venerdì 30 gennaio 2009

Susanna frammento 10


Akischene, 17 aprile, vigilia di Pasqua

Viviamo, in famiglia e nella comunità parrocchiale, i fermenti delle grandi occasioni religiose. Auto-escluso da tanto bene, vagolo fra letture di giornali e riviste, lettura-meditazione di buoni libri (da centellinare sul lungo termine), ripassi di nozioni storiche. E scrittura serale di appunti e minimalia correnti. Eccone un saggio, del genere “pro eventuali sviluppi futuri” sul Gazzettino d. g.” (non per la destreggiante Gazzetta d. S.).
Alla peggio, sarà stato un modo di allontanare la nostalgia magno-greca. Dalla quale balenano, a volte, visioni euforizzanti. Specialmente la sera, in prossimità della soglia morfeica. Che di tanto in tanto, in imprevedibile casualità, varcano per occupare spazi onirici di realistico incanto variamente visivo e saporitamente tattile.
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Augusto Guerriero (Ricciardetto) è un critico acerbo della dottrina del “neo–isolazionismo”, difesa, in America, dalla prestigiosa penna di Walter Lippmann. In due lunghe “Memorie dell’Epoca” (Epoca del 4 aprile e dell’11 aprile) il Guerriero (di nome e di penna) esamina la presenza storica e l’evoluzione ideologica dell’isolazionismo, ne distingue “tre fasi” e le condanna tutte e tre per i loro “delitti”. I “delitti dell’isolazionismo” sarebbero le due guerre mondiali e il pericolo di una terza. Senza l’isolazionismo, inglese e americano, “non si sarebbe neanche parlato di guerra” nel ’14, e, nel ’39, “Hitler, nonostante tutta la sua follia (…) non avrebbe fatto la guerra”. Così opina Guerriero. Oggi, l’isolazionismo americano, ove fosse attuato, porterebbe all’ingigantirsi dell’imperialismo comunista, e al “suicidio” degli Stati Uniti. Lippmann e gli isolazionisti nuovi “sostengono che gli interessi dell’America in Asia e in Africa, pure essendo ‘sostanziali’, non siano ‘vitali’, e che, quindi, sia ingiustificato che l’America si impegni unilateralmente a difenderli con le sue forze militari”. In luogo del quale intervento, sarebbe opportuno, secondo questa visione, “operare attraverso le Nazioni Unite e altre organizzazioni collettive”.
Ricciardetto contesta il presupposto neo-isolazionista, che gli interessi americani in Asia e Africa non siano vitali: lo sarebbero invece, a suo convinto parere, perché “coinvolgono la sua sicurezza e il suo benessere”. Va bene, dunque, non il neoisolazionismo rinunciatario, ma il globalismo illustrato e difeso da Joseph Alsop (“Il globalismo ha perfettamente ragione”), secondo il quale gli interessi americani vanno difesi, in tutte le posizioni, “con tutti i mezzi”. Per rafforzare la sua tesi il giurista-giornalista fa un quadro eccitato del fermento antiamericano in Asia: la Tailandia somiglia al Vietnam meridionale all’inizio della guerriglia, nelle Filippine gli Hukbalohah hanno riacceso la guerriglia, a Manila e a Formosa si fanno dimostrazioni antiamericane (che vengono “soffocate con la forza”), il Giappone tende “verso una posizione di neutralismo”; e così via, per altri casi forse meno “eclatanti”.
Ne scaturisce il monito a non cedere nessuna posizione, pena la perdita progressiva di tutte le altre. E la proposta del “precetto” staliniano: “Spegni il serpente nell’uovo, uccidi il leone appena nato”. Con questa esplicazione finale: “la potenza non può essere statica, non può fermarsi. Deve diventare sempre più potente. Se no, decade”. Si può essere più chiari? Ricciardetto consiglia agli Stati uniti una politica di potenza assoluta. Cioè una strategia di aggressione non stop. Duttile e variegata. E, soprattutto, alonata di minacce pronte a scendere ai fatti: aggressività a tutto tondo, in atto e in potenza; in progress e virtuale. Illuminato da tanta dottrina, non trova difficoltà a deplorare che in Vietnam non si sia fatta una politica più energica e tempestiva. Ma godiamoci ancora l’ispirato testo: “Se appena cominciò la guerriglia, gli americani avessero fatto il decimo dello sforzo che stanno facendo adesso, la guerriglia sarebbe finita sul nascere”.
Che peccato, non aver seguito il geniale suggeritore. Ma forse il Guerriero (con le armi altrui) non s’è mobilitato in tempo? Sonnecchiava? Vai a saperlo. Certo è che quei pretoriani globali della democrazia hanno fatto (ancora parole degne dello scalpellino storico): “tutto troppo tardi e troppo poco”. A suggello di così sublime teoresi, un sospiro di amarezza sottilmente democratica: “E’ la fatalità delle democrazie”.


Zefiria, 20 aprile

Eccoci di nuovo in Magna Grecia, di nuovo a Zefiria, il paese marino dai venti odorosi di zagare e gelsomini. Consumata, fra i parenti più intimi, la santa Pasqua in Sicania, esaurite le sante vacanze operose (di varie letture e passeggiate, con e senza famiglia, nei luoghi della Memoria), siamo rientrati ieri sera, anzi notte, nella seconda condizione spazio-temporale: quella del lavoro e delle sue dipendenze sociali (colleghi, nuovi amici, diverse conoscenze occasionali…).
Oggi, a scuola, le inventive fanciulle di tutte le classi erano “impreparate”. Come da copione. La stranezza dell’en plein non ha coperture misteriose, ma di veli trasparentissimi: le impreparate hanno costretto le preparate (tacitamente, o in chiare lettere, catalogate come secchione) a fare comunella. Le poche afflitte dal sentimento del dovere (e forse, almeno in parte, favorite da domicili isolati, collinari e di montagna, poveri di svaghi e tentazioni) non hanno scelta: o “abbozzano” o vengono ghettizzate, e variamente afflitte di piccole violenze e dispettucci. Se “indagate” fuori dalle aule, rispondono: “cosa vuole, per solidarietà”. Così noi professori facciamo lezione divagando. Io ho fatto leggere le due memorie del Ricciardetto e “condotto” una valutazione guidata. Constatando, ancora una volta, la refrattarietà alla politica prevalente fra le non pesanti testoline del gentil sesso. Fortuna che alcune si lasciano (entro certi limiti) coinvolgere, le altre si sforzano, magari tentando di bloccare riflessi di sbadiglio. Tra le coinvolte, le “preferite”: quattro o cinque bellezze solari dagli occhi fiammeggianti della classe terza (sezione E). Che il povero sottoscritto è costretto a tormentare un poco per verificarne il grado d’attenzione polarizzata scolasticamente e il residuo divagatorio. Residuo vagolante su quali sentieri e oggetti visivi? Magari sul volto i gesti la voce gli occhi del conducator disarmato. Compreso il suo spostarsi dalla cattedra ai banchi, il suo guardare furtivo verso questa o quella delle privilegiate. Tra le quali (inutile ripeterlo qui, vero quaderno?) primeggiava il massimo target dell’attenzione estetica tracimante. Ora cercherò di adagiare su questo rigato volto di carta innocente il contenuto, riveduto e corretto, qua mutilato e là ampliato, delle nostre conversazioni “epocali”. Insomma, agghindato per una ormai decisa destinazione pubblica.
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Ci prendiamo la libertà di opporre qualche argomento alle energiche opinioni del Guerriero. Primo. L’isolazionismo (temporaneo) delle due prime “edizioni” può essere stato un errore, ma non è dimostrato che il suo contrario avrebbe impedito le due guerre mondiali. Tutt’al più, forse, le avrebbe allontanate un po’ nel tempo. Hitler, in particolare, avrebbe potuto decidere di attendere che la sua Germania diventasse ancora più potente. E chi può escludere che, costringendolo a una temporanea rinuncia nel ’39, non gli si sarebbe dato il tempo di costruirsi, magari, la sua bomba atomica? Che non avrebbe avuto certo scrupoli a usare contro nemici che ne fossero privi. Perché, poi, chiamare isolazionismo, doverosi, e magari interessati, tentativi di evitare una guerra per via di compromessi accettabili (certo, in se stessi, meno dolorosi di una guerra)? I tentativi inglesi e americani di salvare la pace in entrambi i casi furono vero isolazionismo? Dipende dai compromessi, si dirà. Fino a una certa soglia di tolleranza, può darsi. Non a caso abbiamo detto “compromessi accettabili”: un compromesso offre sempre meno di quanto il potenziale aggressore pretende. E dunque, se evita una guerra di conquista, risparmia vite umane. Non solo vite, ma, anche, e soprattutto, sofferenze più o meno atroci, e mutilazioni, spesso peggiori della morte. Né soltanto fra i militari, ma altresì, e soprattutto, fra i civili, una parte dei quali sono bambini. Cioè, una materia sulla quale dovrebbe stendersi un rispetto empatetico elevabile a criterio discriminante sulIa qualità spirituale di questa pletora umana così discutibile e così corriva nell’autopromozione.
Si obietta: ma sacrifica gli interessi di un Paese. Solo parzialmente: qualcuno deve soffrire nella logica del compromesso. Qual è il criterio, o piuttosto, quale deve, o dovrebbe, essere, per giudicare la preferibilità di un compromesso? Il meno invasivo è quello (appena richiamato) del risparmio di vite e sofferenze umane. In prima istanza; e, in seconda, distruzioni diseconomiche. Ma nessun criterio potrebbe evitare il prezzo condizionante: e il meno caro resta quello che garantisce la salvaguardia delle vite umane e dell’integrità corporale. Chi non tiene conto di questo, e si appella ai grandi valori invocandone la difesa con ogni mezzo, se ne sbatte delle vite umane da bruciare nel molteplice inferno di una gara di distruzioni. Più o meno lo stesso si può dire, mi sembra, per gli Stati Uniti: sforzi e tentativi di evitare diseconomie umane e materiali.
Come fa Ricciardetto a essere così sicuro che le due guerre sarebbero state impedite da un deciso globalismo 1914 e 1939? Bisogna immaginare l’esaltato Guglielmo II -1914 incapace di pensare che l’Inghilterra sarebbe intervenuta contro la Germania a conflitto iniziato. E altrettanto si dovrebbe pensare di Hitler, la cui follia, secondo Ricciardetto, non sarebbe bastata a fargli scatenare una guerra dall’esito incerto, nel caso Usa e Gran Bretagna avessero dichiarato per tempo che sarebbero entrati nel conflitto. A noi, si parva licet, pare più credibile l’ipotesi che il “Folle” la guerra, che aveva preparato per sei intensi anni di mobilitazione industriale e militare, l’avrebbe scatenata ugualmente. Magari dopo aver tentato invano di garantire alla Gran Bretagna l’immunità, se non addirittura vantaggi coloniali in Africa e Medio Oriente. O, al massimo, come si diceva sopra: l’avrebbe spostata in avanti, non evitata. In ambedue i casi chi ha cominciato la guerra sapeva che l’Inghilterra sarebbe intervenuta. E non si faceva troppe illusioni che la sorella-madre di Albione, l’America dei wasp, potesse rimanere lontana dal conflitto per tutta la sua (prevedibilmente non breve) durata. Per ragioni soltanto ideali? Certamente no, ma certi condizionamenti contano nelle decisioni pragmatiche: anche perché è impossibile separarli dai corposi interessi materiali, sempre, in modo o nell’altro, connessi con i “valori”. In fattispecie, trattasi degl’impegni finanziari Usa in Europa.
Il politologo del Corriere approva l’interventismo globalista di Alsop anche quando sostiene che gli Usa devono difendere i loro interessi sempre, dovunque e con tutti i mezzi. Dunque, anche con guerre, sostegni a governi dispotici e sanguinari contro popolazioni affamate ed eventuali loro rappresentanti in rivolta. Ed è quello che accade, di fatto, a dispetto delle solenni professioni di fede ultra-democratica globale. Ma perfino (se dev’essere con tutti i mezzi...) con una guerra atomica? Ricciardetto come Goldwater? Forse no, forse quel rotondo tutti è un’iperbole bucata. Nessun dubbio, invece, sul rifiuto del Lippmann che consiglia di difendere pace e interessi americani attraverso l’Onu: sarebbe robetta da fifoni. L’Onore si difende con le armi. Anche a costo di far morire Sansone con tutti filistei. E che diamine!

22 Aprile
Vediamo di concludere questo benedetto tentativo di articolo (belle ragazzine e ragazzotte, del mio corso, lasciatemi lavorare, non lampeggiate in improvvise visioni maliziose e conturbanti. Tu soprattutto, Ninfa dal nome di dea, riuscito tentativo della Natura schellinghiana di toccare la perfezione in un volto umano).
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A prescindere dagli esiti estremi, chi, Stato o coalizione di Stati, tentasse di attaccare gli Usa, oggi, ne sarebbe in breve tempo annientato, data la sproporzione delle contrapposte forze. Dov’è, allora, l’interesse vitale minacciato di cui discetta l’opinionista scettico? In realtà, gli Stati Uniti potrebbero chiudersi nei loro confini, riservandosi di reagire in casi eclatanti quanto improbabili di pericoli bellici e di evidenti minacce dirette. Reagire, ma sempre al di qua della soglia atomica. Hanno le risorse per l’autosufficienza primaria e i dollari per l’integrazione secondaria, mediante acquisti ben pagati (petrolio e quant’altro). E così badare ai loro problemi interni. Che non sono pochi. Eccone alcuni: malavita arrogante, segregazionismo negrofobo, (che prima o poi porterà a una sollevazione massiva dei negri); isole di miseria a fronte di paesaggi sociali miliardari (in dollari); produzione industriale bellica incontrollata (con esiti indotti di funesta necessità: sbocchi mercantili, indi focolai di guerre nelle disponibili plaghe del terzo e quarto mondo); corruzione endemica fra le forze dell’ordine a vari livelli (con emersione di scandali a ritmo ventennale circa, come si legge su giornali americani e come testimonia buona parte del loro cinema, una delle poche cose buone dell’America). E ci fermiamo qui, quanto a problemi interni, che il breve elenco non esaurisce certo.
Curiosa, non meno del restante argomentare, la pretesa che la politica imperialistica degli Stati Uniti, con le sue molte basi sparse ai quattro punti cardinali, il controllo economico-militare di decine di paesi e nuovi “trattati ineguali”, possa offrire al mondo “il solo modo di salvare la pace” (testuale del Guerriero taroccato). Curiosa, perché tutti i focolai di resistenza all’invadente presenza americana segnalati dal giornalista dicono giusto il contrario: gli Stati Uniti alimentano continui e sempre più numerosi pericoli e minacce alla pace planetaria. Capi improvvisati e leader non comprati (dagli Usa) scuotono e guidano le masse che dimostrano contro l’odiata presenza straniera: senza la quale, perché dovrebbero nutrire sentimenti antiamericani? A volte si legge e si sente dire in televisione che la tanto deprecata presenza statunitense porta ricchezza e benessere ai popoli del mondo svantaggiato. Che è una bellissima panzana. E stupisce che l’acuto Ricciardetto sia un campione di questa logica zoppa: lamenta, ancora, infatti, che “gli americani hanno profuso miliardi di dollari per aiuti e non hanno raccolto che frutti di cenere e tosco”, ossia antipatia e ingratitudine. Al punto che oggi, in molti paesi (horribile dictu) si arriva ad incendiare le ambasciate americane. Ricciardetto cataloga i danni, ma non si chiede come mai si sia diffuso nel mondo questo “sentimento di antiamericanismo” che tanto lo turba: gli basta accusare la “natura umana”. Della quale saremo gli ultimi, bensì, a farci paladini, ma non prima di averne recensito “cause seconde” e attenuanti contingenti. Gli aiuti non sono stati sufficienti a debellare la fame dei paesi sottosviluppati. Il perché lo dice chiaro Lippmann, del quale Ricciardetto così parafrasa e riassume il pensiero: “Abbiamo disperso la nostra assistenza a tal punto che abbiamo finito per aiutare un poco tutti e nessuno a sufficienza”. Al che aggiungeremmo: gli aiuti non arrivano direttamente nelle bocche affamate, bensì nelle mani artigliate di governanti e cricche dirigenti di contorno complice, monopolizzatori del potere, a proprio esclusivo o comunque prevalente vantaggio; i quali solo una parte di quegli aiuti lasciano scorrere fino a quei corpi denutriti e malati. In compenso, spesso, ammanniscono, in surrogato del welfare carente, la droga del risentimento verso il capro espiatorio esterno. Il resto del malloppo si curano di amministrarlo ad uso e consumo proprio e dei loro amici e complici: per utilizzi civili e militari, di arricchimento personale e di autodifesa politica in scontri tribali e di contrapposte fazioni. Se così non fosse, perché gli americani dovrebbero essere tanto odiati nel mondo sottosviluppato? Capita anche questo: che qualche esponente della locale ’aristocrazia gentilesca e dei petrodollari, con lauti conti bancari nel mammonico Occidente, si riempia di odio religioso e ideologico contro lo Straniero invadente, e organizzi o soltanto finanzi questo o quel terrorismo con i miliardi del “petrolio di Allah”. Per tacere della corruzione dei controllori Onu di origine e nazionalità terzomondista, veri predoni dei soccorsi.

23 aprile
Seguitando. Se sono tanto malvisti perché non lasciano (in pace) i paesi che non li vogliono? Renderebbero meno incredibile, così, il carattere disinteressato dei loro “interventi umanitari”, su cui oggi nessuno dei beneficati potrebbe giurare. Ci mancherebbe, obbietta il Guerriero (in groppa al cavallo alato di Astolfo): al contrario, devono restare e fare la voce grossa, e agitare il “grosso bastone” vetero-rooseveltiano. Se no, perderebbero la faccia, iattura inaccettabile per una grande potenza. E forse la faccia non la perdono davanti ai loro amici e alleati servilmente docili ai cenni imperiali dell’Alleato-padrone, ma tradiscono pur sempre il sottofondo del loro presunto amore di pace, lasciando intravedere sotto le bucate maschere ideali la corposa consistenza dei loro reali interessi: gli stessi delle lobby che dietro le quinte dettano la politica interna ed estera della superpotenza, non arretrando neppure di fronte al delitto di Stato (malamente camuffato) a protezione del loro mammonismo bulimico (chi sarà, dopo l’audace John F. Kennedy della “Nuova frontiera”, il prossimo ostacolo da rimuovere sul sentiero di quella protezione?). Questi interessi titanici provocano i maggiori guasti della vita planetaria e così faranno ancora per decenni. Magari fino all’irreparabile. Ma i signori del super dollaro e della guerra sempre pronta non sono disposti a cedere uno solo dei privilegi che ne alimentano l’orgoglio ipocrita e l’azzardo criminale.
Si obietta ancora che il disimpegno americano aprirebbe le porte all’imperialismo cinese. E anche se fosse? Se i popoli affamati vogliono Mao, nessuno ha il diritto di impedirgli la scelta. Si dice che quei popoli farebbero la fame peggio di ora: previsione a coda di paglia, tutta da verificare. Se i popoli d’Africa e Asia potessero disporre delle loro ricchezze naturali (oggi in gran parte nelle mani di epigoni del vecchio colonialismo e di pionieri del nuovo) potrebbero debellare o ridurre significativamente la piaga della fame. Da quale cielo birbone ci scende il diritto di imporre ad altri i nostri interessi e le nostre idee? Tutto questo, si sa, è teoria ed etica più o meno astratta: ma come rispondere alle menzogne democratico-liberali bevute pari pari dai nostri docili governanti cattolici (e assimilati) con le sottostanti porzioni della società civile viziate di boom economico selettivo e di edonismo televisivo, mentre la metà delle nostre popolazioni, o giù di lì, langue nel malessere, invece che tripudiare nel baccanale del festoso benessere? Vedere la grande inchiesta del settimanale L’Espresso sul Meridione d’Italia, immutato a oltre un secolo della puntuale denuncia di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. E anche solo la prima puntata, intitolata, con fedele analogismo, L’Africa in casa (aprile 1959 )1 Ma l’occupatissimo Guerriero non sciuperà tempo e vista per simili quisquilie.
Quando Lippmann dice, con le parole di Ricciardetto: “Non possiamo mettere ordine in Africa e in Asia secondo i nostri ideali di ordine”, dice bene. E altrettanto nel sostenere che la dottrina di Truman, “con la quale gli Stati Uniti dichiararono di impegnarsi in una lotta ideologica globale contro il comunismo rivoluzionario [...] si trova alla radice delle ‘difficoltà attuali’ dell’America”. Ma per il mentore di Epoca, Lippmann è un codardo capace solo di errori: e, per schivare il vago, gliene enumera un nutrito gruzzolotto nel primo dei due articoli. Naturalmente, con la sicumera di chi partecipa elitariamente al monopolio della verità, anzi Verità. Errore sarebbe anche l’opinione di Lippmann, che gli Stati Uniti si difenderebbero meglio se abbandonassero le loro basi terrestri all’estero: che è, invece, opinione sensatissima. Come chiarisce questo pensiero dell’americano: “La potenza degli Stati Uniti nel Pacifico è indiscussa e senza eguali, e gli Stati Uniti devono evitare di lasciarsi intrappolare in guerre terrestri”. Se avessero seguito questo consiglio, quante sventure e sofferenze avrebbero risparmiato, quei governanti malati di hybris globale, agli altri popoli e al proprio! Sofferenze e lutti che, nella loro patologica ostinazione, continuano, invece, a provocare variamente e soprattutto con la sciagurata, sbagliatissima e (credo) invincibile guerra di aggressione al Vietnam popolare.
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Eccomi qua, alle solite: ancora una volta, contro tutti i miei sensati propositi e seriosi voti da persona adulta, mi vedo trascinato nelle sabbie mobili della completezza: questa chimera armata di sirene cannibali. Dovrò tagliare, alla fine dell’eccesso. E questo sarà un compito più difficiler del frenare in corso d’opera. Ahimè! Avanti, tentiamo.

Quanto, infine, al rammarico di Ricciardetto sulla “fatalità delle democrazie” di agire troppo tardi e non abbastanza energicamente, cosa vuol dire? Forse che ci vorrebbe un “polso di ferro” anche in America? Capita, ai soloni della democrazia secundum quid, di scivolare, di argomento in argomento, in qualche accorato sospiro dittatoriale. In fattispecie, è tutto il ragionamento dell’Infallibile a scorrere in quel senso. Che, naturalmente, i soloni riconoscono e rinfacciano solo alle sinistre più o meno comuniste. Magari infiorando il loro penchant segreto di formule culte e molto tecniche, quali Realpolitik, “culto dell’energia” (finto-stendhaliano), e simili maschere del machiavellismo polarizzato (anche questo rimproverato solo alle sinistre ostili al capitalismo liberale, questa cornucopia di ogni benessere per pochi privilegiati, e sempre vulnerabile ai crolli tipo 1929; quanti, anche se meno catastrofici, nel nostro sapiente secolo di scienza economica e premi Nobel per l’Economia!).
Impagabile, infine, la sintesi del Ricciardetto-pensiero raccolta in una sonante parola: benessere. Gli Usa debbono difendere il loro benessere. Che in verità nessuno minaccia. E che più parziale selettivo ingiusto non potrebbe essere, col suo quarto di popolazione in affanno. Ma Ricciardetto li sprona a difenderlo con ogni mezzo: in nome dell’etica capovolta del machiavellismo plebeo. Amen.

24 aprile.

Aspettando il pranzo. Un notiziario sul Congo mi ispira un post scriptum alla diatriba col Guerriero. Chissà se l’Augusto di ferro si è dichiarato soddisfatto, a suo tempo, della tempestività con la quale la beniamina America è intervenuta, di concerto con Belgio, Union Minière e altra crema del sacro capitalismo sulla neonata Repubblica dell’appena “emancipato” Congo ex belga a calibrarne l’indipendenza, accendere la rivolta secessionista del Katanga, aiutare il criminale Mobutu a eliminare l’onesto patriota Patrice Lumumba e garantirsi il godimento dei preziosi minerali della Regione secessionista (oro, argento, manganese e soprattutto uranio). Lumumba e due suoi seguaci furono arrestati da Mobutu e fucilati il 17 gennaio 1961, a Elisabethville, in Katanga, alla presenza del cinico fantoccio della Cia e dell’Union Minière, Mosè Tschombe, guida della secessione kantaghese. Il tutto, mentre l’Onu era presente, ma con scarsi mezzi e forze militari buone soltanto a qualche missione pacifica. Durante una delle quali, l’11 novembre del ’61, furono attaccati e uccisi tredici uomini dell’Aeronautica militare italiana. I giornali scrissero che furono mangiati da quei cannibali. Sarei curioso di conoscere il pensiero di Ricciardetto su questi dettagli: farò una ricerca?

Stesso giorno. Mezzanotte

Ho appena finito di rivedere in televisione il vecchio film Paramaunt Nel segno della Croce: ne ho ricevuto una vasta e moltiplicata emozione. Dal contenuto, naturalmente, non dal valore estetico (che è scarso). Tanti pensieri consueti si sono ripresentati come nuovi, filtrati, ora, dalle esperienze di letture e di vita degli ultimi anni. Pensieri amari, che tessono insieme il drappo crudele della verità. La verità della storia, innanzitutto: una sequela interminabile di stragi, un’orgia di sangue sempre sconfessata e continuamente rinnovata, lo strazio della carne in nome dello spirito, variamente agghindato di orpelli retorici. La verità della vita, poi, nella sua universalità ante e post-umana: una tremenda realtà di uccisioni inevitabili, la fatalità della sua legge strutturale, originaria, non trascendibile: la fame. Sopra la quale nessuna Presenza superiore vigila e dispone. La verità della fede: che è quella di crearsi la propria verità intessendo menzogne effettuali. Ed è, perciò, la sua forza di illusioni proclamate Verità, e mentre onorano la verità fatale della vita nuda, pretendono trascenderla in sopramondi impensabili. Affascina e sgomenta il coraggio barbaro che ne promana, la ferma accettazione della morte in nome della vita, di una vita superiore sperata e mai confortata altro che dal plagio del cervello rapito in vortici allucinatori. Ma com’è difficile capire questo coraggio del grande Inganno, che rinuncia all’unica realtà corporale e ne sopporta lo scempio. Com’è difficile, anche, nel nostro abituale stato di lucida indifferenza, accogliere lo scandalo degli effetti endorfinici (ma pur sempre limitati) della fede sullo strazio del corpo. E ancora più arduo accettare che il tempo delle stragi è un eterno presente; che oggi come ieri gli uomini uccidono, distruggono, torturano in nome di qualche idolo, di qualche maiuscola. I cristiani dei tempi di Roma come gli ebrei dei nostri; i negri americani, un po’ come quei cristiani. Il razzismo ideologico, a base religiosa o falsamente biologica, vigente oggi come ieri, in diverse parti del mondo. I comunisti, in certi paesi, sono perseguitati come quegli antichi martiri.
Forse è plausibile un’interpretazione ideo-trofica, secondo le teorie del mio amico Gulizza: l’individuo o il popolo degradati a realtà inferiore, in funzione difensiva-preventiva, vengono resi, in qualche modo, cibo, oggettivati e percepiti come possibile preda, materia traspositivamente commestibile, e come tale trattati. Cioè, cannibalicamente, ma, di solito, come cannibalismo interruptus, nel quale si compie solo la parte decisiva, l’uccisione. Uccidere, dice il teorico, è un mangiare metaforico e insieme un pasto fisico sospeso a metà percorso. L’operazione, ahimè così diffusa nel “bel pianeta che a odiar conforta”, può essere vista anche (si accennava sopra) come un “prender prima”: prima che sia l’altro a farmi sua preda e cibo. In fondo, il rapporto originario fra due carnivori (e onnivori) è quello fagico: l’evoluzione filogenetica ha promosso il differimento, la trasposizione, la parziale rinuncia e altre attenuazioni della diretta crudezza originale, debitamente mascherata e pluralizzata in varie emozioni e sensazioni.

Quant’è facile l’operazione metamorfica, basta un’etichetta a compierla: cristiano, ebreo, negro, eretico, comunista, deviazionista, troskista, fascista, borghese... Potenza delle parole. Sono pietre? Lo sono, a volte; spesso sono dardi avvelenati, proiettili, bombe chimiche. In principio era il Verbo, recita la rivelazione, ignara di mistificare la verità che ambisce servire. E il verbo si fece carne: per mangiare altra carne (di animali uomini e piante). La storia si presenta, allora, come un infinito pasto dell’Idea: l’Idea cavalca e danza, divorando corpi viventi. E usa mille avatar, mille maschere: Impero, Patria, Nazione, Popolo, Chiesa, Razza, Libertà, Democrazia, Uguaglianza, Fraternità, Civiltà, Progresso, Partito... Le maschere si moltiplicano come via via variano i pasti dell’Idea che si fa corpo per fagocitare gli altri corpi. La grande operazione dell’universale rimescolio continua una corsa uguale nell’alveo del tempo immemorabile, che media gli accidenti, cioè le differenze. Cosa mai ci sarà all’inizio e alla fine? Il Big Bang, ab ovo. E alla fine? C’è un (vero) inizio e una (vera) fine? Le antiche domande cambiano indirizzo, ma non cessano di picchiare alla porta del cervello tracimante che ha scoperto la maledizione della vita-morte. Oggi (in ambito ancora così stretto, ma domani chissà...) domandano alla fame, cioè alla struttura basale del vivere, che cosa nasconde dietro di sé, come ieri lo domandavano al Pensiero, all’Idea, allo Spirito, all’Atto Puro, alla Ragione eterna hegeliana (fin troppo astuta per coprire i suoi vuoti di forza esplicante). L’Idea che si fa corpo: suggestivo. Ma la terra dice: il corpo che si fa Idea, e prolifera di velli e drappi astutamente promozionali. Il sangue lamenta: a qual prezzo, tanta astuzia! I civilissimi Romani davano in pasto alle bestie quegli strani sotto-uomini che erano i cristiani. O alle non meno divoratrici fiamme, promuovendoli a torce umane. E crocifiggevano criminali e schiavi ribelli: seimila lungo la via Appia ne produsse il moralizzatore corrottisimo Crasso. I mongoli facevano bollire vivi i prigionieri di guerra. Spasso che si è riprodotto migliaia di volte, e rimesso in auge nel 1927 quando Chiang Kai-Shek, rompendo il patto di collaborazione con Mao, ordina il massacro dei comunisti a Shangai, Canton e Nanchino. Leggere, per inorridire, La condizione umana di André Malraux.
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I giornali hanno diffuso in questi giorni la notizia di certe radio-onde provenienti dall’Oggetto celeste cta 102, distante, chi dice 5 milioni, chi qualche miliardo di anni-luce. Queste radio-onde sarebbero modulate in maniera da far pensare a una emissione artificiale di straordinaria potenza, dunque dovuta a creature intelligenti. E’ bensì vero che l’ipotesi di altri abitanti intelligenti nel cosmo è più che plausibile, date le quantità sconvolgenti di astri galassie e pianeti nello spazio sconfinato. Escludere questa “compagnia” cosmica non sarebbe un analogo dei vari idio-centrismi antropo-terrigeni: etnocentrismo, eurocentrismo, geocentrismo, antropocentrismo...? Un’altra versione dell’idiozia malefica del Popolo eletto? E tuttavia la prudenza è d’obbligo in questa materia. E ogni trionfalistica fretta va bandita. Anche nel dire intelligente quella modulazione. Se esistono, questi nostri simili (di cervello, se non di morfologia globale), si faranno forse le nostre stesse domande. A migliaia, a milioni di anni-luce lontani dalla Terra, le rivolgeranno anche loro come noi alle galassie, agli astri, al loro sole. E magari ai loro dèi. O anche, perché no? agli animali, alle piante, ad altri esseri conspecifici, che forse si divorano tra loro come i felici abitatori di questo “atomo opaco del male”, per rimescolare le tragiche carte dell’eterno, mostruoso gioco senza costrutto e privo di senso. La parola mistero tenta sempre, ma quel poco di verità che affiora dal suo nero seno è tale che mi fa desiderare spesso, pieno di disgusto, la distruzione totale dell’universo intero. O almeno, del nostro globo, o di tutti i pianeti popolati di vita. Un pensiero che mi sgomenta e mi seduce, alternativamente. Dopo tutto, una conflagrazione, o una serie di conflagrazioni, che ci disintegrassero in una frazione di secondo che male ci farebbe? Sarebbe una conclusione fin troppo bella: senza dolori, senza agonie oscene, senza... Ma poi mi accade di pensare che forse, malgrado tutto, si possa accettare che la vita continui, che l’uomo abbia modi di conquistare altri frammenti di verità, e forse di migliorare realmente un poco la condizione umana... Ma com’è debole questo forse…

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