domenica 19 aprile 2009

Susanna frammento 23


Sabato, 19 marzo

Memorabile giorno. Per tante ragioni. L’ultima e più pesante delle quali è la morte di mia suocera, avvenuta sette anni fa. Un avvenimento capitale nella vita di Rina, e dunque nella mia. Uno sconvolgimento nell’esistenza del suocero, che però ha reagito bene e s’è risposato. Dopo appena un paio d’anni.
Una lunga scansione di fatti decisivi, da quel dramma: laurea felix (con lode e dignità di stampa), primo anno di insegnamento a Siderato, nuove conoscenze e amicizie nel primo soggiorno magnogreco. Svolta capitale nel percorso esistenziale: matrimonio con Rina, dopo tre anni di fidanzamento e due e mezzo dalla morte della madre. Evento, che segnò la necessità vitale del secondo matrimonio per il suocero: sarebbe rimasto solo, altrimenti, la figlia dovendo seguire me nella lontana sede di lavoro. Seguito: esami di abilitazione all’insegnamento, il grande arrivo, dopo men che dieci mesi, dell'erede, ora saltellante per le stanze; spola da un istituto all’altro, da una materia all’altra di insegnamento; la prima conferenza, sull’esistenzialismo, l’ebbrezza di un successo, all’Ymca di Siderato (l’enfasi laudatoria di un amico, fratello del nostro medico di famiglia in Calamagna, parlando con mia moglie: “Ci ha mandato nelle biblioteche!”). Appendice della brillante laurea, la collaborazione a Teoretica, la rivista di filosofia del professore Lastrada; “periodo dell’incerto destino”: restare con Lastrada o cambiare aria, cercandone di più congeniale? In quello stesso segmento di tempo, la collaborazione culturale alla Gazzetta dello Stretto, voluta dall’amico Mimì Ciaccò, le connesse soddisfazioni e rabbie (per refusi e ritardi). Poi la conoscenza del professore Gero Gulizza, anch’essa mediata da Mimì, la recensione alquanto polemica, su un periodico locale, al saggio filosofico del Gulizza, La pulsione basale, e la graduale semi-conversione problematica alla sua estremistica trofologia; la svolta della collaborazione col trofista, che mi pubblica i primi scritti nella sua rivista Biophilia. Altro seguito: la presentazione al professor Volpelli da parte del Gulizza e la mia collaborazione alla rivista del “barone” accademico romano, Questioni di pedagogia; il concorso a cattedre per la “Classe filosofia storia pedagogia psicologia”, qualche avventuretta ionico-tedesca che funziona da propellente per lo studio sistematico della lingua madre di tanta filosofia; tentazioni magnogreche con brividi di piacere (e paure da stress fisico). Ancora: la spietata agonia e morte dello zio Silvio qui narrata, il volto atroce della verità che torna a mostrarsi, con la morte, appena una settimana fa, della madre di una mia amica sideratese del terzo annuale soggiorno di lavoro nel paese E le liti gli screzi l’amore ferito e guarito tante volte…
Decisivi? Elle écoule, écoule…

*
Ancora con Leopardi, richiamo di prossemica inconfessabile e di confidenze virtuali. E con il grande De Sanctis:

“L’annegamento del pensiero nello infinito non è un concetto nuovo. E questa impotenza del pensiero innanzi all’inconoscibile desta sempre un sentimento di terrore, o, come dicesi, la impressione del sublime, prodotta qui non solo dalle cose, ma dal ritmo delle cose. “Interminati spazi”, “sovrumani silenzi”, “profondissima quiete”. Ciò che è nuovo in questo naufragio del pensiero è il sentimento di dolcezza. Il contemplante solitario si sente sperduto in quell’immensità, e ci si piace. Il piacere nasce non dalle cose che contempla, ma dal contemplare, da quello stare in fantasia, e obliarsi e perdersi senza volontà e senza coscienza. E’ la voluttà del Bramino, poeta anche lui, la voluttà dello sparire individuale nella vita universale.”

Ben detto, ma: nuovo, il “sentimento di dolcezza”? Se nuovo non è “l’annegamento del pensiero nello [sic] infinito”, difficile che lo sia quel “sentimento”. O il terrore: l’esperienza del sublime, sentimento ambivalente e dinamico, di terrore-sofferenza e di euforica dolcezza, dev’essere ben più antica dell’ididllio leopardiano e di ogni testimonianza letteraria pervenutaci. Siamo, poi, sicuri che fra quelle testimonianze non ce ne siano, di ben anteriori al “sospiro” leopardiano e dell’intero Ottocento? De Sanctis conosceva l’intera letteratura d’Occidente? Noi (pluralis modestiae) da quell’“intero” siamo astronomicamente lontani. I De Sanctis di casa nostra e dell’estero lo sono meno, molto meno, ma non perciò saranno enciclopedie viventi di quella competenza. E poi, il preromanticismo, inglese e continentale, e il romanticismo tedesco conoscono già quel sentimento quando ne canta Leopardi. Nuovo è, com’è nuova ogni vera poesia, l’accento leopardiano, la sua personale misura, la sintassi totale, come dire verbale e logico-emozionale, del suo fantasticare, in esso piacendosi.
A parte questo. “L’annegamento del pensiero” nell’infinito, come il dilettoso “sparire individuale nella vita universale", sono, ovviamente, metafore-iperboli, un’imprecisione approssimativa per esprimere un sentire più acceso, più euforico del normale: che è, perciò, di benessere vago, se si mantiene entro limiti compatibili con il compos sui; ma può diventare angoscia e panico, se da quegli imprecisabili limiti individuali esorbita insinuando insicurezza assoluta, senso di smarrimento e di totale disarmata impotenza, o quasi disintegrazione della composta struttura. Il sentimento del sublime è un ibrido oscillante tra le due possibilità estreme, che vige finché da questi estremi si tiene lontano.
Dietro queste sensazioni di piacevole espansione (ben note anche al penetrante Leopardi pensatore dello Zibaldone) si muove la biochimica delle anfetamine e delle endorfine, dell’adrenalina e dei neurotrasmettitori in genere. Con quali precisi dosaggi e quali interazioni oggi credo non sia ancora possibile dire, ma forse un giorno si potrà. Lo so: i cavalieri del Graal protestano, gridano alla barbarie (Annibale alle porte!) quando si pretende ridurre a fatti materiali i sublimi fenomeni del presunto spirito distinto. E protestano anche i declassatori del pneuma a psiche, gli psicologi e filosofi che parlano di base materiale della psiche e della mente, ma inorridiscono dell’eventuale identità tra il piano terreno (biochimica) e il piano nobile (mente, psiche…). E lasciamoli strillare. Nessun materialista appena avvertito filosoficamente parlerà di identità immediata, sì di unità struttural-funzionale. Ma per oggi basta così.


Ancora 19 marzo, tarda sera

O donna mia,/ già tace ogni sentiero, e pei balconi / rara traluce la notturna lampa:/ tu dormi, che t’accolse agevol sonno / nelle tue chete stanze; e non ti morde / cura nessuna; e già non sai né pensi / quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.

Come suonano strazianti queste invocazioni, evocazioni, titoli (“Alla sua donna”!). E lo stesso mettere le mani avanti, prevenire commenti malevoli e maliziose ironie: in una parola, precisare che quella tale donna è soltanto un’icona platonica, un sogno della fantasia stimolata da contingenze ambientali, e su tale linea sviluppare la melodia della canzone. Nelle “Annotazioni” del “Preambolo” alla prima edizione (Canzoni, Nobili, Bologna, 1824) Leopardi insiste su quella sublimazione iperuranica: “La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sogno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova. L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola, mostra di non amare altra che questa) sia mai nata finora, o debba mai nascere, sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle. Se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certo che questo tale amore non può né dare né patir gelosia, perché, fuor dell’autore, nessun amante terreno vorrà fare all’amore col telescopio.”
Basterà l’arguta conclusione, quaderno, a farmi perdonare il carico che ti ho addossato citando per intero il brano centellinato per questa Donna-madonna? Alla quale ipostasi fantasmatica, per quanto teneramente carezzevole in terra musarum, sono certo che il povero Giacomo avrebbe preferito una bella ragazza in carne e sangue, non dico innamorata, ma gentile con lui e disponibile ai reciproci baci.
*
Dev’essere terribile sentirsi escluso dall’interesse femminile. Desiderare e non essere desiderato, bramare e non piacere, non avere mai un “sì”, uno sguardo di tenerezza partecipe, un abbraccio, un segno qualsiasi di attrazione fisica. Terribile, spiegavo alle mie studentesse attente, non è, no, la sofferenza che emana dagli ostacoli frapposti tra due innamorati; questo dolore si può sopportare, lo stempera la speranza, l’impegno di resistenza che gli stessi ostacoli esterni suscitano insieme alla possibilità di superarli. Imparagonabile e sempre minore dell’altro, lo strazio della esclusione, che brucia la carne e accorcia la vita. Massime quando si è di forte temperamento sensuale, “anima” ricca di immaginazione e “vita interiore”. Tutta la sublimazione poetica del mondo non basta a scongiurare gli effetti distruttivi di quella “soppressione”.
“Fra cotanto dolore / quanto all’umana età propose il fato, /se vera e quale il mio pensier ti pinge, / alcun t’amasse in terra, a lui pur fora /questo viver beato: /e ben chiaro vegg’io siccome ancora /seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni /l’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse /il ciel nullo conforto ai nostri affanni; /e teco la mortal vita saria / simile a quella che nel cielo india.” Nelle nebbie della malinconia evocatrice d’inganni e delusioni, “di te pensando /a palpitar mi sveglio. E potess’io, / nel secol tetro e in questo aer nefando, /l’alta specie serbar; che dell’imago, /, poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.”
Uno dei non rari casi di lucidità appannata: toccante, quanto può esserlo il mentire a se stessi frugando tra le parole per un farmaco improbabile alla propria realissima pena.
Torno alla verità, cioè alla ragione lucida che non si fa sconti; insomma, alla “Sera del dì di festa” Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno / appare in vista, a salutar m’affaccio, / e l’antica natura onnipossente, / che mi fece all’affanno. A te la speme / nego, mi disse, anche la speme; e d’altro / non brillin gli occhi tuoi, se non di pianto. *

La luna brilla sul mare, in queste sere. Passeggiando sul lungomare, lunga e ampia strada d’asfalto che bordeggia un’ancora più vasta e ininterrotta spiaggia, ripensavo alle lune leopardiane. Poi, d’un tratto, agguantò Mneme una luna più modesta, ma pur essa seduttiva: quella di Fred Buscaglione: “Guarda che luna! Guarda che mare! / Da questa notte senza te dovrò restare...” Caro Fred dei miei anni universitari. E dei juke-box ascoltati nei pomeriggi allungati fra lezioni di prima e di seconda fascia oraria, nella Liotria operosa e stordita dai precoci calori primaverili. I versi della canzonetta si sollevano dall’oblio in ordine sparso: forse i seguenti si legano immediatamente ai precedenti sopra citati: Folle d’amore/ vorrei morire/, mentre la luna di lassù mi sta a guardare. “Strani”, alcuni, come questi: Resta soltanto/ tutto il rimpianto/ perché ho peccato nel desiderarti tanto./ Ora son solo a ricordare/ e vorrei poterti dire, / guarda che luna, guarda che mare. Strani, ma suggestivi. “Guarda che luna” è dello stesso anno di “Che bella cosa sei”, 1959: anche questa, tenera e lontana dal genere rock, “Whisky facile”, “Noi duri” e congeneri. Eppure la canzone più gettonata, anche in televisione, resta “Eri piccola così”: cosetta carina nella sua paradossalità finto-drammatica (come del resto, “Teresa non sparare” e simili), e di facile suggestione; ma io preferivo le sentimentali. E magari qualche remake di canzoni classiche, o comunque di larga fruizione come “Parlami d’amore Mariù” (stampata nella mia mneme nella versione, per me impareggiabile, di Peppino Di Capri); o “Nel blu dipinto di blu” (tanto per riposarmi del suo pur straordinario autore, Mimmo Modugno). “Che bella cosa sei/ quando mi parli/, che bella cosa sei /quando mi guardi; /arrendere mi fai/ e forse non lo sai/ che bella cosa sei.” Deliziosa la voce di timbro velare e di soffiata intensità della donna nella versione in duetto. Lui: “Che dolce sogno sei/ Lei: “Quando mi baci” Lui: “morire mi farai” Lei:” tanto mi piaci” E via seguitando.
La memoria richiama Fred sempre in coppia con un altro idolo dei miei tardi vent’anni, già tanto presente in queste pagine: dico Albert Camus, morto della stessa morte, nello stesso inizio di anno: gennaio 1960 Camus, febbraio Fred. Una saldatura assoluta. Certo, nella grande distanza culturale che li allontanava, ma anche in quella febbre di vita che li avvicinava. E che fu così “meccanicamente” spenta in entrambi i casi: un banale crash di macchine potenti lanciate ad eccessiva velocità, con imbarazzante, parziale coincidenza: quella fatale a Camus, guidata dal suo editore, l’altra dal suo proprietario, lo stesso Fred, al ritorno da uno dei suoi mitici concerti in uno dei focosi locali del “Whisky facile”. Ma soprattutto, per Camus, premio Nobel 1957, con un beffardo show dell’Assurdo, quell’assurdo così minuziosamente indagato dal lucido, implacabile costruttore di parabole romanzate e drammi a tesi candidamente esibite per trasparenti simbologie. Caro Camus, icona e stemma di una non brutta stagione della mia vita, densa di emozioni affetti operosità di approdo pubblicistico ancora agli inizi. E caro Fred: Resta soltanto /tutto il rimpianto...

E carissimo Giacomo: E fieramente mi si stringe il core, / a pensar come tutto al mondo passa / e quasi orma non lascia…

Anni, lustri, decenni trascorsi con velocità di rapina. Tale è la sensazione, a valle del trascorrere: una ruinosa fiumara. Volti di donna, sguardi convinti di ragazze a lungo corteggiate, ore di ansia in attese di spasimo, momenti di piacere, languori di tenerezza. Attese rischiose, a volte, dietro porte ombrate di notte matura, con famiglie prone nel sonno, ma virtualmente pronte a fermare la preda e ghermire il predatore intruso (destinabile, in certi casi, a meno furtivi e più regolari rapporti inter familias). O corpi seminudi nel bagno della pallida chiarità notturna a suo modo mistica! Il vostro ricordo mi aiuta a tirare avanti, ma non senza mortificare le mie modeste chances nel confronto con l’Infelice deprivato disperatamente bramante. Facile scrivere che, forse, senza quello strazio Leopardi non ci avrebbe dato i suoi capolavori. Ne dubito. Li avrebbe dati diversi, non meno belli, non meno grandi. E chissà, se gli avessero proposto uno scambio tra il piacere erotico e l’esaltazione poetica, cosa avrebbe scelto. Troppo cocente quella lunga marcia attraverso la sconfitta totale. Per uno che si sarebbe appagato anche di qualche bacio, ma vero bacio passionale, di qualche intenerita carezza, di un qualsiasi abbraccio e contatto corporale. Quei contatti, invece, poté solo sognarli, viverli nell’elusivo vicariato dell’immaginazione, sperarli in brevi illusioni, e infine mimarli nel virtuale euforizzante, ma derisorio della poesia (Il sogno, Consalvo, Il pensiero dominante). Com’è toccante quel cenno, nelle lettere del fratello, alle donne romane che “non la danno” se non con estrema difficoltà. Come accadeva nella bigotta provincia e regione papalina, insomma.
Veramente la questione è aperta: si discute, cioè, sulla verginità assoluta quanto forzata del Poeta. V’è chi ha scritto che qualche rapporto, sia pure mercenario, lo avrebbe avuto. E perfino chi si spinge più in là, togliendo il “mercenario” per sostituirlo con “pietoso” e amichevolmente mediato (da Antonio Ranieri? da altri?). Personalmente inclino a dubitare della grazia (sia pure così sminuita). Così come escluderei l’interpretazione fisicamente omoerotica delle accese espressioni di affetto nell’epistolario con l’amico ospitante sotto il Vesuvio-musa, durante le sue assenze galanti.
*
Lustri, decenni…Con vaghi pruriti di gloria, sogni confusi di conquiste culturali, studi, dispersione, accensioni e cadute di grinta. Il tutto nell’amalgama dello scorrere “indifferente”, che la coscienza frantuma per necessità di ordinare, definire, costruire e comunicare. Frammenti, cui il desiderio presentificante infligge gerarchie flessibili. Dentro le quali, l’Innominabile brilla, fulgida e inarrivabile nel suo fulgore.
E non c’è bisogno di convocare Bergson e la sua durée réelle, né le sue chimeriche chutes solidificatrici del “grande flusso” cosmico in artificiali distinti, condannati a relazionarsi nel freddo linguaggio matematico della scienza galileiana. Quella sua évolution créatrice che finisce in gloria di misticismo spiritualistico è un ibrido indigesto all’esprit atteonizzato che m’è germogliato dentro.

Che cosa resta? Che vale cercare? Perché accorciare la vita con la pomposa velleità di scriverla? Ne vale la pena? Anche i libri vanno al macero. E arrivarci, ai libri, al libro stampato dall’editore giusto! Con quale materiale, poi, si dovrebbe farlo? Quanto scrivo al momento, e già da qualche anno, è destinato alla dispersione incoerente e al conseguente oblio tarlato dei fogli obliterati. Ancora: ne vale la pena? Nei momenti di lucidità assiderata tuona un secco No!
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Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da fanciulli, passata una giornata di festa (Zibaldone). Che cosa sfuggiva a questo maggiordomo fedele della verità crudele? Ma: da fanciulli soltanto? Forse che la fine di questi scampoli di festa, di questi minuti ricolmi dell’Innominata, non è ancora, e cioè, ora, da adulto cosciente e responsabile, lacerante come la fine delle feste d’infanzia? Altre feste, sì, ma uguale dolore nel loro finire. E, se non uguale, della stessa pasta. Riuscirò mai a dire, un giorno, questo silenzio gravido di parole strozzate, vibrante di presenze fin troppo concrete? Di Una Concretissima, soprattutto. Dolore dell’anima, si dice; ma il corpo che ha perduto l’anima nell’evidenza fisiologica, sa che si tratta di sé, del suo sé, dei suoi organi, apparati, cellule e molecole, questo erede universale delle consolazioni mitiche dismesse. Ancora un ricordo, anzi raccordo, letterario: mi sovviene del Caligola camusiano, che diceva di sentire nel corpo appunto, e non nella vaga nebulare anima, la sofferenza per la morte della sorella amante. O anche la sua promozione del corpo nell’esperienza dell’attore, nel teatro: “Il corpo è re”

Omnia fert aetas (Virgilio). “Passan vostri trionfi e vostre pompe / Passan le signorie, passano i regni; / Ogni cosa mortal Tempo interrompe” (Petrarca, Trionfo del Tempo). Andremo sulla luna, sì; ancora qualche anno, e ne porteremo un pezzetto a casa (siamo già nello spazio, e l’America ancora brucia di vergogna per essersi fatta precedere dalla rivale sottovalutata); ne constateremo la sostanziale identità materiale e fisica con la cara vecchia terribile Terra ballerina; andremo anche su Marte e passeggeremo fra gli astri (almeno con qualche nostra protesi corporale, così come già facciamo con quelle virtuali): ma quando vinceremo, almeno in parte, l’oscuro Nemico che ci costruisce e consuma?

“E se a volte, sui gradini di un palazzo, sull’erba verde d’un fosso, nell’inerte solitudine della vostra camera, vi risvegliate perché l’ebbrezza è scemata o scomparsa, chiedete al vento, all’onda, alla stella, all’uccello, all’orologio, a tutto ciò che fugge, geme, scorre, canta, parla, chiedete che ora è; e il vento, l’onda, la stella, l’uccello, l’orologio vi risponderanno:  E’ ora di ubriacarsi! Per non essere gli straziati martiri del Tempo, ubriacatevi senza posa! Di vino, di poesia o di virtù: come vi pare” (Baudelaire, Lo spleen di Parigi).

L’aria sbarazzina del lucido poeta non inganni: la polpa di verità che lo sfarfallìo verbal-metaforico (peraltro, così azzeccato) riveste non diventa meno solida per questo: si vive perché si sfugge al morso della verità; si vive per rimozione e distrazione; si rimuove in forza di una qualche ebbrezza. E non è che apparenza l’aria di paradosso dell’accomunare vino poesia e virtù: il meccanismo biochimico dell’euforia deve essere uguale, o molto vicino, nei tre (o tremila) casi. Come vivere senza un certo oblìo dell’arido vero? che cosa produce oblìo meglio di una qualche ubriacatura, e insomma di un vivace appetito consumante? E anche poco o punto disciplinato. Perché le droghe potenziano l’appetire rimuovendone gli ostacoli, la loro percezione frustrante e riducente. Donde l’esorbitante accensione di variabile durata.
Il guaio è che, dopo ogni ubriacatura, il risveglio è penoso, e tanto più quanto più spinta è stata l’ebbrezza. E bisogna ricominciare, appunto (“senza posa”); ma ricominciando incessantemente si corre il rischio di abbreviare l’unica “cosa” che conti, la vita. Anzi: più che il rischio si corre la certezza. Come lo stesso Charles, e mille altri fratelli in ebbrezze, a cominciare dal suo modello-mentore De Quincey (mirabile confessione i suoi Paradisi artificiali) per finire ai contemporanei rockettari di varia specie e sottospecie.
Ma conta, poi, veramente? La vita, intendo. Dipende. Dentro lo stesso circuito: sei “appassionato”? la vita conta. Sei depresso? è uno schifo. Riduci la tensione appetitiva, e nasce la noia, cioè la disappetenza, l’anoressia episodica (se mi è permesso dirlo). La noia, questo vessillo esistenzialista, ma prima ancora, molto prima, romantico (e perché mai tacere dell’acedia monacal-medievale?), nonché, in misura più intensa, leopardiano, ridotto all’osso fisiologico, non è che inappetenza, disfagia, caduta della tensione trofica. Naturalmente, parliamo, qui, della fame che ha mille avatar e conosce un’infinità di trasposizioni: è in questo senso largo che va intesa nel contesto cognitivo qui implicito.
Talvolta (nei momenti di malumore?) mi accade di fantasticare, con una certa cupidigia, sulle graziose possibilità dell’era nucleare. Possibilità non solo fisiche e materiali, ma, in qualche misura, anche “metafisiche”. Cosa accadrebbe della vita sulla Terra dopo una bella luminaria atomica? Quanti morti in un conflitto generalizzato? Quanti sopravvissuti, e in quali metamorfosi? Insomma, quali e quanti orrori ancora sconosciuti (anche dopo Hiroshima e Nagasaki) alla già fin troppo mostruosa storia umana ne verrebbero fuori?
Un brivido, lungo la schiena. Se pensieri siffatti vengono a specchiarsi perfino in una mente piuttosto incline alla tenerezza (che, appunto, li caccia subito) chissà cosa attraversa quella coriacea di certi esemplari giurassici di homo bellator in versione atomica e high-tech. E se tali vertigini insistono a martellare quelle turpitudini citologiche in divise gallonate, come sentirsi al sicuro da marasmi pantoclastici? Non ho dovuto scrivere di un bruto incosciente come Goldwater? Quanti esemplari consumano cibi e droghe ideologiche nel funesto pianeta che ci ha prodotti? Troppi piccoli Goldwater sarebbero disposti a desertificare il pianeta per millenni pur di sterminare fossero pure miliardi di nemici ideologico-religiosi.
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Giornata di inviti, oggi: il nostro amico direttore della Banca Partenogreca fa l’onomastico, e noi siamo invitati a pranzo a casa sua. E giornata d’incontri, imprevisti quanto graditi. Aspettando l’ora del pranzo avevo portato (ma su richiesta sua) il bambino alla villetta vicina. Lui guardava i pesci rossi e gialli dentro l’acqua della vasca, io guardavo il suo guardare, vagando con la mente (c’è bisogno di esplicitarti in quali contrade di mnene e fantasia, quaderno?); ma attento anche, nello zigzagare frenetico dell’attenzione, alle inevitabili domande del piccolo esploratore. Una voce fin troppo nota risuona, a un tratto, dietro le nostre spalle: “Buongiorno! Al papà e al figlioletto”. – Susanna! L’innominata che avevo incontrato qualche secondo prima, nello spazio-tempo virtuale del mio vagare mentale. Mi lascio scappare l’impulsiva banalità: “Come mai da queste parti?” – Risponde con una specie di allegra “ritorsione”: “E voi che ci fate?” – Io (malcelando l’emozione): “Seguo mio figlio.”
E il frugoletto, poco dopo, mi lascia volentieri per seguire lei. – “Vado con Susy, papà; poi mi accompagna lei a casa, va bene? Sta’ tranquillo.” – Il tutto, filato nel suo delizioso articolare appena deformante. E con presàga vocina.
Sto tranquillo. Questo figlio adorato della mia disattenzione è precocemente furbo, oltre che intelligente e di buona memoria: sapeva che ci avrebbe guadagnato da quella compagnia e non ha esitato a piantare me, che aveva già spremuto. Ci ha guadagnato, infatti, e come: una bella tigre metallica colorata che si muove con zampe e tutto il corpo, e ruggisce: un piccolo miracolo giapponese. Più un grosso uovo di Pasqua. Che, in parte, ho dovuto ricambiare, perché la sorellina di questa alunna amica di famiglia fa l’onomastico (anche lei, come il nostro amico). E meno male che mio cognato mi aveva appena prestato diecimila lire. Che mesi di stenti sto passando: lo stipendio non ci basta.
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Accompagnando Gianpierino a casa nostra, Susanna s’è fermata un po’ con noi, ciarlando delle solite ovvietà con mia moglie. La quale era irritata con me perché avevo portato in giro il bambino vestito (a suo parere) male (nemmeno di vestire bene mio figlio sono capace!). La sorella di Susanna è venuta a casa nostra insieme alla nipotina, figlia della sorella maggiore, Dorina. Insieme siamo andati a Siderato, con la Giulia di mio cognato. Faceva caldo in macchina: l’ondata di freddo nevoso sta passando. A Siderato, una passeggiata sul lungomare, una più breve sul corso principale, qualche sguardo alle vetrine dei negozi, io che attendo le donne, con Gianpiero, sotto gli alberi della piazza grande (detta “Madonna del mare”), mentre sostano davanti alle vetrine. Verso le dodici si torna. Accompagniamo a casa le ragazze, le quali (Susanna, soprattutto) hanno insistito per convincerci a salire al loro appartamento e sostare qualche minuto. Che poi, parola dietro parola, è diventata una buona mezz’ora. Ci hanno offerto l’aperitivo, e anche polpette di “neonata”, cioè di pesciolini minuti, che si friggono con uovo e olio, e che in quei posti chiamano “biancomangiare”. Io ci ho fumato sopra una sigaretta e poi siamo ripartiti per raggiungere casa nostra.
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Sera. Il pranzo in casa degli amici è stato serenamente ghiotto, lieto e …popolato. Oltre a noi tre, Rina, io e il bambino, c’erano due delle sorelle La Mela (Lella, che è mia alunna e compagna di classe di Susanna; e la sorella Silvana, la più vivace delle quattro sorelle La Mela), mio cognato (cioè, fratello di Rina), che abita a Siderato e insegna matematica in quell’Istituto tecnico commerciale. Loro, gli ospitanti, sono tre: marito, avvocato Beppe Carolui, la moglie, la malinconica Concetta, la figlia, una prosperosa liceale, che frequenta la seconda classe del liceo ginnasio di Zefiria. Il cognato le ha messo gli occhi addosso. Si spera con “intenzioni serie”. Ottimo primo e squisiti secondi, con varia frutta fresca, e un delizioso vinello padronale che montava alla testa proditoriamente. Ma il mio accento mira al delizioso, e ignora il “tradimento”. Al massimo, in omaggio alle divagazioni della pagina precedente, potrei aggiungere un appropriato secondo aggettivo: baudelairiano.
Dopo il pasto, il caffè, la rituale sigaretta e le inevitabili ciance comitali, un crescente torpore mi ha spinto a chiedere scusa, lasciare le poltrone, darmi una stropicciata agli occhi, attraversare la strada e buttarmi sul letto per una siesta salutare e inevitabile. Me n’è riuscita una d’un paio d’ore, che mi ha “restaurato”. Poi, ci siamo concessa una passeggiata in macchina, con Rina e il piccolo, che ha voluto andare alla giostra. Ne siamo tornati presto, e siamo sbarcati in casa dei nostri amici, a trascorrervi la serata, tra televisione, gioco a carte e intraprendenze movimentate di Giampiero, cui le donne badano a turno.
Oggi niente lezione a Susanna. Onoriamo la festa “trasversale”: San Giuseppe è presente in tutte e quattro le famiglie “collegate”.

20 marzo, ore 19,40

Rina sta in casa di Susy; ve l’ho accompagnata pochi minuti fa. Pare si vogliano bene. Durerà? Andrò a prenderla tra un’ora circa. E quest’ora la debbo sbriciolare su queste pagine rigate.
Chiedermi che cosa dirò? No, non ci casco. Dopotutto, basterebbe che smettessi di pensare che queste eiaculazioni verbali possano trasferirsi, quando che sia, e magari tra quarant’anni, o cinquanta, in colonne di piombo tipografico (o di più aggiornate soluzioni high tech), perché il giuoco acquistasse un sapore più aerato, di spontaneità. Magari, qua e là, disposto all’autoironia e alla levità stendhaliana. Stabilito che “tutto scorre”, e che resiste inconfutabile il biblico vanitas vanitatum et omnia vanitas (naturalmente, depurato dal tanfo di sadici padreterni impiccioni), quale differenza, comunque connotabile, tra il serio e il buffonesco, il lieve e il grave, il dolce e l’amaro?
Bella domanda: un classico esempio di vaniloquio, di puro spreco: di tempo inchiostro carta.

“Il sublime ciglio asciutto”. Già: ritesso ancora quella sordina crepuscolare di consonanza sentimentale con la grande Erma recanatese. Però, dopotutto – sublime a parte – il ciglio o cipiglio asciutto del sor Arbasino era già nell’ “occhio asciutto” di Giuseppe Citanna:

“Questo è il culmine che attinge la personalità leopardiana, il cui cammino è proprio un salire verso il deserto. Dapprima, si volge ancora al vicino mondo della sua giovinezza, alle pianure e ai colli che cantano e fioriscono d’amore e di vita, lamentando il Destino cieco e inesorabile che lo trascina verso i silenzi senza fondo. Ma poi ha vergogna di se stesso, di quel suo lamentarsi, quantunque anche questo fosse un lamentarsi ben conscio della ineluttabilità del distacco, e perciò grave e cupo, espressione di uno strazio amaro. Ha vergogna di se stesso, e s’impone il passo fermo e l’occhio asciutto e dritto innanzi…” (Saggio su Leopardi)

Strazio amaro, sì. Ma, di solito, si sorvola sulla sorgente corporale di tanto strazio. L’esclusione dalla donna, la condanna al vagheggiamento lontano, alla frequentazione virtuale e onanistica dell’eterno femminino. O, anche, a quella vicina, ma soltanto amicale, affettuosa in pochi casi, ma fatalmente “inquinata” dall’inevitabile compassione emanante dal suo stato e destino fisico. Tema già trattato, in questi sfoghi, e dunque da sottacere qui.
Semmai, un cenno al “miracolo” del poetare come remedium iniquitatis, terapia contro “il Destino cieco e inesorabile” e lo strazio amaro, saltuariamente superato nella faticosa gioia del canto. Sapeva bene, l’infelice, che non si fanno versi quando il dolore serra la gola e gela il sangue. Non si pensa alla poesia, se non vi si crede e non ci si compiace, cioè se non vi si gode, anche ritmando lo strazio e dando voce ai “silenzi senza fondo”. Nel tempo del dolore in fieri, del vissuto totalizzante, nessun verso, nessuna danza: la sofferenza assorbe tutta la sensibilità. Poi scatta il “miracolo”, e allora la sofferenza, lo strazio, viene trasceso, allontanato, diminuito. Sta sullo sfondo, materiale disponibile che reclama la parola, invoca il canto, il verso, il ritmo. Non si subisce più la propria fame straziata, ma la si danza. Ed essa morde meno, o non morde, per qualche tempo o tempuscolo, e si versa nella fatica esaltante del verseggiare: del cercare suoni ritmi metri. E traslati espressivi al meglio del possibile. “Orfismo della parola”. Già. Se inteso in chiave tutta terragna e corporale, perché no?
Ma l’inventore della formula sarebbe inorridito davanti a questa reductio fisiologica. Se poi si vuole “ridurre” ancora di più l’iperbole orfica e platonica alla modestia della citologia, non resta che prendere atto di certa cinetica molecolare che negli abissi delle nostre cellule produce endorfine e anfetamine: analgesici ed euforizzanti (mi pare vi abbia accennato in pagine precedenti). La via artistica è più lenta, e più leggera, ma il meccanismo molecolare deve essere lo stesso della via diretta, quella esochimica, delle droghe assunte dall’esterno.
Non si mette in dubbio, in questo argomentare, la sincerità e intensità del soffrire, se constata che lo si deve trascendere, in qualche misura, per poterlo esprimere, danzare. In questa dialettica si tende il sentire e la prassi del poetare (nel senso più largo). Chi pretendesse una continuità compatta del soffrire poetando sarebbe un assonnato balordo; e chi negasse intensità e sincerità ai Leopardi che cantano lo strazio, non lo sarebbe di meno. L’alternanza di soffrire e “danzare” rende possibile la poesia. Quando il patire supera certi limiti, si blocca ogni capacità di reazione attiva; ma chi è dotato da madre Natura (e capricciosa matrigna) della capacità ritmica (alias dono della creatività), prima o poi, e per durate scritte nel dna, con le sue pause e riprese, reagirà col canto, con la creazione artistica, con la parola lenitrice e balsamica. Basterà che la morsa del dolore si attenui un po’, che il fisiologico diminuire delle energie distruttive lasci uno spazio allo scatto reattivo. Che assume, anche e perché no?, un sapore di sano masochismo, di accettazione non passiva del patire: niente di patologico, o di cupamente patologico. Un pizzico di malattia non guasta la poesia, anzi. Tanta parte della produzione di Thomas Mann ruota intorno a questa scoperta: un’alterità anti-borghese segna la psicologia dell’artista, e questa alterità sa di malattia: nell’orizzonte angusto della normalità “borghese” l’attitudine artistica appare come un’anomalia, una deformità patologica.
E così si svolge l’esistenza del poeta: fra dolori e suoi superamenti creativi, gioie (quando ci sono, e per quel tanto che ci vengono concesse) e loro trasposizione in rime e ritmi. In ogni caso, la stessa danza del dolore è gioia. Chi insiste sul tormento della creazione, non ne esaurisce la comprensione: alle difficoltà della costruzione segue, anzi s’intreccia, la gioia del successo compositivo “Trovate un’espressione al vostro dolore, e il dolore stesso vi diventerà caro”: questo aforisma di Oscar Wilde (l’ho già citato?) dice quanto Leopardi sapeva bene e ripeté tante volte nello Zibaldone. E qui spunta, plausibilmente, il ciglio asciutto e l’occhio senza lacrime. I quali, se assolutizzati, steccano.
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Non mi chiedere, ora, perché mi sono lasciato andare, ancora una volta, a queste “confidenze”, quaderno dei miei sfoghi solitari. Non lo so. Forse scrivo appunti per qualche articolo litterato. Forse cerco solo di chiarire a me stesso certe difficoltà teoriche su arte poesia creatività eccetera. Né ignoro che le mie tiritere non sono perle di originalità. E quando si atteggiano in quel senso, non fanno che rimeditare, secondo il filtro caratteriale, le tesi del mio vecchio amico eletto, di tanto in tanto, a maestro, Gulizza, il profanatore di “maiuscole”.

Ma tu, caro Giacomo dal corpo umiliato, che segreto nascondi questa sera, tra queste pagine? Ecco: che il coibente tra corpi polarizzati dall’attrazione può trasformarsi in sorsate di acido bruciatore di viscere a rischio morte.
Voglio dire, a mezza voce, con crittografie allusive, quello che accade a un’alunna ferita nel suo corrisposto amore ostacolato (appunto, da coibenti imperforabili). E me lo confidava. Come se io potessi aiutarla, salvarla. E forse sì, forse un aiuto glielo posso dare. Forse gliel’ho dato, parlandole, sussurrando e versando nelle sue orecchie avide giuste parole di molle conforto. A volte pare che le parole meritino davvero la promozione dell’ingegnoso Gorgia.
Quante ragazzine mi tocca confortare in questa interessante noiosa [ipocrita!] accidentata e marginale [non esageriamo] professione. Massime ora, che viene esercitata in un istituto di quasi sole ragazze, in ogni caso in classi esclusivamente femminili. E come temo di deluderle, io che non trovo parole di salute per la mia pena.
La quale, poi, forse non merita lo spreco di questo inchiostro, se misurata sul metro della mia debole consistenza egotistica e masturbatoria (in senso mentale, dico). E potrebbe, tutt’al più, volgersi al maschile, per concretare modestamente qualche punto di riferimento più preciso e concreto. No, non che si tratti solo di sesso: ma insomma, è lì che brucia. Questa insoddisfatta fame sessuale ben polarizzata, alimentata da quotidiani contatti visivi e non solo, che è dannata a sorbire soltanto scampoli di antipasti e finte penetrazioni liminari, vanamente sollecitate al compimento dallo spasimo complementare, scatenato a spingere, tout malgré, oltre e oltre, fino al giusto limite estremo: sì, questa è la sfasatura eminente dell’attuale disordine “esistenziale”. Disordine tanto più incisivo in quanto coinvolge entrambi i termini (appunto) del serrato binomio ero-cinetico.
Inde, nervosismi e tensioni ricorrenti. L’interruptus (o piuttosto, il semilavorato) non giova alla salute. Né del corpo né della mente. Produce, col suo ricorrere spesso (spesso! compatibilmente, si capisce, con le mie capacità erogatorie e le non frequentissime occasioni) anche una certa esasperazione. E forse è discutibile merito degli interrupti se, da qualche tempo, non riesco a ritrovarmi nel punto culminante: ho perduto le rapinose estasi di dieci e cinque anni fa. Io “vedo”, più che vivere appieno, l’approdo effusivo. E’ come se la coscienza si sganciasse, nel momento di perdersi, e se ne stesse a distanza dal sussulto del corpo. Resto “fuori” del mio diritto, del sacrosanto diritto all’edoné compiuto. Credo che molto sia dovuto all’assillo della ritirata brusca, della fuga scansa-guai. In altre condizioni mi va meglio, infatti.
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“E però, non uguagliando il desiderio naturale della felicità che mi sta fisso nell’animo, non sarà vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso è per durare, io non lascerò di essere infelice…Tanto che dalla nascita insino alla morte, l’infelicità nostra non può cessare per ispazio, non che altro, di un solo istante…Farfarello Sì: cessa, sempre che dormite senza sognare, o che vi coglie uno sfinimento, o altro che interrompa l’uso dei sensi.”

Ma quando uno ha la malasorte di dormire sognando incubi, e di non “sfinire” nemmeno con le nausee vertiginose e la pressione a novanta, non c’è tregua nemmeno nel sonno. Che sogni, stanotte! Fughe, allagamenti, pericoli mortali di indefinita minaccia in ambienti stravolti, fuori da ogni logica topografica… “Di modo che, assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere (Leopardi, Operette morali, Dialogo di Mambruno e Farfarello). Assolutamente.
Ma relativamente? La cosa è problematica. Oggi, non è la morte la principale urgenza della mia esistenza. Anche se il ricordo dei morti di famiglia mi perseguita. Rivedo, per esempio, lo zio paterno morto a gennaio, non solo la sera, prima di prender sonno, o nei sogni frequenti, ma perfino durante il giorno, nei momenti più vari e impensati. Lo “rivedo” (a volte con icastica evidenza figurale e cromatica) nei più diversi atteggiamenti: mentre lavora (mentre scrive lettere, per esempio, con quella fluidità senza stacchi che ammiravamo tanto, papà ed io); mentre mangia, con la misurata compostezza e il sano gusto della buona tavola; mentre beve il caffè, o un bicchiere di birra, conversando, contento, con me, che gli ero molto vicino. E che ora rimpiango di non avergli dedicato più tempo, alla faccia degli impegni di lavoro e di famiglia. Stava bene con la mia famigliola, e quando poteva ci veniva a trovare, e di tanto in tanto si usciva insieme. Mi capita, come accennavo, di sognarlo spesso. E ogni volta che mi viene alla memoria una morsa mi chiude lo stomaco. Mi accade, pure, di indugiare nel ricordo con una curiosa e quasi voluttuosa malinconia. Anche il parlarne con mia moglie mi fa lo stesso effetto.

Come purifica la morte: carica i pregi, sbiadisce i difetti. E mette olio sullo stridore dei vizi, se ci sono, e delle colpe, se non mancano. O degli errori, che non lasciano mai vuoto il loro non trasferibile spazio genetico. Mio cognato ammirò, otto giorni fa, la bellezza marmorea della signora Silva, morta di cancro. La famosa signora Silva (Silvana) Zanfàri, madre di quattro splendide ragazze, fra le più belle di Siderato, generosa dispensatrice (secondo voce pubblica) di appassionati favori extra moenia. Era la madre della mia prima (vera) amante calamagnese, e della fidanzata pro-tempore di mio cognato, la quale, delle quattro veneri, era la più fascinosa: la più amata e insidiosa fra le molte del voracissimo spreca-femmine. Sfuggì a stento, l’ingordo, e con gran pena (voglio dire, con vera, cocente sofferenza), alla “trappola” (tale, nel comune giudizio della sensibilità sociale di certo profondo Sud) di quella opulenza stregante. E si trova ora alle prese con le diciottenni forme, anch’esse prosperose, ma meno aggraziate e per niente smaliziate, di una opposta direzione di marcia (ad nuptias?). Ma anche in preda a qualche sobbalzante grappoletto di rimorsi tardivi, svegliati di fresco da questa inattesa morte crudele. Sì, era bella e “pura” la signora Silva nel sonno del riposo definitivo: ogni traccia di vizio era scomparsa dal volto sereno e riposante: come se le atroci sofferenze l’avessero purgata di ogni debito morale e la morte fosse una giusta ricompensa per tanta esazione. Sì, la morte purifica. Perfino le mogli disinvolte abbandonate dai mariti in fuga tra le seduzioni dell’America latina (Argentina, mi pare): giusta il caso di donna Silva. Anche il modestissimo diarista qui rimemorante conserva vivi ricordi della Scomparsa, in quanto madre della figlia maggiore in love col moi corporel: ci sorprese, una notte, e dovette recitare un meravigliato dolore per la povera Rina tradita. Un capolavoro di teatro fra due attori casual.

“Or ti vanta che il puoi. Narra che sola / sei del tuo sesso a cui piegar sostenni / l’altero capo, a cui spontaneo porsi / l’indomito mio cor. Narra che prima / e spero ultima, certo, il ciglio mio /, supplichevol vedesti, a te dinanzi / me timido, tremante (ardo in ridirlo / di sdegno e di rossor), me di me privo / ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto / spiar sommessamente, ai tuoi superbi / fastidi impallidir, brillare in volto / ad un segno cortese, ad ogni sguardo / mutar forma e color…(Leopardi, Aspasia).

Povero Giacomino, nano gigante, beffato dalla Matrigna crudele. No, no, nessuna analogia stretta. Al più, si può accoglierne la conclusione. E qualche sfumata e remota consonanza adolescenziale.
“…già del fato mortale a me bastante / e conforto e vendetta è che su l’erba / qui neghittoso immobile giacendo / il mar la terra e il cielo miro e sorrido”

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