martedì 3 febbraio 2009

Susanna frammento 11


25 aprile, ore 23

E festeggiamo la Liberazione: in un tripudio di bandiere e di slogans, di forbiti discorsi e mirabolanti promesse-minacce sul futuro prossimo e le magnifiche sorti e progressive, invano minacciate dalle tenebrose forze della Reazione sempre pronte all’agguato diretto o ai subdoli imbrogli con i “nemici del popolo” interni e stranieri. Nel mare di retorica e di accesa verbalità d’occasione, qualcosa tuttavia resta sul registro del valido e del realistico: non ci si guarda mai abbastanza dai figli di troia ornati di candidi gigli e armati di bombe e fucili. E dentro le maiuscole rimbombanti, quali Liberazione, Anti-fascismo, Democrazia e via suonando, sta la realtà minacciata dei nostri diritti a un’esistenza accettabile. Ch’è come dire, il meno tormentata possibile (includendo in quel meno la libertà di giudicare e criticare a viso aperto chi ci governa o/e ci inganna) .
Ieri, a scuola, ho dovuto illustrare la Resistenza con i suoi splendori e orrori. Era difficile, come ogni anno, tenersi lontano dai verbalismi correnti, ma credo di avercela fatta. Contro i vocalizzi dei revisionismi in fasce e i probabili ruggiti e latrati dei futuri. Contro quella vergogna, certo: ma altresi con franca dichiarazione di sfiducia a tutte le rimozioni funzionali alla fiaba consolante della resistenza immacolata.
E non mi chiedere, quaderno, se le bellezze dell’école du regard (ah, ceux yeux flamboyants!) hanno seguito con passione: certo che c’era, la passione. Basta accontentarsi e non pretendere troppo da quelle testoline in perenne connessione con umidi nidi e trepide colline. Come ci si sente esplorati misurati invasi da quei regards! Privilegio e tormento delle classi mono-sesso femminili.
*
La biografia di Charles De Gaulle scritta da François Mauriac (ora tradotta in italiano nella mondadoriana collezione “Le Scie”) dimostra, ancora una volta, come la razza dei poeti cortigiani sia una categoria antropologica inesauribile. E trasversale alle epoche, ai luoghi, alle istituzioni politiche e culturali. Noi non crediamo alle distinzioni rigide, e volentieri onoriamo l’antico adagio, natura non facit saltus anche in tema di cortigianeria e comportamenti affini. Insomma, siamo disposti ad ammettere che un po’ di colpa, in questo campo, si può trovare in tutti gli esemplari della versatile specie umana. E che, dunque, una valutazione onesta non può essere che misura di gradazioni, di più o meno: con tale criterio sarà lecito distinguere un Ariosto da un Poliziano, un Orazio da un Marziale, un Foscolo da un Monti. Ebbene, con tutta l’assistenza di questo senso del relativo non possiamo non assegnare Mauriac al segmento estremo della
categoria “poeti di corte”. E poco importa che poeta non sia di fatto, e in senso stretto: la fisiologia è quella del cortigiano: scarsamente evoluta e poco virile. Come inquadrare altrimenti la figura di un adoratore senza sfumature, un idolatra sviscerato, che nel suo eroe non trova ombra di colpa né la benché minima smagliatura di vizio e difetto, di debolezze e pregiudizi preferenziali?
Mauriac non ha rilievi critici da fare al suo De Gaulle, di nessun genere, in nessun campo: tutto quello che fa il Presidente è oro colato; egli è il saggio, il sapiente, il veggente, il Dux che non può sbagliare nel suo ducere sempre apollineo. Che cosa rappresentano, di fronte al Gigante, deputati e ministri e quant’altri tentano di “mediare” e articolare il suo potere? Niente più che “lillipuziani”, dice Mauriac, “comparse attorno all’eroe di Shakespeare”. E i partiti? “vecchi tramvai inservibili”.
Per spiegare questa “adorazione che non tollera riserve e non ammette replica”, “che rasenta il feticismo” e quant’altro, fior di psicanalisti hanno parlato di “complesso paterno”: Mauriac, rimasto orfano di padre in tenera età, cercherebbe l’immagine paterna in questo o quel personaggio rappresentativo (Mendes-France, e magari il sultano del Marocco, ieri; De Gaulle oggi). Altri mettono in conto la convergenza d’idee dei due “mostri sacri” (detti anche “les vieux terribles”), e assegnano a questa convergenza la piattaforma del comune maurrassismo. Quest’ultima spiegazione si appoggia alla testimonianza dello stesso scrittore, il quale ricorda di aver seguito per quarant’anni, ogni mattina, “come senza dubbio faceva De Gaulle, nell’Action française, l’analisi implacabile della vita parlamentare francese e della sua lenta corruzione e completa paralisi”. Questa assidua lettura degli articoli di Charles Maurras
contro il parlamento e i politici su l’Action sarebbe alla radice dell’euforico consenso di Mauriac alla “riforma”gollista.
Siffatte interpretazioni contengono frammenti di verità che vanno integrate con altre non meno “strutturali”. Cominciamo col ricordare (come fa Italo De Feo sul Corriere della sera del 18 aprile, Tandem Mauriac-De Gaulle) che Mauriac è un cattolico di sensibilità giansenista. Anzi, scrive De Feo:

è un giansenista arrabbiato, egli crede nella teologia di Giansenio e di Port-Royal, nella determinazione della grazia e nella volontà di Dio, non solo perché è la volontà di Dio, ma anche e soprattutto perché è misteriosa e divide gli eletti dai dannati, il bene dal male secondo suoi misteriosi disegni; e poiché egli, a forza di leggere un giorno dopo l’altro quel che andava scrivendo Maurras nell’Action française si era venuto persuadendo che il male fosse la politica parlamentare e i dannati fossero i politici che la facevano, era più che naturale, il giorno in cui un uomo fosse giunto a mettere in castigo quei politici e quella politica, che costui gli apparisse come l’eletto degli eletti e l’incarnazione del bene: da una parte De Gaulle, dall’altra parte tutto il resto, ossia la corruzione e la vermine”.

Precisamente: gli uomini, bacati dal peccato originale, hanno bisogno della frusta, e il buondio provvede a mandargliela, di quando in quando: De Gaulle è la nuova frusta dei francesi, questi viziosi impenitenti e inconcludenti. Nel saggio Mauriac e la libertà (in Che cos’è la letteratura, tr. It., “Il Saggiatore”, pp. 22-37) Sartre scrive che Mauriac “non è un romanziere”, e non può esserlo perché egli “assume, nei confronti dei suoi personaggi, il punto di vista di Dio”. Come Dio, Mauriac è onnisciente: “ciò che afferma dei suoi personaggi è Vangelo, ed egli li spiega, li classifica, li condanna senza appello”. Così facendo, ne “assassina la coscienza”, li trasforma in cose e fallisce il romanzo, perché il romanzo vuol essere durata reale, storia, svolgimento temporale, mentre Mauriac si colloca nell’eterno e nell’assoluto, e l’eterno non ha storia: è un presente determinato dove lo svolgimento è, al più,
apparenza. Orbene, questo “peccato d’orgoglio” Mauriac lo commette anche nel guardare agli uomini. Non che egli si senta Dio nei loro confronti: egli è il servo di Dio, il buon servo fedele (e senza problemi). Ma questa umiltà servile è il paradossale (in prima apparenza) orgoglio del credente-tipo, presente nel giansenista (o nel luterano e calvinista) in maggior misura (e più sottile ipocrisia) che nei credenti del medio cattolicesimo. Professandosi quel prope nihil caro all’antenato unico di tanto cristianesimo predestinazionista, e cioè Sant’Agostino, il credente tutto perso in Dio piega il capo all’imperscrutabile Volontà dell’inappellabile Potenza “antropizzata” e ne accoglie con barbara serenità anche le decisioni più mostruose. Senza percepire in sofferenza la contraddizione di quella invisibilità trascendente tradita dalla sua pretesa di interpretarla e farsene confidente (sia pur minimale). Al punto da voler
giudicare in suo nome i propri simili. Il criterio del giudicare è semplice e di antichissimo pelo: il dualismo manicheo, sofisticato da Agostino e filtrato dal dualismo cartesiano: aut aut, buoni e cattivi, tutto o niente, senza confusione di sorta. La Grazia, lievito della preziosa anima credente e ubbidiente perinde ac cadaver (altra suggestione, del tutto-si-tiene) consente all’eletto di vedere e smascherare i cattivi. Il venerando dicotomisno digitale, destinato a rigoglioso avvenire elettronico, è bensì la tentazione più forte di ogni uomo, ma non per questo è irresistibile e meno tira-guai nel suo assolutismo semplificatore. E, seguitando di ciliegia in ciliegia, su uno sfondo più o meno lontano lampeggia corrusco l’Armageddon, lo scontro finale tra Bene e Male, tra i Figli della Luce e i figli delle Tenebre. Scontro fatale e inevitabile, che segnerà la sconfitta definitiva dell’Anticristo e il trionfo del Cristo Pantocrator. Indi,
un’era di pace e sinfonie celestiali. Lunga quanto? Qui il Testo sacro làtita: nel senso che propone esiti contraddittori.
E Mauriac, il servo fedele, giudica e manda in vece divina, con tacita investitura dell’Altissimo. Questa forma ingenua di sado-masochismo è un fatto psico-biologico comune all’intera antropologia, ma negli uomini di cultura, che si è tentati di pensare immuni dal peccato, o di contagio attenuato, si sviluppa invece più rigogliosa con l’alimento del suo apparente antidoto, la cultura appunto. Solo che si complica (come certa sessualità malata): l’apparato culturale non s’impianta, infatti, nel vuoto emozionale della sognata res cogitans (aggiornata, magari, in neopallium), ma nel pieno di un corpo di carne sangue nervi ormoni cervello limbico, e soprattutto dna (regista massimo della fisiologia globale di ogni singolo). La fisiologia di Mauriac, in ultima analisi, è la grande coordinatrice dei vari parametri di verità che abbiamo esaminato: una fisiologia da servo idolatra, perché poco virilmente salda e indipendente. Dunque da
maiuscolaro, l’uomo che non vive senza fede (religiosa, politica, civile...), cioè senza credere in questo o quell’assoluto. Potrebbe cambiare i suoi assoluti, le sue maiuscole, non farne a meno. E variarne le incarnazioni, non evitarle: il maiuscolaro è anche, e necessariamente, un cratofilo, un ammiratore della potenza, dunque un lecchino dei potenti: e il cerchio si chiude. Includendovi complesso paterno, sentimento d’inferiorità, reazione di auto-difesa e parassitismo autodifensivo conseguente: il tutto esaltato e combinato da un’intelligenza vivace, fertile di stratagemmi. E perciò di auto-inganni.
Se poi vogliamo gratificare di un fugace cenno anche la componente masochistica del nostro apologeta in saio di biografo (così poco balzacchiano), basterà rilevare come questa prevalga su quella sadica. E come la disposizione sadica non ha il dono dell’aggressività schietta, quella masochistica svolge il compito di servire l’antagonista con sinuosa furbizia: si umilia nel prendere in prestito l’aggressività del potente per sfamare la sua, debole, ma abbarbicata al decisionismo virile dell’idolo prescelto. Sì, Mauriac ha l’indole del cortigiano. In fattispecie, la Corte è duplice: è celeste ed è umana ─ la seconda come delegata della prima.
Naturalmente, un libro come questo si leggerà sempre con interesse: ma non perché possa rivelare aspetti ignoti della chiarissima personalità degolliana, sì perché svela, più gradevolmente che i suoi stucchevoli romanzi, la fisiologia di un autore, e uomo rappresentativo, che le opere letterarie annunciavano per segni indiretti, a volte sfuggenti. La fisiologia di un eterno Fanciullo incatenato, legato al piede della mensa del padre-padrone. Ragion per cui, non diciamo inutile l’interpretazione psicanalitica (come fa De Feo) ma solo da integrare come abbiamo tentato di fare qui: non è il padre il nostro primo “padrone”?

Primo maggio

Con questa data esce il nuovo numero del Gazzettino dei gelsomini (settimanale) che reca un piccolo dono per il mio compleanno, il mio articolo polemico (cioè, “normale”) su Ricciardetto. Titolo, L’oracolo e gli avverbi, collocazione (opportuna), di spalla (col solito, inevitabile, rinvio alla 6a pagina, datane la lunghezza. L’articolo comincia con misurati complimenti per le buone qualità del Guerriero (acume, chiarezza espositiva, essenzialità: prosa secca dice l’autore del suo stile) per poi attaccarne la oracolare perentorietà che spesso e volentieri gli prende la mano, anche quando la fluidità delle situazioni imporrebbe cautela problematica e vigile possibilismo. Un genere di attacco che, prendendo di mira le sue certezze, colpisce l’ambizione massima del giuri-giornalista: la logica ferrea. Quella virtù così indubitabile da consentire al Guerriero insulti disinvolti all’intelligenza dei suoi bersagli. L’articolo percorre
diversi scritti del polemista, e quindi distinti argomenti. Il più “ardente” è lo scrittore tedesco Rudolph Hochhuth col suo dramma Il vicario, l’ormai famoso j’accuse contro papa Pacelli per il suo silenzio sull’infernale tragedia della Shoah. Difesa oscillante del Guerriero: “Hitler si sarebbe riso delle denunzie e delle scomuniche e avrebbe raddoppiato di furore omicida”. Mio commento: “Si poteva dunque raddoppiare un furore deciso allo sterminio totale di un popolo e ad altre imprese congeneri? Forse non è tanto convinto neppure l’oracolo, che sembra oscillare tra l’ipotesi del ‘peggio’ e quella dell’ ‘inutilità”. Infatti, scrive, l’oracolo (stavolta oscillante): “Se Pio XII avesse denunziato e scomunicato avrebbe salvato il prestigio del Vicario di Dio, ma non avrebbe salvato una sola vita. E il problema era di salvare vite umane, non di salvare fumo”. Postille: il papa può considerare fumo la sacralità
della sua carica? Ancora: forse che al tempo della pronta e generalizzata estensiva scomunica contro i comunisti Pio XII “si ripromettesse di salvare almeno qualche migliaio di deportati in Siberia”? Per Ricciradetto, insomma, “non spetta a lui [al papa] né spetta alla Chiesa affrontare il martirio”. Mio testo: “Evidentemente, Ricciardetto e la Chiesa hanno opinioni differenti da quelle dei martiri cristiani di tutti i tempi”. Il nostro chiosatore azzarda infine la convinta attribuzione al critico tedesco che il papa approvasse lo sterminio degli ebrei. Dall’alto di tanta cima, gli è più facile scagliare quest’ultima freccia: “Si può essere più imbecilli di così?” L’articolo coglie la contraddittorietà reciproca delle due versioni “guerriere” e passa a un altro tema: il Rapporto Warren. Ricciardetto aveva cominciato con l’attribuire a un complotto castrista il crimine di Dallas e conclude con la perentoria esclusione
di ogni e qualsiasi complotto. Potrebbe sembrare un (piccolo) progresso, se non fosse che quella negazione “oracolare” si rivela peggiore della prima (pur molto ideologica) ipotesi. E naturalmente, nega attaccando, anche con sbrigativi epiteti squalificanti, i “complottisti”: tipo Buchanan, Mark Lane e altri valentuomini non intossicati dal pregiudizio filo-Usa e dal complesso del comunismo immer criminale. Mio testo: “Se un argomento nuovo occorreva, ce lo hanno fornito la morte misteriosa, nella grande Dallas traboccante di ostentati dollari e delitti impuniti, di quattro testimoni del crimine, e le continue minacce cui son fatte segno altre persone legate, per varie linee connettive, all’ambiente del complotto (ne parla, su Epoca del 22 novembre ’64, Ricciotti Lazzaro, in un impressionante articolo dal titolo significativo: A Dallas chi parla muore).

14 maggio

Oggi è uscito sulla Gazzetta d. S. il mio articolo sul binomio Mauriac-De Gaulle. Titolo su due colonne, L’adoratore di De Gaulle, occhiello Il “complesso paterno” di Mauriac. Pochi refusi, estensione quasi due colonne. Posizione, apertura della terza, l’ubi naturale dell’elezeviro. L’articolo ricalca e un po’ riassume lo “sfogo” presente in questo diario. Sono contento e telefonerò a Mimì Ciaccò per ringraziarlo.

Qui è forse il caso di chiarire meglio il mio giudizio su De Gaulle. La tensione polemica contro Mauriac potrebbe far pensare che io giudichi il Generale un dittatore “canonico”, mentre nessun elemento della sua riforma autorizza quella valutazione. Il Generale non ha abolito né violentato il libero Parlamento. Non cancellò altre istituzioni di garanzia, come il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti, non imbavagliò la Giustizia. Ricorse a un tipico strumento democratico come il referendum per l’approvazione delle sue riforme, come la nuova Carta costituzionale, l’elezione diretta del capo dello Stato, l’indipendenza dell’Algeria. C’è da scommettere che saprà ritirarsi a vita privata il giorno che il popolo disapproverà (dovrà pure accadere: nessuna fortuna umana è eterna) l’ultima sua proposta di riforma. La sua ispirazione è quella di uno Stato forte, impersonato da un leader autorevole, capace di arginare l’anarchia dei
poteri contrapposti, a cominciare dai partiti che paralizzano l’azione del governo con i loro interessi non di rado corporativi e personalistici. Ma l’investitura popolare del leader rimane centrale e intatta nella concezione gollista. Il che sia detto senza nulla togliere all’articolo contro il fideismo dei Mauriac.

22 maggio, ore 23

Altro mio articolo politico sul Gazzettino d. g. di oggi. Messo in apertura e senza rinvio alla 6a e ultima pagina: articolo più leggero, insomma. Si intitola Quinto Fabio Massimo a Londra e commenta, contro la prevalente stampa occidentale, l’inconcludenza temporeggiatrice della conferenza Nato, a torto “complimentata” dai big convenuti come un successo. Il quale consisterebbe, in sostanza, nell’avere evitato scontri e frizioni sui temi in campo: la Germania federale e il suo peso nella Nato, la sua divisione e le prospettive di una riunificazione futura (quanto remota?), la Francia di De Gaulle, restia a fare la damigella d’onore dell’Alleanza atlantica dominata dagli Usa, Grecia e Turchia in tensione per Cipro, e altre minori questioni. Eppure il segretario generale, Manlio Brosio, ha definito “un ottimo incontro” questa prudentissima rimpatriata. L’ottimo risalta, “soprattutto” dal fatto che “si erano diffuse voci di grandi
discordie e persino di una crisi dell’alleanza”. Anche Augusto Guerriero parla di “successo” e di “passi notevoli” almeno “nella trattazione dei due problemi interni all’alleanza, la Germania e Cipro”: Non senza, tuttavia, ammettere che si è lontani da un clima di serena concordia generale. Per colpa, chiarisce, del presidente De Gaulle (al quale non risparmia “la consueta lavata di capo”), e dell’arcivescovo Makarios, presidente della Cipro turca, degradato, dal Giove tonante del Corrierone, a “uomo ambizioso e facinoroso”. Recita, il mio testo, dopo scrupoloso vaglio delle valutazioni guerriere: “Insomma, si è trattato di un successo di chiacchiere; ma ciò non toglie, per il nostro campione della logica, che si possa parlare […] di un ‘grande successo’. /In realtà, l’incontro di Londra non è stato un successo, né grande né piccolo, né in questo né in quell’altro argomento: è stato, piuttosto, una
tregua, una pausa più o meno imbarazzata, nel processo dei contrasti disgregatori che dividono gli alleati atlantici, e in particolare Francia e Stati Uniti. Si è voluto cedere da una parte e dall’altra, si sono evitati attacchi diretti, si sono accettate critiche sine nomine e generiche, ma trasparentissime, da entrambe le parti: si è voluto, insomma, temporeggiare”. E aggiungo un perché pencolante sulla politica in itinere di De Gaulle verso l’Urss.

19 giugno

Sul Gazzettino sideratese odierno è apparso il mio articolone su La situazione internazionale, titolo su tre colonne, posizione, spalla, continuazione in sesta e ultima. Incipit: “Nessun miglioramento nella situazione politica internazionale: tutti i focolai di guerra divampano e i punti di tensione stridono verso il limite di rottura.” Fin qui il primo capoverso. Il secondo punta su San Domingo, dove si sono avuti sanguinosi scontri che non cessano ancora, malgrado “le assicurazioni periodiche del presidente Johnson”, che ha ritirato i marines, ma non i 14..000 paracadutisti, protettori poco democratici dei loro materialissimi interessi; che invita il loro spazzino anticomunista, generale Imbert, a lasciare la gloriosa crociata di torturatore e massacratore di innocenti; ma non lo costringe con la forza a ubbidire, alla faccia delle proteste del segretario Onu, U Thant. E mentre l’Onu mostra ancora una volta la sua scarsa “potenza”, gli
scagnozzi di Imbert fucilano studenti e operai e torturano in nome di Dio e dei valori cristiani. E, come scrive l’inviato del Giorno, “alla fine dei comizi recita l’Avemaria fra i suoi pochi seguaci in ginocchio”. Situazione aperta, insomma. Con gli Stati Uniti (questa suprema icona della Democrazia metafisica) tutt’altro che convinti a levare le tende e lasciare decidere democraticamente il popolo del suo destino. La soluzione di Johnson vorrebbe che il suo uomo nuovo cacciasse i pochi comunisti dal parlamento, ma Guzman rifiuta di intraprendere azioni anticostituzionali. L’ex presidente Bosch accusa gli Usa di favorire l’avvento del comunismo con la loro protezione delle forze reazionarie, sempre benedette dalla Chiesa cattolica, “la più reazionaria del continente”. Non vanno meglio le cose dell’estremo opposto del mondo: “Viet Nam. Continuano le incursioni americane sul Nord, continuano, nel Sud, i sanguinosi scontri tra
guerriglieri e forze governative. E continuano, anche, dopo le solenni batoste di Son Be, Bien Hoa, Dong Xoai e seguito, gli insuccessi americani e le cruente sconfitte sudvietnamite, in diecine di scontri giornalieri.” Eppure quegli ottimisti dei tagliagole di Saigon sono talmente convinti di vincere (c’è per nulla al loro fiducioso fianco l’invincibile protettore Yankee?) che considerano ogni ipotesi e tentativo di trattare con i diavoli rossi come un tradimento. Staremo a vedere.

Akischène, 5 luglio

Da due giorni fa un caldo infernale. Ieri, quaranta gradi e più all’ombra. Si sono avuti molti incidenti: incendi, alluvioni e straripamenti, un nubifragio in Emilia, e altro bene. Qui, dalle nostre parti, nella Sicania caliente, un bell’incendio sulla “timpa”, un altopiano vetero-lavico proteso sul mare, a varie, ma sempre piccole, distanze dalla frastagliatissima linea costiera. È un conglomerato di lave plurimillenarie, coperto da fitta vegetazione, con netta prevalenza della macchia mediterranea. La zona incendiata è quella che sovrasta il borgo marino di santa Tea. E’ andata in fumo una cospicua fetta della lussureggiante macchia arbustiva e tanti alberi: pini, frassini, pioppi, sommacchi, platani, faggi… Una vera strage, una pena a vederne gli esiti neri fumanti di monossido velenoso. Nell’orizzonte più largo, sparsi per lo stivale, varie vittime, morti e feriti. Alcuni in modo grave. Protezione civile scarsa e contestata.
Non bastano le vittime degli incidenti stradali, delle “piccole” guerre, in corso, degli infortuni sul lavoro, della malavita sempre verde: bisogna aggiungere anche queste del fuoco maldestro e doloso alle diecine quotidiane del Vietnam, dove cresce l’escalation “liberatrice” dei ben noti benefattori dell’umanità insidiata dal drago comunista. Che si rivela ogni giorno di più un osso duro..

A tutt’oggi ho fatto appena cinque bagni di mare: due a Zefiria, uno a Rostazzo, due nel mare di Taormina, e precisamente all’Isola Bella e a Spisone. Spiagge, queste ultime, largamente frequentate da turisti stranieri, tra i quali ci scappa quasi sempre qualche ghiotta presenza femminile ostile allo spreco di stoffe. E Mneme stropiccia gli occhi e tende fili di nostalgia verso un passato di fruizioni benedette in quella fauna bionda. Un passato da scapolo, non sempre remoto.
*
“Dentro” le cose non vanno benissimo. Ma già da vari mesi. Una non ignota prostrazione generale, un calo di tono vitale che mi allontana da qualsiasi impegno appena faticoso. Non riesco a concentrarmi in nessuna attività: né lavoro né vacanza. Si muove il solito conflitto tra intenzioni e possibilità obbiettive. Intenzioni fiacche, già disposte alla resa di fronte alla silenziosa, quieta, penetrante offensiva della banalità quotidiana, composta di famiglia e bisogno di vita fisica.
La mia regina regola la mia giornata. Incarnazione della vita allo stato puro, congiura col bambino, tripudio dell’esuberanza fisica, ad alimentare questa mia nuova arrendevolezza al richiamo del corpo. Ma le “intenzioni superiori” avvelenano il mio abbandono: avido di fluire col sole e col mare, mi resta, tuttavia, non priva di una sua ingenuità o balordaggine, l’ostinata ambizione di trascinare in parola moti e impressioni del peregrinare fisico. E vivo, perciò, come sempre, col sospiro segreto di accumulare sostanza grezza al bisogno della forma, e insomma della parola scritta, La quale, pur frustrata dalle recenti evidenze, resiste, tuttavia, in chiave di tentazione ricorrente. Come se, alla fine, non dovesse precipitare tutto, corpo, corporalia e parola scritta. Scripta manent? Un po’ di più, certo, ma nel crogiolo eterno della Grande Mescolanza quel più è poca cosa: al quantum di tempo necessario, ogni differenza si scioglie nella
Grande Indifferenza. E questa polla saltuaria di filosofia lucida (il cosiddetto pessimismo) non irrobustisce certo le mie deboli chance decisionali.
*
Il bambino le ha appena prese dalla madre: ha combinato un pasticcio. Da un quarto d’ora mi assedia incantato da una parola: “sforzicino”. “Papà non mi cala”, mi dice; e sottintende “la cacca”. “Fai uno sforzicino”, gli ho detto, “e vedrai che ti cala”. La parola lo ha eccitato stranamente. Forse ne ha colto un’eufonia che sfugge, o non emerge con la stessa evidenza, agli adulti. Va e viene tra il mio tavolo e il bagno, con la costanza ripetitiva della sua età esploratrice, chiedendomi di incitarlo a fare lo “sforzicino”. E la progressiva, modulare evacuazione gli diventa una divertentissima avventura. La verità a livello zero si prende, così, una sua rivincita: io insegno inquietudini nobili, la fisiologia mi interrompe col suo ghignetto beffardo. Un buon contrappunto, non c’è che dire.
Questo bambino è rimasto una delle pochissime occasioni di riconciliazione: devo averlo già scritto da qualche parte. Riconciliazione, intendo, quaderno (a scanso di equivoci), con la vita (bastarda) e il mondo (infido). A volte, come in questo momento, mi irrita un po’; spesso, mi svuota di ogni pulsione di rivolta. Ha perduto il “ciuccio”, ossia il succhiotto, nel water, e mi sta assillando con perentoria mitraglia di invocazioni: pretende che gliene compri un altro, ma subito. Piange e batte le manine sul tavolo. Mi vuole, e non sente ragioni. E’ geloso del quaderno su cui scrivo. E’ geloso di tutto ciò che mi distrae da lui. L’altra sera, a Zefiria, ha pianto perché ballavo: era geloso delle ragazze estranee, troppo avvinte al corpo paterno, ma anche (seppur meno) della madre in missione di partner danzante. A un certo punto, bisognò dargli retta. Né bastò tentare di coinvolgerlo in quel frullare strano, perfino tenendolo in
braccio nella ritmica kinèsi della disturbata danza: dovetti piantarla e lasciarmi trainare da lui lontano dalla festicciola. Era stata organizzata dalle sorelle di una mia allieva di seconda, la cui famiglia si è fatta amica di Rina, e transitivamente di me (magari la cosa si sarà svolta in senso inverso). Così abbiamo cominciato a frequentarla (con prudente irregolarità occasionale). Ci tenevano tanto le attraenti figliole, e lei, soprattutto, l’alunna. Quella alunna, culmine estetico del bel contesto.

Akischène, 20 luglio

La vita attiva mi ha preso la mano. Anzi, tutto il corpo: con bagni di mare e svaghi vari, per lo più, ancora, nel giardito incantato della Fata Taormina: Come dire, mare e dintorni marini, e in più la cittadina arroccata e magari l’ancora più “sub-celeste” Castelmola. Sempre con la famiglia. Il piccolo guadagna in confidenza con l’acqua, fino a pochi giorni fa temutissima. Ha il suo salvagente, e si tiene a galla con evolutivo spasso. Si capisce, a distanza di sicurezza da me. E sempre svelto a voltarsi se appena il movimento dell’acqua me lo presenta di spalle per qualche secondo. Dopo tutto, tre anni sono ancora pochi per una più spiccata autonomia dalle supreme garanzie.
Purtroppo per le mie deboli voglie produttive, il padre-dio non serve solo al mare e dentro l’acqua: lo si pretende anche dentro casa, anche quando quello lavora, o tenta l’otium latino al deluso tavolino. Eccolo qua. “Papà, che sta’ fazendo?” – “Sto scrivendo” – “Perché schivi?” – “Perché mi piace”– “Ti paze, perché ti paze?”– “Perché non vai a giuocare, o fai un po’ di giri in bici [triciclo] nel cortile?”– “E tu veni commè?”– “Tu vai avanti, io vengo dopo” – “No, ora, ora” – E via seguitando, per un buon mastello di minuti perduti. Con esito scontato: pianto tavolo quaderno e diavolo e vado con lui.

Pausa. Sì. mi sono arreso a Gianpiero. Resa incondizionata. L’ho impegnato al registratore. Ha inciso delle canzoncine con la sua deliziosa vocina. Ne sa molte. Le ascolta al giradischi, e riesce a impararle, parole e musica, con buona approssimazione e in tempi brevi. Naturalmente, fa tutto lui, da solo, e già da un pezzo: lui mette i dischi, lui li toglie, lui regola il volume del suono. E anche la velocità del motorino: spesso si diverte a cambiarla mentre il piatto gira col disco sopra. Quella voce d’uomo che si fa stridula e femminea, o quella voce di donna che si incupisce nei toni bassi e si fa di uomo, lo diverte fino alle lacrime. Ha un buon orecchio e un adorabile timbro di voce. Quel facile potere di far violenza su una realtà così sicura di sé dev’essere lievito di tanta euforia.
Vivacissimo, non gli sfugge nulla. Segue i nostri discorsi e si impadronisce subito di nuove parole e locuzioni. Ci tempesta di “perché” e “che cos’è”, e quando attacca è difficile fermarlo. Mobilissimo, non sta fermo un attimo. Insomma, un vero dono. Del cielo, dice Rina. Degli Oscuri, correggo io (mentalmente). Salvo un particolare. Non da poco. Che anzi può diventare drammatico nel suo futuro. E’ tendenzialmente timido e introverso. Un diavoletto fra gli intimi e persone di garantita frequentazione, si blocca di fronte agli sconosciuti e si stringe alla “garanzia” più vicina. Vedo altri bambini spigliati e ciarlieri anche dinanzi al primo sconosciuto che gli capiti di incontrare, mentre lui tace, restio a qualsiasi sollecitazione. E soffriamo di vederlo arretrare quando un coetaneo tenta il contatto verbale. Prima che si sciolga, ce ne vuole. Sarà un problema fargli frequentare una scuola materna. Si è già provato a portarcelo,
sia qui, in Sicania, che in Calamagna. Ma non c’è stato verso di lasciarlo: è rimasto finché è rimasta la madre, sempre alla portata del suo campo visivo. Quando lei si nascondeva, lui se ne stava quieto per qualche minuto, assorbito nei giochi; ma appena si accorgeva della sua assenza, la invocava con una specie di angoscia e lacrime pronte. Così lei si arrendeva e l’esperimento finiva lì. Ma bisognerà riprendere i tentativi appena saremo rientrati in Magnagrecia. Sarà difficile dosargli la misura del pianto sopportabile dai nostri teneri cuori. Ma non si cresce senza dolore. Ringraziando il Signore.

Akischène, 24 luglio, sera (post coenam)

Anche oggi al mare, noi tre, più un nipotino appena sei mesi più grande di Gianpiero. I due bambini si sono fatti compagnia con reciproca soddisfazione e grande spasso. Il nipotino, figlio della mia sorella maggiore (delle mie quattro, ma tre anni meno di me), è più estroverso e sicuro del nostro folletto timido: contatta facilmente i coetanei e prende l’iniziativa nel proporre giochi. Né si tira indietro se qualche “congenere” si fa aggressivo. Così, trascinato dal cugino, e rassicurato dalla sua saldezza caratteriale, Gianpiero, stamane, ha socializzato meglio del solito. Ma restando un passo indietro rispetto al cuginetto.
Il mare era calmo, il caldo appena qualche grado meno africano degli altri giorni. La spiaggia di Mazzarò più gremita che mai di bellezze (e, purtroppo, anche bruttezze) nordiche. Qualche mio sguardo furtivo bene orientato fu sorpreso dalla vigilanza di Rina, la gelosa (che nega di esserlo). “Non è gelosia”– pretende lei – “è solo serietà”–“E dignità, no?”– Aggiunsi, ironicamente, conoscendo la solfa (e l’accoppiata) – “Certo, anche dignità. Anzi, dignità e serietà sono la stessa cosa. Almeno in questo caso”– E via col discorsetto serioso della mia serissima mogliettina. Vai a farle capire che non c’è nulla di male a guardare (con fugace o alternante discrezione, s’intende) qualche rara vichinga bionda con gli occhi azzurri. Lei dice che il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ma che lupo sarei io? Che latin lover riuscirei a interpretare, ammesso che ne avessi voglia e tempo? Col mio gramo corpicino, tirato su
con avara parsimonia? Ma lei, Rina, mi rinfaccia qualche avventuretta estiva, giusto taorminese, di qualche anno fa. Una soprattutto. Con una affascinante bionda occhiglauchi, appunto, la quale, misteriosamente, si accontentò del mio poco atletico composto, peraltro acceso in nervi e muscoli dal fulgore del suo fino al delirio e all’imprudenza (lei era col giovane marito, ma un marito modernamente generoso e tollerante; io, assistito da un amico, sicanicamente complice e servizievole). Altri tempi, Rina, ora sono sposo e padre, che vai cianciando e rinfacciando? Non l’avessi mai fatto, non avessi cantato la scempia protesta assolutamente infondata. Forse che non lo ero anche allora, sciagurato? Forse che non ero sposo e padre, anzi padre da pochi mesi? E lasciavo a casa una sposa ancora alle prese con le conseguenze pesanti di un parto straziato.
Patatrac. Corto circuito. Lo screzio minacciava di diventare un piccolo incendio. Disturbato da un sincero senso di colpa, per quella deviazione accidentale, tentavo di attutire i legittimi colpi della mia legittimissima compagna, indegnamente offesa. Le dissi che ero pentito (macché. Però vorrei esserlo), e lei doveva saperlo, ormai, che non era più accaduto, che da allora avevo fatto vita sentimentale e sessuale esclusiva, fedele, quasi esemplare. S’era arrabbiata, la mite consorte. E meno male che si era in luogo pubblico e non poteva insistere più di tanto nella sua protesta ruminante. Le dissi pure che al suo volto d’angelo non si addiceva l’ira. – “Non cantarmi vecchie canzoni, imbroglione. Il mio volto d’angelo non ti ha impedito le scappatelle, da fidanzato e da sposato” – Omissis.
Per fortuna i bambini impegnavano la nostra attenzione più delle recriminazioni. Comprai gelati per tutti (lei ne è ghiotta, non meno dei piccoli) e la breve semi-lite, così sproporzionata alla causa occasionale (ma non a quelle remote, avrebbe precisato lei), si sciolse nel gusto rinfrescante della squisita crema. Bisognò pazientare un po’ con i bambini, che non avevano fretta di lasciare la spiaggia, né la piccola comitiva raccolta intorno al nipotino intraprendente.
Durante il viaggio ripensai a quell’avventura, ormai lontana (mica tanto, poi!), a quel volto, a quel corpo: perduti per sempre. E a come Rina ne era venuta a conoscenza, sia pure senza dettagli. L’avevano insospettita i miei rientri serali un po’ tardivi, l’ultimo, soprattutto, quello della partenza di Renate e degli estremi baci. Una foto di lei aveva fatto il resto. M’era sfuggita di mano nel quotidiano cambio di abito, ed era andata a finire sotto il letto, nella mia più assoluta inavvertenza. Ovvio il seguito.

Certo, un senso di colpa c’era, quaderno. Ma come mentire a te? Su ogni senso e rimorso prevaleva, prevale e prevarrà (fino a quando? e chi lo sa. Forse fino all’ultima partenza) il piacere del ricordo, il vanto di quel dono degli Oscuri. Inatteso. Immeritato (secondo la mia scettica logica corporale). Quindi tanto più gradito gustato esaltato.
E’ forse qui il segreto promotore delle mie avventurine? Qui, nel mio complesso di inferiorità fisica? Sempre esposto al confronto umiliante con il corpo atletico e il maschio volto di fratello e cognato, di amici più fortunati e di affascinanti compagni del lontano liceo? Come pizzica ancora il ricordo delle scoperte preferenze che le nostre compagne di classe, così belline e reattive, riserbavano a quei figli di…buone madri felici. Plausibile, quasi ovvio, dunque, in me, il bisogno di resistenza, di validazione, di conferma. Di testaggio. Né voglio dire, con questo, che non ci sia dell’altro. Un altro, magari, più coattivo e decisivo: che bisogno avrebbero, altrimenti, mon frère e mon beau frère di prove conferme eccetera? E’ quell’altro che ha l’ultima parola in questa vocazione a sfarfallare da un gineceo all’altro. Il resto può rientrare nel secondario ruolo delle concause, del Caso burlone e sovrano. Nell’affaire
risvegliato, il mio difensore fisiologico convoca a testimone anche il lungo digiuno forzato indotto dal contesto nascita di Giampiero e dintorni.
Il fatto è che quella colpa mi è sempre parsa veniale. Va bene, lei era ancora alle prese con le conseguenze del rischioso parto; ma era bene assistita, mai lasciata sola. Mia madre, due sue zie, una cugina della madre, che di questa, scomparsa tre anni prima, faceva generosamente le veci: ecco le persone che erano, a turno, con lei, ancora troppo debole, dopo un brutto salasso, per badare da sola al bambino e alla casa. E si prodigavano senza risparmio, togliendo tempo e lavoro domestico alle rispettive famiglie. Mentre il padre, vedovo fresco, ma già in via di opportuna consolazione, era a sua disposizione per le faccende esterne. Lei, poi, era ancora rigorosamente tabù per i normali rapporti coniugali. Che cosa le toglievo, se andavo a fare qualche bagno da solo, cioè in compagnia di amici e parenti? La maggior parte del tempo ero a casa. Quell’incontro? Del tutto casuale, non programmato. Semmai, e soltanto, auspicato, bramato, sognato.
Insomma, una parentesi, una breve parentesi estiva, a conforto del patema d’animo vissuto al tempo del parto.
Scuse meschine, alibi scemi? Ma no, perché? Bastava non farle sapere nulla: occhio non vede, cuore non duole. Già, ma quell’occhio aveva visto. Non insisto. Rileggo mentalmente il diletto Camus: “C’è una fatalità delle nature…”.

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