martedì 28 aprile 2009

Susanna, frammento 25


4 aprile

Si respirano le vacanze imminenti. Ma le sento già finite. Questa fretta del tempo mi deprime. Soprattutto per le cumulate défaillances scritturali.
Il professor Gulizza mi chiede un articolo sul libro di Prezzolini, Storia di un’amicizia. Il vecchio “apoto” lo cita in una nota di pagina 114 (mi ha mandato il libro). La nota riporta due paginette di Novalis (Federico von Hardenberg) tradotte dal Prezzolini e accolte nel suo saggio sul poeta mistico e filosofo. Nelle meditazioni novalisiane vi è l’intuizione dell’eros fagico: una coincidenza che fa trillare di gioia Gulizza. Ecco il frammento:
“Intorno al desiderio, alla ricerca del contatto carnale, al piacere della nudità umana. Non potrebbero essere un appetito dissimulato? / Quanto più vivacemente resiste quello che si deve divorare, tanto più vivace sarà la fiamma del piacere. / Lo stupro è il più forte piacere. /La donna è il nostro ossigeno./ Come la donna è il supremo nutrimento visibile che forma il punto di passaggio dal corpo all’anima, così i membri sessuali sono i supremi organi esterni, che formano il punto di transizione dagli organi visibili agli invisibili. / Lo sguardo, il discorso, il contatto, la stretta di mano, il bacio, il contatto dei seni…, l’atto di abbracciarsi, questi sono i gradini della scala giù pei quali discende l’anima, ma opposta a questa vi è un’altra scala su per la quale sale il corpo, fino all’atto di abbracciare. Dovunque una forza, o azione (quod idem est) si rende transitoriamente visibile, la quale, assolutamente diffusa, sembra non manifestarsi e non operare che sotto certe condizioni (o contatti). Questa forza mistica sembra essere la forza del piacere e del dolore, le cui impressioni eccitanti noi crediamo di provare principalmente nelle sensazioni voluttuose. Teoria della voluttà, l’amore è ciò che ci riunisce insieme. In tutte le funzioni sopra ricordate (ballo, nutrizione, parlare, lavoro e vita in comune, ecc.) c’è in fondo la voluttà, è quasi la funzione assoluta, quella che conduce alla comunione totale, alla miscela chimica.”
Postille. Il “venerando” ha visto bene (e non era difficile): le parole di Novalis preludono a una visione erotofagica. Fatta la tara al romanticume inevitabile del corpo che sale all’anima e dell’anima che scende pei canali degli organi corporei, del misticismo a mezza strada tra Naturphilosophie e scontato spiritualismo idealistico; rimessi, anche, i peccatucci dell’ammucchiata aforistica, difficile dubitare della chiara intuizione fisiotrofica dell’eros. Il distacco dal teorizzare fagologico è solo nella velatura panteisticamente misticheggiante del Novalis rispetto all’asciuttezza empirico-materialistica del Gulizza. Il quale, peraltro, non è che rifiuti il misticismo, se lo si intenda in senso prettamente naturalistico: anche per lui la comunione totale, “la miscela chimica”, nei suoi possibili gradi empirici, fino all’ingurgitazione e assimilazione fagico-molecolare, sono un fatto mistico. Ma non del misticismo maiuscolaro, cioè spiritualistico e dualistico-metafisico.
C’è qualcosa di repellente, in questa radicalità ermeneutica, qualcosa che accende una reazione di rifiuto immediato. Ma se si matura la pazienza di sondarne tutte le implicazioni e potenzialità esplicative di una vasta fenomenologia criminale, convenzionalmente relegata nel comodo limbo inesplicato del “mostruoso”, lo sforzo di testarla more geometrico diventa meno impervio. Se ne ricava, allora, luce di chiarificazione del binomio sadismo-masochismo, dello stupro, del delitto sessuale, fino al non plus del teriomorfico, il cannibalismo amoroso.
Il passo parzialmente trascritto sopra non è l’unico testimone di questo orientamento fisiotrofico; sempre nei “Frammenti” curati dal Prezzolini si possono leggere altri passi: “Ogni cibo, ogni appropriazione e assimilazione è un mangiare, o meglio, il mangiare non è altro che un’appropriazione. Ogni cibo spirituale può dunque essere espresso mediante il mangiare. Nell’amicizia si mangia infatti del proprio amico e si vive di lui. E’ un tropo quello di sostituire il corpo allo spirito e, durante il pasto in memoria di un amico, inghiottire ad ogni boccone la sua carne e a ogni sorso il suo sangue, con fantasia ardita, ultrasensibile. Certo, al gusto molle del nosdtro tempo ciò appare barbaro...” Ancora: il pasto, per Novalis, è il nucleo basale e il simbolo della vita in generale; tutte le epressioni e modalità del vivere sono riportabili al nutrimento. E non stupiscono, perciò, i ben noti effetti ‘espansivi’ della tavola
imbandita. Ma ecco ancora Novalis: “Il mangiare suscita lo spirito e l’umore – per questo ghiotti e gente grassa sono così spesso arguti e mangiando sorge così facilmente lo scherzo, la gaia conversazione! Esso influisce anche su altre solide capacità. A tavola si discute e si ragiona volentieri e più di una verità è stata trovata sedendo a tavola. L’arguzia è elettricità spirituale – per questo occorrono corpi solidi. Anche amicizie si stringono a tavola, più facilmente fra la gente più rude: chi non presagisce qui un magnetismo dell’anima? L’ora della mensa è il periodo più meraviglioso del giorno, e forse il fine, il fiore del giorno. La colazione ne è il bocciuolo. Gli antichi si intendevano anche qui assai meglio della filosofia della vita... – Tutto deve diventare alimento. Arte di trarre vita da ogni cosa...”
La stessa sensibilità tematica si coglie, variamente atteggiata, nei novalisiani “Inni alla notte” e nel suo “Inno alla comunione” (trad. italiana, Milano, Ceschina, 1959) ––
*
Stamane, a scuola, aspettando che dalla classe di Susy uscisse il collega di Disegno, m’è accaduto di guardare dentro l’aula, attraverso la porta socchiusa. E ho avuto un tuffo al cuore. Anzi, allo stomaco. Ho visto alcune ragazze in pieno abbandono di risate gaudenti. Il nesso subito postulato dal lampo visivo fu un rapporto tra quelle grasse risate e ignote battute umoristico-pruriginose del collega artista. Che è giovane, non brutto, scapolo e…disponibile. Dirai, quaderno: che t’importa delle alunne solleticate da un giovane professore di arte e disegno? Ti spiego, quaderno (tardo di comprendonio): tra quelle alunne, non meno agitata delle compagne, stava lei. Lei, sorridente, anzi di più, ridente e sghignazzante, allegramente, in coro con le altre. Così la registrò la corteccia occipitale, servita dal doppio ingresso ottico degli occhi, dal primo all’ultimo lampo. Susy si divertiva, era allegra, sentiva, come le altre ragazze, la presenza del giovane maschio. A sua volta, allegro, e sorridente. E, ovviamente, “stimolante”. Che cosa stava dicendo, cosa aveva detto appena prima? Lo so che basta poco, assai poco, in, e da, un giovane professore per eccitare delle normali ragazze di diciotto, diciannove, venti anni. Ma la curiosità mi bruciava le meningi. Più correttamente: la gelosia. La quale secerneva una curiosità tutt’altro che svagata. Anzi, assai vigile e problematica.
Insomma, un po’ di analisi. Che cacchio pretendi, Paolo della Damasco capovolta? che una ragazza, sol perché non insensibile all’interesse di un uomo, debba chiudersi a ogni interesse per altri? anche di sola e semplice eccitazione epidermica occasionale? che debba blindare la propria naturale sensibilità? Proibirsi perfino di farsi una franca risata a qualche battuta di un giovane professore che non si identifichi con la tua magnificenza loquace ma scarsa di “alimento novalisiano” (o, almeno, incompleta)? Sei geloso che lei rida davanti a un altro, alle parole di un altro, che risponda agli stimoli di altra, e corporalmente più quotata, fonte e sorgente di naturale polarizzazione sessuale? Vergognati, Paolo senza Pietro.
E mi vergogno, sì. Ma l’operazione non ha dato, non dà ancora, tangibili e soddisfacenti risultati curativi. La scenetta mi brucia stasera come mi bruciava stamattina. O quasi. Lei allegra lontano da me, addirittura davanti a un possibile concorrente bene armato; Lei viva e reattiva fuori di me, della mia casa, del globo invisibile, ma realissimo del mio interesse occhiuto e meticoloso: mi è sembrata quasi una bestemmia, una profanazione, una specie di sacrilegio…
Va be’, calmati. E va’ con dio. L’età per tornare, di tanto in tanto, coi piedi per terra, ce l’hai. L’età e l’esperienza. Usale. E non rompere. Le ultime battute salgono dal quaderno. Sembra sghignazzi lui, ora, dalle sue righe nere, dalla faccia bianca, che si viene maculando con gli sgorbi della mia penna (stasera, verde). Ad maiora.

p. s. [La parte di diario riguardante la scenetta scolastica con Susy al centro, scritta in quel quaderno con frettolosa incoscienza, era stata stralciata successivamente e nascosta: viene recuperata in occasione di questa trascrizione in videoscrittura]


5 aprile

Leggendo Storia di un’amicizia, e spigolando tra le perle papiniane.. Eccone una tipica: “Per certe azioni l’incoscienza raddoppia la forza, e le nostre più belle vittorie furon quelle di cui ci avvisammo dopo” (lettera del 30 / 3 / 1902). Verrebbe fatto di postillare: Vittorie a parte, l’incoscienza, parziale e a volte quasi totale, sembra essere stata la condizione psicologica normale del Papini giovane. E forse ne contagia l’amico, che dei due sembra il più realista e concreto (pur pagando lo scotto allo “spirito del tempo”). A sentire queste lettere, i due amiconi, modesti quali sono, inseguono il piccolo sogno di farsi dio. Don Giovanni vagheggia di potere, un giorno vicino o lontano, ma più vicino che lontano, dire come Geova: “Io sono quello che sono”. O giù di lì. E scrive a don Peppino: “Io sono ansioso di sapere a quale nuova opera hai dato mano – intendo opera interiore e non di segni e parole. Finché noi saremo uniti ci sarà dolce seguire il nostro cammino – noi passammo insieme per le borghesi pianure positiviste e per le fratte dello scetticismo – noi ascendiamo insieme le cime della vita e della libertà” (Ibidem).
Sì, delle “parole in libertà”. Questi puledri scomposti si pascono di droghe verbali e le scambiano per distillato nettare elisio. Opera interiore! Masturbazione della fantasia eccitata, piuttosto. Le cime della vita e della libertà: eiaculazione di parole sceme di peso concettuale, pure sonorità che vellicano l’orecchio della vanità.
Non mi riferisco tanto al Papini di queste lettere, ancora parzialmente scusabile per la giovane età (costipata di frettolose letture onnivore), quanto al Papini adulto, al Papini di poi e di sempre. Quello che, mutatis mutandis, ma non mentalità, incontrerà, sotto diverse apparenze, lo sproloquiante di queste altre frasi: “Io ho bisogno di essere forte, ed è già un aiuto il credersi forti”: vis verborum! Nessun dubbio sul rischio di certe scivolate, o ruzzoloni. O amari risvegli.. Questo Parsifal d’un santo Graal cartaceo suggerisce al degno compare “la calma della cosciente superiorità – la serenità di colui che sa di essere perfetto”. Va bene la giovinezza e la malcerta coscienza, ma qui siamo al clownesco. Se poi si pensa che ci sarà, quarant’anni dopo, un certo Giaime Pintor che più o meno alla stessa età sa, sente, ragiona, e soprattutto opera come un adulto virilmente compiuto, e insomma, cosciente, responsabile e coraggioso
(oltre che veramente colto, e non solo arruffatamente erudito), il confronto s’impone e non suona pietoso per il clamante Papini. Pietoso, e più che tale, il pensiero di Pintor, martire di una fede che gli ha rubato la vita.
Dalle emissioni sonore papiniane, tuttavia, ci si allontana con rammarico, tanto sono buone a curare certa ipocondria. Senti, quaderno: “Chi vive in mezzo ai lebbrosi senza contaminarsi è più forte di colui che ne sfugge il contatto”. I lebbrosi sono gli uomini comuni, chi li fugge per aristocratico disgusto demiurgico è Prezzolini. Il quale, evidentemente, non sa, come invece sa l’amico, che “nessuno è solo, e per quanto si fugga lontano noi portiamo dei pezzi di catene e degli echi indomabili” (6 / 4 / 1902). Nel trionfale climax si sgonfiano anche queste vescichette di verità e monta il clangore delle sparate. Il papà del Leonardo non coltiva dubbi sulla perfezione: “Se chi leggerà non dirà, caro mio, che con questo numero del Leonardo l’Italia ha quello che da secoli gli [sic] era mancato / dopo il gran secolo XIV / è un cretino definitivo e immutevole, incatenato e inchiodato a una idiozia immisurabile” (18 / 3 / 1905).
Insomma, vita di chiacchiere rotonde, questa dei due compari euforici malati di juvenilite acuta; libertà del capriccio irresponsabile per mancanza di coerenza cognitiva e di maschia dignità. Giusto quella che consiglia modestia, senso del limite, del relativo comparativo. E del ridicolo. Coordinate, dentro le quali soltanto si può apprezzare quel che di buono si possa realizzare. Anche da giovani non annebbiati da overdose di dopamine narcisistiche.
Che altre espressioni potrei usare nel programmato articolo? Vedremo. E terremo presente le scudisciate di Gramsci, naturalmente. Eccole, godibili come dolce cassata sicula, a postillare quella pomposa quanto buffa damasco. “Anche come gesuita, il Papini non sarà mai più che un modesto apprendista. Questo è un vecchio somaro che vuol continuare a fare il somarello, nonostante il peso degli anni e gli acciacchi, e sgambetta e saltella turpemente” (Letteratura e vita nazionale, Einaudi, pp.161-164). Naturalmente, non sarò cieco davanti a qualche buona pagina del Papini meno “dopato”: per esempio, a quelle di “Schegge”. Ma non soltanto.


6 aprile

Lavoro all’articolo su Papini-Prezzolini. L’ho già annunciato al redattore della pagina letteraria, l’amico Ciaccò. Il quale mi raccomanda di non superare le tre cartelle spazio due. Impresa per me difficilissima. Logorroico come sono, tendo sempre a smarginare da ogni proposito di “contenimento forzoso”. Sarà la solita piena, e dunque la consueta sofferenza, una vecchia conoscenza: rinunciare ripudiare tagliare mi somiglia a una mutilazione organica. E non mi dire basta volere: sono vent’anni e passa che “voglio” senza riuscire a evitarmi tagli e dolori (miei e altrui).

*
Nel pomeriggio, lezione di italiano a Susy. Argomento, Manzoni, La Pentecoste, Il Cinque maggio. Forte tentazione di liberare il malumore contro l’enorme “rimozione” sottesa alla prima composizione, questa serenata teologica vaiolata di omissis spudorati sulla “creazione” e il “senso del mondo”. Ma resisto: non c’è tempo (neanche per qualche fugacissimo cenno polemico); e non ne varrebbe la pena. Meno indigesta la seconda, pur nella sua mediocrità melensamente pensosa e strombettante. E soprattutto malgrado la sicumera farmacologica del “Bella, immortal, benefica…”, e relativo trionfalismo bigotto: chi garantisce l’ultimo trionfo?
L’attenzione di Susy è oscillante e crivellata di sbandamenti. Riesce a irritarmi, a volte. Pur conoscendo, il sottoscritto, la ragione principale (e radicale) delle distrazioni ricorrenti. Come dici, quaderno? La vorresti sapere anche tu? No, non è il caso. Magari un’altra volta. Oppure le rivelerò a qualche tuo fratello. O figlio (foglio) di questo ventre. Vedremo. Intanto, sta’ buono. Anzi, ripassati le pagine precedenti: in qualcuna troverai la risoluzione dell’enigma.
Lezione a Susy. Si torna a Leopardi.
Variazioni (collaterali) su tema. Mistici cocktails novalisiani, con ritmi di presenze tridimensionate e curve di onde mnestiche materializzate in attualità pulsanti. Fusione di minitempi a sbriciolare chances tattili sulle dita gentili inarcate a premere il rubizzo turgore del mistero ontologico. Ah, il mysterium magnum così perentoriamente onticizzato nel suo cilindroide infebbrato! E l’intelligenza prensile di lei, come bene afferra il concetto del soffrire leopardiano! Occhio di Dio, tu brilli nel rosso del sangue estuoso, e la tua morte che si appressa nel simbolo della ricorrenza scandisce attese profane bestemmianti di santità rubate.
Dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente; / terribile, ma caro / dono del ciel, consorte / ai lugubri miei giorni, / pensier che innanzi a me si spesso torni, / di tua natura arcana / chi non favella? Il suo poter fra noi / chi non sentì?
Eccoti nel bozzolo dell’allusione mimetica, “possente dominator”. Col sapore di morte che completa il binomio: Amore e morte, Eros e Thanatos, Leopardi e Freud, e magari l’eros fagico. Ma qui Il pensiero dominante evoca sinergie più prosaiche. Che, da un lato, guardano al “brutto / poter che ascoso a comun danno impera”, dall’altro a eventuali svelamenti di altari e tabernacoli infra ed extra-moenia. Tanto, di allarmi e memento, suona il sartriano nulla, pieno di contingenza, insomma, il disincanto scheggiato di A se stesso. Intanto è droga che circola nel sangue questo sapore di morte che accompagna, ombra fedele, le estasi strozzate del preliminarismo coatto e beato.
Lezione di italiano a Susanna. Vaghe stelle dell’orsa, io non credea / tornar ancor per uso a contemplarvi […]. Eppure, eccoci qua: a sorbire nettare olimpio e miele dell’Imetto.
Ahimé, sconcia crudeltà del tempo che ci sfoglia, tremule margherite ad esaurimento allotrio. Come rotolano questi giorni, che tenue cera al sole estivo, queste ore. Quanti anni sono passati dall’ultima volta che vi lessi, o Ricordanze? E cosa è rimasto del vostro accumulo scomposto? Ah, che questo turgore di realtà realissima non sarà, domani, che attossicati fantasmi di sbrindellata memoria.
*
Trentaquattro anni. Dieci da che ci siamo conosciuti, Rina. Dieci lunghi, accidentati rosari di giorni, o mogliettina. Trascorsi come una settimana, volati come il fumo velenoso di questa sigaretta, che scandisce nuove attualità. Nuove, nuovissime, eppure stranamente simili ad altre già seppellite nel “pozzo del passato”: alle nostre di tanti anni fa, per (magno) esempio. Ad altre, prima (e non solo) di te, per esemplarità meno grandi. Dieci anni, dieci mesi, dieci giorni: una volta trascorsi, questa sensazione avara restringe e pialla ogni misura e distinzione. Sia tu maledetto, ordine disordinato del mondo sbagliato. Vorrei non svegliarmi più, stanotte.

Pensiero scemo, pensiero bugiardo. Al massimo, riscattabile con questa piccola infinita integrazione: che il mondo tutto sparisse. O almeno, il malfatto abortume animale al di sopra della minimale complessità strutturale che consente il dolore.

Ho fatto una piccola reprimenda a Susy per la “scenetta” col collega di disegno. Sinceramente sorpresa, lei chiese a cosa mi riferissi.. Spiegai, e lei si fece una eburnea risata a piena oralità di suono e seduzione. Tritolo? Raccontava solo barzellette, a lezione finita e in attesa del collega, cioè di te. Affascinante, lui? volevo scherzare, io? Ma se noi alunne lo chiamiamo “Caron dimonio”! E perché mai lo chiamereste così? Ma perché ha “gli occhi di brace”, non lo vedete, voi colleghi?
Sì, lo vedo: ha una blefarite che gli arrossa le palpebre. E i globi oculari gli sono un po’ sporgenti (ovati, direbbe Don Luigi agrigentino). Ma questo lo renderebbe meno appetibile, signorine? Andiamo! Lei appare ancora sincera quando assicura che, in ogni caso, non è il suo tipo.. Sì, ammette (se proprio insisto) che, tutto sommato, non è da buttare; e che a tante sue compagne solletica la fantasia. Ma, appunto, non incontra i suoi canoni estetici. Senza contare, precisa, risentita, che il suo cuore “non è un albergo dove si possa entrare e uscire a piacere ”.
Touché. Riprendiamo la lezione.
“Io gli studi leggiadri, / talor lasciando e le sudate carte…”.
A chiusura di quest’altro episodio didattico, il mediocrissimo Mister Hyde che mi abita sguscia dalla cute della serietà cattedratica e (particolare dirimente sull’originale) dietro la maschera-volto del Dottor Jeckill imbraccia il pugnale del desiderio e tradisce il suo tempo traditore. Spasimi senza domani, bagliori nella notte di un altrove non coordinato. Resterà il rimpianto. Ad alimentare anni e consolare danni. A volte ho la sensazione di lavorare esclusivamente per la memoria: approntare materiali per il trattamento mnestico. Naturalmente (o in prevalenza), filtrato e risolto in traduzione verbale, scritturale, letteraria. Illusione, probabilmente. Anche Giacomo di Recanati confessava di scrivere per ereditare conforti nella tristizia dei (degli eventuali) provetti giorni.

Ma passiamo ad altro Grande, e gustiamone il vendicativo sadismo evocato da quel capriccio appellativo stuzzichevolmente uterino: Caron dimonio! Ed ecco verso noi venir per nave / un vecchio, bianco per antico pelo, / gridando “guai a voi, anime prave! / Non isperate mai veder lo cielo: / i’ vegno per menarvi a l’altra riva / ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo /[...] Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude, / cangiar colore e dibattero i denti / ratto che ‘nteser le parole crude. / Bestemmivano Dio e lor parenti, / l’umana spezie e ‘l loco e ‘l ‘tempo e ‘l seme / di lor semenza e di lor nascimenti. / Poi si ritrasser tutte quante insieme, / forte piangendo, a la riva malvagia / ch’attende ciascun uom che Dio non teme. / Caron dimonio, con occhi di bragia / loro accennando, tutte le raccoglie; / batte col remo qualunque s’adagia./(Inferno, c. III)
A definire la Divina Commedia “danza della vendetta” è stato il prof. Rama. Su input del prof. Gulizza.
*
“Ed alla man veloce / che percorrea la faticosa tela”. La mia mano è lenta e la faticosa tela mai non finisce. Cioè finisce male. Con la spinta del Caso e lo sprone tormentoso dell’Angst in regime di vaga randomness. Ah, fortunati momenti di aiuti inattesi, potessi inchiodarvi, imbalsamati, sul muro dell’eternità!
“Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno”. Infatti, come dire certi rivolgimenti molecolari che mimano rapimenti estatici e scusano i promotori ciarloni che nei secoli cianciano di muse cuori estasi anime e trascendenze? Il segreto della memoria li cancella nell’ineffabile vissuto. E panta rei. Ma “imbalsamati”, poi? No, anzi: vivi e caldi li vorrei, non inchiodati, come farfalle collezionate, sul drappo immobile dell’eterno. Intatti e pronti all’uso, al ritrovato uso. Al cerchio dell’eterno ritorno, insomma. Più correttamente: in sonno, ma ridestabili e chimicamente rivitalizzabili.
“Che pensieri soavi, / che speranze, che cori, o Silvia mia”. Che pensieri di carne, che speranze di liquidi approdi, che cori di ben costruiti esiti effusivi, o Rina mia! Né solo questo, oh no. C’è lui, il nostro piccolo lui sovrano. Che domina tanta parte della nostra vita. C’è questa specie di miracolo parlante, Giampiero, sgambettante e festoso “dono del cielo”, che ci vieta di rinnegare dieci anni di accidentati diagrammi sugli assi cartesiani del corpo accesi dall’amore. O da qualcosa di molto simile. Ah, “annate” di sere lontane, rosari di carne sotto l’occhio di Dio. Resurgit tempus? Ma sono trentaquattro. E quanti me ne rimangono? Mi capita di compitare ipotesi di durata: a volte lunga, altre mediana.
O improvvisata donna dello schermo, ti chiedo scusa di questo imprevisto ruolo, indotto casual della necessità. Capita che “la man veloce” percorra “la faticosa tela”. Simbolo nuovo della vita che fugge. “Ed alla man veloce…”. Ma lenta, piuttosto, ihr Hand. Sulla tela della poesia. E della sofferenza redenta del nostro Poeta. Oh lenta ginestra …

mercoledì 22 aprile 2009

Susanna frammento 24


Sabato, 26 marzo, ore 18, 10’.

Scrivo sul letto, dove siedo, mezzo sotto le coperte, per fronteggiare battaglioni di virus influenzali in attività di estrema virulenza farmaco-resistente. In attesa di eventi. Fuori c’è una specie di bufera. Poco fa c’era il sole. Odio questo mese verde: me ne sta facendo troppe, di sgarberie. E dire che ogni anno l’aspetto come un ingresso, una svolta, un ritorno di luce. Chissà perché s’è associato al colore verde. Forse per la banale concomitanza primaverile, col suo rinverdire diffuso, dopo i rigori “scuri” dell’inverno (in queste semplificazioni mutilanti si dimenticano di solito le piante sempreverdi, e le altre che abitano la fredda stagione).
Sono stato a letto con la febbre i giorni 23 e 24; il 25 sono rimasto a casa, da convalescente. Ho avuto visite di alunne. Mercoledì è venuta solo Susy; giovedì, a mezzogiorno, sono venute Giuliana e Maria Grazia, prima; e pochi minuti dopo Rosanna Carolui e Adele Fiorenza. Nel pomeriggio è tornata Susy.
Constato che, da qualche giorno, la mia metà non si allontana da casa neppure per un minuto quando c’è Susy. Prima ci lasciava soli delle ore, mentre l’aiutavo in qualche materia. C’è stato un piccolo “incidente” che giustifica, in parte, questo atteggiamento; ma, nell’attuale misura, esso appare esagerato ugualmente. Cos’è, comincia a sospettare? Sarebbe buffo! Gliel’ho rinfacciato ieri mattina. Mi ha risposto: “Allora tu vorresti rimanere solo con lei”. “Ma quando mai”, faccio io. E proseguo, in questo brillante J’accuse: “E’ che tu sei malata in testa: ricominci con i sospetti, i timori, gli scrupoli ‘per la gente’. E pure con le fissazioni offensive, porco Giuda! Mi hai perfino costretto ad andare a chiudere la porta che avevi lasciata aperta per fare asciugare i pavimenti appena lavati. Per quale motivo, se non perché c’era lei qui, e tu non volevi muoverti da questa stanza? Non volevi lasciarci soli, non posso pensare altro” – Ecco qua, l’ho fatta, la frittata. La replica di Rina non poteva essere più calzante: “Invece sei tu, ora, che mi fai insospettire. Io non ci avevo badato, avevo indugiato, quando mi hai detto di chiudere la porta, così, per pura pigrizia, senza alcuna intenzione maliziosa. E anche per stanchezza, se non ti dispiace: dopo tanto sfacchinare per tenere a un minimo di decenza questo modello di casa. Ma ora tu mi fai pensare male.”
Ho cominciato a urlare insultandola, e me ne sono andato a scuola, infuriato. Che è quanto occorre giusto per confermare nei sospetti una moglie gelosa. Possibile che non si possa avere un’innocente amicizia femminile, senza che in questa specie di congegno meccanico prodotto dalla mia dabbenaggine scatti, prima o poi, la molla della gelosia? Anche quando, come in questo caso, tutte le evidenze siano contrarie a ogni possibilità di sospetto? D’accordo, Susanna è una bella ragazza; ma non è il mio tipo, voglio dire quel tipo di donna che possa eccitare la mia sensualità. Se non proprio esile di forme, non ha però (a parte, magari, il seno e i glutei) quella soda pienezza che mi fa sospirare in una donna. E poiché è perfetta nei lineamenti del volto, mi suscita, al più, un sentimento di schietta e limpida ammirazione estetica (oltre che un normalissimo affetto fraterno). Ma lei, mia moglie, dico, può capire la differenza tra un tale sentimento e la sensualità desiderante? Con la sua testa di massaia, temo di no.
Senza contare che questa Susanna con poca panna, detta Susy, certe volte, mi indispone con le sue impuntature di ribelle. Capita, a scuola, che manchi di rispetto ai suoi professori e miei colleghi, e questo mi procura qualche difficoltà di relazione con loro. Non senza rischi di scontri col preside. D’altra parte, l’amicizia ha i suoi obblighi: come farei a non coprirla, in qualche modo?
Ma perché tanto tempo sciupato per un argomento così frivolo? Forse il fatto è che tanto frivolo, poi, non è. Primo, perché la gelosia di Rina comincia a soffocarmi. Non riesco a trovare il modo di combatterla. Se appena mi sfugge una parola, magari scherzosa, che suoni apprezzamento per Tizia o Caia, lei si adonta; se guardo figure procaci di donnine più nude che vestite, si allarma, e non le sfugge un solo mio sguardo, per quanto veloce, rivolto a qualche bel pezzo di anatomia ancheggiante per la strada. Mi crede un maniaco sessuale, o giù di lì? E poi: questa amicizia con Susanna e famiglia è una delle due o tre che conti in questo paese di pettegoli, professionisti curiali e borghesucci gesuitici: perché perderla? La ragazza si mostra così affezionata al bambino, e anche a Rina. E generosa, è leale, non spettegola: che cosa si può pretendere di più? Io non so cosa fare per togliere di testa a mia moglie ogni ingiusto sospetto. Se ne parlo, la insospettisco; se mi mostro distaccato, dice che fingo disinteresse. Ho paura che questa gelosia sciocca distruggerà anche questa amicizia, come ne ha distrutto un’altra la scorsa estate. Neanche per rompere quest’altra c’erano motivi validi, eppure Rina ha operato in modo che si rompesse. Qui, poi, meno per gelosia che per ragioni ancora più banali.
*
Post scriptum trent’anni dopo: che faccia tosta! E che perfetta fusione di verità visibili e invisibili menzogne tattiche. Come assiste l’ingegno messo alle strette! Epperò, anche, quanta disinvoltura sulla contradizion che nol consente. Quale poteva essere lo scopo di questa pagina? Essere letta dal Soggetto in causa. Ma come lasciarla esposta ai suoi begli occhi, se contenuta in un blocco di pagine non prive di rapsodici buchi da sbirciarvi dentro col rischio d’un impatto Soggetto-verità nuda (o trasparente)? Mirabile, poi, l’accortezza di usare qualche valutazione non proprio lusinghiera per Rina pur di renderle la pappardella verosimile. Idem, su qualche oculata sottrazione nel corredo estetico-carnale di Susy.
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Ho trascorso un paio di nottate terribili. La debolezza fisica, e l’effetto delle medicine, ma potrei dire degli antibiotici (che nessun medico omette di infliggerti se appena ti viene un po’ di febbre) mi hanno torturato con l’ossessione del, diciamo così, mono-ideismo coatto. Dico così, ma so che l’espressione è imprecisa, approssimativa: quale “idea” mi perseguitava, infatti? Nessuna “idea”, ma solo una forma vaga, un indistinto fluttuare del cervello, che alludeva a una specie di rapporto, ma un rapporto “impensabile” tra due o più inafferrabili, non sai se immagini visive o uditive, o di altra misteriosa natura, ibrida, indefinibile. Si presentava, questo qualcosa, davanti agli occhi, ruotando, in una continuità ininterrotta e dolorosa, comunicando l’impressione di una impossibilità inesprimibile, inafferrabile da parole e concetti, ma decisa, fluida, vischiosa e “insuperabile”. E questo per ore, interminabilmente, fino a farti desiderare la morte, o la pazzia, come unica uscita di salvezza da quel gorgo fuori controllo. Tremendo. La notte del 24, poi, non mi è riuscito di dormire neanche dieci minuti. E neppure questa esperienza scherza…
Tuttavia, c’è un aspetto positivo anche in questa tortura: la lezione, che ne viene, sulla biochimica dell’anima. Pensare come qualche milligrammo di materia, quell’umile, spregiata, calunniata l materia, che le metafisiche di tutti i tempi hanno degradato come, per se stessa, insensibile, priva di “anima”, eccetera, possa determinare e alterare tutti i moti di quella vita mentale attribuita, dualisticamente, alla fabulata anima o spirito o, più modestamente, psiche! Non che il sottoscritto ne abbia bisogno, ma insomma, a titolo di puro ripasso, non dispiace rileggere, sia pure sulla propria pelle, la reductio animae ad corpus. Non dispiace, si fa per dire: certo, una volta che ti colpisce con la truce sofferenza di cui sopra, tanto vale guardarne anche i lati meno atroci; ancora più certo che preferisco mille volte ripassare diversamente, e più lietamente, quella nobile lezione. Per esempio, sorseggiando, con La Mettrie, una calda euforizzante tazzina di caffè snebbia-mente. E’ uno dei molti argomenti, questo delle droghe, che il geniale autore de L’Homme machine svolge nella sua requisitoria contro i dualismi metafisici, a difesa di una radicale “reductio” fisiologica dell’anima: un pizzico “di oppio”, e subito un “dolce letargo” culla l‘anima, un po’di caffé, e via “i nostri mali di testa e i nostri malumori”.
E mi sovvien di Dante, che nel suo fantasioso tomismo riduce la calunniata materia a pesante impedimento di peccato che ci inchioda alla terra. Spiega Beatrice, la dotta: “Non dei più ammirar, se bene stimo, / lo tuo salir se non come d’un rivo / se d’alto monte scende giuso ad imo. / Maraviglia sarebbe in te se, privo / d’impedimento, giù ti fossi assiso / com’ a terra quϊete in foco vivo” (Paradiso, I, vv. 136-141
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Ora sono le 19, 15’. Lei è tornata. Annuncia una visita di Susanna per le 19,30’. Susy accompagnerà una sua compagna di classe, la polposetta, soda, ghiotta Adele Tallarino, da casa sua (dove Adele è venuta a trovarla) alla stazione, dove la seducente moretta prenderà il treno per Roccabella, suo paese. Tornando dalla stazione, Susy passerà da casa nostra. In visita al convalescente.
Ho avuto nel cervello un nido di vespe in lotta con fragorosi calabroni. E mi dura un ronzio alle orecchie, fastidioso e lugubre. Dico alle orecchie, ma pare che attraversi tutta la scatola cranica. Si preparano, probabilmente, nuove crisi ipotensive, con le solite vertigini e nausee. Speriamo che il ronzio passi: sarebbe difficile abituarcisi.
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Ore 20,30. Susanna è passata, infatti. E’ rimasta con noi, insieme al fratellino, circa un’ora. Ho colto segni di inquietudine in Rina. Ha creduto che io morissi dalla voglia di stare vicino alla nostra amica e lei per sentire i loro discorsi. Mi importa tanto dei loro discorsi (imbottiti di banalità). Susy ci ha invitati a una festicciola per domani sera, a casa della sorella Rosina. “Se starò bene”, avverto. “Dovete stare bene”, ha postillato, Susanna, alzando vibratamente la voce lievemente roca. E poi precisato, ad abundantiam, insomma gridando: “Se me la fate fallire, non vi parlo più”. Amen. E mi si accese nella memoria comparativa la figura indimenticabile di Gina Lollobrigida nel mitico e spassoso ruolo dell’incantevole selvatica Bersagliera di “Pane amore e fantasia” e popolar godereccio seguito. Un inchino a De Sica.

27 marzo, notte

Non gliel’ho fatta fallire. La festicciola, dico. E’ venuta verso le quattro e mezza del pomeriggio, siamo usciti in macchina tutti e quattro, abbiamo fatto un lungo giro verso Zollaro, a mezza montagna, ci siamo fermati in un paio di posti per godere il panorama. C’era un freddo da pieno inverno, dal cielo arruffato nuvoloni viola pendevano suggestivi sopra le valli strette di quelle plaghe montane, l’imbrunire vi si inzuppava palpitante di brividi duplici, di corpo e di “anima”. Questa metafora volò, anzi svolazzò, per alcuni minuti cristallini tra quelle nubi e quel silenzio rigato da un venticello gelido. Gemme di rade luci si accesero sparpagliate sulle falde dei monti e nell’ormai oscuro fondo-valle; alcune erano di lumi a petrolio, echi di altri tempi. L’unico suono che accompagnava l’elegia del vento era la nostra voce, impigrita in rare parole e brevi frasette di circostanza. Staccava sulle nostre la vocina interrogante di Giampiero, sempre pronto a scoccare domande su ogni pretesto di attenzione. Quale drappello di neuroni intrappolava negli intrichi molecolari la malia del luogo e dell’ora, potenziata da quella compagnia catalizzante? Un simil-pensiero fuori linea tracciava sulla tabula non rasa dell’immaginazione disturbata rapsodici disegni impossibibili di non legittima solitudine a due. La polarità motrice dell’immaginazione s’infittiva della forza del coibente quanto mai presente. Susanna sfidava il vento con una specie di voluttà sognante (i suoi pensieri svolgevano un filo parallelo ai miei?). Rina temeva il vento freddo, ma soprattutto la solitudine rapidamente declinante verso la sera. E tentava di tenere Giampiero dentro la macchina. Alla fine, ci arrendemmo alla convergenza di tanti solleciti: il vento, il freddo, la solitudine deserta, l’ora, gli appelli di Rina. Restava come sospesa in quel set fischiante di elementi drogati l’icona di una Susy protesa alla sottostante valle, ma lo sguardo perso nell’indefinito vuoto della lontananza, col vento che le tirava indietro le mobili onde dei capelli corvini.
Di ritorno al paese, ci siamo fermati a casa nostra. Rina ha dato da mangiare al piccolo e subito dopo ci siamo spostati in casa di Susanna, dove ci aspettavano le sorelle. Breve sosta, e poi di nuovo in macchina, con in più il rispettabile e grato pondo delle due sorelle. Altra sosta al negozio del padre, per avvertire il resto della famiglia che si andava in casa di Rosina. Qui abbiamo aspettato la terza sorella e la mamma di Susy, ma ballando e ciarlando. Erano anni che non ballavo.
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Mi sono divertito? Un po’: è stata pur sempre una serata diversa dalle solite. Credo che Rina si sia divertita anche di più. Stimolata dall’esempio delle sorelle, s’è sciolta in diverse prove di ballo, lei che gran ballerina non è stata mai. Ha osato perfino col let-kiss. Ero l’unico maschio adulto della comitiva, e così le femmine si sono arrangiate a farsi da cavaliere reciprocamente. Io mi dividevo fra l’una e l’altra. Facevo e rifacevo lo stesso giro: mia moglie, Susy, Rosina. Non potevo ignorare neppure la piccola (!), scatenata Tina: quindici anni di moto perpetuo. I bambini, da parte loro, animavano la serata di rumorosa euforia multiludica. C’erano mio figlio, la bambina di Rosina, il fratellino minore, ultimo della abbondante nidiata, delle vivaci sorelle: un malizioso birboncello di undici anni, un poco viziato da tante mamme vicarie.
Susanna era scatenata, anche lei. Eccitata di suo, ma certo aiutata da qualche goccia di liquore. E la sorella Tina più di tutte. Il seno di Rosina premeva contro il mio diaframma quando facevamo coppia: è la meno alta delle sorelle, anzi l’eccezione della famiglia: un quasi tappetto. Pepato, però. La sentivo vibrare e la vedevo colorarsi in viso. Ma l’alibi era ineccepibile: la festa, la “folla”, il moto, i bambini…Né, anche volendo, v’era modo di evitare quel contatto fin troppo coinvolgente: vuoi per il dislivello, vuoi per la soda e pur contenuta opulenza del molto femminile petto di lei. Aggiungi, quaderno, che Rosina è, al momento, priva di sposo: lontano, poveraccio, per guadagnarsi la spesa, impossibile nel paese, e nel circondario tutto, scarso di risorse e di oneste opportunità. È imbarcato, come tanti in questi paesi della Calamagna jonica: giovani e meno giovani. E Rosa è un mozzicone di sposina molto sensibile allo specifico. Qualità, cotesta, comune a tutte le femmine della famiglia: quasi marchio di fabbrica. Con qualche differenza non abissale fra l’una e l’altra. Rosina, come capita spesso con le piccole taglie, è una donnina ambiziosa e vanitosetta: tiene molto alla casa, spende volentieri per i suoi vezzi ornamentali e per il vestiario, fa figurare i bambini (magari accettando qualche rinuncia personale di ordine alimentare). Dà l’impressione, insomma, di volere colmare con l’ostentazione di un certo (minimale) benessere il solco sociale che la separa dal ceto impiegatizio e professionistico, così largamente (e antipaticamente) rappresentato nel paese tanto “curiale”. Susanna dice che è stata lei, Rosina, a spingere, e quasi costringere, il marito ad imbarcarsi. I magri guadagni accessibili in Zefiria non bastavano a fronteggiare le sue “aspirazioni”. E ora, naturalmente, la solitudine notturna le pesa. Ma tant’è: di sana moralità, resiste e accetta la privazione da lei stessa voluta “nell’interesse della famiglia”. Che la privazione sia sofferenza, però, si avverte nell’abbraccio del ballo. Sbaglio, o Susy gettava occhiate furtive al nostro indirizzo? E non è forse vero che, a un certo punto, fece notare l’acceso cromatismo sanguigno nelle guance pienotte della sorella maggiore? “C’è caldo, eh”, fece rilevare, dentro la malizia d’un accennato sorriso. E certo, siamo in tanti e l’ambiente è piccolo – qualcuno puntualizzò. Dal freddo della montagna al caldo della “stanza da ballo”: come cambia il tempo. Il sorriso malizioso di Susy lampeggiava in flash affettuosamente ironici.
La famiglia di Susanna è un covo di pazzoidi dai nervi vibranti. Le donne, tutte bellocce, con lo stacco globale di Susy, che non ha difetti, né di viso né di corpo. Oltre ad essere assai sensibili allo “specifico” evocato sopra, sono di lingua pronta ed esplicito eloquio. Il lessico genitale viene controllato con difficoltà e gli strappi non sono rari. Lo stile allusivo, poi, è tanto frequente quanto compiaciuto. Ho visto la seconda delle sorelle sposate in una foto nuziale: era magrissima, l’aria patita, lo sguardo febbrile. Ora, benché sgravata da meno di due mesi, sta assai meglio di quand’era ragazza: il viso non più smunto, anzi piacevolmente pieno, rotondetta di forme, ma in linea, coerente, per così dire, con la statura media, che la avvicina a Susy. Omissis sulle facili deduzioni fisiologiche. Ah, un dettaglio scintillante: la madre ci ha raccontato che ha voluto sposarsi presto, questa figlia impaziente; che non ha ascoltato pareri e consigli di genitori, preoccupati per il suo futuro non ben garantito dal fidanzato di incerta situazione lavorativa. Altro particolare (per me un po’ croccante): i maschi della famiglia, tre bei ragazzi, non sono affatto esclusi dall’intimità visiva delle femmine, almeno non dalle meno segretabili (o segretande). Susanna dorme col fratellino undicenne nello stesso letto. Una volta che mia moglie azzardò non so che osservazione sulla concomitanza tra la quasi totale nudità di Susy e la presenza del fratellino, lei osservò, tranquilla: “Non fa niente, Giacomino mi sapi (conosce)”. A Rina la cosa fece impressione, abituata, com’è, a ben altro regime domestico (e soprattutto al rigorismo sessuofobico del padre sensibilissimo all’argomento). Susy usa spesso il verbo mangiare in senso traspositivo. Al fratellino che la infastidisce, più d’una volta l’ho sentita gridare: “Mino, ti mangio!”. Lo chiamano Mino: il principio di economia vale anche per il consumo di parole. Di una cosa o persona che le piace, Susy dice “la mangerei”. Farebbe la felicità del fagista Gulizza (ma, ovviamente, non soltanto per le metafore fagiche!).

28 marzo, sera.

Siamo stati al cinema, invitati da Susanna, il cui zio gestisce un cinema nel paese. Abbiamo visto “La donna più bella del mondo”. Che pena quel Gassmann! Quale spreco di risorse autentiche.
Finito il film, la famiglia Castrati, presente al cinema in folta rappresentanza, è venuta a casa mia, invitata da noi: c’erano la madre, Susanna, le sorelle Rosina e Tina, il fratellino peste. Abbiamo offerto l’aperitivo e qualche dolcetto, abbiamo chiacchierato un po’. Disturbati dai bambini, il mio, la bambina di Rosy, Giacomino. Ho ascoltato la storia della madre di Susanna. Bella donna e sposa di un uomo esuberante, ha messo al mondo otto figli ed ha avuto, tra spontanei e procurati, una decina di aborti. Gli ultimi tre (procurati), dopo la nascita dell’ultimo rampollo: si vergognava, poverina, di farsi vedere col pancione dai figli ormai grandi. E’ arrivata, a volte, in fin di vita, ed ha perso un po’ di vista. Il marito, quarantacinquenne, è sano e roseo e robusto come un giovanotto di trenta. Questo ingordo incosciente credo abbia un po’ disgustato del sesso la moglie troppo “usata”. E pare non bagnasse il calamo in un solo calamaio. Io non so come siano i loro rapporti, oggi, ma ho l’impressione che lui chieda sempre a ritmo serrato e lei si conceda solo di tanto in tanto, se non proprio malvolentieri, certo con scarso entusiasmo. Insomma, sono coetanei, ma lei sembra venti anni più vecchia di lui. Pur conservando i segni, illanguiditi ma sicuri, dell’antica bellezza. Né sembra azzardato supporre che il marito integri altrove i pasti domestici insufficienti. Tanto più che la donna ha anche qualche difficoltà intima al rapporto, e ha subito un paio di interventi ginecologici. Si capisce che con si forti alibi il mandrillo pascoli anche out of bounds.

29 marzo

Anche stasera al cinema con la stessa comitiva. Abbiamo visto “Le ore nude”, di Marco Vicario. Con una provocante Rossana Podestà più nuda che vestita. Buone sequenze, quelle del bagno, del campanile, della visita al paesetto decrepito e suggestivo. Ottima trovata, il battito dei due cuori galoppanti verso il tumulto dell’orgasmo. Belle, quasi tutte, le inquadrature della bellissima Rossana, fresca e appetitosa come una pesca succulenta.
Sala piena come un uovo. Uomini rossi di desiderio, donnine eccitate. Rosina osserva, parlando a mia moglie, che gli uomini, stasera, devono averlo tutti dritto. La più turbata della comitiva sembra Susanna.
Lasciando il locale, sosta a casa nostra, aspettando l’ora del rientro a casa loro, accompagnate da me, con la vecchia Giulietta del cognato. Nasce una discussione sul film. Susanna solidarizza con la protagonista adultera: il marito la trascurava, veniva a casa solo una volta al mese e la notte le “dormiva” accanto. Con un ghiacciolo simile, vorrei vedere chi non si sentirebbe provocata a tradire.
“Balle” dico, ben intenzionato a irritarla. “Era lei che lo scoraggiava.”
Mia moglie condannava senz’appello la peccatrice. Io, naturalmente, ero d’accordo con lei. E spiegavo che l’unico movente reale di quella colpa – a parte il possibile capriccio della donna – era un’insoddisfazione fisica. Lo dicevo con un sottinteso puntiglio moralistico, tutt’altro che disinteressato (con le corna non si scherza). O non percepito da Susanna. La quale, anziché lasciarsi intimidire da quella moralina sospetta, sviluppa il suo pensiero in chiare note.
“Quando una donna è così …” dice.
“Calda” volle precisare mia moglie, anche lei un po’ “caricata” dall’atmosfera.
“Calda” accettò Susanna, senza imbarazzo, anzi vieppiù accesa. “Quando è così calda, una donna non deve essere delusa dal marito. Se il marito la delude, fa bene a fargliele.”
Mia moglie era (o si mostrava) scandalizzata.
Dove mi sono cacciato? Tento di “aggiustare”, ma sono palesemente in difficoltà. Tento, comunque: “Se una donna è troppo calda, il marito, che ha altre cose cui badare oltre all’amore e al letto, farebbe bene a praticarle iniezioni di bromuro. In ogni caso, il temperamento caldo non giustifica il tradimento.” Ero lanciato, e non mi fermai lungo quella china scivolosa. “Se una donna non se la sente di restare sola a lungo, può chiedere al marito di non lasciarla sola. A costo di rinunciare a certi vantaggi (che spesso sono agi e lussi. Cioè, capricci)”
E dicendo così insinuavo nel discorso una certa intenzione allusiva verso la sorella maggiore di Susanna, la piccola e vispa Rosina, che, appunto, aveva “costretto” il marito a imbarcarsi per guadagnare di più. “Il fatto è” conclusi “che certe donne volete, pardon, vogliono, il benessere, magari un po’ di lusso, il marito sempre pronto, e a volte un paio di amanti di riserva. Ma c’è solo il letto, dunque, nella vita? Le attività domestiche, i libri, gli interessi artistici…non esistono?”
Fine dello sproloquio. Che non convinse neanche un po’ la calda Susy. E credo neppure la non fredda Rosy. La quale tuttavia recitò la parte della sposa fedele e non diede corda alla saettante sorellina. Io mi sentivo un piccolo ipocrita pataccaro. E ancora di più, il solito sicanico fottuto che fa le corna agli altri, se capita, ma non sopporta neppure l’idea più vaga che il servizio possano farlo a lui. Il sangue non è acqua, dicono dalle mie parti. E le corna pesano.
Naturalmente, si farebbe torto alla Sicania, bella e feroce e delicata, se generalizzassimo troppo: “la Sicania è grande”, recitava una battuta di un film “risorgimentale” sulla taroccata epopea dei Mille (messa in bocca a un noto caratterista). E, perciò, anche molto varia, aggiungiamo: come ci sono i masculi gelosi fino al delitto (d’onore!) ci sono quelli (magari non molti, ma forse anche più del sospettabile) che li sopportano, le corna. O magari li sfruttano, fingendo di ignorarle. Nonché gli altri che, pur dolenti, sono incapaci di violenze brutali.
Serata conclusa con un’imprevista appendice. Un piccolo screzio con Rina, al mio rientro dal trasporto delle ospiti a casa loro. Causa? L’indugio eccessivo della comitiva in casa nostra. Lei ha i suoi orari, e anche ritardare il pasto del bambino di qualche minuto le appare un guasto grave nel suo tran tran. E allora: colpa mia che ho insistito per farli entrare, colpa mia se Gianpiero ha rotto il vasetto dei fiori, colpa mia che do troppo filo a Susanna, colpa sua, di Susy, che quando viene da noi non si muove più. Eccetera. Una conseguenza extraverbale: i bambini le hanno buscate dalle loro mamme. C’est la vie!


31 marzo, tarda sera.

Tengo il mio spirito tra le mani, sotto l’occhio della memoria. E il mio spirito, sussultante, mi narra la sua storia recente. Mi narra l’ultimo incontro col mistero ontologico fenomenizzato in fremente istologia sbarrata. E come svolse il concetto dell’incastro meta-fisico, mi narra; e come premette sullo scudo che occlude le ben infibrate tenebre delle origini; e come le porte degli inferi rustico-decameronici cigolassero sotto l’urto umidiccio dell’acutezza mentale ben tesa; e come d’improvviso suonasse in brusca urgenza l’attimo della ritirata. La ritirata precipitosa, appagata e delusa, nel tenebricoso ricettacolo delle nascite inesplose.
A che tentare ancora le tenebre della trascendenza se si vuole vivere e godere sorrisi di figli? Inde, dintorni. Soglie, anticamere, periferie, cortine giocosamente tentate ma non spezzate. E tante perifrasi. E la mia lingua, loquace e chiacchierina, che svolse ardue fatiche di filosofie illustri, dalla cattedra e dalla poltroncina delle lezioni domestiche, sviluppò, stasera, in un tempo già lontano, già distanziato dal “mitificare” mnestico, sontuose trine di epicuree trame. Di cui è prudente tacere il lessico diretto (visto che il tempio è fornito di lessici). E perché non credere alla verità del corpo, se tanta estasi può danzarsi in punta di linguaggio?
Divino dono, questo del linguaggio, e può parlare senza profferir motto, nel moto pendolare del suo scivolare e ritrarsi, premere e sganciarsi, aderire e non ferire. Grazia del Tempo, che accoglie mistiche ebbrezze e tutto scioglie nel fluido del suo passare. Noumenico o fenomenico che sia. Magic moment: che resterà del tuo vibrare nell’elettrica impotenza del segreto neuronico? Già rotolano i giorni sopra il calore del tuo rapire: quanta neve di oblio ci sarà, fra un anno, sopra questo fuoco di vissuto furtivo e stressante? E fra trenta o quaranta? Ma che pretese di “esistenza in vita”!
Intanto dura questo fremito d’ala, e per poco che sia, non sembra un nulla in transito privo d’ombra. E dura, tremendo, questo roveto, che ha spine di fiamma intorno a viscere contratte. Inevitabili riduzioni crono-metriche alla durata pattuita nel mio gomitolo cromosomico sembrano l’acquisto più puntuale delle mie chances aberranti. Ma tant’è. O “annali” di Afrodite, come picchiate sul mio cuore spossato. O “susine” delle Esperie che nutrite le mie attese! Perché nel roveto non si può trarsi fuori dalle spine di fiamma? Lento e sicuro scivola il Destino sulle vie del tempo. Forse i nostri amici dalla faccia gialla ci salveranno dalla vergogna, cuore mio trafitto di paure?
Ma anche questa simbolica sigaretta volge alla fine. E domani un altro giro di danza: che ci porterà il sole del nuovo giorno? Quali altre paure, quali altre speranze? Ed esorbitanze dehors du légal lit?
Anche tu, mese verde, sei andato. L’anno s’incurva verso estive responsabilità, dietro estivi rimpianti e cumuli di anni delusi. Possa tu scioglierti nel sonno riparatore, spirito mio malato di voluttà rapite e desideri spezzati. Nel fiume ànidro del sonno dai sogni brevi e fragili.
La lezione a Susy è durata due ore. Tra italiano e matematica. Con gli intercalati sopra allusi e codificati. Rina: un po’ nella cucina col piccolo, un po’ in casa degli amici dirimpettai. Forse sospetti e timori si vanno rasserenando.

Rileggendo la pagina con la citazione da Baudelaire, Lo spleen di Parigi, mi accorgo di avere sbadatamente attribuito a Thomas De Quincey I paradisi artificiali del poeta francese, invece che le Confessions of an English Opium-eater, fonte e motrice di quei “Paradisi”.


2 aprile, sera tarda.

Quivi sospiri pianti ed alti guai…Che drammi nella mia scuola. Sette in condotta? Allora, una bella crisi, e la formosa alunna di seconda depone il suo naturale colore, trema tutta, sviene. Chiamo la nostra dottoressa al telefono, e intanto affido la bella addormentata alla robusta signora Maria, insegnante di scienze. Ma non so ancora che c’è un altro caso, che mi tocca più da vicino, ed è Susanna, il suo pianto, la sua crisi. Non voleva quattro in fisica, né cinque in italiano scritto: come hanno potuto? Come hanno osato?! Incarico un’altra signora di consolare l’afflitta: la signora Minniti, la bella, giovane, elegante, paziente e diplomatica signora Irina, insegnante sexy di educazione fisica. Susy tiene duro, rifiuta perfino le gocce di coramina. Poi si lascia convincere. Poi le sto un po’ vicino, tento di calmarla, di indurla a pensare solo agli esami. Dove le cose andranno diversamente. Le raccomando, soprattutto, di non dire nulla in famiglia, di non suscitare allarmi inutili. O peggio: aizzanti (per il focoso genitore).
Macché: fa tutto il contrario. Rientrando in casa, si fa leggere in viso la malfrenata agitazione, rifiuta di mangiare, strilla, inveisce contro ignoti persecutori, se la piglia con chi, in casa, la contrasta. Poi smette di strillare, ma si chiude in un mutismo anche più irritante. Invano madre e padre tentano per un po’ di farla parlare, rivelare la sorgente del diluvio. Ma, com’è inevitabile, alla fine la verità salta fuori. Il padre s’impensierisce, già una volta lo ha messo nei guai. La sera, al cinema del fratello, dove lo vado a incontrare, mi consulta, chiede consigli: che deve fare? Venire a scuola, a parlare con questa signora d’italiano? E magari anche con l’insegnante di matematica e fisica?
“Se mia figlia non studia, e va bene: si prenda pure il voto di insufficienza. Ma forse la signora soffre di antipatia: se mia figlia studia ed è bersagliata ingiustamente io…” Faccio un macello. Ma non gli do il tempo di esplicitare il rumoroso intento.
“Calmatevi, vi prego. Non venite a scuola. Che cosa direste all’insegnante? Come fareste a dimostrare l’eventuale antipatia della signora e l’ingiustizia subita da Susanna? Parlerò io ai colleghi, me la vedo io, lasciate fare a me. Vi dirò, poi, com’è andata. Ma fin d’ora vi dico: state tranquillo.”
Questo il sunto riassunto del colloquio dilapidatore. Il resto, lasciamolo tacere. O lacererebbe questo foglio con i suoi fili di acciaio attorcigliati alle viscere. Che disastro questa Susy! Le avevo raccomandato di non raccontare nulla a casa, e lei spiattella tutto. E avvolge serpi ferrigne a strizzare le mie collane molecolari per tutta la lunghezza del corpo, dai piedi malfermi alla testa ronzante di tremiti dissonanti.

Stasera è venuta a trovarci. Anzi, dimenticavo, è venuta verso le cinque per accompagnare mia moglie a fare degli acquisti per il piccolo. Così ha avuto a disposizione un’altra consolatrice. E’ convinta di avere subito un’ingiustizia con quei quattro e cinque sull’innocente pagella, e dice che la “signora d’italiano” ce l’ha con lei per gelosia e invidia. Congettura tutt’altro che infondata: Susanna è bella, la signora assai meno. Diciamo pure non proprio bella. Pesante, poi, nei tratti del viso e nel corpo massiccio. Ma non si può escludere un’altra componente nell’irritazione di Susanna. Tipo: ma come osano negare qualche riguardo a Susy la bella, la più bella del reame? Donne e uomini che siano. Gli uomini, in particolare: non hanno palle? Quello stronzetto di matematica e fisica, come ha osato darle quattro? E omissis.
*
Giampiero ha fatto la recita stasera: un evento, e una forte emozione per me e il fratello di Rina. Ha recitato una poesiola in onore della madre superiora, che festeggia l’onomastico. Siamo nel teatrino del collegio, che è meno “ino” di quanto mi aspettassi. La capace sala è stracolma di genitori e parenti vari dei bambini coinvolti nella composita recita. Vedere il mio bambino con quel microfono in mano, sul palcoscenico, sentirlo scandire, chiare e marcate, le ingenue paroline accompagnate dal gesto innocente, mi ha rivoluzionato la biochimica fino al coktail di riso e lacrime. Non credevo che la potesse fare. Temevo la sua timidezza, paventavo un blocco e una crisi di pianto. Invece no, niente di tutto questo disastro. E’ stato graziosissimo. Quando è apparso sul palcoscenico, mi ha cercato con gli occhietti ansiosi, io l’ho salutato con la mano, lui ha risposto, sorridente e rassicurato. Poi gli hanno detto di spostarsi più al centro, e lui s’è mosso, reggendo il filo del microfono. E ha improvvisato una scenetta fuori programma. Ha visto sul tavolato del palcoscenico una bella rosa rossa, residuo non rimosso di una scena precedente, nella quale erano state protagoniste le rose, lui s’è abbassato a raccoglierla, dicendo, con vocina squillante e dizione perfetta: “C’è un fiore qui”. Una suora esce dalle quinte e gli si accosta sorridendo, Giampiero le porge la rosa, tutto contento (di aver messo ordine?). Poi avanza ancora un po’ verso il centro, e chiede, con quella stessa vocina sicura di sé: “Va bene qui?” In platea gran coro di risate affettuose: erano, soprattutto, le mie alunne, intenerite da tutta quella recita a soggetto. Ma non solo loro, per la verità: anche colleghi e colleghe, e mamme di altri bambini.
Al fuori programma è seguita la recita vera e prevista. Tutto liscio, memoria e dizione a posto. Finita la sua poesiola, il piccolo miracolato si gode una lunga ovazione. E non se ne viene fuori con un altro “improvviso”? Mi chiede, dal palco: “Papà, l’ho detta bene?” Per poco non mi metto a piangere di commozione. A stento riesco a dirgli che, sì, era stato in gamba. Mentre intorno fioccavano i “bravo, bravo” di alunne e altra gente del pubblico. Poi lui manifesta fretta di tornare a casa. Quasi a volere assicurarsi che io non lo lasciassi in quel posto, malgrado tutto, non assimilato. O forse aveva fretta di rivedere la mamma, garantirsi che non fosse scomparsa dalla sua vita, dal mondo sublunare, visto che non era presente a quella piccola serata “mondana”.
A casa abbiamo trovato Susanna. La quale, più calma ma ancora tesa, e soffrendo di dover nascondere una sofferenza immeritata, accoglie Giampiero con la solita facciata di sorrisi e paroline scherzose, ma con una riduzione di temperatura che forse non è sfuggita del tutto neppure al piccolo coccolato. Poco dopo si esce tutti e quattro, con la macchina di mio cognato. Nel paese Rina non trova nulla per il bambino, così si va a Buffalino, un paese vicino. Ma neanche qui si trova nulla, dopo avere visitato quattro negozi. Allora siamo andati a Siderato, dove mia moglie aveva un conticino da saldare con una negoziante fiduciosa. Io le ho lasciate in negozio col bambino, e sono andato a visitare l’amico libraio Mimì Croce, che ha avuto un incidente. Lo hanno investito con una macchina, mentre attraversava il corso da un marciapiede all’altro. Il solito giovane sconsiderato. Per fortuna niente di grave, ma solo qualche giorno a letto immobile e un’ingessatura alla gamba sinistra per frattura di caviglia. Sempre cuore in mano e ciacola fluviale, il caro Mimmo!
Al ritorno da Siderato, abbiamo accompagnato Susanna a casa sua, dove ci siamo fermati una mezz’oretta, in compagnia della madre e della sorella Rosina detta Rosy. Cicalando, si va a finire sull’argomento scuola-pagella di Susy, e mi tocca rassicurare anche la sorella sull’esito finale e l’ammissione agli esami. Dove poi tutto sarà diverso. Naturalmente, non mi stanco di raccomandare a Susanna di studiare, di cancellare “tutto il resto” dalla sua mente e concentrarsi sui prossimi obiettivi. Inutile ricordare che, quando faccio questa predica, quelle danze molecolari dentro i microcosmi citologici riprendono e accelerano. Più brevemente, si dovrebbe dire “sensi di colpa”, ma se un lettore interessato a questa cronaca leggesse sensi di colpa avrebbe diritto di chiedersi. Perché? Che c’entri tu, se lei non è una cima in fatto di applicazione eccetera?
Indi, a casa, noi tre. Per cenare e vedere, dagli amici dirimpettai, l’irrinunciabile “Studio Uno”, con i suoi valenti comici. Irrinunciabile per le donne, voglio dire: della mia e dell’altra casa amica. Ecco il nostro weekend. Le mie irregolari serate televisive preferiscono “Le inchieste del commissario Maigret”, un saltuario assaggio del “Giornalino di Gianburrasca”, con minore dispersione “Il Conte di Montecristo”: il primo per l’impareggiabile Gino Cervi (che oltre la bravura offre appigli per nostalgie adolescenziali con i suoi film storici del declinante ventennio); il secondo per l’indiavolata Rita Pavone (e un contorno di attori di tutto rispetto: da Arnoldo Foà a Bice Valori, a Elsa Merlini. La poco appetibile Lina Wertmữller, autrice dello spettacolo, ha fatto un terno al lotto). Il “Conte”, più che per la rispettabile, ma non eccelsa interpretazione di Andrea Giordana, mi attira per il romanzo sottostante e l’ambientazione storica.

Domenica, 3 aprile.

Mattinata uggiosa, nuvole e pioggerella. Resto a lungo in casa, Rina e il piccolo sono a messa con le amiche vicine. Faccio un buon bagno caldo ristoratore. Dopo colazione, me ne sto a leggere qualche libro. Per circa un'ora leggo Il pensiero dei primitivi, di Remo Cantoni, e per tutta la successiva, La filosofia di G. B. Vico, del Croce. Cantoni si legge con gusto, sia per la prosa che per le notizie e le idee; Croce più per lo stile fluido, che per la dottrina e l’interpretazione vichiana. Leggendo, ho avvertito un noto prurito neuronico; in parole, una spintarella (non oso dire e non uso la parola ispirazione) per un paio di articoli. Li scriverò mai? Sono in pectore scrittarelli che hanno avuto questa tale spinta tre o quattro o più anni fa, e non sono riusciti a marciare. Anzi, a farsi embrione.
*
Marciare: da dove m’è venuto fuori questo verbo? Mi ricorda Nicola Pende, il mistico fondatore dell’endocrinologia. Scrive Garin che l’illustrissimo andava a far lezione in orbace e chiudeva i congressi di filosofia gridando: “I filosofi devono marciare!” Pende. Un superbo esemplare di homo duplex: valido scienziato dentro i suoi laboratori, pessimo filosofo e deplorevole uomo. Detto altrimenti: una specie di ossimoro vivente. Scienziato e credente, cattolico e fascista. Un guazzabuglio. Quest’uomo ha scritto che basta un milligrammo di iodio in meno nel nostro organismo per ammalarsi di cretinismo mixidematoso, e mi viene a cianciare di anima e spirito. Peggio: dice che gli ormoni delle surrenali influenzano la volontà umana, per cui una carente produzione di quegli ormoni può ridurre la volontà a misera cosa; eppure ciancia di libero arbitrio, di responsabilità e colpa e peccato. Uomo di scienza a mezzo servizio, servitore di due padroni, ragionatore part-time: se parla di molecole e organi, fila; se gli proponete una sequenza logica elementare che tocchi la religione, si ferma e rinuncia. Tipo: se un uomo riceve pochi ormoni e nasce o diventa cretino, che fine fa l’anima, sede e titolare della ragione della volontà e di altro bene? Se uno nasce fornito di scarsa volontà per carenza genetica di sostanze chimiche preposte al fenomeno volontà, che colpa ne ha? Di tutto questo, e delle infinite sciagure che affliggono l’umanità, e delle mille violenze che gli uomini si praticano reciprocamente, in guerre e conflitti e liti a gogò, il primo responsabile non sarebbe il dio creatore che ha (avrebbe) fatto (creato: ex nihilo factum) questo bel mondo e questi campioni di mitezza che sono gli uomini? Non sarebbe quel supersadico ipermegagalattico forse già evocato in questi diari, un ipotetico Creatore responsabile di tanto bene? No, non lo sarebbe, e non si deve parlare di questo: qui si ferma la ragione, tanto vantata come segno distintivo di homo sapiens, qui si arena la disciplina intellettuale che costruisce la scienza, qui si ferma la decenza che fa l’uomo. Il quale può anche essere un valido scienziato, senza essere propriamente un “uomo”.
Ma attenzione: valido per la porzione che si può estrarre da quel guazzabuglio di idee, mezze idee, intuizioni utili e fantasie metafisiche che pretende proporsi come concezione “olistica” dell’uomo, nella sua normalità fisiologica e nelle deviazioni patologiche. In questo ircocervo pretenzioso l’anima della teo-metafisica, lungi dall’essere dissolta e spedita nell’iperuranio dei sogni maldestri, viene promossa e celebrata come realissimo fattore unificante della complessità organica. Il suo “Trattato di Patologia Medica Sintetica” di don Nicola in orbace contiene affermazioni degne della medievali Scholae tomiste, anzi agostinian-tomiste. Eccone un campione incredibile: “L’anima e teologicamente e filosoficamente e medicalmente permea di sé, in unità vitale indissolubile, come vogliono S.Agostino e S. Tommaso, tutta la materia corporea, essa è per noi la sintesi di tutte le energie di tutti gli organi viventi, e questa sintesi è possibile in virtù delle correlazioni esistenti fra tutti gli elementi corporei, e per il dare ed il ricevere stimoli che avviene tra essi ad opera del Sistema Nervoso”.
Per buona sorte esiste un ben diverso “olismo clinico”, che, lungi dal tirare in ballo l’anima semplicetta della tradizione metafisico-religiosa, raccomanda solamente di guardare l’organo malato nel contesto dell’intero organismo e delle correlazioni anatomo-funzionali tra le sue parti. Un’istanza salutare contro la parcellizzazione in auge nel campo medico. Salutare, purché non se ne esageri le implicazioni, cadendo in un diverso, ma altrettanto rischioso dilettantismo.
Il Pende, poi, vanta altri “meriti”: per esempio, l’avere insultato il grande Ippocrate, fondando, insieme ad altri scienziati part-time, la mirabile “Medicina italica correlazionistica, unitaria” e battezzandola col secondo appellativo di “Neo-Ippocratica” Ma quello che fece più scalpore fu il “merito” di essere fra i firmatari del truce e scientificamente ridicolo “Manifesto della razza”. Naturalmente, i suoi devoti (ce ne sono ancora, e anche troppi) negano che abbia firmato quel documento dell’infamia nazional-fascista; ma non osano negare l’innegabile, cioè che il nome di pende figurava fra i promotori del Manifesto.

Pende mi ricorda un altro campione di fede commista a scienza, di contradictio in adjecto: Enrico Medi, fisico di fama e/ma cattolico più convinto del dogma e delle sue implicanze che delle leggi del cosmo. Creatura dei Gesuiti (diploma nel loro Istituto Massimo) fu primo presidente della “Lega Missionaria Studenti”, nonché pupillo politico di Santa Madre Chiesa, deputato alla Costituente e onorevole della prima legislatura Una volta, durante un suo comizio, nella piazza centrale di Realpolia, gioello barocco di chiese e palazzo comunale, all’epoca dello scontro frontale fra il “mondo libero” e la “barbarie” comunista, come dire tra due supposte civiltà contrarie, insomma verso la fine degli anni Quaranta o l’inizio dei Cinquanta, ebbe a dire che il credente subordina lo scienziato; che se le gerarchie ecclesiastiche gli imponessero di sostenere che il sole gira intorno alla terra, il suo dovere di credente sarebbe quello di ubbidire e tacere. E lui, fiero di tanto ardire, lui, “cavaliere della fede”, ignaramente librato fra Hegel e Kierkegaard, non avrebbe esitato un attimo, diceva, a ubbidir tacendo. Con buona pace della Scienza e della signora Ragione. Uno Zichichi pioniere, insomma. E come costui, Medi ebbe alte cariche in campo fisico: fu direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e nel 1958 fu eletto vicepresidente dell’Euratom. Le biografie non tralasciano di farci sapere che “il 21 luglio 1969 fece il commento agli italiani dello sbarco sulla Luna”.
Questi esemplari di fauna antropica dimostrano l’estro umoristico di madre natura: inesauribile artista, sadica midollare, statua leopardiana di indifferenza assoluta; e anche burlona. Questi ricordi sono vecchi di un quindicennio. E’ bastata una parola a richiamarli, vivi di attualità proustiana. Con un supplemento di maraviglia generata dagli anni: penso che si era all’indomani della seconda guerra mondiale, del più grande orrido e variamente sconcio macello di vite umane di tutta la storia; cioè della dimostrazione più severa dell’assenza del dio mitico, protettore almeno dell’infanzia, e quella gente continuava a credere, e sperare e sognare: contro ogni evidenza dignità e decenza. Anzi, più di prima: cinquanta milioni di malmorti e diecine di milioni di mutilati non solo non sono bastati a spegnere le care illusioni, ma le hanno potenziate rinvigorendo la potenza delle varie chiese e di quella cattolico-vaticana più delle altre. Fino a infeudare, di fatto, attraverso un partito e malgrado un’opposizione social-comunista ben organizzata, il sedicente Stato laico democratico e repubblicano.
Mi viene in mente un’altra correlazione. Se scienziati così in vista sparano quelle scempiaggini colossali a difesa maldestra della fede, non vuol dire, tutto ciò, che la parola d’ordine del moderatismo benestante e miliardario, di qua e di là dell’Atlantico, dal bianco Santo Padre alla Casa Bianca, la priorità assoluta è: sbarrare la strada alla Russia, fermare il comunismo interno? Anzi, il comunismo planetario, minaccioso non solo per la fede, ma anche, e soprattutto, per la cara proprietà privata e libertà di arricchirsi. Insomma, Mammona über alles.
Ultimo pensierino: se al signor Medi le Gerarchie avessero ordinato di gasare e infornare gli ebrei, lui avrebbe ubbidito? E un sospetto atroce mi vellica l’esofago: temo di sì, temo che un soggetto di quel tipo sarebbe stato capace di ubbidire anche a un tale ordine. Ancora. Prescindendo dal referente di fede, che sia la santità papale e il correlato dio o la diabolicità di un Hitler e il contesto nazista, la condizione interiore di un Medi e di Goebbels, di un Pende e di un capetto responsabile di un lager con gas e forni non è la stessa? E allora con quale coerenza e faccia di bronzo si inorridisce di questa e si ammira quella? Si respinge ad inferos il funzionario tedesco (o uno Speer) che confessi la sua fede nazista con cruda sincerità e si esalta l’ubbidienza cattolica a qualunque sentenza papale ostile alla civiltà laicizzante (cioè, all’unica, se non vera, rispettabile e appetibile: vale a dire, con prezzi di sofferenza ridotti al possibile).
*
Ma che c’entra questa fauna illustre e questa problematica politico-religiosaa con la mia domenica anemica e palliduccia? La meccanica dell’associazione: come può farci divagare! La mia domenica povera mi fa registrare, a margine delle letture di estro e mirate, la replica della recita dei bambini davanti al pubblico dei genitori. Stasera fra il pubblico c’era anche mio cognato, che ha voluto raccogliere vendetta contro la sua timidezza infantile. Giampiero ha esitato e perfino pianto prima di staccarsi da noi. Temeva che ce ne andassimo, che lo lasciassimo solo tra le mille teste occhiute del mostro Folla. E voleva assicurarsi che la recita potesse farla per noi due. Lo abbiamo tenuto con noi durante alcune scenette recitate da altri bambini. Poi, spontaneamente, è sceso dalle mie ginocchia ed è andato sul palcoscenico direttamente dalla sala, rifiutando ogni accompagnatrice. Da solo, dunque, e senza aiuti, ha salito la scaletta e s’è fermato davanti al sipario abbassato, suonando con la sua vocina musicale un tenerissimo “permesso?”. Si sono sentite di nuovo calde risa di tenera approvazione tra sala e quinte, e subito il bambino è stato risucchiato dalle mani amorose della suora maestra. Pochi secondi dopo è riapparso col microfono in mano, delizioso e commovente. Lo zio mi diceva che il cuore gli batteva forte, come se dovesse farla lui la recita. Anche il mio batteva, malgrado il rassicurante precedente di ieri sera. Ci si immedesima totalmente. Gianpiero non ha deluso: la sua vocina ha scandito chiara e gradevole le parole dei pochi versi, guadagnandosi il secondo largo applauso della sala. Rientrato tra le quinte, da dietro il sipario ha gridato al microfono: “Papà, l’ho detta bene?”. E giù, di nuovo, un divertito scroscio di risa complici per tutta la sala, a coprire la mia umida risposta di approvazione all’appagato attoruccio “liberato”. Il quale, ormai sgravato dal peso dell’esposizione sociale, e smanioso di rifugiarsi nel nido caldo degli affetti esclusivi, fece di corsa le tavole del palcoscenico e della scaletta e venne tra noi. Lo zio lo prese sulle sue ginocchia, riassorbendo una lacrimuccia lucente. Questi sciupafemmine! Sanno anche essere dei morbidi teneroni con la tenera carne degli amori casti.
*
Rina non aveva partecipato alla festicciuola: temeva il confronto del suo modesto abbigliamento con l’eleganza prevedibile, anzi garantita, del pubblico femminile: una folla di mamme e mogli della prevalente, vanesia, esibizionista borghesia impiegatizia del paese supercattolico, vescovile, bancario. E mafioso. Ci aspettava a letto, sola in casa. Ma prima di rincasare, ho portato un po’ in giro Giampiero con la macchina del cognato. Il collega di italiano, e amico e compagno, padre di uno dei ragazzini, che aveva recitato nel ruolo di un rosso diavoletto debitamente cornuto e caudato, mi chiede di accompagnarlo a Siderato, per ascoltare un comizio del capogruppo comunista alla Camera. Così siamo andati a finire nel paesone vicino, fra compagni, colleghi e amici. Un amico, soprattutto, ha interessato Giampiero: il mio ex alunno di lezioni private Beppe Comasso, che il piccolo chiama “Pepè del bar”. Lo incontra, infatti, quasi sempre nel bar di famiglia. E lì mi ha “portato” il furbacchioncello. Beppe era presente anche stavolta, e gli ha fatto la solita festa di accoglienze. Festa, peraltro, o fortunatamente per il piccolo, parca di parole e folta di doni: stasera, il frugoletto (divento lezioso, lo so, ma qui siamo tra le mura di casa) ci ha guadagnato un bell’uovo di Pasqua e altre leccornie. Hoc erat in votis! Abbiamo appreso, nell’occasione, che Beppe s’è fidanzato. La fortunata è figlia di un vecchio comunista militante, addirittura, dicono, il fondatore del Partito a Siderato, paese da sempre “sinistro” e in rotta di campanile col clerico-borghese Zefiria. E’ una bella ragazza, diplomata ragioniera e di formosa presenza. Auguri, che più sinceri non potrebbero essere.
*
Il rientro a casa mi riserva una sorpresa: mia moglie triste, e poco dopo in lacrime. A stento riesce a congratularsi col bambino, poi si scioglie. E sia pure col pudore che le compete geneticamente. Lacrime silenziose, dunque, da nascondere al bambino. Che però qualcosa di storto avverte. Lo distraiamo con giocattoli e promesse, e io tento di venire a capo del mistero. Ma i miei tentativi di farla parlare scivolano senza presa sopra la sua marmorea resistenza bagnata. Ma che cos’hai, che cosa è successo? Niente. Come niente? Piangi, e dici niente? Andiamo, parla! Su, fai uno sforzo. Niente. La risposta, uguale e blindata in cupa difesa, mi agitava in crescendo. Fino a un vero allarme a pieno giro d’orizzonte. Dove, in qualche punto, stagnavano paure laceranti di scandali possibili. Niente. Che sarà accaduto di così grave? Dietro quel niente pesante come piombo la paura disegnava scenari lugubri. La invito a uscire. Esita, tace. Insisto, resiste. E la mia paura si fa angoscia verace. Per poco non mi tradisco con qualche improvvido anticipo congetturale, con nomi e ipotesi di circostanza. Ma finalmente cede, si lascia convincere, almeno, a uscire. Facciamo un giro per il paese domenicale, con gente sul corso e tante luci, poi le propongo di andare a trovare Susanna, che è facile immaginare in casa con una o due sorelle, mentre il resto sarà fuori.
Acconsente. Era come previsto: Susy è in casa; a farle compagnia, Tina, Rosina e, saltuariamente, come quel folletto inquieto che è, Giacomino, il quale esce e rientra a piacer suo. Si sta un poco a chiacchierare. Quindi la sorella Rosina propone di ascoltare qualche disco. Cambiamo stanza, e ascoltiamo i dischi, gli ultimi successi sanremesi, e i soliti ballabili. Facciamo anche qualche ballo, e così la mia angoscia e la tristezza di mia moglie stemperano in più sopportabili umori. Io mi alterno con le dame disponibili, regalando al corpo, sempre indipendente nei moti protervi delle sue oscurità, qualche spintarella umoral-muscolare introversa. Si focalizzi, soprattutto, l’introversa.
Più tardi vengo a sapere il contenuto del mistero elegiaco: Rina era triste perché s’era sentita abbandonata dagli amici dirimpettai, e nuovi parenti acquisiti del fratello. Erano usciti senza invitarla! Uh, che sconquasso! E mi ti rabbui per così poco? Ammesso si sia trattato di malagrazia, e non di semplice ignoranza (sei sicura sapessero che eri sola in casa?); o al più noncuranza senza malizia; o magari solo discrezione (non sei tu che vai da loro?), che t’importa di queste bazzecole? Lasciali uscire fra loro, noi abbiamo altri amici, un altro giro indipendente da questo. E sappiamo anche stare fra noi, no?

Che gran salti faccio. Torno indietro. Susy, in casa, stava in pantaloni neri. E si è “spaventata” (col caratteristico tapparsi la bocca con il palmo della mano destra, a sua sbilenca protezione) nel vedersi colta in quella mise. Perché? Teme di apparire stravagante, sfacciata? O ha piuttosto paura che la sua “piccolezza” venga esaltata dai pantaloni, mentre le gonne, e le vesti, in genere la coprono meglio? Sciocchezze. Del resto, il suo charme è prevalentemente nel viso, decisamente bello, come Rina riconosce senza riserve. Né il suo corpicino efebico, snello e longilineo, sfigura sotto quel volto perfetto: ha pure la sua grazia ed eleganza plastica. Il fatto, poi, che non svegli desideri troppo carnali è piuttosto un vantaggio per lei, che un handicap. Vederla danzare, magari da sola, questi balli moderni è sempre una gioia per gli occhi. E un sottile piacere per lo…spirito. Peccato che l’intrusivo lampeggiare della scuola arcigna sopra l’attualità evasiva guasti un po’ quel piacere pensoso. Non studia abbastanza, Susy. Né come quantità di ore né come intensità concentrata e non distratta. Ho una gran paura che mi faccia fare brutta figura agli esami. Che mi devo godere io, quale designato rappresentante di classe.
Ho ballato molto con Rina, stasera, e pochi giri ho fatto con Susy e sorella. Il compenso è stata la gioia di vederla rasserenarsi. Siamo tornati a casa abbastanza restituiti alla normalità quotidiana. E Rina conversava col piccolo, sulla recita e i regali di Beppe e altre cose.

Post scriptum. Trentacinque anni dopo. Si sente un non sconosciuto odore di maschera rassicurante ad usum delphiRinae in certa prudenza descrittiva de Susanneo corpore.

domenica 19 aprile 2009

Susanna frammento 23


Sabato, 19 marzo

Memorabile giorno. Per tante ragioni. L’ultima e più pesante delle quali è la morte di mia suocera, avvenuta sette anni fa. Un avvenimento capitale nella vita di Rina, e dunque nella mia. Uno sconvolgimento nell’esistenza del suocero, che però ha reagito bene e s’è risposato. Dopo appena un paio d’anni.
Una lunga scansione di fatti decisivi, da quel dramma: laurea felix (con lode e dignità di stampa), primo anno di insegnamento a Siderato, nuove conoscenze e amicizie nel primo soggiorno magnogreco. Svolta capitale nel percorso esistenziale: matrimonio con Rina, dopo tre anni di fidanzamento e due e mezzo dalla morte della madre. Evento, che segnò la necessità vitale del secondo matrimonio per il suocero: sarebbe rimasto solo, altrimenti, la figlia dovendo seguire me nella lontana sede di lavoro. Seguito: esami di abilitazione all’insegnamento, il grande arrivo, dopo men che dieci mesi, dell'erede, ora saltellante per le stanze; spola da un istituto all’altro, da una materia all’altra di insegnamento; la prima conferenza, sull’esistenzialismo, l’ebbrezza di un successo, all’Ymca di Siderato (l’enfasi laudatoria di un amico, fratello del nostro medico di famiglia in Calamagna, parlando con mia moglie: “Ci ha mandato nelle biblioteche!”). Appendice della brillante laurea, la collaborazione a Teoretica, la rivista di filosofia del professore Lastrada; “periodo dell’incerto destino”: restare con Lastrada o cambiare aria, cercandone di più congeniale? In quello stesso segmento di tempo, la collaborazione culturale alla Gazzetta dello Stretto, voluta dall’amico Mimì Ciaccò, le connesse soddisfazioni e rabbie (per refusi e ritardi). Poi la conoscenza del professore Gero Gulizza, anch’essa mediata da Mimì, la recensione alquanto polemica, su un periodico locale, al saggio filosofico del Gulizza, La pulsione basale, e la graduale semi-conversione problematica alla sua estremistica trofologia; la svolta della collaborazione col trofista, che mi pubblica i primi scritti nella sua rivista Biophilia. Altro seguito: la presentazione al professor Volpelli da parte del Gulizza e la mia collaborazione alla rivista del “barone” accademico romano, Questioni di pedagogia; il concorso a cattedre per la “Classe filosofia storia pedagogia psicologia”, qualche avventuretta ionico-tedesca che funziona da propellente per lo studio sistematico della lingua madre di tanta filosofia; tentazioni magnogreche con brividi di piacere (e paure da stress fisico). Ancora: la spietata agonia e morte dello zio Silvio qui narrata, il volto atroce della verità che torna a mostrarsi, con la morte, appena una settimana fa, della madre di una mia amica sideratese del terzo annuale soggiorno di lavoro nel paese E le liti gli screzi l’amore ferito e guarito tante volte…
Decisivi? Elle écoule, écoule…

*
Ancora con Leopardi, richiamo di prossemica inconfessabile e di confidenze virtuali. E con il grande De Sanctis:

“L’annegamento del pensiero nello infinito non è un concetto nuovo. E questa impotenza del pensiero innanzi all’inconoscibile desta sempre un sentimento di terrore, o, come dicesi, la impressione del sublime, prodotta qui non solo dalle cose, ma dal ritmo delle cose. “Interminati spazi”, “sovrumani silenzi”, “profondissima quiete”. Ciò che è nuovo in questo naufragio del pensiero è il sentimento di dolcezza. Il contemplante solitario si sente sperduto in quell’immensità, e ci si piace. Il piacere nasce non dalle cose che contempla, ma dal contemplare, da quello stare in fantasia, e obliarsi e perdersi senza volontà e senza coscienza. E’ la voluttà del Bramino, poeta anche lui, la voluttà dello sparire individuale nella vita universale.”

Ben detto, ma: nuovo, il “sentimento di dolcezza”? Se nuovo non è “l’annegamento del pensiero nello [sic] infinito”, difficile che lo sia quel “sentimento”. O il terrore: l’esperienza del sublime, sentimento ambivalente e dinamico, di terrore-sofferenza e di euforica dolcezza, dev’essere ben più antica dell’ididllio leopardiano e di ogni testimonianza letteraria pervenutaci. Siamo, poi, sicuri che fra quelle testimonianze non ce ne siano, di ben anteriori al “sospiro” leopardiano e dell’intero Ottocento? De Sanctis conosceva l’intera letteratura d’Occidente? Noi (pluralis modestiae) da quell’“intero” siamo astronomicamente lontani. I De Sanctis di casa nostra e dell’estero lo sono meno, molto meno, ma non perciò saranno enciclopedie viventi di quella competenza. E poi, il preromanticismo, inglese e continentale, e il romanticismo tedesco conoscono già quel sentimento quando ne canta Leopardi. Nuovo è, com’è nuova ogni vera poesia, l’accento leopardiano, la sua personale misura, la sintassi totale, come dire verbale e logico-emozionale, del suo fantasticare, in esso piacendosi.
A parte questo. “L’annegamento del pensiero” nell’infinito, come il dilettoso “sparire individuale nella vita universale", sono, ovviamente, metafore-iperboli, un’imprecisione approssimativa per esprimere un sentire più acceso, più euforico del normale: che è, perciò, di benessere vago, se si mantiene entro limiti compatibili con il compos sui; ma può diventare angoscia e panico, se da quegli imprecisabili limiti individuali esorbita insinuando insicurezza assoluta, senso di smarrimento e di totale disarmata impotenza, o quasi disintegrazione della composta struttura. Il sentimento del sublime è un ibrido oscillante tra le due possibilità estreme, che vige finché da questi estremi si tiene lontano.
Dietro queste sensazioni di piacevole espansione (ben note anche al penetrante Leopardi pensatore dello Zibaldone) si muove la biochimica delle anfetamine e delle endorfine, dell’adrenalina e dei neurotrasmettitori in genere. Con quali precisi dosaggi e quali interazioni oggi credo non sia ancora possibile dire, ma forse un giorno si potrà. Lo so: i cavalieri del Graal protestano, gridano alla barbarie (Annibale alle porte!) quando si pretende ridurre a fatti materiali i sublimi fenomeni del presunto spirito distinto. E protestano anche i declassatori del pneuma a psiche, gli psicologi e filosofi che parlano di base materiale della psiche e della mente, ma inorridiscono dell’eventuale identità tra il piano terreno (biochimica) e il piano nobile (mente, psiche…). E lasciamoli strillare. Nessun materialista appena avvertito filosoficamente parlerà di identità immediata, sì di unità struttural-funzionale. Ma per oggi basta così.


Ancora 19 marzo, tarda sera

O donna mia,/ già tace ogni sentiero, e pei balconi / rara traluce la notturna lampa:/ tu dormi, che t’accolse agevol sonno / nelle tue chete stanze; e non ti morde / cura nessuna; e già non sai né pensi / quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.

Come suonano strazianti queste invocazioni, evocazioni, titoli (“Alla sua donna”!). E lo stesso mettere le mani avanti, prevenire commenti malevoli e maliziose ironie: in una parola, precisare che quella tale donna è soltanto un’icona platonica, un sogno della fantasia stimolata da contingenze ambientali, e su tale linea sviluppare la melodia della canzone. Nelle “Annotazioni” del “Preambolo” alla prima edizione (Canzoni, Nobili, Bologna, 1824) Leopardi insiste su quella sublimazione iperuranica: “La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sogno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova. L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola, mostra di non amare altra che questa) sia mai nata finora, o debba mai nascere, sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle. Se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certo che questo tale amore non può né dare né patir gelosia, perché, fuor dell’autore, nessun amante terreno vorrà fare all’amore col telescopio.”
Basterà l’arguta conclusione, quaderno, a farmi perdonare il carico che ti ho addossato citando per intero il brano centellinato per questa Donna-madonna? Alla quale ipostasi fantasmatica, per quanto teneramente carezzevole in terra musarum, sono certo che il povero Giacomo avrebbe preferito una bella ragazza in carne e sangue, non dico innamorata, ma gentile con lui e disponibile ai reciproci baci.
*
Dev’essere terribile sentirsi escluso dall’interesse femminile. Desiderare e non essere desiderato, bramare e non piacere, non avere mai un “sì”, uno sguardo di tenerezza partecipe, un abbraccio, un segno qualsiasi di attrazione fisica. Terribile, spiegavo alle mie studentesse attente, non è, no, la sofferenza che emana dagli ostacoli frapposti tra due innamorati; questo dolore si può sopportare, lo stempera la speranza, l’impegno di resistenza che gli stessi ostacoli esterni suscitano insieme alla possibilità di superarli. Imparagonabile e sempre minore dell’altro, lo strazio della esclusione, che brucia la carne e accorcia la vita. Massime quando si è di forte temperamento sensuale, “anima” ricca di immaginazione e “vita interiore”. Tutta la sublimazione poetica del mondo non basta a scongiurare gli effetti distruttivi di quella “soppressione”.
“Fra cotanto dolore / quanto all’umana età propose il fato, /se vera e quale il mio pensier ti pinge, / alcun t’amasse in terra, a lui pur fora /questo viver beato: /e ben chiaro vegg’io siccome ancora /seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni /l’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse /il ciel nullo conforto ai nostri affanni; /e teco la mortal vita saria / simile a quella che nel cielo india.” Nelle nebbie della malinconia evocatrice d’inganni e delusioni, “di te pensando /a palpitar mi sveglio. E potess’io, / nel secol tetro e in questo aer nefando, /l’alta specie serbar; che dell’imago, /, poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.”
Uno dei non rari casi di lucidità appannata: toccante, quanto può esserlo il mentire a se stessi frugando tra le parole per un farmaco improbabile alla propria realissima pena.
Torno alla verità, cioè alla ragione lucida che non si fa sconti; insomma, alla “Sera del dì di festa” Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno / appare in vista, a salutar m’affaccio, / e l’antica natura onnipossente, / che mi fece all’affanno. A te la speme / nego, mi disse, anche la speme; e d’altro / non brillin gli occhi tuoi, se non di pianto. *

La luna brilla sul mare, in queste sere. Passeggiando sul lungomare, lunga e ampia strada d’asfalto che bordeggia un’ancora più vasta e ininterrotta spiaggia, ripensavo alle lune leopardiane. Poi, d’un tratto, agguantò Mneme una luna più modesta, ma pur essa seduttiva: quella di Fred Buscaglione: “Guarda che luna! Guarda che mare! / Da questa notte senza te dovrò restare...” Caro Fred dei miei anni universitari. E dei juke-box ascoltati nei pomeriggi allungati fra lezioni di prima e di seconda fascia oraria, nella Liotria operosa e stordita dai precoci calori primaverili. I versi della canzonetta si sollevano dall’oblio in ordine sparso: forse i seguenti si legano immediatamente ai precedenti sopra citati: Folle d’amore/ vorrei morire/, mentre la luna di lassù mi sta a guardare. “Strani”, alcuni, come questi: Resta soltanto/ tutto il rimpianto/ perché ho peccato nel desiderarti tanto./ Ora son solo a ricordare/ e vorrei poterti dire, / guarda che luna, guarda che mare. Strani, ma suggestivi. “Guarda che luna” è dello stesso anno di “Che bella cosa sei”, 1959: anche questa, tenera e lontana dal genere rock, “Whisky facile”, “Noi duri” e congeneri. Eppure la canzone più gettonata, anche in televisione, resta “Eri piccola così”: cosetta carina nella sua paradossalità finto-drammatica (come del resto, “Teresa non sparare” e simili), e di facile suggestione; ma io preferivo le sentimentali. E magari qualche remake di canzoni classiche, o comunque di larga fruizione come “Parlami d’amore Mariù” (stampata nella mia mneme nella versione, per me impareggiabile, di Peppino Di Capri); o “Nel blu dipinto di blu” (tanto per riposarmi del suo pur straordinario autore, Mimmo Modugno). “Che bella cosa sei/ quando mi parli/, che bella cosa sei /quando mi guardi; /arrendere mi fai/ e forse non lo sai/ che bella cosa sei.” Deliziosa la voce di timbro velare e di soffiata intensità della donna nella versione in duetto. Lui: “Che dolce sogno sei/ Lei: “Quando mi baci” Lui: “morire mi farai” Lei:” tanto mi piaci” E via seguitando.
La memoria richiama Fred sempre in coppia con un altro idolo dei miei tardi vent’anni, già tanto presente in queste pagine: dico Albert Camus, morto della stessa morte, nello stesso inizio di anno: gennaio 1960 Camus, febbraio Fred. Una saldatura assoluta. Certo, nella grande distanza culturale che li allontanava, ma anche in quella febbre di vita che li avvicinava. E che fu così “meccanicamente” spenta in entrambi i casi: un banale crash di macchine potenti lanciate ad eccessiva velocità, con imbarazzante, parziale coincidenza: quella fatale a Camus, guidata dal suo editore, l’altra dal suo proprietario, lo stesso Fred, al ritorno da uno dei suoi mitici concerti in uno dei focosi locali del “Whisky facile”. Ma soprattutto, per Camus, premio Nobel 1957, con un beffardo show dell’Assurdo, quell’assurdo così minuziosamente indagato dal lucido, implacabile costruttore di parabole romanzate e drammi a tesi candidamente esibite per trasparenti simbologie. Caro Camus, icona e stemma di una non brutta stagione della mia vita, densa di emozioni affetti operosità di approdo pubblicistico ancora agli inizi. E caro Fred: Resta soltanto /tutto il rimpianto...

E carissimo Giacomo: E fieramente mi si stringe il core, / a pensar come tutto al mondo passa / e quasi orma non lascia…

Anni, lustri, decenni trascorsi con velocità di rapina. Tale è la sensazione, a valle del trascorrere: una ruinosa fiumara. Volti di donna, sguardi convinti di ragazze a lungo corteggiate, ore di ansia in attese di spasimo, momenti di piacere, languori di tenerezza. Attese rischiose, a volte, dietro porte ombrate di notte matura, con famiglie prone nel sonno, ma virtualmente pronte a fermare la preda e ghermire il predatore intruso (destinabile, in certi casi, a meno furtivi e più regolari rapporti inter familias). O corpi seminudi nel bagno della pallida chiarità notturna a suo modo mistica! Il vostro ricordo mi aiuta a tirare avanti, ma non senza mortificare le mie modeste chances nel confronto con l’Infelice deprivato disperatamente bramante. Facile scrivere che, forse, senza quello strazio Leopardi non ci avrebbe dato i suoi capolavori. Ne dubito. Li avrebbe dati diversi, non meno belli, non meno grandi. E chissà, se gli avessero proposto uno scambio tra il piacere erotico e l’esaltazione poetica, cosa avrebbe scelto. Troppo cocente quella lunga marcia attraverso la sconfitta totale. Per uno che si sarebbe appagato anche di qualche bacio, ma vero bacio passionale, di qualche intenerita carezza, di un qualsiasi abbraccio e contatto corporale. Quei contatti, invece, poté solo sognarli, viverli nell’elusivo vicariato dell’immaginazione, sperarli in brevi illusioni, e infine mimarli nel virtuale euforizzante, ma derisorio della poesia (Il sogno, Consalvo, Il pensiero dominante). Com’è toccante quel cenno, nelle lettere del fratello, alle donne romane che “non la danno” se non con estrema difficoltà. Come accadeva nella bigotta provincia e regione papalina, insomma.
Veramente la questione è aperta: si discute, cioè, sulla verginità assoluta quanto forzata del Poeta. V’è chi ha scritto che qualche rapporto, sia pure mercenario, lo avrebbe avuto. E perfino chi si spinge più in là, togliendo il “mercenario” per sostituirlo con “pietoso” e amichevolmente mediato (da Antonio Ranieri? da altri?). Personalmente inclino a dubitare della grazia (sia pure così sminuita). Così come escluderei l’interpretazione fisicamente omoerotica delle accese espressioni di affetto nell’epistolario con l’amico ospitante sotto il Vesuvio-musa, durante le sue assenze galanti.
*
Lustri, decenni…Con vaghi pruriti di gloria, sogni confusi di conquiste culturali, studi, dispersione, accensioni e cadute di grinta. Il tutto nell’amalgama dello scorrere “indifferente”, che la coscienza frantuma per necessità di ordinare, definire, costruire e comunicare. Frammenti, cui il desiderio presentificante infligge gerarchie flessibili. Dentro le quali, l’Innominabile brilla, fulgida e inarrivabile nel suo fulgore.
E non c’è bisogno di convocare Bergson e la sua durée réelle, né le sue chimeriche chutes solidificatrici del “grande flusso” cosmico in artificiali distinti, condannati a relazionarsi nel freddo linguaggio matematico della scienza galileiana. Quella sua évolution créatrice che finisce in gloria di misticismo spiritualistico è un ibrido indigesto all’esprit atteonizzato che m’è germogliato dentro.

Che cosa resta? Che vale cercare? Perché accorciare la vita con la pomposa velleità di scriverla? Ne vale la pena? Anche i libri vanno al macero. E arrivarci, ai libri, al libro stampato dall’editore giusto! Con quale materiale, poi, si dovrebbe farlo? Quanto scrivo al momento, e già da qualche anno, è destinato alla dispersione incoerente e al conseguente oblio tarlato dei fogli obliterati. Ancora: ne vale la pena? Nei momenti di lucidità assiderata tuona un secco No!
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Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da fanciulli, passata una giornata di festa (Zibaldone). Che cosa sfuggiva a questo maggiordomo fedele della verità crudele? Ma: da fanciulli soltanto? Forse che la fine di questi scampoli di festa, di questi minuti ricolmi dell’Innominata, non è ancora, e cioè, ora, da adulto cosciente e responsabile, lacerante come la fine delle feste d’infanzia? Altre feste, sì, ma uguale dolore nel loro finire. E, se non uguale, della stessa pasta. Riuscirò mai a dire, un giorno, questo silenzio gravido di parole strozzate, vibrante di presenze fin troppo concrete? Di Una Concretissima, soprattutto. Dolore dell’anima, si dice; ma il corpo che ha perduto l’anima nell’evidenza fisiologica, sa che si tratta di sé, del suo sé, dei suoi organi, apparati, cellule e molecole, questo erede universale delle consolazioni mitiche dismesse. Ancora un ricordo, anzi raccordo, letterario: mi sovviene del Caligola camusiano, che diceva di sentire nel corpo appunto, e non nella vaga nebulare anima, la sofferenza per la morte della sorella amante. O anche la sua promozione del corpo nell’esperienza dell’attore, nel teatro: “Il corpo è re”

Omnia fert aetas (Virgilio). “Passan vostri trionfi e vostre pompe / Passan le signorie, passano i regni; / Ogni cosa mortal Tempo interrompe” (Petrarca, Trionfo del Tempo). Andremo sulla luna, sì; ancora qualche anno, e ne porteremo un pezzetto a casa (siamo già nello spazio, e l’America ancora brucia di vergogna per essersi fatta precedere dalla rivale sottovalutata); ne constateremo la sostanziale identità materiale e fisica con la cara vecchia terribile Terra ballerina; andremo anche su Marte e passeggeremo fra gli astri (almeno con qualche nostra protesi corporale, così come già facciamo con quelle virtuali): ma quando vinceremo, almeno in parte, l’oscuro Nemico che ci costruisce e consuma?

“E se a volte, sui gradini di un palazzo, sull’erba verde d’un fosso, nell’inerte solitudine della vostra camera, vi risvegliate perché l’ebbrezza è scemata o scomparsa, chiedete al vento, all’onda, alla stella, all’uccello, all’orologio, a tutto ciò che fugge, geme, scorre, canta, parla, chiedete che ora è; e il vento, l’onda, la stella, l’uccello, l’orologio vi risponderanno:  E’ ora di ubriacarsi! Per non essere gli straziati martiri del Tempo, ubriacatevi senza posa! Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare” (Baudelaire, Lo spleen di Parigi).

L’aria sbarazzina del lucido poeta non inganni: la polpa di verità che lo sfarfallìo verbal-metaforico (peraltro, così azzeccato) riveste non diventa meno solida per questo: si vive perché si sfugge al morso della verità; si vive per rimozione e distrazione; si rimuove in forza di una qualche ebbrezza. E non è che apparenza l’aria di paradosso dell’accomunare vino poesia e virtù: il meccanismo biochimico dell’euforia deve essere uguale, o molto vicino, nei tre (o tremila) casi. Come vivere senza un certo oblìo dell’arido vero? che cosa produce oblìo meglio di una qualche ubriacatura, e insomma di un vivace appetito consumante? E anche poco o punto disciplinato. Perché le droghe potenziano l’appetire rimuovendone gli ostacoli, la loro percezione frustrante e riducente. Donde l’esorbitante accensione di variabile durata.
Il guaio è che, dopo ogni ubriacatura, il risveglio è penoso, e tanto più quanto più spinta è stata l’ebbrezza. E bisogna ricominciare, appunto (“senza posa”); ma ricominciando incessantemente si corre il rischio di abbreviare l’unica “cosa” che conti, la vita. Anzi: più che il rischio si corre la certezza. Come lo stesso Charles, e mille altri fratelli in ebbrezze, a cominciare dal suo modello-mentore De Quincey (mirabile confessione i suoi Paradisi artificiali) per finire ai contemporanei rockettari di varia specie e sottospecie.
Ma conta, poi, veramente? La vita, intendo. Dipende. Dentro lo stesso circuito: sei “appassionato”? la vita conta. Sei depresso? è uno schifo. Riduci la tensione appetitiva, e nasce la noia, cioè la disappetenza, l’anoressia episodica (se mi è permesso dirlo). La noia, questo vessillo esistenzialista, ma prima ancora, molto prima, romantico (e perché mai tacere dell’acedia monacal-medievale?), nonché, in misura più intensa, leopardiano, ridotto all’osso fisiologico, non è che inappetenza, disfagia, caduta della tensione trofica. Naturalmente, parliamo, qui, della fame che ha mille avatar e conosce un’infinità di trasposizioni: è in questo senso largo che va intesa nel contesto cognitivo qui implicito.
Talvolta (nei momenti di malumore?) mi accade di fantasticare, con una certa cupidigia, sulle graziose possibilità dell’era nucleare. Possibilità non solo fisiche e materiali, ma, in qualche misura, anche “metafisiche”. Cosa accadrebbe della vita sulla Terra dopo una bella luminaria atomica? Quanti morti in un conflitto generalizzato? Quanti sopravvissuti, e in quali metamorfosi? Insomma, quali e quanti orrori ancora sconosciuti (anche dopo Hiroshima e Nagasaki) alla già fin troppo mostruosa storia umana ne verrebbero fuori?
Un brivido, lungo la schiena. Se pensieri siffatti vengono a specchiarsi perfino in una mente piuttosto incline alla tenerezza (che, appunto, li caccia subito) chissà cosa attraversa quella coriacea di certi esemplari giurassici di homo bellator in versione atomica e high-tech. E se tali vertigini insistono a martellare quelle turpitudini citologiche in divise gallonate, come sentirsi al sicuro da marasmi pantoclastici? Non ho dovuto scrivere di un bruto incosciente come Goldwater? Quanti esemplari consumano cibi e droghe ideologiche nel funesto pianeta che ci ha prodotti? Troppi piccoli Goldwater sarebbero disposti a desertificare il pianeta per millenni pur di sterminare fossero pure miliardi di nemici ideologico-religiosi.
*
Giornata di inviti, oggi: il nostro amico direttore della Banca Partenogreca fa l’onomastico, e noi siamo invitati a pranzo a casa sua. E giornata d’incontri, imprevisti quanto graditi. Aspettando l’ora del pranzo avevo portato (ma su richiesta sua) il bambino alla villetta vicina. Lui guardava i pesci rossi e gialli dentro l’acqua della vasca, io guardavo il suo guardare, vagando con la mente (c’è bisogno di esplicitarti in quali contrade di mnene e fantasia, quaderno?); ma attento anche, nello zigzagare frenetico dell’attenzione, alle inevitabili domande del piccolo esploratore. Una voce fin troppo nota risuona, a un tratto, dietro le nostre spalle: “Buongiorno! Al papà e al figlioletto”. – Susanna! L’innominata che avevo incontrato qualche secondo prima, nello spazio-tempo virtuale del mio vagare mentale. Mi lascio scappare l’impulsiva banalità: “Come mai da queste parti?” – Risponde con una specie di allegra “ritorsione”: “E voi che ci fate?” – Io (malcelando l’emozione): “Seguo mio figlio.”
E il frugoletto, poco dopo, mi lascia volentieri per seguire lei. – “Vado con Susy, papà; poi mi accompagna lei a casa, va bene? Sta’ tranquillo.” – Il tutto, filato nel suo delizioso articolare appena deformante. E con presàga vocina.
Sto tranquillo. Questo figlio adorato della mia disattenzione è precocemente furbo, oltre che intelligente e di buona memoria: sapeva che ci avrebbe guadagnato da quella compagnia e non ha esitato a piantare me, che aveva già spremuto. Ci ha guadagnato, infatti, e come: una bella tigre metallica colorata che si muove con zampe e tutto il corpo, e ruggisce: un piccolo miracolo giapponese. Più un grosso uovo di Pasqua. Che, in parte, ho dovuto ricambiare, perché la sorellina di questa alunna amica di famiglia fa l’onomastico (anche lei, come il nostro amico). E meno male che mio cognato mi aveva appena prestato diecimila lire. Che mesi di stenti sto passando: lo stipendio non ci basta.
*
Accompagnando Gianpierino a casa nostra, Susanna s’è fermata un po’ con noi, ciarlando delle solite ovvietà con mia moglie. La quale era irritata con me perché avevo portato in giro il bambino vestito (a suo parere) male (nemmeno di vestire bene mio figlio sono capace!). La sorella di Susanna è venuta a casa nostra insieme alla nipotina, figlia della sorella maggiore, Dorina. Insieme siamo andati a Siderato, con la Giulia di mio cognato. Faceva caldo in macchina: l’ondata di freddo nevoso sta passando. A Siderato, una passeggiata sul lungomare, una più breve sul corso principale, qualche sguardo alle vetrine dei negozi, io che attendo le donne, con Gianpiero, sotto gli alberi della piazza grande (detta “Madonna del mare”), mentre sostano davanti alle vetrine. Verso le dodici si torna. Accompagniamo a casa le ragazze, le quali (Susanna, soprattutto) hanno insistito per convincerci a salire al loro appartamento e sostare qualche minuto. Che poi, parola dietro parola, è diventata una buona mezz’ora. Ci hanno offerto l’aperitivo, e anche polpette di “neonata”, cioè di pesciolini minuti, che si friggono con uovo e olio, e che in quei posti chiamano “biancomangiare”. Io ci ho fumato sopra una sigaretta e poi siamo ripartiti per raggiungere casa nostra.
*
Sera. Il pranzo in casa degli amici è stato serenamente ghiotto, lieto e …popolato. Oltre a noi tre, Rina, io e il bambino, c’erano due delle sorelle La Mela (Lella, che è mia alunna e compagna di classe di Susanna; e la sorella Silvana, la più vivace delle quattro sorelle La Mela), mio cognato (cioè, fratello di Rina), che abita a Siderato e insegna matematica in quell’Istituto tecnico commerciale. Loro, gli ospitanti, sono tre: marito, avvocato Beppe Carolui, la moglie, la malinconica Concetta, la figlia, una prosperosa liceale, che frequenta la seconda classe del liceo ginnasio di Zefiria. Il cognato le ha messo gli occhi addosso. Si spera con “intenzioni serie”. Ottimo primo e squisiti secondi, con varia frutta fresca, e un delizioso vinello padronale che montava alla testa proditoriamente. Ma il mio accento mira al delizioso, e ignora il “tradimento”. Al massimo, in omaggio alle divagazioni della pagina precedente, potrei aggiungere un appropriato secondo aggettivo: baudelairiano.
Dopo il pasto, il caffè, la rituale sigaretta e le inevitabili ciance comitali, un crescente torpore mi ha spinto a chiedere scusa, lasciare le poltrone, darmi una stropicciata agli occhi, attraversare la strada e buttarmi sul letto per una siesta salutare e inevitabile. Me n’è riuscita una d’un paio d’ore, che mi ha “restaurato”. Poi, ci siamo concessa una passeggiata in macchina, con Rina e il piccolo, che ha voluto andare alla giostra. Ne siamo tornati presto, e siamo sbarcati in casa dei nostri amici, a trascorrervi la serata, tra televisione, gioco a carte e intraprendenze movimentate di Giampiero, cui le donne badano a turno.
Oggi niente lezione a Susanna. Onoriamo la festa “trasversale”: San Giuseppe è presente in tutte e quattro le famiglie “collegate”.

20 marzo, ore 19,40

Rina sta in casa di Susy; ve l’ho accompagnata pochi minuti fa. Pare si vogliano bene. Durerà? Andrò a prenderla tra un’ora circa. E quest’ora la debbo sbriciolare su queste pagine rigate.
Chiedermi che cosa dirò? No, non ci casco. Dopotutto, basterebbe che smettessi di pensare che queste eiaculazioni verbali possano trasferirsi, quando che sia, e magari tra quarant’anni, o cinquanta, in colonne di piombo tipografico (o di più aggiornate soluzioni high tech), perché il giuoco acquistasse un sapore più aerato, di spontaneità. Magari, qua e là, disposto all’autoironia e alla levità stendhaliana. Stabilito che “tutto scorre”, e che resiste inconfutabile il biblico vanitas vanitatum et omnia vanitas (naturalmente, depurato dal tanfo di sadici padreterni impiccioni), quale differenza, comunque connotabile, tra il serio e il buffonesco, il lieve e il grave, il dolce e l’amaro?
Bella domanda: un classico esempio di vaniloquio, di puro spreco: di tempo inchiostro carta.

“Il sublime ciglio asciutto”. Già: ritesso ancora quella sordina crepuscolare di consonanza sentimentale con la grande Erma recanatese. Però, dopotutto – sublime a parte – il ciglio o cipiglio asciutto del sor Arbasino era già nell’ “occhio asciutto” di Giuseppe Citanna:

“Questo è il culmine che attinge la personalità leopardiana, il cui cammino è proprio un salire verso il deserto. Dapprima, si volge ancora al vicino mondo della sua giovinezza, alle pianure e ai colli che cantano e fioriscono d’amore e di vita, lamentando il Destino cieco e inesorabile che lo trascina verso i silenzi senza fondo. Ma poi ha vergogna di se stesso, di quel suo lamentarsi, quantunque anche questo fosse un lamentarsi ben conscio della ineluttabilità del distacco, e perciò grave e cupo, espressione di uno strazio amaro. Ha vergogna di se stesso, e s’impone il passo fermo e l’occhio asciutto e dritto innanzi…” (Saggio su Leopardi)

Strazio amaro, sì. Ma, di solito, si sorvola sulla sorgente corporale di tanto strazio. L’esclusione dalla donna, la condanna al vagheggiamento lontano, alla frequentazione virtuale e onanistica dell’eterno femminino. O, anche, a quella vicina, ma soltanto amicale, affettuosa in pochi casi, ma fatalmente “inquinata” dall’inevitabile compassione emanante dal suo stato e destino fisico. Tema già trattato, in questi sfoghi, e dunque da sottacere qui.
Semmai, un cenno al “miracolo” del poetare come remedium iniquitatis, terapia contro “il Destino cieco e inesorabile” e lo strazio amaro, saltuariamente superato nella faticosa gioia del canto. Sapeva bene, l’infelice, che non si fanno versi quando il dolore serra la gola e gela il sangue. Non si pensa alla poesia, se non vi si crede e non ci si compiace, cioè se non vi si gode, anche ritmando lo strazio e dando voce ai “silenzi senza fondo”. Nel tempo del dolore in fieri, del vissuto totalizzante, nessun verso, nessuna danza: la sofferenza assorbe tutta la sensibilità. Poi scatta il “miracolo”, e allora la sofferenza, lo strazio, viene trasceso, allontanato, diminuito. Sta sullo sfondo, materiale disponibile che reclama la parola, invoca il canto, il verso, il ritmo. Non si subisce più la propria fame straziata, ma la si danza. Ed essa morde meno, o non morde, per qualche tempo o tempuscolo, e si versa nella fatica esaltante del verseggiare: del cercare suoni ritmi metri. E traslati espressivi al meglio del possibile. “Orfismo della parola”. Già. Se inteso in chiave tutta terragna e corporale, perché no?
Ma l’inventore della formula sarebbe inorridito davanti a questa reductio fisiologica. Se poi si vuole “ridurre” ancora di più l’iperbole orfica e platonica alla modestia della citologia, non resta che prendere atto di certa cinetica molecolare che negli abissi delle nostre cellule produce endorfine e anfetamine: analgesici ed euforizzanti (mi pare vi abbia accennato in pagine precedenti). La via artistica è più lenta, e più leggera, ma il meccanismo molecolare deve essere lo stesso della via diretta, quella esochimica, delle droghe assunte dall’esterno.
Non si mette in dubbio, in questo argomentare, la sincerità e intensità del soffrire, se constata che lo si deve trascendere, in qualche misura, per poterlo esprimere, danzare. In questa dialettica si tende il sentire e la prassi del poetare (nel senso più largo). Chi pretendesse una continuità compatta del soffrire poetando sarebbe un assonnato balordo; e chi negasse intensità e sincerità ai Leopardi che cantano lo strazio, non lo sarebbe di meno. L’alternanza di soffrire e “danzare” rende possibile la poesia. Quando il patire supera certi limiti, si blocca ogni capacità di reazione attiva; ma chi è dotato da madre Natura (e capricciosa matrigna) della capacità ritmica (alias dono della creatività), prima o poi, e per durate scritte nel dna, con le sue pause e riprese, reagirà col canto, con la creazione artistica, con la parola lenitrice e balsamica. Basterà che la morsa del dolore si attenui un po’, che il fisiologico diminuire delle energie distruttive lasci uno spazio allo scatto reattivo. Che assume, anche e perché no?, un sapore di sano masochismo, di accettazione non passiva del patire: niente di patologico, o di cupamente patologico. Un pizzico di malattia non guasta la poesia, anzi. Tanta parte della produzione di Thomas Mann ruota intorno a questa scoperta: un’alterità anti-borghese segna la psicologia dell’artista, e questa alterità sa di malattia: nell’orizzonte angusto della normalità “borghese” l’attitudine artistica appare come un’anomalia, una deformità patologica.
E così si svolge l’esistenza del poeta: fra dolori e suoi superamenti creativi, gioie (quando ci sono, e per quel tanto che ci vengono concesse) e loro trasposizione in rime e ritmi. In ogni caso, la stessa danza del dolore è gioia. Chi insiste sul tormento della creazione, non ne esaurisce la comprensione: alle difficoltà della costruzione segue, anzi s’intreccia, la gioia del successo compositivo “Trovate un’espressione al vostro dolore, e il dolore stesso vi diventerà caro”: questo aforisma di Oscar Wilde (l’ho già citato?) dice quanto Leopardi sapeva bene e ripeté tante volte nello Zibaldone. E qui spunta, plausibilmente, il ciglio asciutto e l’occhio senza lacrime. I quali, se assolutizzati, steccano.
*
Non mi chiedere, ora, perché mi sono lasciato andare, ancora una volta, a queste “confidenze”, quaderno dei miei sfoghi solitari. Non lo so. Forse scrivo appunti per qualche articolo litterato. Forse cerco solo di chiarire a me stesso certe difficoltà teoriche su arte poesia creatività eccetera. Né ignoro che le mie tiritere non sono perle di originalità. E quando si atteggiano in quel senso, non fanno che rimeditare, secondo il filtro caratteriale, le tesi del mio vecchio amico eletto, di tanto in tanto, a maestro, Gulizza, il profanatore di “maiuscole”.

Ma tu, caro Giacomo dal corpo umiliato, che segreto nascondi questa sera, tra queste pagine? Ecco: che il coibente tra corpi polarizzati dall’attrazione può trasformarsi in sorsate di acido bruciatore di viscere a rischio morte.
Voglio dire, a mezza voce, con crittografie allusive, quello che accade a un’alunna ferita nel suo corrisposto amore ostacolato (appunto, da coibenti imperforabili). E me lo confidava. Come se io potessi aiutarla, salvarla. E forse sì, forse un aiuto glielo posso dare. Forse gliel’ho dato, parlandole, sussurrando e versando nelle sue orecchie avide giuste parole di molle conforto. A volte pare che le parole meritino davvero la promozione dell’ingegnoso Gorgia.
Quante ragazzine mi tocca confortare in questa interessante noiosa [ipocrita!] accidentata e marginale [non esageriamo] professione. Massime ora, che viene esercitata in un istituto di quasi sole ragazze, in ogni caso in classi esclusivamente femminili. E come temo di deluderle, io che non trovo parole di salute per la mia pena.
La quale, poi, forse non merita lo spreco di questo inchiostro, se misurata sul metro della mia debole consistenza egotistica e masturbatoria (in senso mentale, dico). E potrebbe, tutt’al più, volgersi al maschile, per concretare modestamente qualche punto di riferimento più preciso e concreto. No, non che si tratti solo di sesso: ma insomma, è lì che brucia. Questa insoddisfatta fame sessuale ben polarizzata, alimentata da quotidiani contatti visivi e non solo, che è dannata a sorbire soltanto scampoli di antipasti e finte penetrazioni liminari, vanamente sollecitate al compimento dallo spasimo complementare, scatenato a spingere, tout malgré, oltre e oltre, fino al giusto limite estremo: sì, questa è la sfasatura eminente dell’attuale disordine “esistenziale”. Disordine tanto più incisivo in quanto coinvolge entrambi i termini (appunto) del serrato binomio ero-cinetico.
Inde, nervosismi e tensioni ricorrenti. L’interruptus (o piuttosto, il semilavorato) non giova alla salute. Né del corpo né della mente. Produce, col suo ricorrere spesso (spesso! compatibilmente, si capisce, con le mie capacità erogatorie e le non frequentissime occasioni) anche una certa esasperazione. E forse è discutibile merito degli interrupti se, da qualche tempo, non riesco a ritrovarmi nel punto culminante: ho perduto le rapinose estasi di dieci e cinque anni fa. Io “vedo”, più che vivere appieno, l’approdo effusivo. E’ come se la coscienza si sganciasse, nel momento di perdersi, e se ne stesse a distanza dal sussulto del corpo. Resto “fuori” del mio diritto, del sacrosanto diritto all’edoné compiuto. Credo che molto sia dovuto all’assillo della ritirata brusca, della fuga scansa-guai. In altre condizioni mi va meglio, infatti.
*
“E però, non uguagliando il desiderio naturale della felicità che mi sta fisso nell’animo, non sarà vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso è per durare, io non lascerò di essere infelice…Tanto che dalla nascita insino alla morte, l’infelicità nostra non può cessare per ispazio, non che altro, di un solo istante…Farfarello Sì: cessa, sempre che dormite senza sognare, o che vi coglie uno sfinimento, o altro che interrompa l’uso dei sensi.”

Ma quando uno ha la malasorte di dormire sognando incubi, e di non “sfinire” nemmeno con le nausee vertiginose e la pressione a novanta, non c’è tregua nemmeno nel sonno. Che sogni, stanotte! Fughe, allagamenti, pericoli mortali di indefinita minaccia in ambienti stravolti, fuori da ogni logica topografica… “Di modo che, assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere (Leopardi, Operette morali, Dialogo di Mambruno e Farfarello). Assolutamente.
Ma relativamente? La cosa è problematica. Oggi, non è la morte la principale urgenza della mia esistenza. Anche se il ricordo dei morti di famiglia mi perseguita. Rivedo, per esempio, lo zio paterno morto a gennaio, non solo la sera, prima di prender sonno, o nei sogni frequenti, ma perfino durante il giorno, nei momenti più vari e impensati. Lo “rivedo” (a volte con icastica evidenza figurale e cromatica) nei più diversi atteggiamenti: mentre lavora (mentre scrive lettere, per esempio, con quella fluidità senza stacchi che ammiravamo tanto, papà ed io); mentre mangia, con la misurata compostezza e il sano gusto della buona tavola; mentre beve il caffè, o un bicchiere di birra, conversando, contento, con me, che gli ero molto vicino. E che ora rimpiango di non avergli dedicato più tempo, alla faccia degli impegni di lavoro e di famiglia. Stava bene con la mia famigliola, e quando poteva ci veniva a trovare, e di tanto in tanto si usciva insieme. Mi capita, come accennavo, di sognarlo spesso. E ogni volta che mi viene alla memoria una morsa mi chiude lo stomaco. Mi accade, pure, di indugiare nel ricordo con una curiosa e quasi voluttuosa malinconia. Anche il parlarne con mia moglie mi fa lo stesso effetto.

Come purifica la morte: carica i pregi, sbiadisce i difetti. E mette olio sullo stridore dei vizi, se ci sono, e delle colpe, se non mancano. O degli errori, che non lasciano mai vuoto il loro non trasferibile spazio genetico. Mio cognato ammirò, otto giorni fa, la bellezza marmorea della signora Silva, morta di cancro. La famosa signora Silva (Silvana) Zanfàri, madre di quattro splendide ragazze, fra le più belle di Siderato, generosa dispensatrice (secondo voce pubblica) di appassionati favori extra moenia. Era la madre della mia prima (vera) amante calamagnese, e della fidanzata pro-tempore di mio cognato, la quale, delle quattro veneri, era la più fascinosa: la più amata e insidiosa fra le molte del voracissimo spreca-femmine. Sfuggì a stento, l’ingordo, e con gran pena (voglio dire, con vera, cocente sofferenza), alla “trappola” (tale, nel comune giudizio della sensibilità sociale di certo profondo Sud) di quella opulenza stregante. E si trova ora alle prese con le diciottenni forme, anch’esse prosperose, ma meno aggraziate e per niente smaliziate, di una opposta direzione di marcia (ad nuptias?). Ma anche in preda a qualche sobbalzante grappoletto di rimorsi tardivi, svegliati di fresco da questa inattesa morte crudele. Sì, era bella e “pura” la signora Silva nel sonno del riposo definitivo: ogni traccia di vizio era scomparsa dal volto sereno e riposante: come se le atroci sofferenze l’avessero purgata di ogni debito morale e la morte fosse una giusta ricompensa per tanta esazione. Sì, la morte purifica. Perfino le mogli disinvolte abbandonate dai mariti in fuga tra le seduzioni dell’America latina (Argentina, mi pare): giusta il caso di donna Silva. Anche il modestissimo diarista qui rimemorante conserva vivi ricordi della Scomparsa, in quanto madre della figlia maggiore in love col moi corporel: ci sorprese, una notte, e dovette recitare un meravigliato dolore per la povera Rina tradita. Un capolavoro di teatro fra due attori casual.

“Or ti vanta che il puoi. Narra che sola / sei del tuo sesso a cui piegar sostenni / l’altero capo, a cui spontaneo porsi / l’indomito mio cor. Narra che prima / e spero ultima, certo, il ciglio mio /, supplichevol vedesti, a te dinanzi / me timido, tremante (ardo in ridirlo / di sdegno e di rossor), me di me privo / ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto / spiar sommessamente, ai tuoi superbi / fastidi impallidir, brillare in volto / ad un segno cortese, ad ogni sguardo / mutar forma e color…(Leopardi, Aspasia).

Povero Giacomino, nano gigante, beffato dalla Matrigna crudele. No, no, nessuna analogia stretta. Al più, si può accoglierne la conclusione. E qualche sfumata e remota consonanza adolescenziale.
“…già del fato mortale a me bastante / e conforto e vendetta è che su l’erba / qui neghittoso immobile giacendo / il mar la terra e il cielo miro e sorrido”