lunedì 23 febbraio 2009

Susanna frammento 15


Giovedì 23: la dernière chance. Primo contatto col mysterium magnum. Come reagirà? Intendo, “nell’interiore”, e nel medio periodo. Intanto i fatti. Le punte rosse delle unghie, i polpastrelli delicati, le esitanti falangi della mano tremante. Non più, non altro.. Non oltre. Un primo conatus. Fra le torsioni violente delle dita intrecciate, a vivere un loro tormento di esitazione, di desiderio, di curiosità. Di paura. Un brivido di rivelazione.
Capirà il senso di tanta novità, o raccoglierà l’insidia del disgusto propiziato dall’ipocrisia corrente? O l’educazione, i suoi arcigni pregiudizi, le ciance vane sulla moralità erotica uccideranno la spinta dell’eros migliore?
Ma io, intanto e forse, voglio spacciare per sacra ambrosia la prosaica realtà del pane quotidiano? No, davvero. Ma non intendo nemmeno cadere nella trappola del cinismo vanesio. E dunque sciocco: c’è, nel mio gesto, qualcosa che si alza di un palmo, almeno, sull’immediato del fatto bruto. Qualcosa d’intenso, di intimo, di totale. Di mistico? Perché no? Lo spirito che contempla la natura si scopre natura, esso stesso. Atteone, ricorda il grande Giordano, contempla Diana nuda, e da cacciatore diventa caccia, preda. Atteone è lo spirito, Diana la natura: specchiandosi nella nudità della Natura, lo spirito si riconosce identico alla natura, tutto natura, nella sua sostanza e attività. E se lo spirito si fa natura, non può cercarsi e volersi che nei corpi. Nei loro spazi più ghiotti, se all’azione è motore la prima diramazione dell’originaria spinta trofica. E quale sia questa prima tu lo sai bene, quaderno dell’anima. E l’anima? Che ne è dell’anima? No problem! E’ qui, tutta presente: è il prurito più nascosto dei loro misteri pulsanti di arterie e nervi. Ore 1,35. Oh, santa istologia ontica. Anzi, antica!


28 settembre,
mezzanotte

[...]L’acerbo vero, i ciechi / destini investigar delle mortali / e dell’eterne cose; a che prodotta, / a che d’affanni e di miserie carca / l’umana stirpe; a quale ultimo intento /lei spinga il fato e la natura; a cui / tanto nostro dolor diletti o giovi:/ con quali ordini e leggi, a che si volga / quest’arcano universo; il qual di lode / colmano i saggi, io d’ammirar son pago. / In questo specolar gli ozi traendo/ verrò, ché conosciuto, ancor che tristo, / ha suoi diletti il vero. E se del vero/ ragionando talor fiano alle genti/ non grati i miei detti o non intesi non mi dorrò che già al tutto il vano disio di gloria antico in me fia spento / Vana diva, non pur, ma di fortuna,/ del fato e d’amore diva più vana.

Stanotte ho sognato il nano-gigante di Recanati. Ma vivo, contemporaneo, non di carta e colori. Sentivo che un evento specialissimo lo aveva restituito alla carne: per poco tempo, per uno straordinario dono (a chi e perché?), né si poteva stabilire il quanto. Nel sogno mi rendevo conto (ma secondo una logica tutta onirica, sfasata con lo spazio-tempo della veglia) che mi trovavo in una situazione irreale, ma nello stesso tempo la percepivo concreta. Sorrideva, il Tutto-testa (Tutto-testa? Ma che calunnia!), guardandomi. Di un sorriso dolcissimo e complice. A un certo momento si staccò da una piccola folla di chissà quale festa culturale (forse una conferenza, forse un premio letterario) dove entrambi, con molti altri, conoscenti amici sconosciuti, letterati e teste d’uovo di ogni età e d’ambo i sessi (non senza, mi pare, qualche gay ciarliero) eravamo presenti come invitati. Si staccò e, con un grosso cono gelato nella mano destra, mi si accostò, dette una copiosa succhiata alla crema, si avvicinò all’orecchio, la sua mano sinistra sul mio braccio destro, e mi sussurrò: Ti sbagli: io, non solo non ti critico né condanno, ma t’invidio e ti ammiro. Vivi, strappa alla vita tutto il piacere che puoi, e fra cinquanta o sessant’anni (è il mio augurio), morirai contento. E nella prosciugata vecchiaia avrai di che consolarti con il nettare dei ricordi: sono così veri a volte! Ripensa alle mie Ricordanze, al Sogno, a certe pagine dei Pensieri e dello Zibaldone. Io ho scritto quella nobile lagna sullo specolar tutto astrale e privo di sesso, di naturale e gentile sesso, intendo, perché la truce natura puttana mi ha condannato a questo digiuno forzato. E alle prevedibili soluzioni solitarie. Se avessi potuto, se potessi, mi abbandonerei anche al sesso nudo e crudo, e saprei fingermi, o perfino avvertire sinceramente, un senso d’amore per la donna che mi gratificasse della sua pietà corporale.
Che sogno inverosimile e strambo. Me ne sento ancora avvolto come dentro un vapore drogato. Me ne viene anche spinta e sostanza di riflessione. Non soltanto a conferma della vecchia e precoce passione leopardiana, ma altresì della facilità con cui la gente, idiota o acculturata, s’induce a credere a un’altra vita: come affascina il pensiero di potere incontrare, oltre la grande muraglia del finis terrae assoluto, le persone care perdute in questa turpe vallis lacrimarum. In coda, poi, a questa risacca di sensazioni immagini pensieri, i versi degli Sciolti a Carlo Pepoli sopra trascritti, mi ronzavano nell’eccitato limbo della memoria semovente (una buona metà del “canto” l’ho imparata, appunto, a memoria). Ma perché proprio quel passo, quel finale? Be’, mi pare ovvio: è l’invocazione di un rinforzo (termine tecnico, quaderno) alla mia costante polemica fisiologica. Naturalmente, le parole del Poeta “trascritte” non sono pura e
 distillata memoria, ma un mix di memoria e di sottesa integrazione ad sensum.

10 ottobre, ore 23, 30

Osservai, non senza interesse, che molti degli uomini politici dichiaratamente pacifisti si preoccupavano più di sapere chi di loro avrebbe capeggiato il movimento che non di adoperarsi in modo concreto contro la guerra […] Ma ancora più raccapricciante, a parer mio, era il fatto che la prospettiva di una carneficina fosse causa di piacevole eccitamento per, si può dire, il novanta per cento della popolazione. Dovetti ricredermi sulla natura umana (Bertrand Russell, Autobiografia, Longanesi, vol.II)
*
Torna, di quando in quando, quell’improvvisa accensione di meraviglia di fronte al livellamento delle notizie sui quotidiani, anzi sulla carta stampata in genere; e sul video: notizie atroci di guerra e di cronaca nera si stendono con uguale neutralità e nonchalance accanto a noterelle rosa e di pettegolezzo mondano. In prima pagina un grosso titolo per l’ultima strage in Vietnam di civili gratificati del lurido fosforo giallo e del satanico soffio dei defolianti alla diossina lo trovi affiancato a una prodezza di pura scemenza mondana di questa o quell’attricetta o diva degli schermi o madama della cosiddetta alta società.
Una meraviglia come di una scoperta improvvisa, mai fatta prima, mentre si tratta di “ordinaria amministrazione”: del sadismo umano e dell’umana, diffusa, indifferenza al dolore altrui. Il flash fa presto a spegnersi nell’acqua del deja vu, ma ti lascia un vago malessere, un fondo di malinconia sull’inevitabilità di certa malagrazia e malasorte imposta dalla filogenesi antropica. Una necessità di roccia, una fatalità torva che non sempre si riesce ad accettare rassegnati. E torna vano il recitarsi per l’ennesima volta il senechiano ducunt volentes fata, nolentes trahunt. Si ha un bel dirselo: l’humor atrabiliare scorre indisturbato nei suoi canali. Per un po’ di tempo, si capisce.

Rileggendo, mi accorgo che dovrei correggere in parte quanto scritto sopra. Vero è che la prima impressione registra l’equivalenza anodina delle notizie più divaricate. Ridotti, o ricondotti, allo status di news drammi e commedie di fatti, tragedie e farse di eventi reali recitate a strazio o a diletto della pura carnalità umana non denunciano nessuna differenza. Ma si dirà meglio: la sola differenza è che le notizie tragiche prevalgono su quelle di ordinaria quotidianità (politica, economica, cronachistica…): con  grossi titoloni e altri sbalzi verso l’attenzione del consumatore (cartaceo o televisivo). Nel che si rivela un altro aspetto del “piacevole eccitamento” segnalato dal grande Russell, osservatore principe della “natura umana”: i fabbricanti del giornale, telegiornale e altro prodotto notiziante conoscono i loro polli: e condiscono di conseguenza il piatto delle notizie più attraenti, graduando gli ingredienti perché la
 pietanza riesca la meglio appetibile.
Gulizza direbbe: di che ti meravigli? Non siamo che macchine fagiche, e i cibi più eccitanti (si mangi con zanne di bocca o di occhi e orecchie) sono sempre quelli che più si accostano alla meccanica originaria e fondante del masticare. Indi, le notizie tragiche sono le più saporite.
Ma siccome tutto ciò rende tristi, ognuno di noi nasconde a se stesso questa fatalità nucleare, e produce velami di nobili idee a coprire l’horror che turba e disturba. Ultimo dettaglio: la variabilità individuale del Dna concederà pure che sia soltanto “il novanta per cento della popolazione”, e non l’inesplorabile totale, che si abbandona a quel piacere della strage radicato nel nostro remoto dettato citologico. Quel dieci per cento, più o meno, reagisce con una capacità empatica di vario livello tensivo, ma in ogni caso reale quanto basta a sentire un po’ come nostre le sofferenze altrui. Ed ecco la pietà, la compassione e quant’altro contrasta e limita la disposizione sadica geneticamente fissata nel nostro destino di carnivori-onnivori.
Donde, questa tirata (forse ripetitiva, in questa sede)? A confessartelo, quaderno, si rischia di rafforzare la confessione del Russell. E’ stato un seguito di nessi che dalla somiglianza di un’alunna con una mia prima passione d’amore mi ha rituffato in quel remoto passato e fermato davanti a due ordini di fatti. Primo: la fanciulla, appena 14 anni (meno qualche mese, forse), ma già formata e sensibile, mi confessò un giorno, con sorridente ilarità, che a lei piacevano gli scenari di guerra, quadri, fumetti, sequenze di film e quant’altro. Secondo. Io, da ragazzino delle elementari, diciamo dalla terza in poi, sfogavo la mia attitudine al disegno copiando scene di guerra dalla Domenica del Corriere (quante “copertine” di Beltrame e di Molino copiai con innocente diletto!). E se vuoi un altro particolare, ti dirò, quaderno, che ci guadagnavo pure: vendevo, infatti, per mezza liretta quei disegni (di solito pari a mezzo foglio modello A4) ai miei compagni di classe (o, eventualmente, di altre classi, informate dai miei compagnetti sventolanti i miei lavorucci). Disegni di riproduzione accurata, svampanti di colori e di evidenze drammatiche.
Che successo, quei primi conati di mercatura artistica! Avessi continuato…
Mi ferma un altro flash memoriale del contesto qui evocato. Un giorno si creò malumore fra me e il mio compagno di banco (ero, forse, in quarta) che era fra i miei clienti più convinti. Non ci parlavamo (chissà per quale futilità). Il ragazzino aveva comprato la mia ultima fatica, un’affollata scena di Beltrame (o di Molino?) crepitante di bombe e fuochi, militari colpiti e aerei turbinanti, impegnati a sganciare quelle promesse di mala morte. L’indomani, appena seduto al nostro banco, tiro fuori un disegno identico al venduto. Il ragazzo lo guardò perplesso, mi guardò, aprì la borsa, in sospetto di furto, e naturalmente vi trovò ciò che vi aveva messo dentro, compreso il mio disegno. Con l’innocente malizia dei ragazzini, avevo montato quello scherzo per suscitare il suo sospetto e la sua sorpresa. Naturalmente, non mancò l’occasione di piazzare anche quella replica identica

14 ottobre, mezzanotte

Ancora blasone del mio pascaliano divertissement, eros sbalza il muscolo nevrotizzato a 100 pulsazioni e più. Il reticolo di aculei che lo pungono ha nomi antichi: emozione dell’attesa, ansia dilagante, trepidazione senza freni. In una parola, schietta come la mia nausea, paura. Il solito introibo umorale. Poi, la luce esplode. Dopo tanta frustrazione e limbo, questo squarcio di fuoco benigno è grazia sufficiente, assistente e santificante. Gli occhi della certezza aprono lampi sul drappo dell’imbrunire. Solitudine e silenzio, condizione ardua, di faticoso acquisto e paziente costanza, incidono il nostro affanno. Preghiere, gesti, implorazioni, torsioni di corpi stretti tra la paura e il desiderio. Sintonie di tremori e contrappunto di brace sul pallore irresistibilmente ghiotto del più seduttivo sembiante del mistero ontologico. Sotto lo sguardo del destino, anime avvinghiate soffrono l’incontro-scontro delle non fusibili fisicità. I
 veli-metafora del tabernacolo si lacerano, dita tremanti avanzano nei penetrali del santo dei santi. L’esorcismo di Nostra Signora Nera è umido di mucose destate. E l’umile stanza, quasi disadorna con i suoi mobili essenziali, mi diventa covo, tana, caverna. Spazio chiuso a proteggere, disabitato, tranne che per la coppia in peccato di furtivo edoné. Una specie di grotta di Lourdes ripulita dalle bave del Sacro convenzionale. Ma anche ricovero esposto, una casa sulla strada: un ritorno anticipato, un intruso casuale che bussi dall’imbroglio della parentela e dalla precarietà dell’amicizia, e l’incanto sfumerebbe in una nuvoletta di scomposta delusione. Se non di peggio. Neanche le grotte sacre sono inviolabili dagli alieni. Ahimè!

Memento mori. Ho paura. La pallida fobia ha avuto ragione della mia fretta. Domani, che sarà? Un fluido elettrico corre le vie dei corpi inchiodati ai pilastri rigidi della responsabilità civile, ormoni affrettati sciamano per le ferrovie neuronali disturbate dall’imperativo non categorico. Questa corrente di terrore paralizza le gambe di Cupiditas. Che si ferma al di qua. Sempre al di qua dell’esito. Ma gli emisferi del mondo conciso furono pressione delle mie brame, palme adoranti lanciate verso le prode del geloso segreto. Ah, quest’ansia di conoscenza che gonfia le nostre cellule. Che sarà di me, di noi? Di noi due, di noi tre, di noi quattro? Cari fantasmi della Responsabilità intrigante, come rimbrottate fragorosi! E vani, se esistono attrazioni fatali.
E intanto il moi frivolo si domanda: l’umido uscio di Afrodite cadrà ai piedi dell’impazienza paziente? Quel mélange, mon Dieu! Un insinuante, saltellante sentore di morte mi accompagna in ogni pensiero fantasia emozione scivolata fuori dai sacri testi. Sfondo inamovibile, ora silente ora clamante, Thànatos batte, di nuovo, il suo orologio inflessibile: ora lento, ordinario; ora veloce, incalzante. E sempre ammonitore ghignante sopra gli acquisti non autorizzati del sottoscritto filosofante.
Forse è per turarci le nari che mi tuffo in te, candida compagna delle mie notti solitarie. Tu, complemento del mio corpo, distanza dell’anima, surroga e compi l’interrotto miracolo di queste occasioni non consumate. Voglio dire, non esaurite, ché, quanto al consumare, se non inteso nel perentorio senso conclusivo, non c’è penuria. Né di cinetica esplorativa né di esiti erogativi (specialmente in partibus fidelium, al femminile).
La Gloria non è mio appannaggio, consorte: tu surroga e compi. Elle è un furto, una frode inebriante, che altri avrebbe ragione di invidiarmi. Tu la realtà precisa che scaccia l’ossessione della morte.. Grazia, anche tu, Rina, e farmaco. Nonché espiazione della mia mediocrità. Dono al mio calvario senza apoteosi. Altisonante? E sia.

17 ottobre, ore 1

Albo signanda lapillo? Parlo del testè trascorso 10 ottobre. Questo turgore di voci che non escono! Un umido soffocare. Non c’è un luogo dove si possa gridare? Spiagge dell’Oceano, deserti di sabbia e monumenti di roccia, paesaggi e cieli senza traccia d’uomo, accogliete questo urlo di silenzio che ribolle nella mia anima-corpo. Maudit e felice, ultimo e primo fra gli uomini, moi, un corpo non bello (appena corretto da buoni dettagli), dilaniato da sentimenti padroni, ti saluto, Notte, imago mortis: mito che sorride dietro un velo di lacrime, miraggio che tenta e seduce con i dardi dei suoi occhi. Grazia e dono, espiazione e ceppi. E tu, carne della mia carne: benedizione e inferno, catena di vita e memento mori, gioia e rimorso. Freno alla mia libertà di volere e di prendere, Tu, figlio mio immeritato, perdona queste fantasie lugubri confuse di vitalità vagabonda. Cantano, in viluppi di contrasti, la tristezza del tempo vorace e il cruccio di
 una vita scontenta. Ah, gli exploits eleusini! Che piacere, che dolore. Quale scarificante rinuncia, questa negazione del racconto claris litteris et apertis verbis, questo sorvolo criptico sul dettaglio.
Homines sumus, non dei (Petronio)
 
20 ottobre

Stat sua cuique dies (Virgilio). Rileggendo le ultime notazioni. Un certo imbarazzo per quella carica euforica. Come se dovessi leggerle ad altri, come se dovessero cadere sotto occhi estranei di possibili giudici. Dovessi, fra trenta o quaranta anni, utilizzarle per una racconto autobiografico, dovrei mettervi sopra un bel frego antiretorica. Dovrei. Ma chi sarà mai capace, dei due mezzi ego in contrasto che mi compongono, di sciogliere e riscattare queste pagine erratiche in una narrazione accettabile?
Intanto, lasciamo retorica ed esaltazione tra le loro linee nere. E nel loro nero inchiostro. Lo stile acceso sia almeno spia di una viscerale autenticità preletteraria. Quale che sia. Chi può vivere di sola moderazione? Ci sono momenti (devono esserci) in cui anche la più cauta fitness deve andare a farsi fo…ndere.
O no? Un bel frego…


3 novembre

Fugit inreparabile tempus (Virgilio). Come mi diventa sempre più discontinuo e casuale questo diario. Quanta perdita, in questa rapsodia erratica.. Una data sulla scatola dei fiammiferi: che significa? O crivello indegno della mia memoria! Non raccogli più neanche i lembi del drappo verde: come farò a stare attaccato al tronco?
Forse si tratta di te, madrepora della fantasia. Forse in quel buco di luce sorrideva il tuo volto dalle gote anele.

Vita ipsa, brevis est (Sallustio). Appuntiamo fatti grassi e piccoli eventi.. Magari divergenti. Questo pomeriggio si sono svolti i funerali del mio medico di famiglia, qui in Magna Grecia. Un cancro lo ha “scompaginato” in un paio di mesi. Aveva sessant’anni. L’ultima volta che ci siamo incontrati mostrava già tutti i segni della demolizione interna: tremava, stentava a coordinare i movimenti, a stringere nella mano destra gli oggetti, la penna, in particolare: quasi non riusciva a scrivere la ricetta. Gli avevo detto: “Lei non sta bene, dottore. Mi scusi se mi permetto, ma dovrebbe badare di più a se stesso, deve curarsi. Lasci stare il lavoro, si faccia sostituire e badi a riacquistare la sua salute, prima di curare quella degli altri”. Avevo capito di che si trattava. Lui diceva che, sì, certo, si sarebbe curato, avrebbe badato di più a se stesso, come no? Mi ringraziava dell’attenzione, sforzandosi di essere cordiale. Ma senza riuscire a nascondere un remoto brivido di amara ironia. Io, non so come, ho avuto la sensazione che non volesse curarsi, che fosse rassegnato alla morte ormai incalzante. La sensazione era, anche, che ci fosse un segreto nella sua trascuranza della malattia: possibile che un medico non capisse, non avesse capito, in tempo, e già da tempo, che i suoi sintomi portavano al mostro innominato? E allora perché s’era trascurato fino a quell’aggravamento palese? Quelli non erano sintomi misteriosi: dicevano chiaro che si trattava di una situazione grave, e, con estrema probabilità, di quella gravità. Aveva un cruccio segreto? Lo minava un disamore della vita da delusione personale? Come dirlo, e come negarlo?
Ma chi mi garantisce la fondatezza di questo almanaccare? Anche un medico tende a illudersi, a sottovalutare sintomi e segnali. E poi, magari, quando il guasto viene scovato è troppo tardi per ogni tentativo di contrasto valido.
Grande folla ai funerali. Io e Rina abbiamo “fatto il nostro dovere”, come si dice. Pensavamo di doverlo completare con un “fiore che non marcisce”, ma qui non usa. Grande folla, sì: con un particolare comico. Un gruppo di giovani del Movimento Sociale ha creduto opportuno (e bello) salutare il “camerata” medico col rituale fascista: saluto romano, eia eia alalà, l’appello nominale col lugubre “presente!”. Una farsa. Che non vale la pena nemmeno di qualificare ignobile, prevalendovi l’avventatezza giovanile e il cattivo suggerimento dei “vecchi”. Sì, era un camerata il buon medico. E non è certo il primo caso di collocazione politica sbagliata. Brava gente e buona fede portano, non raramente, a fusioni storpie.

*

L’altro fatto da appuntare è meno drammatico. Anzi, un po’ ridicolo, e molto inusuale. La mia alunna Maria Rosa P. chiede di potermi parlare da sola, e, in un angolo del corridoio della succursale, dove attualmente è ospitata la sua classe, mi confida, tra esitazioni e allusioni, che la sua compagna Concetta C. l’assilla, le sta sempre “addosso”, si mostra troppo premurosa nei suoi confronti. Insomma, le dà la sensazione di un attaccamento morboso. “Morboso?” – fa la mia riluttanza a recepire certe stramberie – “Morboso come? In che senso?” – Il senso filtrava dalle parole scomposte della ragazza, e si insinuava nelle prime fessure delle mie difese. Tuttavia un’istintiva resistenza nella mia fisiologia e cultura lo fermava sulla soglia della coscienza. Che diamine, mica si può pensare subito a sentimenti morbosi appena una buona compagna di classe mostra un po’ di amicizia in più, un interesse più affettuoso. Misi in imbarazzo la ragazza. La quale, comunque, incalzata dalla mia, forse non prevista, reazione (da sprovveduto) si vide costretta a fornire altri particolari: – “Professore, mi creda, e non mi giudichi maliziosa, è tanto che dura questa storia. Lei è gelosa delle mie amicizie; è gelosa dei compagni che mi frequentano, delle compagne. Mi fa delle mezze scenate, inventa presunti rischi per me, attribuisce insincerità alle mie amiche, alle nostre compagne di classe, ai miei amici. Dice che bisogna stare molto attente a fidarsi dei maschi, che sono tutti traditori, tutti pronti a ingannare per divertirsi alle nostre spalle. A furia di esclusioni, secondo le sue insinuazioni, l’unica persona sincera che mi sta vicina sarebbe lei. E ora comincia a stendere un po’ troppo le mani, e, quando ci separiamo, schiocca baci piuttosto strani per un’amica. E poi, fa certi discorsi sulla bellezza spirituale delle vere amicizie femminili, sulla dolcezza della confidenza assoluta, e altre cose curiose. Al mare, l’estate scorsa, con la scusa del confronto personale, studiava le mie forme, commentava su questo e su quello. Insomma…” – “… insomma, non sono fantasie tue, ma segni convergenti di una situazione affettiva che deraglia. E che non ti piace proprio.” – “Piacermi? Mi provoca disgusto” – O Cristo, anche questo mi doveva capitare, le confidenze delicate delle alunne fiduciose. – “Hai cercato di farle capire che non è cosa per te, che non te la senti di valicare certi limiti?” – “Come no? Ma lei insiste…” –“Forse la tua ritrosia non è stata abbastanza decisa?” – “Professore, non posso certo insultarla, è stata così premurosa con me, come faccio?” - “Non c’è bisogno di insultarla, ma di una più marcata dimostrazione di indisponibilità non potrai fare a meno”.
Mi chiedeva consigli, mi faceva capire che avrebbe gradito un mio intervento diretto. Ho maledetto ancora una volta la mia faccia: che kacchio vi leggono le mie alunne per eleggermi a loro confessore? Non tutte, certo, ma quelle più aperte, più fidenti e introverse, mi trascinano volentieri nei loro problemi, e mica solo scolastici. Non una o due volte, mi era capitato di ascoltare confidenze intime, ma si trattava sempre di rapporti normali, tra ragazze amiche e compagne di scuola, tra ragazze e ragazzi, tra ragazze e famiglie. Una cosa simile ancora non s’era presentata alla mia disponibile ribalta. Che cosa dirle, come tirarmi indietro da quella mezza sollecitazione a intervenire sull’amica troppo amica? Breve. Dissi che, sì, avrei cercato di parlare a Concetta (ma chi la sospettava di gusti particolari?), di farle capire l’opportunità di fermarsi, di contentarsi di una buona amicizia senza complicazioni. Avrei tentato, cioè, di accontentare un vampiro con un bicchiere di latte. Vedremo.
Ti ho già detto, quaderno, che Lella La Mela, la compagna di classe di Susanna Castrato, si mostra vieppiù gelosa della buona amicizia che lega costei alla mia famiglia? Ed evita di incontrarla in casa mia, viene, quando viene (da tempo più raramente), in ore diverse e di improbabile incrocio con quelle di Susy. Il feeling, così franco e ciarliero, della scorsa estate perde calore ogni mese che passa. La cosa mi dispiace, ma non so che farci. E mi chiedo: era, poi, davvero così termicamente sincero? Il feeling, intendo. Il poi insinua qualche sospetto nel prima. Che cosa di più naturale che la rivalità affettiva fra ragazze interessate allo stesso soggetto maschile, compagno di classe o professore, con secondi fini o senza? Niente d’imprevedibile, insomma. E tutto nella norma. Dell’universale mediocrità emozionale e dell’eterno femminino relazionale.

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