mercoledì 4 marzo 2009

Susanna frammento 16


5 dicembre

Pulvis es et in pulverem reverteris (Genesi). E chi se lo scorda! Solo che ci sono i tempi della memoria truce (o preferisci, quaderno, che scriva sacra?) e ci sono quelli della memoria buona festosa indulgente (vuoi che aggiunga profana?). Un piccolo introibo per quanto segue.
Dalla pagina 367, bianca, di Jean Guitton, Profili paralleli, al cospetto di un’accoppiata paradossale, cioè del capitolo su “Claudel e Heidegger”, trascrivo, alla lettera, un appunto a matita vibrante di eccitata sorpresa.

Ore 10, 30 – 12.
Questo lampo inatteso di sole azzurro, questo schiaffo di neve sulla calamita calda dei corpi sbocciati dall’abluzione domenicale, stami e corolle già vibranti sul prato odoroso del letto accogliente in sapiente attesa … Questa interruzione di corrente in un circuito già avviato, questo percorso spezzato da incidenze inattese… La rosa di luci e luccicori, la magia piccata di occhi indovini in accidentale intrusione, questa figura presa in consegna dalla fantasia e dal sangue, dalla metafisica dell’impossibile, qui, dentro questa carezza di stufa elettrica, complice di promesse urgenti in via di attuazione… D’improvviso, in questo hic et nunc, nel covo di ricordi vecchi di diciassette ore filate in trine di sapute alchimie, questa polarità di presenza imprevista, la sola, tuttavia, tollerabile, la sola ammissibile in tanta febbre di microspazi tumidi di incipiente abbandono… O potenza delle Coincidenze e bizzarrie beffarde del Caso sovrano, siate benedette per la spada di fedeltà coatta che avete frapposto tra i nostri corpi. A farne parodia profana di Tristano e Isotta nella foresta. Sia benedetta la tua provvidenza in rebus, Accidens o Ananke, estrema fiaccola della stanca caligine, ultimo surrogato degli dèi in fuga.

10 dicembre

Vanitas vanitatum et omnia vanitas La pagina precedente è rimasta, non insolitamente, incompiuta. Con la prevedibile conseguenza futura che, quando rileggerò il suo frenetico delirio, tra i più volte evocati decenni di maturata dimenticanza, non sarò più capace di trapanare la sezione personale di quell'ermetismo mimetico e capire le sue eccitate allusioni. Ma sarà prudente esplicitare del tutto “in questa sede”? Accenniamo, allora, alla decrittazione (ma in un foglio a parte, da custodire fra le pagine dello stesso librone concettoso che ha accolto la pirotecnica a matita.

Recupero tardo (vent’anni dopo, circa) degli appunti celati (ironia del folletto Caso) nel folto della più garantita, anzi smaccata, e spudorata metafisica dell’eterno Spiro).

Soli eravamo e senza alcun sospetto, io e Rina, il bambino in casa dei vicini amici; avevamo fatto un buon bagno caldo; visioni e solitudine avevano catalizzato il legittimo desiderio di effusive congiunzioni…astrali.. E già stavamo sul complice lettone, quando sentimmo suonare e dietro i vetri della porta finestra tendinata (ma di leggere stoffe semi-trasparenti) si stagliò il volto e mezzo busto della nostra amica Susy. Il seguito è di pacifica evidenza dietro le trine verbali danzanti.
Il corso del legittimo flusso non fu mai interrotto prima di cominciare: mi tocca anche essere originale. Quando lei ne fu informata reagì con una strana gelosia. Si accigliò, emise qualche suono pre-verbale, fece una smorfia e convogliò il tutto in quella inaspettata evidenza. Gelosa, dunque. Gelosa di mia moglie! Com’è possibile? E mi portò il broncio per giorni. E io a spiegarle il perché e il come non si potesse fare a meno di sia pur distanziati rapporti carnali con la propria compagna sacrale. La quale, tra l’altro, si sarebbe insospettita in caso di una troppo prolungata astinenza: non lo capiva, Susy? Sì, lo capiva, diceva la sua bocca; ma tutta la faccia mostrava il contrario. O delizioso broncio delle più perfette labbra mai desiderate da bocca d’uomo!
Ma forse Susy s’era ingelosita sullo sfondo di un’evidenza palpitante di freschezza temporale: appena 17 ore prima noi si era navigato dentro la barca magica del divino fanciullo arciere. La sintesi renderebbe meno eclatante la gelosia fisica. Peraltro, sempre ovvia nella fattispecie..
Se poi vogliamo frugare dentro quel grumo umorale definito gelosia, non sarà difficile estrarne questo riassunto chiaro e severo: tu dai a lei quello che a me neghi, lasciando sempre incompleto il rovistìo corporale..

14 dicembre

Bisogna darti retta, sibilo del mio bioritmo. Tu vuoi ch’io rinnovelli disperato piacere, su questo sfondo di brandelli rossi che si chiama Vietnam, sopra questo tappeto crudele di maledizione cruenta che diciamo storia vita mondo. E sia.
Niente può fermare l’egoismo assoluto di un corpo affamato. La stessa ora elastica che accoglie le urla della carne straziata dal napalm ha spazio per i gemiti del desiderio che incendia i labirinti bui del corpo-sesso. E’ buono allo spirito il limite corporale: spazi isolanti separano le convergenze mostruose, e le compresenze imbarazzanti si ignorano.. Nel cavo dell’oblio rotolano gli organi di competenza annodati dal furore appetitivo. Lo scandalo della guerra è lontano; non c’è traccia del suo rumore nell’angolo discreto del guscio protettivo. E qui, nel covo scaldato dal sangue ben altrimenti sconvolto, tutto sembra pace. Tutto è pace. La sola pace possibile nel Progetto attuato della Grande Fregatura (vulgo, Creazione. Per tanta Confusione!): una pace parcellare, discontinua, frantumata, impura, frammista a porzioni di guerra diversamente dislocate. Soltanto dopo, solo ora un’eco non più che flebile ne giunge alla coscienza succedanea. Non si dice: post coitum omne animal triste? Qui non si tratta di coitum, ma gli effetti, diciamo, espulsivi del petting non cambiano. E la melancholia post-coitale può rivendicare ugualmente il suo diritto di presenza. Ecco, in questa fenomenologia s’inserisce comodamente il pensiero del Vietnam martoriato.

E’ segno di sensibilità? Senza dubbio. Serve a nulla? A nulla. A nulla di concreto, di operativo, di incisivamente rapportabile agli sporchi strazi di quell’inferno remoto. Remoto, magari, no, non del tutto, non visivamente, se la televisione ce lo porta davanti agli occhi quotidianamente, sia pure filtrato e polarizzato secondo le deformazioni della propaganda americana. Ma insomma, può guastarci l’appetito. Un poco, certo, soltanto un poco. Sicuramente non saprei fare l’amore davanti a scene di sofferenza. Saprei dilazionare, magari rinunciare. Chissà.
Ci si imbroglia a parlare di certe cose. Non capisco bene, per esempio, dove finisce la compassione per le vittime civili di questa prepotenza miliardaria spacciata per battaglia di civiltà e dove comincia la rabbia per quella arroganza da superpotenza, per quei fans di Mammona camuffati da civilissimi liberatori. E’il pensiero dei bambini, naturalmente, quello che prende di più. L’accostamento di quegli innocenti lontani al mio bambino superprotetto scatta automaticamente ad ogni impatto con visioni di terrore, di sofferenza, anche soltanto descritte nei giornali (ovviamente, solo di sinistra). Lo immagino in quella devastazione di ogni sentimento umano che sono i villaggi bombardati e napalmizzati da quella turpe versione moderna dei fuochi biblici (te li raccomando, anche quelli, come prova del Dio giusto e misericorde!) che sono i bombardieri americani; e il cuore mi si spezza.
Il cuore non si spezza, ma, credimi quaderno, conosce aculei nevrotici di tutto rispetto. Bombardieri americani: i reportage della scrittrice Mary Mc Carthy li presentano come una sorta di mostri biblici (appunto) onniveggenti, che dall’irraggiungibnile soglia della loro sicurezza celeste possono colpire ogni bersaglio “aperto”. Come il fuoco di Sodomia e Gomorra: archetipo sacro dei criminali bombardamenti sulle città nella seconda guerra mondiale e nelle successive, da quella coreana a questa barbara aggressione al Vietnam.

Il mio bambino super-protetto! Che cosa ti fa dire, a volte, la giustizia eclatante dei confronti. E’ evidente un certo vantaggio del super-protetto di fronte a quei bambini bersaglio di piombo vampe fosforo e napalm. Ma chi proteggerà i bambini super-protetti dal dio biogenetico e dal diavolo sociale? Per certi temperamenti, la sentenza sartriana dell’Huy clos è più vera che per gli altri. “L’inferno sono gli altri”
*
Basta. L’hic et nunc è ben lontano da quell’orrore. E dagli altri. Torniamo alla cronaca spicciola. Magari cominciando col confessare paure e tremori. Raramente fu concepito pensiero di dramma sotto il segno di Venere, nella tiepidezza di questa scatola d’ossa: oggi è uno di quei casi rari. Da quanto non ero così aperto all’insolenza del desiderio che si appella al destino? Dieci giorni son trascorsi dall’ultimo dono dell’essere. Ogni ora vi si inscrive in tensione di malinconia frettolosa. Il veleno dolcissimo lavora il sangue. Salgono al cervello brividi di sgomento, un vago odore di dissoluzione vápora nella mia aria selettiva di quotidianità divisa. Ah, la burla atroce dell’impotentia dicendi: come dire? Come trasportare sopra questi fogli rigati tutto il disordine di ansie, paure, appetiti in lotta che inarcano ganci sulla carne dell’anima, anche se potessi farlo in esplicite e chiare note? Possibilità che continua ad essere
remota, più remota che mai. In ogni caso. Anche se, silente e sorniona, infila qua e là brecce nelle coperture vibranti.
*
Scriviamo numeri che sono tappe: quattro, cinque, undici, dodici…Tappe di frodi, di viltà, di esaltazione, di felice ingordigia, di vendette delicate e di satanismo rabbioso. O misericordioso. Con chi, contro chi? Contro di me, se parliamo di vendette e satanismi arrabbiati. Contro di me medesimo, soprattutto. Bersagli non mancano: le mie carenze tenaci, la mia fragilità ricorrente. E contro l’altro da me. Per esempio, la mia metà, la sua distanza, la sua assenza: dal mio mondo, dai miei interessi, dal meglio di me (per poco che valga). Poi contro l’ordine delle cose, e il prevalente disordine; l’assetto della società, delle società umane tutte, a est e a ovest, a nord e a sud del pianeta malriuscito. Contro la nostra, in particolare: la nostra civiltà col suo dissesto, la contraddizione tra parole e comportamenti. Contro la morale, la religione, i valori proclamati e traditi, i valori pretenziosi e inattuati, i valori falsi e inutilmente opprimenti.
Un mostruoso intreccio di bugie, in me, intorno a me, sopra persone, istituti, sepolcri bianchi di calce obliterante. Uno schifo, cara: grande quanto la mia incapacità di darmi una ragione di certo accadere, di assaporare la vita senza tremori di riserve impaurite e di pensosi distinguo. Quanto l’inutilità pratica della mia filosofia, la sua incapacità di dare un senso alle cose, a questa instancabile chimica dall’esito informe. E in mancanza di forza saldezza tenacia e coerenza, che vorrebbe il mio bisogno di definitivo, questo ondeggiare nell’irregolare, nel disordine affettivo, professionale, creativo, biologico.
Poi la donna, il sesso, il capriccio sentimentale, le evasioni estetiche, gli assaggi coinvolgenti, come invariati alibi alla mia pochezza.
Avresti preferito l’assetto di un bon normalien, repleto di etica verità carità fedeltà coniugale e paterna? Perché no? Chi lo sa! Le risposte vaganti della mia coscienza anfetaminizzata oscillano fra il sì e il no. E se in luogo delle anfetamine scattano le endorfine, va peggio: ci dormo sopra, ai pungoli molesti.
I quali, poi, sono furbi abbastanza per cercarsi alibi: per esempio, agitandomi in faccia il venticello fresco del Nietzsche scandagliatore di anime buone, le cui “antenne psicologiche” colgono “tutti i segreti” e gli rivelano “tutta la sporcizia nascosta nel fondo di certe nature, forse prodotta dal sangue cattivo, ma imbiancata dall’educazione” (Ecce homo).

20 dicembre

Scriviamo numeri che sono buche: diciotto, diciannove, venti… Buche, nelle quali il mio corpo pigro si rintana, a consumare pasti, in un modo o nell’altro, proibiti. Caverne semiplatoniche, che mi nascondono agli uomini; che eccitano e coprono le mie paure. Vi accendo fuochi di sesso.. Mi arrosso di quei labili bagliori: sempre più incatenato, sempre più logoro nello “spirito”. Ma pago di quelle ombre che sono corpi e unica realtà: fuori non c’è l’eterno eidetico, ma l’infantile illusionismo. E l’inganno occhiuto che lo sfrutta ad alto costo.
Lo strano è che tutto quanto parrebbe dovesse giovarmi mi sprofonda vieppiù, scava più a fondo nella buca-tana. Dovrei essere felice. Ossia, più saldo sulle gambe, in buona equazione con i tempi e i compiti. E invece sono dimezzato. Stretto dalla malinconia. Da soffocare. A volte.. Rimorsi, in sostanza?
Echi lontani mi richiamano la Legge. La legge antica della mia presenza nel tempo: come fui, sono, sarò. Credo, temo (spero?) per poco ancora. Pochi anni, forse. O mesi? Brivido. Dài, non fare lo smargiasso. Sussulti agitano le viscere: e se, dio liberi…? Chi sopravviverebbe allo stupro della dignità?
Chissà. Quanto durerà? Mon fils, mon enfant, il m’aide, toutes fois. Sì, egli mi aiuta. Oggi. Domani, chi lo sa? Oggi mi “salva”: mi tiene per il lembo della giacca, quando sto per fuggire in groppa alla disperazione.
*
Adesso un altro incontro con l’oscura Signora dell’ultimo Trionfo si apparecchia: lo zio Silvio, laggiù, nella Trinacria dubitosa, è di nuovo all’ospedale, gonfio di edemi, forse non più “rientrabili”. La lurida malattia continua il suo lavoro, invulnerabile a ogni cura. Quando fu diagnosticata la cirrosi si sapeva che non restava speranza di lunga durata. I dolorosi svuotamenti concedevano brevi tregue, ma l’ascite non mollava la preda, presto ricominciava ad allagare organi e cavità. Da qualche settimana sembra che il mostro voglia affrettare l’esito scontato. Quasi non c’è parte del corpo sformato che non sia gonfia di plasma stagnante.
Sono stanco di vedermi morire intorno persone care, stanco di sentire l’eterno ritornello, di ospitare la morte in casa mia. “Non c’è niente da fare”, “bisogna rassegnarsi”, “è la vita…”, “possiamo soltanto cercare di attenuare le sofferenze”, “prognosi infausta”: che musica stridente. Peggio quando qualche importuna anima pia si rimette al Signore, alla Sua imperscrutabile volontà: “Il Signore sa quello che fa. Anche quando noi, creature limitate, non riusciamo a leggere nei suoi misteriosi disegni”. Amen.

Qui, la settimana scorsa è morta la sorella di una mia amica e collega.. Morte improvvisa. Mentre faceva il bagno. L’hanno trovata esanime nella vasca. Un’embolia, dicono. Aveva poco più di trent’anni. Si segnalano altri casi di morte improvvisa nei dintorni. Pare che la “malattia” si diffonda, sotto il profumo malioso dei gelsomini. Siamo stati ai funerali della giovane: grande cordoglio in paese, dolore e paura in seno alla famiglia. La collega, Pina Cappello, insegnante di latino, viene a scuola in lutto stretto. Che tanfo di morte intorno a me. E ti risparmio, quaderno, le insinuazioni del mio moderato cinismo sul pubblico cordoglio e i sottintesi inevitabili. La giovane, la ricordo vagamente, pochi contatti fra noi. Eppure mi si disegna in un angolo della memoria un volto malinconico. Non brutto, ma non favorito, tra l’altro, da quell’aria di segreta mestizia. Chissà quale cruccio la insidiava.
Vivo in uno stato di continua precarietà. Una tensione quasi eretistica sospesa sull’ultima buca. E’ come un ritmo biologico acquisito alla normalità. Non conto quasi mai sul domani. E novero gli scacchi del passato. Né mi riesce di stabilire se vale la pena lasciarmi dietro un lembo di me, del mio “corpo glorioso”. Da troppo tempo non scrivo una cosa passabile. Ammesso che ne abbia scritto mai.
La cattiva coscienza accompagna le mie ore come la luce del sole e il buio della notte. Sono un cespuglio spinoso di rimorsi. E una coppa semivuota di attese, di speranze. In che cosa, precisamente, non so. Tutto in me attende, ma non so cosa. Certo, l’evento, il caso fortunato, il caso nuovo e risolutivo che mi ridarebbe vitalità e ardire. Che mi farà scrivere i miei libri, mi rimetterà in saldo con le mie promesse. Ma quale evento, quale caso? Quale rapa di Caso?
*
Ecco, ho finito. E quel che volevo dire non l’ho detto. Quella che doveva parlare non ha parlato. Questo sfondo muto, tuttavia, è il musagete di questo inerte sgomento picchettato di luce.
Poscia che Costantin l’aquila volse/ contra il corso del ciel ch’ella seguio/ dietro a l’antico che Lavinia tolse/ cento e cent’anni e più l’uccel di Dio/ nello stremo d’Oriente si ritenne/ vicino ai monti dai quai prima uscìo/… Certamente è un ruolo che il Festeggiato di questo settimo centenario della nascita non previde. Né Virgilio né la divina Beatrice predissero così profano destino all’opera non meno divina. La vendetta, forse, sta in questa impossibilità di vantarmene, neanche con questo testimone muto e vanamente rigato. Vero quaderno? Ma tu sai di che e di chi si tratta. E di quali gesta l’uccel di Dio vorrebbe vantarsi al tuo cospetto. Sai quali divine coperture il divin poema ha offerto steso profuso sulle divagazioni metafisiche del contesto.
Che giornate radiose ci ha regalato questo dicembre che volge al tramonto. Merita ricordarlo. Quanto spesso questa luce fisica è condizione e simbolo dell’altra. Dell’anima, avrei scritto un tempo. Oggi mi godo un’anima distribuita nell’infinito molecolare del corpo. Echi di buone letture complici: “Io sono corpo tutt’intero, e l’anima è solo un nome per qualche cosa del corpo” (Nietzsche). Leopardi: “Il corpo è tutto.” Lui, poverino, ne aveva così poco! Anche lei è solo corpo. E l’anima sua palpita pulsa esala di contenuti spasimi nell’onticità furtiva che ci scuote. E saltuariamente ci squassa. O dolcissimi orgasmi del Pensiero. Del pensiero pesante!
*


Intermezzo.

Qui finisce il quaderno. Una parte del suo contenuto materiale non è stata trascritta in queste pagine di video scrittura. Si tratta di “postille” aggiunte dal moi nostalgico-esplorativo molti anni dopo, scrivendole sui fogli bianchi, o sulle parti bianche dei fogli occupati solo parzialmente. Le aggiungo, non le aggiungo? Che problemi di coesione cronologica, di sequenzialità diacronica, o d’altro competente genere mi comporterebbero? Bah! Meglio dare un taglio (del resto ci abbiamo pensato anche troppo, io e il moi). Basta così. Trascrivo. Cambio carattere, userò il corsivo? Ancora questioni di lana caprina. Che poi, magari, al momento di licenziare il malloppo, sarò costretto a deplorare e cancellare. Va bene: usiamo il corsivo. L’aggiunta segue la “giornata” del 14 settembre. Vai a rileggerla, fantomatico lettore (o, preferibilmente, enigmatica lettrice) del duemilasessantacinque.
*
Dietro questa pagina è rimasto un foglio bianco. Scrivere su questo foglio dieci anni dopo stana una fuga di pensieri caldi di sangue affrettato.. Si muove un processo di identificazione che attenta alla lucidità: un risucchio di Crono mi rinchiude nella pelle di 123 mesi fa. E’ un gioco, non si può ignorarlo. Ma la povertà del presente spinge a giocarlo. Attizzando speranze dilettose.
Ed ecco, ci lasciamo andare a una sorta di lungo viaggio attraverso il cervello, nell’intrico neuronico della sua acciaccata Mneme. La quale, ipostasi del virtuale remoto, fruga la “foresta di simboli” delle cinque pagine precedenti per ritrovare le registrazioni molecolari ormai danneggiate di quel lontano vissuto. E fra le due foreste invisibili ricostruisce, mein Liebe, la topografia visibile del tuo corpo parzialmente esplorato da queste pagine.
E’ proprio lui, il tuo corpo, che lampeggia dietro la maschera irridente dell’essere tentato e trascendente. E’ la mia mano l’ente perlustrante e adorante. E la trasparente estremità allucea onticizzata mi immerge in reviviscenze di ricolma attualità umorale. La rappresentazione combinata di quel perduto agire furtivo disegna moti e finzioni delle operazioni cui mi costringeva la contemporanea presenza di “eccedenze”. Per esempio, di Gabriella (detta Lella), la tua compagna di classe, la piccoletta biondina dagli occhi azzurri, intenta a non difficili problemi di geometria magistrale. In quei casi, braccia e mani dovevano restare visibili sopra il tavolo, mentre, sotto, una parte delle corrispondenze inferiori poteva operare in circospetta, relativa pace nel naturale invisibile. Ah, Susy, perduta rapina, dolce-amara pienezza di anni prosperi, il “fronte coperto del mistero” come vibra ancora nella ridestata chimica della Mneme malconcia! Come rifibrilla al tatto il rimemorare strozzato del cribroso e caldo tuo slippino tentato. Il tuo esile pudore trasparente premuto tra il risvegliato pube e il mio alluce affamato.
Ti difendevi, sì, e l’ancestrale paura della cellula insidiata s’innestava nei relais molesti dei tabù sessuali ad inasprire il conflitto con la parimenti remota spinta a prendere e dare. Il Pudore, minuscolo dio ruffiano, condiva i miei viziosi antipasti di esteta coatto. La resistenza della preda non è il più delizioso condimento al sapore dell’aggressione predace? L’ha detto, e scritto, un poeta famoso, nonché ardito pensatore, ignaro precursore della “migliore novella”(così, l’amico Gulizza) biotrofista . Nientemeno che Novalis in persona:
“Intorno al desiderio sessuale, alla ricerca del contatto carnale, al piacere della nudità umana. Non potrebbero essere un appetito dissimulato? /Quanto più vivacemente resiste quello che si deve divorare tanto più vivace sarà la fiamma del piacere. La donna è il nostro ossigeno. / Come la donna è il supremo nutrimento visibile che forma il punto di passaggio dal corpo all’anima, così i membri sessuali sono i supremi organi esterni, che formano il punto di transizione dagli organi visibili agli invisibili […] Teoria della voluttà: l’amore è ciò che ci riunisce insieme. In tutte le funzioni sopra ricordate (ballo, nutrizione, parlare, lavoro e vita in comune, ecc.)c’è in fondo la voluttà. La funzione più propriamente voluttuosa, la simpatia, è sopra tutte le altre mistica; è quasi la funzione assoluta, quella che conduce alla riunione totale, alla miscela chimica” ( Novalis, Frammenti, a cura di Giuseppe Prezzolini).

Certo, la normalità dell’eros corrente non prevede esiti tragici nella sua fenomenologia incivilita, né il moi soffriva di eccessi sadici, ma forse che la sua logica profonda è diversa da quella che regge il filo rovente del rapporto aggressivo, l’ambivalente filo rosso dell’amore, a suo modo sempre predatore? Non è vero, Sa, tu che non conoscevi tenerezza e svenevoli languori nella tua erotofagia dolorosamente strozzata? Tu resistevi, e io crescevo nel mio desiderio; tu serravi le gambe, e io spingevo più forte la parte di me che tentava quell’umido accesso bloccato. In questo caso, le “parti subtrascendentali” che nella semantica parodistica della mimesi speculativa significavano le punte estreme e più mobili delle estremità inferiori. Più particolarmente, l’alluce, felice appendice. Tu stringevi, e la macchina del piccolo semantema anatomico spingeva, docile al comando della Turris cogitans. Il modesto ariete ostinato forzava con la sua tenera carne indurita la distinzione serrata delle tue salde cosce, l’una contro l’altra compresse a contendergli l’ambito ruolo di cuneo avanzante del desiderio dimezzato. Dopo tutto, Sa, che cos’era mai sì mite pretesa? Volerti toccare nel cuore della fiamma, soltanto toccare, per giunta con appendice impropria, che pericolo poteva essere? Ma tu non avevi torto: che cosa ci sarebbe stato dopo il cuneo di miti pretese? Il modesto exploit del contatto velato e “improprio” si sarebbe appagato di sì umili, parcellari acquisti? Potevi legittimamente temere sviluppi “ad alto rischio”: si comincia con l’oliva dell’antipasto e si avanza dritti verso il compimento del pasto pieno. Questo poteva essere un tuo lecito pensiero-timore. E magari pensiero-desiderio. Ma sopraffatto, cotesto, dal complicato prevalere del primo. Complicato, di componenti molteplici, ma con trasparente prevalenza del disagio amicale: quante volte mi confessasti quel senso di colpa verso Rina, l’amica ospitale, attenta, solidale nei tuoi patemi scolastici, pronta alla parola di conforto, al gesto riparatore di offese altrui. Pensavi così tu, forse: pensavi e temevi una lineare evoluzione del mio appetire. Ma avevi ragione solo a metà: non sapevi, a quel tempo, che razza di “mangiatore” mediocre avevi davanti. Con la temperatura delle tue vene, come potevi prevedere un siffatto rinunciatario in un uomo normale? Problematico, certo, e pieno di pensieri, ma anche così preso di te, così “infebbrato” a sua volta, e per giunta poco afflitto da esitazioni moralesche.
Ancora oggi, Sa, mi sorprendo a stupirmi di quelle mie inadempienze. Di quelle invincibili paure, muse di così masochistico divagare. Ma soprattutto a meditare sul miracolo della tua morfologia. Mi raccolgo un minuto a ridisegnare nei colori del ricordo scheggiato le linee della tua perfezione: il cosiddetto ovale del viso (ma quale ovale?è molto di più e di meglio nella carne dei vent’anni protesi), la fronte con la sua giusta ampiezza, curvatura, altezza; le arcate orbitali, tane imbottite di due occhi grandi, luminosi di cupida ambra, dal taglio lungo perfetto con lunghe ciglia naturaliter ricurve quanto basta; il naso snello, dalle froge frementi (nei raptus d’ira e nelle estasi del Cupido ridesto), dalla punta all’insù, ma senza eccessi, in nessun particolare; la bocca, scolpita alla migliore distanza dalla base nasale, pregiata di due labbra carnosette incurvate al meglio della pittura rinascimentale; denti di un avorio abbagliante e saldo; mento deciso a non farsi ignorare, ma senza inestetismi, neanche minimali, anzi con il tocco di una seduttiva fossetta : alle guance sorridenti, due pieghe retrattili di assoluto incanto…
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Anche gli appunti finiscono, magari in tronco e in debito di reticenza non più sanabile.

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