogistica aristotelica, che io avevo completato la lezione scorsa. Dice di parlare a nome della classe, e aggiunge, di suo, che ha saputo, da certe amiche di altri corsi, che l’argomento, in tutte le altre sezioni, viene trattato, dai miei colleghi, in maniera assai “più leggera”. Ho replicato che le avevo avvertite di questa “singolarità”, e non senza giustificare la maggior copia di informazioni presentate nella trattazione della logica in generale e nella sillogistica in particolare. Ad ogni modo, ho ripetuto gli argomenti già esposti: vorrei allenare i loro cervelli (così poco inclini alle meditazioni astratte) a un maggiore impegno sequenziale. Per questo fine (forse discutibile, forse inutile, ma non credo del tutto sterile) ho trattato e spiegato tutti e quattro gli schemi o figure sillogistiche, con l’aggiunta dei modi della prima figura, memorizzabili mediante le parole mnemotecniche Barbara, Celarent, Darii, Ferio. Ma naturalmente accetto volentieri di ripetere la lezione, in tutto o in parte, quando me lo chiedono così gradevoli creature. Ho invitato a ripetere, sotto mio controllo, una o più volontarie del manipolo brave. E’ venuta alla lavagna la più sicura. E così, con la valletta al fianco, ma non muta come in televisione, abbiamo (pluralis modestiae) ripetuta la lezione. La girl, intelligente, studiosa e carina, ricordava anche la simbolistica delle figure e ne ha scritto sulla lavagna la versione schematica, spiegandone il senso. Ho chiesto anche qualche esempio di personale invenzione per ciascuna delle quattro. Alcuni li ho aggiunti io, tornando a bussare a quelle testoline (mi si drizza in mneme un ricordo leopardiano: “non cape in quelle anguste menti…”. Naturalmente, per respingerlo). Ho sollecitato, ma con scarso successo, il resto della classe a tentare qualche esemplificazione. Del resto, è ancora presto per pretendere applicazioni estemporanee della teoria appena spiegata. Ho consigliato di provarci con comodo nell’atmosfera distesa delle proprie case e riferirne, poi, a scuola. Nonché consigliato alle più brave di cimentarsi con i modi delle altre figure, cogliendone somiglianze e differenze. Ma senza insistere troppo nel consiglio.

L’Innominata mi ha telefonato, e per fortuna (cioè, per evitare chiacchiere con Rina) ero solo in casa. Il pretesto era un chiarimento di logica. Anzi, la richiesta di un parere su un personale tentativo di esemplificazione sillogistica della terza figura e del secondo modo della prima. Pretesti, dicevo, ma fondati, non pretestuosi (questa precisazione è ad usum delphini. E il delfino resta anonimo). La stessa alunna si è mostrata molto attenta quando ho rievocato il Vajont. E oggi il Caso mi ha fatto trovare in una tasca di una smessa giacca un taccuino in cui ho annotato, lo scorso anno, primo della conoscenza fra me e queste classi, lo sguardo indagativo della innominata qui in ballo: ho visto che il giorno è il 9 ottobre. Passo sotto silenzio il lampo sinistro della coincidenza: qui una piccola emozione gradevole, là, nei paesi della tragedia, l’immensurabile strazio.
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Riprendiamo con le lettere? Si è rifatto vivo, lo scorso 11 settembre, anche Vittorio G. Rossi: con un Saluto affettuoso su una bella cartolina illustrata di santa Margherita Ligure, indirizzata a Siderato. Altro “contatto” il 24 ottobre. Ha mandato uno strano foglietto con un simpatico disegnino: un cane proteso, abbaiando, suppongo, verso una lunetta rotonda sorridente e ammiccante. Sotto la luna queste parole: Caro Assaggi, da molto tempo non ho notizie tue. Come stai? Affettuosamente, il tuo Vittorio G. Rossi, Roma 24 ottobre.
Ho risposto spiegando il mio silenzio con gli impegni di lavoro, che mi hanno portato lontano da certe letture (vale a dire dai suoi libri) e proponendogli una mezza intervista. Ha mandato un’altra bella cartolina illustrata (anch’essa a colori e di nuovo con soggetto Santa Margherita) e queste parole:
Caro Assaggi, sono venuto qui per votare. Appena torno a Roma rispondo alla tua lettera. Intanto ti mando un saluto affettuoso.
Vittorio G. Rossi, Santa Margherita 23 novembre

Ancora sto aspettando, ma senza alcuna ansia, la sua lettera: continuo ad essere distratto da altri interessi culturali, molto lontani dai libri, pure spassosi e utili (per la lettura fisiologica) del mio illustre amico.
Ah, la magia delle fanciulle in fiore fulminanti dai banchi (vecchi e così poco coerenti con tanta fioritura) di un istituto magistrale imprigionato in un decrepito palazzotto non del tutto immune dal rischio crolli! Specie alluvionali.

16 dicembre
Mi ha scritto anche Répaci, in questo periodo: sul “prammatico” foglio intestato al Premio Letterario Viareggio Il Presidente, Roma, 26 ottobre 196...
Caro Assaggi,
scusami l’enorme ritardo con cui rispondo alla tua. Prima c’è stato il Premio con i suoi strascichi, poi la vacanza a Palmi, dove ho fatto i bagni tutti i giorni, con le cicale che venivano a cantarmi nelle orecchie. La prossima estate ti voglio alla Pietrosa, che è certo il posto più bello del mondo. Berto ha tentato di creare un’alternativa tra Capo Vaticano e Pietrosa. Erano 12 persone a giudicare: Berto è stato battuto con punteggio 12 a 0.
Ho letto sul Gazzettino, completo, l’articolo pubblicato prima sulla Gazzetta dello stretto. Sei sempre troppo buono con me. Grazie di cuore.
Come saprai, col gennaio gli amici mi vogliono alla direzione del Gazzettino dei gelsomini. Ci dovremmo vedere per disporre il lavoro. Tu naturalmente sarai il titolare della critica letteraria. Speriamo pure di poter dare qualche soldo ai collaboratori.
Per mezzo di Titta ti farò avere Giramondo e Amore senza paura . Il primo libro è la prefazione al romanzo.
Tante care cose, amico Assaggi, e buon lavoro
Il tuo Leonida Répaci

Il buon Répaci non sa che, contro i suoi progetti e sogni, il Gazzettino, invece, agonizza. O forse lo sapeva, quando scriveva quella lettera, e l’appello degli amici a lui era una speranza (o illusione) di salvezza? Forse, davvero, solo lui, con le sue amicizie, potrebbe salvarlo. Gliel’ho anche scritto, rispondendo alla lettera appena trascritta, incitandolo a interessarsene con interventi per impegni “pratici” (leggi, finanziamenti diretti di politici, pubblicità ecc.). Anche la cassaforte di casa potrebbe intervenire, ma la signora Albertina è un ministro delle finanze, mi dicono, oculatamente severo.

Gulizza mi ha proposto di pubblicare a mio nome una lettera di Verga ancora inedita, con suo commento fisiologico, sulla rivista di Luigi Fiorentino, Maia. Ho spedito il pezzo al professore poeta editore con le parole suggeritemi da Gulizza. Fiorentino mi ha risposto con una delle sue “esclusive” cartoline postali fitte di una grafia minuta che fa colonna al centro lasciando ampi margini bianchi che vanno allargandosi verso il basso.

Siena, 8. XI. 1964
Egregio Assaggi,
pubblicherò l’inedito verghiano nel n. 6 (XIX): il n.5 è già composto. Ne viene fuori però una cosa assai scarna. Bisognerebbe aggiungere almeno un’altra lettera inedita. Il tempo ci sarebbe.
Personalmente non sono d’accordo né con Gulizza né con lei né con Foti per questa forma di accanimento contro la taccagneria del Verga. Nel caso riesca ad aggiungere una seconda lettera – così spero – veda di ovattare questo aspetto del commento. In fondo si tratta di un grande scrittore e [lascia sospesa la congiunzione]. Per gli estratti non c’è nulla da fare. La situazione finanziaria della rivista è assai tesa e io mi rifiuto di addossarne la spesa (che è piuttosto sensibile) agli interessati. C’è poi la congestione della tipografia: per un qualsiasi lavoretto bisogna pregare, pregare, ripregare, tornare a ripregare infinte [lapsus per infinite] volte. Ne sono stufo. Mi comprenda, dunque, e mi assolva.
Le recensioni eventuali ai libri editi dalla Maia veda, se crede, di pubblicarle altrove.
Mi abbia, con saluti cordiali, Suo
Luigi Fiorentino

Ho fatto vedere a Gulizza la cartolina e mi ha suggerito di rispondere che “nei prossimi mesi non mi è possibile mettere le mani nell’arsenale verghiano del Gulizza”
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Privato extraletterario. L’innominata lampeggia by shining eyes in direzione di ... Aristotele. Il suo indegno epigono e servitore sottoscritto sillogizza sul senso di quei flashes (peraltro, non scoraggiati dalla ... Filosofia).
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Avevo proposto ad Alberto Mondadori di mandarmi libri in “omaggio per recensione”: mi ha donato tutti i titoli richiesti, più Le parole di Sartre. I richiesti sono: Remo Cantoni, Il pensiero dei primitivi; Jean Paul Sartre, Critica della Ragione Dialettica (due grossi volumi). Bella rogna mi sono procurato: va bene I primitivi, lettura certamente affascinante; va bene Le parole, di taglio narrativo-autobiografico (e autocritico): ma l’immenso mattone “bitomale” (due pingui tomi) come finirlo senza rimetterci la...salute? Ne leggerò una parte e qualche riassunto sparpagliato in saggi su Sartre. Magari lo finirò, ma non in tempi compatibili con la necessaria freschezza editoriale della recensione. E va bene così.
La casa editrice bolognese “Il Mulino” mi ha mandato, per la solita recensione passepartout, il desideratissimo volumone di A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana (1959!), del quale il prof. Nicola Abbagnano ha scritto che “fa onore” alla nuova e giovane scuola storiografica italiana (sarà un caso che l’autore parli tanto e tanto bene di don Nicola?).

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