martedì 17 marzo 2009

Susanna frammento 18


25 gennaio, ore 23-24
Continuiamo a parlarci, diario: oggi mi sarà meno facile esserti sincero, ma poiché debbo comunque farlo, mi trasferisco, al momento, sul tuo brogliaccio vicario che ritengo meglio protetto dalle casuali incursioni della mia mezza arancia. Rifugiato fra la folla di insospettabili libri in perfetta mimesi, solo uno scherzo pretesco di sua divinità il Caso potrebbe farlo finire sotto gli occhi sbagliati. Che cosa cela e dilaziona tutta questa manfrina? Lo saprai fra poco. E apprenderai che quel tratto di cronaca spicciola e poco eroica appartiene al genere di informazioni da celare assolutamente a un ben definito giro di intimissimi.
E, se fosse possibile, anche a se stessi.

Sette giorni dopo aver seppellito lo zio ero in viaggio per Roma: il quindici dovevo presentarmi alla commissione del concorso a cattedre per sorteggiare l’argomento della (finta) lezione. Gli ultimi giorni di relativa serenità in seno alla famiglia avevo studiato con lena un po’ affannata (e anche disturbata dalle improvvise visioni del dramma recente). La sera precedente la partenza, ho cercato aiuto in un blando sedativo per garantirmi poche ore di sonno.
Sul treno, cercai nella 1a classe l’estrema condizione per un ultimo sforzo di attenzione operosa verso la prova incalzante. A Taormina un viaggiatore nuovo distrusse la mia beata solitudine. Studiai ugualmente fino a Santa Eufemia. Qui la volontà degli dèi decise la mia sconfitta.
Tentai, sì, un’ardua continuità di sforzi attenzionali sopra un’ostica materia, ma una ritmica prevalenza di attività, o passività, visiva ne comprometteva saltuariamente ogni efficacia. La nuova polarità non era di quelle che ammettono scampo. Se ne riempiva lo scompartimento, e le sue vibrazioni attraversavano la durezza scostante delle proposizioni hegeliane della famigerata (e troppo onorata) Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: ne venivano scompigliate le già difficili convergenze verso l’alveo stanco della comprensione attiva. Il mio corpo stesso era stato già sollecitato ad interventi preliminari di servizi cattivanti: il vetro del finestrino era duro da alzare e abbassare; non abbassato, faceva ostacolo a maritali necessità di effusioni da commiato. Le mie braccia poco erculee pur bastarono a tanto. Il sedile di fronte era in parte ingombro del bagaglio del “signore” accanto a me. E la nuova presenza ne vedeva impedita la propria comodità: la mia vigile iniziativa fu sufficiente solidarietà al sollievo impedito.
Ci fu poi un piccolo premio a tanta solerzia: gradito, tempestivo, dolcemente euforizzante. Insomma, una Muratti con filtro. E la sigaretta dal filtro cinereo fece gradevole sintonia, tra le mie studiose dita, all’avidità fumante del nuovo coagulo biologico dell’Idea fattasi Natura. Magnifico coagulo, e tanto magnetico al cospetto della mia irritabilità nervosa: né alta né bassa, di polpa sodamente ben distribuita, di viso simpatico (e potrei dire anche bello), con occhi chiari e luminosi, chioma biondo-rossiccia; sveglia, vivace, l’aria intelligente, gradevole la voce di timbro velare. E il solo difetto, in quel precario contesto, di fumare tanto. Che altro, per subire la sirena?
Le precedenti immagini di morte intrecciarono una nuova danza (tutt’altro che macabra): tra le alternanze discoste del testo hegeliano e dell'esame imminente c’era, ora, in crescendo, la nuova emissione vibratoria. Assorbente, questa, al punto da cavare dall’Idea funerea forza motrice al proprio prevalere. Che fare? L’Idea predilige i corpi al punto da assorbire le immagini del ricordo nelle irradiazioni di questi. Non ripete lo stesso Hegel l’antica verità del Verbo incarnato? Nel secondo dei tre momenti fenomenizzanti l’essenza metafisica del mondo si fa mediazione di concretezza carnale tra Idea pura e Spirito..
Io resistevo: s’era tanto infiltrata la paura nelle mie molecole nervose – sarei sopravvissuto a un insuccesso al concorso? – che a lungo mi contese all’incalzante violenza della nuova insidia. Così, per qualche ora, raggi visivi e raggi intellettivi fecero inquieto intreccio nell’aria calda del compartimento dai sedili rossi, in una versione umiliata della lotta con l’Angelo.
A mezzanotte, però, la stanchezza mentale mi fu ultima e più convincente galeotta: riposi Hegel nel suo astuccio e avviai il metodo socratico, in chiave di aggiornamento e direzione eterodossa. L’obbiettivo rispose. Altre sigarette mi offrirono spunto ad interventi non muti sulle aperture del compartimento: si soffocava, e cambiare l’aria interna diventava igienica necessità quasi vitale. Proposi la luce blu per un tentativo di sonno. Il mio vicino dormì, dormì anche l’altro ospite, aggiuntosi in successiva fermata al taorminese. A me furono richiesti calcoli e progettazioni dal Fato giocherellone che muoveva l’insieme.
Era l’una notturna del nuovo giorno quando la biondo-rossiccia incarnazione fenomenica dell’Idea fuori di sé (e momentaneamente, fumando come un piccolo Efesto, fuori dal compartimento) si scosse e si rimise a sedere. Il metodo socratico riprese le sue avances preparatorie. I gabinetti di decenza ci sono, sui treni, anche per tracciare intervalli di silenzio al metodo socratico. E persino per suggerire audacie un po’ matte che, per fortuna, qualche viaggiatore insonne si incarica, mole ostinata a mezzo il corridoio, di scoraggiare sul nascere. Né si può stare a leggere, “studiosamente”, seduti sul ligneo seggiolino retrattile che si trova in fondo alla vettura, di fronte alle toilettes. Questo lo capiva anche l’Idea dall’appendice respiratoria pronunciata e aggressiva. Dunque non fu senza giustificazioni che il mio corpo tornò a preferire il calduccio accogliente del compartimento al freddo scostante del corridoio e del suo sedile di duro legno solitario. La piccola anàbasi dal fondo della vettura al molto centrale compartimento avveniva pochi minuti dopo la rentrée polarizzante. La cui titolare, suppongo, risuonava del mio diapason, polarizzata anch’essa. Ma con quale disposizione intenzioni mezze intenzioni? Era tutto da scoprire, e l’impresa cominciava solo ora, dietro preliminari anòdini. Esitanti, dapprima, e in saltellante casualità esplorativa, poi vieppiù compatti e sequenzialmente decisi.
Il metodo socratico funziona bene anche alla fioca luce blu di un compartimento di prima classe. Né si lascia disturbare dallo sferragliare del treno, che è diverso, si sa, da un frinire di cicale nell’afa attica carezzata dall’ombra di un faggio e dalla frescura dell’Ilisso. L’ospite al mio fianco dormiva sodo, dunque nessun disturbo da quella parte. Almeno finché durasse la sordina. La conversazione si infittì, e mi apprese molte cose dell’Idea-fuori-di-sé, dalla “g” tendente a “z” per contagio ambientale. Lei è a Ravenna, lui a Cosenza; lei lavora all’ospedale, lui ha una “scuola guida”. Si vedono ogni quindici giorni: lui va su, lei lo accompagna giù. Sposi da un anno, si sono conosciuti così e così. Lei è di Palermo, lui calabrese. Il padre di lei è sottufficiale dei carabinieri, così lei ha visto tanta parte d’Italia. Si scrivono ogni giorno, lui anche due volte al giorno: tutti espressi, e telegrammi. Cui si
aggiungono le telefonate.
Si amano? Certamente. E ciascuno a suo modo. Egli è meridionale: controlla, diamine. Le Poste italiane vorrebbero molti utenti come lui. Studia di riunirsi per tempo alla separata metà. Niente figli, naturalmente: come si farebbe in tale situazione? Ma quella fitta comunicazione quotidiana! Ogni eccesso puzza di malattia: qui più che amore come paritaria reciprocità appetitiva si mostra morbosa gelosia del maschio meridionale tipicamente radicato nell’idea del possesso totale. Le smancerie dello scriversi e sentirsi più volte al giorno sono forme di pressione vigilante. Si amano, certo: sono sposini. Certo, sì: ma fino a quale vetta-limite-esclusività? Bisognava insistere, fare onore all’impegno cognitivo. Sapere, a quel punto, era questione di vita o di …botte.

Fuori piove, il treno scivola veloce sulle rotaie bagnate. Saranno le due, le due e mezza della notte. Notte elettrica, non può essere altrimenti.. Un’indifferenza assoluta non avrebbe alimentato così folto conversare, non è vero, lettore fantasma? No? Perché no? Sarei il solito meridionale “malpensante”: una giovane signora non può mostrarsi, dunque, civilmente gentile e conversevole, senza nascondere prurigini segrete? In un’occasione come un viaggio in treno, lungo e, diversamente, noioso? E mica col primo arrivato, anzi: con un giovane professore che va ad affrontare il drago di un concorso a cattedre, e si lascia distrarre dalla sua passione forzatamente dominante per fare un po’ di compagnia, di svagata conversazione con una giovane bella signora forzatamente separata dal marito, lontano ma innamoratissimo. E vigilante.
Già, appunto: lontano, un po’ troppo innamorato, more geometrico, un po’ asfissiante, forse. Ma insomma, niente di abissale: qua si lavora per qualche scampolo di conversione tattile della conversazione normale, cioè soltanto verbale e aeriforme. Le sigarette si susseguono a ritmo sostenuto: dio quanto fuma. La prego, perfino, di frenarsi, ché le fa male. Né è agevole aprire finestre e porte, per cambiare aria: si rischia di svegliare i dormienti. Ma, davvero, signora, perché fuma tanto? Le rovina la salute. – Soprattutto, non giova alla mia, gentile compagna, e candidata resistente a una modesta avventura di viaggio. Mi intossica, e io ho bisogno di conservare, o recuperare, stabilità e lucidità mentale. Dice che di solito non fuma tanto, che stanotte sta esagerando. E perché mai? Colpa di Hegel? – “Lei sa, signora, che la nicotina abbassa anche la libido?” – A quest’azzardo audace (al limite dell’insolenza? E sia) lei oppone che no, non lo sapeva. Pensiero non esternato: lo fa apposta? Per sventare il rischio della tentazione (mia, sua)? E tuttavia, perché dovrebbe saperlo per forza? Non è così istruita.
Sì, lo so: dovrei studiare. Ma, poi, come farei, con tanta grazia vicina, così vicina, a un palmo dal mio naso? E anche meno dagli impazienti polpastrelli già formicolanti di pruriti cinetici! Il piccolo Socrate d’occasione si fa pressante, stringe la presa. Siamo, in breve, alle dichiarazioni esplicite (mie). “Risponde” egregiamente. “Questo signore accanto a me: possibile che non abbia alcun bisogno? E quell’altro nel corridoio, accidenti! Avevo concepito un’idea pazza, lui me l’ha spezzata.” “Ah, è per questo che stava fuori dunque?” “Già. Per questo. Cosa avrei conseguito? Dica” – Dice: “Una sberla, forse” “Un vero dono, da quelle mani!” Banale? Sia pure (al quadrato). Andiamo (e ripetiamo), mica sto parlando a una scaltrita intellettuale! Riprendo: “Ah, questo macigno immobile. Senza alcun bisogno della normale fisiologia espulsiva! Certo, se ci lasciasse soli tenterei la… sorte.” “Ma quale sorte, che
va a pensare, scherza?” Questo dice, la maliarda notturna. Ma in tono leggero, con un’allumacatura di sorriso deliziato. “No, non scherzo. Non potrei resistere. Voglio i suoi promessi o presunti schiaffi.” “Ma è pazzo? Che sciocchezze. Allora è meglio che quel signore sia di sasso.” – Recita la civile indignazione e finta sorpresa. Nel medesimo tono ludicamente piccato. Rincalzo: “Fosse, poi, di sasso. Mi sa che sente. E mente. Potrebbe anche vedere. Forse lo abbiamo svegliato. Poco fa, però, dormiva, di sicuro.”
Fitto, insomma, lo scambio verbale. E tutto dentro un sussurro continuo: un lene ruscello di casta seduzione. Strana sua domanda-commento, dietro l’espresso sospetto sul viaggiatore finto-dormiente: “Lei è così impressionabile, dunque?” – Rimugino. Perché me l’ha fatta? La domanda, dico. Non dovrei preoccuparmi di un eventuale testimone indiscreto, forse perfino impiccione? Rispondo, finto tonto: “Sì, lo sono, ad onta della mia filosofia.” – Poi mi illumino: Ma no, non si riferiva al viaggiatore accanto a me, al mio timore su di lui. Che sciocco, avrei dovuto capirlo. O, più che sciocco, appannato: dal fumo nicotinico, dalle scorie azotate del modesto metabolismo, dal sonno perso, che moltiplica i “radicali liberi” (beati loro). La risposta, però, andava bene lo stesso. E semmai potevo allungarla, e magari infiorarla un po’. “Nel mio composto psico-fisico, vede, lo spirito non è riuscito a sganciarsi dal corpo, ad emanciparsene, come si dice. Molti, troppi, dichiarano di dominare il corpo con lo spirito: io sono di quelli che restano esclusi da tanta grazia. In me, il corpo domina e comanda lo spirito. Ovvero, se vogliamo offrire un inchino al padre Dante, io sono fra “i peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento” Conosce Dante? Certamente, “ma poco meglio di quel poco che insegnano al liceo Scientifico.” “Non mi prenda troppo sul serio: sto scherzando. Il famoso dominio o autocontrollo spirituale è solo un esito fisiologico: di paure calcoli ostacoli avvertiti come insuperabili e resistenze interne varie. Che, stanotte, in me non ci sono affatto. O non abbastanza da neutralizzare il suo effetto su di me. Per una sorta di pudica modestia non ho detto fascino. Ma la sostanza è quella. A voler continuare con la modestia, potrei precisare così: questione di pelle”– Lei, piccata: “Che vuol dire?” “Ribadisco quello che ho già detto: mi fa sangue, come si dice da noi.” “Anche da noi” “Certo, visto che il da noi ci è regionalmente comune. E va bene così: ci capiamo meglio”.
Sappiamo ormai abbastanza l’uno dell’altra: alle sue confidenze autobiografiche, naturalmente, ho fatto seguire le mie. Io sono un professore di filosofia, sono sposato, ho un figlio, vado a sostenere la prova orale di un concorso a cattedre, eccetera. Se mia moglie è bella? Che importanza può avere, qui, per noi, stanotte, su un treno che unisce e separa? Ma sì, dicono tutti che è bella. Io che dico? Mi associo, che altro potrei fare? E’ così evidente. “Cosa?” – mi chiede? Ma la sua bellezza. Se ho qualche contestazione da farle? Perché me lo chiede? Per le mie avances? Suvvia!
Io sposato, lei sposina; una bella moglie, un “normale” marito innamorato. Sembrano barriere che si accumulano tra noi; ma questa luce, la quasi solitudine, questo silenzio soffiato dai nostri sussurri, questa notte rigata di pioggia su un treno che taglia il tempo... – “Sì, è questa luce. Anche questa luce. Perché, veramente, è da che l’ho vista entrare che mi “impressiona”: arriva qui, si toglie cappotto e maglietta, mi resta a braccia nude, accavalla le gambe… Addio Hegel. – Come dice? Certo, dovrei avere più self control: chi lo nega? In altri tempi sarei stato espulso dalla Repubblica dei filosofi. Ma lei, signora, non è sensibile a questa luce? Non dica bugie. Non vale nemmeno pensare che io possa riuscirle tanto sgradevole: ci si vede così poco! Resta un uomo, un corpo di sesso opposto, vicinissimo al suo, quasi al buio, su un treno che ci unisce per separarci, che ci accosta per qualche ora e ci allontanerà per sempre.
Tutto, qui dentro, invita, smorza gli scrupoli, offre una parentesi che si chiuderà senza propaggini, senza seguito né complicazioni. Come? No, non è credibile. Troppo saggia, mi vuole umiliare, prendersi lei la parte del filosofo che domina il corpo, che imbavaglia i sensi. E mortifica, magari, la semplice curiosità frenata. Mi sta dicendo, con i suoi dubbi, che è anormale! Prego, prego, resti calma: lo dicevo giusto per provocarla. Lo so, lo so: non c’è nulla di più offensivo per una donna, niente di più irritante. Me ne scuso (trovami una donna che accetti di essere giudicata frigida).
Riprendo l’assedio. “Lo sa che cosa mi viene di pensare? Che lei non ignorasse affatto gli effetti libido-depressivi della nicotina, e che stia fumando troppo per abbassare la mia libido e tenere calma la sua.” – Ho troppa fantasia, dice? Può darsi. Ma soprattutto ho buona vista. – Carina la storiella della sua amica che per togliersi di torno un corteggiatore gli dice che è frigida. Sono già le tre? – Ecco, mostri pure le gambe e pretenda che io stia calmo. Ma no, non si copra, è inutile: me le sono già disegnate, anzi scolpite, nel ginepraio dei miei neuroni come le tensioni della sua gonna suggeriscono. – Questo signore inamovibile! – Si muove? Diavolo, è vero. Si appresta ad uscire. Stento a crederci. E’ uscito. E ha chiuso così bene. Un benefattore consapevole, caso raro. Pensiero inespresso: che coglione sarei a non gradire la cortesia? A non tentare la sorte, l’umida sorte ridesta. E non solo di pioggia esterna, umida.
“Ma che fa? Stia fermo!” “Fermo? Che pretese!” “Stia fermo, le dico.” Ma è il come lo dice che non mi frena, anzi. “Scherza? Sono ore che mi carica, quel signore se ne va, e lei pretende che io stia fermo. Su, sia buona…” “Ma stia fermo, stia ferm…, fer… Oh! E’ impazzito? E’ pazzo, pazzo…” Quante parole, mon Dieu! E quanto stridenti con timbro tono intensità sussurrata della calda voce. Per così poco? Per una gragnola di baci sparsi, come fresca pioggia contro prurito d’afa, sull’intero scoperto superiore, viso, collo, luna di petto… – “Non abbia tanti scrupoli, si lasci andare, non chiedo molto, solo qualche bacio, carezza, abbraccio. Questa parentesi si chiuderà, domani non ricorderà neppure il mio volto. Non siamo nella realtà: ecco, pensi così, pensi che questo improvvisato boudoir mobile che sfreccia nella notte sia un taglio di sospensione nell’ordine normale delle cose, nella corrività banale del tempo quotidiano e dei suoi troppo noti e prevedibili spazi. Domani riprenderà la sua vita e questo incontro sarà stato un sogno: faccia che sia piacevole. Io sono un fantasma, uno spettro di provvisoria carne che le prime luci dell’alba dissolveranno: si può peccare con un fantasma? Non si irrigidisca, allenti un poco, solo un poco, i suoi freni severi. Basterà che mi creda, che, nel mio caso, l’appetito non vien mangiando.”
Questi scontati sofismi da manuale non filarono, si capisce, in un discorso continuo. Si inserivano, a caso, tra una presa e l’altra del delizioso “scontro”. A contrastare, anche, sovrastando, le sonorità strozzate di lei, le mezze parole, le interiezioni esclamazioni e congiunzioni che la contorta cinematica delle mie braccia le strappava. E forse non furono senza verificati effetti, se l’intreccio delle… linee di forza fece sempre meno estranei i nostri corpi. Ah, la sua resistenza declinante, le sue minacce sempre meno convinte, i suoi freni sempre più larghi e stanchi. E le sue forme generose, di solida e ben distribuita fibra-muscolo, vieppiù, e rapsodicamente, scoperte, meno protette, più toccate premute esplorate con mani pazienti, con dita furtive e benedicenti, con bocca tanto più insinuante quanto meno vigore scopriva nella dapprima forte (ma non scostante) opposizione (una specie di noblesse oblige ben recitato davanti allo spettro maritale).

Il terzo ospite tornò. Quanto tempo ci aveva regalato? Mezz’ora, un’ora, forse. Unica misura di quel lembo di Crono fu la stanchezza, che verso le cinque del mattino mi consegnò a Morfeo. L’avventura era finita, conclusa per grato esaurimento delle forze e per manifesta impossibilità di residua solitudine. Un’avventura volgare? Non direi. Quella resistenza mi aveva sottratto l’ultimo approdo, ma era stata anche deliziosa condizione alla qualità delicata della chance. Né devi fraintendere, quaderno: l’ultimo approdo è sempre un problema di tatto, dita, calda mano esploratrice. Mai pensato (l’ho già detto?) a congiungimenti integrali (forse l’aveva pensato-temuto lei, e perciò tentò di evitare l’incipit). Mai pensato, no: evito di pesare l’impossibile. Semmai, a una certa reciprocità manuale. Che non c’è stata, dunque. Cioè, non nelle misure auspicate, solo in Blick di fugacissimi assaggi, di umide soglie appena toccate,
fra tricotici impicci resistenziali. E di turgori non proprio afferrati, più tangenzialmente sfiorati che possessivamente premuti. E tuttavia, la messe appagava, e come!
*
Alle sette l’ospite generosa mi svegliò: eravamo già alla stazione Termini. Lei era quasi pronta per scendere, io dovevo ancora indossare giacca e cappotto, mettere in ordine il bagaglio. Ero stordito, appannato. Mi salutò con un neutro “buongiorno” e fece per andarsene. L’“offesa” bastò a ridarmi lucidità, la fermai, presa per un braccio: “Si saluta così?” – Sorrise, e mi diede la mano. Che strinsi forte, sussurrandole parole dolci. Sopra vi spolverai pula di zucchero: scuse delicate e ipocritelle su eventuali mie eccedenze.
Scomparve. Sceso dal treno mezzo addormentato, non riuscii a vederla tra la folla. Era buio, pioveva. Stentai a raggiungere la parte centrale della stazione. Mi infastidiva il pur non pesantissimo bagaglio. Raggiunsi l’ufficio informazioni e chiesi del prossimo treno per Ravenna. Lo raggiunsi, lo percorsi da cima a fondo: lei era nella prima vettura. Mi accolse con lieta sorpresa. Non riuscivo a digerire quel distacco brusco, quel saluto frettoloso. Glielo confessai. Lei apprezzò: segno, in quell’anima pulsante, di delicatezza e femminilità. Segno, anche, di un certo internarsi del feeling sotto lo spessore dermico. In entrambi, sono autorizzato a dirmi, considerata l’accoglienza tenera. Poche parole ancora, intense, quasi contatti di pelle, pressioni di muscoli su muscoli. Quale intensità fisica possono raggiungere le parole, in certe condizioni. Sentivo già il prossimo vuoto. Due baci sulle guance, per un ulteriore tassello del prossimo ricordare: la pressione delle sue labbra sulla mia fresca pelle, umida di piovosità diffusa.
Ma ben altro mi aspettava: maiora premunt, mi dissi. Ci scambiammo gli indirizzi e promesse di cartoline illustrate.

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