mercoledì 22 aprile 2009

Susanna frammento 24


Sabato, 26 marzo, ore 18, 10’.

Scrivo sul letto, dove siedo, mezzo sotto le coperte, per fronteggiare battaglioni di virus influenzali in attività di estrema virulenza farmaco-resistente. In attesa di eventi. Fuori c’è una specie di bufera. Poco fa c’era il sole. Odio questo mese verde: me ne sta facendo troppe, di sgarberie. E dire che ogni anno l’aspetto come un ingresso, una svolta, un ritorno di luce. Chissà perché s’è associato al colore verde. Forse per la banale concomitanza primaverile, col suo rinverdire diffuso, dopo i rigori “scuri” dell’inverno (in queste semplificazioni mutilanti si dimenticano di solito le piante sempreverdi, e le altre che abitano la fredda stagione).
Sono stato a letto con la febbre i giorni 23 e 24; il 25 sono rimasto a casa, da convalescente. Ho avuto visite di alunne. Mercoledì è venuta solo Susy; giovedì, a mezzogiorno, sono venute Giuliana e Maria Grazia, prima; e pochi minuti dopo Rosanna Carolui e Adele Fiorenza. Nel pomeriggio è tornata Susy.
Constato che, da qualche giorno, la mia metà non si allontana da casa neppure per un minuto quando c’è Susy. Prima ci lasciava soli delle ore, mentre l’aiutavo in qualche materia. C’è stato un piccolo “incidente” che giustifica, in parte, questo atteggiamento; ma, nell’attuale misura, esso appare esagerato ugualmente. Cos’è, comincia a sospettare? Sarebbe buffo! Gliel’ho rinfacciato ieri mattina. Mi ha risposto: “Allora tu vorresti rimanere solo con lei”. “Ma quando mai”, faccio io. E proseguo, in questo brillante J’accuse: “E’ che tu sei malata in testa: ricominci con i sospetti, i timori, gli scrupoli ‘per la gente’. E pure con le fissazioni offensive, porco Giuda! Mi hai perfino costretto ad andare a chiudere la porta che avevi lasciata aperta per fare asciugare i pavimenti appena lavati. Per quale motivo, se non perché c’era lei qui, e tu non volevi muoverti da questa stanza? Non volevi lasciarci soli, non posso pensare altro” – Ecco qua, l’ho fatta, la frittata. La replica di Rina non poteva essere più calzante: “Invece sei tu, ora, che mi fai insospettire. Io non ci avevo badato, avevo indugiato, quando mi hai detto di chiudere la porta, così, per pura pigrizia, senza alcuna intenzione maliziosa. E anche per stanchezza, se non ti dispiace: dopo tanto sfacchinare per tenere a un minimo di decenza questo modello di casa. Ma ora tu mi fai pensare male.”
Ho cominciato a urlare insultandola, e me ne sono andato a scuola, infuriato. Che è quanto occorre giusto per confermare nei sospetti una moglie gelosa. Possibile che non si possa avere un’innocente amicizia femminile, senza che in questa specie di congegno meccanico prodotto dalla mia dabbenaggine scatti, prima o poi, la molla della gelosia? Anche quando, come in questo caso, tutte le evidenze siano contrarie a ogni possibilità di sospetto? D’accordo, Susanna è una bella ragazza; ma non è il mio tipo, voglio dire quel tipo di donna che possa eccitare la mia sensualità. Se non proprio esile di forme, non ha però (a parte, magari, il seno e i glutei) quella soda pienezza che mi fa sospirare in una donna. E poiché è perfetta nei lineamenti del volto, mi suscita, al più, un sentimento di schietta e limpida ammirazione estetica (oltre che un normalissimo affetto fraterno). Ma lei, mia moglie, dico, può capire la differenza tra un tale sentimento e la sensualità desiderante? Con la sua testa di massaia, temo di no.
Senza contare che questa Susanna con poca panna, detta Susy, certe volte, mi indispone con le sue impuntature di ribelle. Capita, a scuola, che manchi di rispetto ai suoi professori e miei colleghi, e questo mi procura qualche difficoltà di relazione con loro. Non senza rischi di scontri col preside. D’altra parte, l’amicizia ha i suoi obblighi: come farei a non coprirla, in qualche modo?
Ma perché tanto tempo sciupato per un argomento così frivolo? Forse il fatto è che tanto frivolo, poi, non è. Primo, perché la gelosia di Rina comincia a soffocarmi. Non riesco a trovare il modo di combatterla. Se appena mi sfugge una parola, magari scherzosa, che suoni apprezzamento per Tizia o Caia, lei si adonta; se guardo figure procaci di donnine più nude che vestite, si allarma, e non le sfugge un solo mio sguardo, per quanto veloce, rivolto a qualche bel pezzo di anatomia ancheggiante per la strada. Mi crede un maniaco sessuale, o giù di lì? E poi: questa amicizia con Susanna e famiglia è una delle due o tre che conti in questo paese di pettegoli, professionisti curiali e borghesucci gesuitici: perché perderla? La ragazza si mostra così affezionata al bambino, e anche a Rina. E generosa, è leale, non spettegola: che cosa si può pretendere di più? Io non so cosa fare per togliere di testa a mia moglie ogni ingiusto sospetto. Se ne parlo, la insospettisco; se mi mostro distaccato, dice che fingo disinteresse. Ho paura che questa gelosia sciocca distruggerà anche questa amicizia, come ne ha distrutto un’altra la scorsa estate. Neanche per rompere quest’altra c’erano motivi validi, eppure Rina ha operato in modo che si rompesse. Qui, poi, meno per gelosia che per ragioni ancora più banali.
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Post scriptum trent’anni dopo: che faccia tosta! E che perfetta fusione di verità visibili e invisibili menzogne tattiche. Come assiste l’ingegno messo alle strette! Epperò, anche, quanta disinvoltura sulla contradizion che nol consente. Quale poteva essere lo scopo di questa pagina? Essere letta dal Soggetto in causa. Ma come lasciarla esposta ai suoi begli occhi, se contenuta in un blocco di pagine non prive di rapsodici buchi da sbirciarvi dentro col rischio d’un impatto Soggetto-verità nuda (o trasparente)? Mirabile, poi, l’accortezza di usare qualche valutazione non proprio lusinghiera per Rina pur di renderle la pappardella verosimile. Idem, su qualche oculata sottrazione nel corredo estetico-carnale di Susy.
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Ho trascorso un paio di nottate terribili. La debolezza fisica, e l’effetto delle medicine, ma potrei dire degli antibiotici (che nessun medico omette di infliggerti se appena ti viene un po’ di febbre) mi hanno torturato con l’ossessione del, diciamo così, mono-ideismo coatto. Dico così, ma so che l’espressione è imprecisa, approssimativa: quale “idea” mi perseguitava, infatti? Nessuna “idea”, ma solo una forma vaga, un indistinto fluttuare del cervello, che alludeva a una specie di rapporto, ma un rapporto “impensabile” tra due o più inafferrabili, non sai se immagini visive o uditive, o di altra misteriosa natura, ibrida, indefinibile. Si presentava, questo qualcosa, davanti agli occhi, ruotando, in una continuità ininterrotta e dolorosa, comunicando l’impressione di una impossibilità inesprimibile, inafferrabile da parole e concetti, ma decisa, fluida, vischiosa e “insuperabile”. E questo per ore, interminabilmente, fino a farti desiderare la morte, o la pazzia, come unica uscita di salvezza da quel gorgo fuori controllo. Tremendo. La notte del 24, poi, non mi è riuscito di dormire neanche dieci minuti. E neppure questa esperienza scherza…
Tuttavia, c’è un aspetto positivo anche in questa tortura: la lezione, che ne viene, sulla biochimica dell’anima. Pensare come qualche milligrammo di materia, quell’umile, spregiata, calunniata l materia, che le metafisiche di tutti i tempi hanno degradato come, per se stessa, insensibile, priva di “anima”, eccetera, possa determinare e alterare tutti i moti di quella vita mentale attribuita, dualisticamente, alla fabulata anima o spirito o, più modestamente, psiche! Non che il sottoscritto ne abbia bisogno, ma insomma, a titolo di puro ripasso, non dispiace rileggere, sia pure sulla propria pelle, la reductio animae ad corpus. Non dispiace, si fa per dire: certo, una volta che ti colpisce con la truce sofferenza di cui sopra, tanto vale guardarne anche i lati meno atroci; ancora più certo che preferisco mille volte ripassare diversamente, e più lietamente, quella nobile lezione. Per esempio, sorseggiando, con La Mettrie, una calda euforizzante tazzina di caffè snebbia-mente. E’ uno dei molti argomenti, questo delle droghe, che il geniale autore de L’Homme machine svolge nella sua requisitoria contro i dualismi metafisici, a difesa di una radicale “reductio” fisiologica dell’anima: un pizzico “di oppio”, e subito un “dolce letargo” culla l‘anima, un po’di caffé, e via “i nostri mali di testa e i nostri malumori”.
E mi sovvien di Dante, che nel suo fantasioso tomismo riduce la calunniata materia a pesante impedimento di peccato che ci inchioda alla terra. Spiega Beatrice, la dotta: “Non dei più ammirar, se bene stimo, / lo tuo salir se non come d’un rivo / se d’alto monte scende giuso ad imo. / Maraviglia sarebbe in te se, privo / d’impedimento, giù ti fossi assiso / com’ a terra quϊete in foco vivo” (Paradiso, I, vv. 136-141
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Ora sono le 19, 15’. Lei è tornata. Annuncia una visita di Susanna per le 19,30’. Susy accompagnerà una sua compagna di classe, la polposetta, soda, ghiotta Adele Tallarino, da casa sua (dove Adele è venuta a trovarla) alla stazione, dove la seducente moretta prenderà il treno per Roccabella, suo paese. Tornando dalla stazione, Susy passerà da casa nostra. In visita al convalescente.
Ho avuto nel cervello un nido di vespe in lotta con fragorosi calabroni. E mi dura un ronzio alle orecchie, fastidioso e lugubre. Dico alle orecchie, ma pare che attraversi tutta la scatola cranica. Si preparano, probabilmente, nuove crisi ipotensive, con le solite vertigini e nausee. Speriamo che il ronzio passi: sarebbe difficile abituarcisi.
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Ore 20,30. Susanna è passata, infatti. E’ rimasta con noi, insieme al fratellino, circa un’ora. Ho colto segni di inquietudine in Rina. Ha creduto che io morissi dalla voglia di stare vicino alla nostra amica e lei per sentire i loro discorsi. Mi importa tanto dei loro discorsi (imbottiti di banalità). Susy ci ha invitati a una festicciola per domani sera, a casa della sorella Rosina. “Se starò bene”, avverto. “Dovete stare bene”, ha postillato, Susanna, alzando vibratamente la voce lievemente roca. E poi precisato, ad abundantiam, insomma gridando: “Se me la fate fallire, non vi parlo più”. Amen. E mi si accese nella memoria comparativa la figura indimenticabile di Gina Lollobrigida nel mitico e spassoso ruolo dell’incantevole selvatica Bersagliera di “Pane amore e fantasia” e popolar godereccio seguito. Un inchino a De Sica.

27 marzo, notte

Non gliel’ho fatta fallire. La festicciola, dico. E’ venuta verso le quattro e mezza del pomeriggio, siamo usciti in macchina tutti e quattro, abbiamo fatto un lungo giro verso Zollaro, a mezza montagna, ci siamo fermati in un paio di posti per godere il panorama. C’era un freddo da pieno inverno, dal cielo arruffato nuvoloni viola pendevano suggestivi sopra le valli strette di quelle plaghe montane, l’imbrunire vi si inzuppava palpitante di brividi duplici, di corpo e di “anima”. Questa metafora volò, anzi svolazzò, per alcuni minuti cristallini tra quelle nubi e quel silenzio rigato da un venticello gelido. Gemme di rade luci si accesero sparpagliate sulle falde dei monti e nell’ormai oscuro fondo-valle; alcune erano di lumi a petrolio, echi di altri tempi. L’unico suono che accompagnava l’elegia del vento era la nostra voce, impigrita in rare parole e brevi frasette di circostanza. Staccava sulle nostre la vocina interrogante di Giampiero, sempre pronto a scoccare domande su ogni pretesto di attenzione. Quale drappello di neuroni intrappolava negli intrichi molecolari la malia del luogo e dell’ora, potenziata da quella compagnia catalizzante? Un simil-pensiero fuori linea tracciava sulla tabula non rasa dell’immaginazione disturbata rapsodici disegni impossibibili di non legittima solitudine a due. La polarità motrice dell’immaginazione s’infittiva della forza del coibente quanto mai presente. Susanna sfidava il vento con una specie di voluttà sognante (i suoi pensieri svolgevano un filo parallelo ai miei?). Rina temeva il vento freddo, ma soprattutto la solitudine rapidamente declinante verso la sera. E tentava di tenere Giampiero dentro la macchina. Alla fine, ci arrendemmo alla convergenza di tanti solleciti: il vento, il freddo, la solitudine deserta, l’ora, gli appelli di Rina. Restava come sospesa in quel set fischiante di elementi drogati l’icona di una Susy protesa alla sottostante valle, ma lo sguardo perso nell’indefinito vuoto della lontananza, col vento che le tirava indietro le mobili onde dei capelli corvini.
Di ritorno al paese, ci siamo fermati a casa nostra. Rina ha dato da mangiare al piccolo e subito dopo ci siamo spostati in casa di Susanna, dove ci aspettavano le sorelle. Breve sosta, e poi di nuovo in macchina, con in più il rispettabile e grato pondo delle due sorelle. Altra sosta al negozio del padre, per avvertire il resto della famiglia che si andava in casa di Rosina. Qui abbiamo aspettato la terza sorella e la mamma di Susy, ma ballando e ciarlando. Erano anni che non ballavo.
*
Mi sono divertito? Un po’: è stata pur sempre una serata diversa dalle solite. Credo che Rina si sia divertita anche di più. Stimolata dall’esempio delle sorelle, s’è sciolta in diverse prove di ballo, lei che gran ballerina non è stata mai. Ha osato perfino col let-kiss. Ero l’unico maschio adulto della comitiva, e così le femmine si sono arrangiate a farsi da cavaliere reciprocamente. Io mi dividevo fra l’una e l’altra. Facevo e rifacevo lo stesso giro: mia moglie, Susy, Rosina. Non potevo ignorare neppure la piccola (!), scatenata Tina: quindici anni di moto perpetuo. I bambini, da parte loro, animavano la serata di rumorosa euforia multiludica. C’erano mio figlio, la bambina di Rosina, il fratellino minore, ultimo della abbondante nidiata, delle vivaci sorelle: un malizioso birboncello di undici anni, un poco viziato da tante mamme vicarie.
Susanna era scatenata, anche lei. Eccitata di suo, ma certo aiutata da qualche goccia di liquore. E la sorella Tina più di tutte. Il seno di Rosina premeva contro il mio diaframma quando facevamo coppia: è la meno alta delle sorelle, anzi l’eccezione della famiglia: un quasi tappetto. Pepato, però. La sentivo vibrare e la vedevo colorarsi in viso. Ma l’alibi era ineccepibile: la festa, la “folla”, il moto, i bambini…Né, anche volendo, v’era modo di evitare quel contatto fin troppo coinvolgente: vuoi per il dislivello, vuoi per la soda e pur contenuta opulenza del molto femminile petto di lei. Aggiungi, quaderno, che Rosina è, al momento, priva di sposo: lontano, poveraccio, per guadagnarsi la spesa, impossibile nel paese, e nel circondario tutto, scarso di risorse e di oneste opportunità. È imbarcato, come tanti in questi paesi della Calamagna jonica: giovani e meno giovani. E Rosa è un mozzicone di sposina molto sensibile allo specifico. Qualità, cotesta, comune a tutte le femmine della famiglia: quasi marchio di fabbrica. Con qualche differenza non abissale fra l’una e l’altra. Rosina, come capita spesso con le piccole taglie, è una donnina ambiziosa e vanitosetta: tiene molto alla casa, spende volentieri per i suoi vezzi ornamentali e per il vestiario, fa figurare i bambini (magari accettando qualche rinuncia personale di ordine alimentare). Dà l’impressione, insomma, di volere colmare con l’ostentazione di un certo (minimale) benessere il solco sociale che la separa dal ceto impiegatizio e professionistico, così largamente (e antipaticamente) rappresentato nel paese tanto “curiale”. Susanna dice che è stata lei, Rosina, a spingere, e quasi costringere, il marito ad imbarcarsi. I magri guadagni accessibili in Zefiria non bastavano a fronteggiare le sue “aspirazioni”. E ora, naturalmente, la solitudine notturna le pesa. Ma tant’è: di sana moralità, resiste e accetta la privazione da lei stessa voluta “nell’interesse della famiglia”. Che la privazione sia sofferenza, però, si avverte nell’abbraccio del ballo. Sbaglio, o Susy gettava occhiate furtive al nostro indirizzo? E non è forse vero che, a un certo punto, fece notare l’acceso cromatismo sanguigno nelle guance pienotte della sorella maggiore? “C’è caldo, eh”, fece rilevare, dentro la malizia d’un accennato sorriso. E certo, siamo in tanti e l’ambiente è piccolo – qualcuno puntualizzò. Dal freddo della montagna al caldo della “stanza da ballo”: come cambia il tempo. Il sorriso malizioso di Susy lampeggiava in flash affettuosamente ironici.
La famiglia di Susanna è un covo di pazzoidi dai nervi vibranti. Le donne, tutte bellocce, con lo stacco globale di Susy, che non ha difetti, né di viso né di corpo. Oltre ad essere assai sensibili allo “specifico” evocato sopra, sono di lingua pronta ed esplicito eloquio. Il lessico genitale viene controllato con difficoltà e gli strappi non sono rari. Lo stile allusivo, poi, è tanto frequente quanto compiaciuto. Ho visto la seconda delle sorelle sposate in una foto nuziale: era magrissima, l’aria patita, lo sguardo febbrile. Ora, benché sgravata da meno di due mesi, sta assai meglio di quand’era ragazza: il viso non più smunto, anzi piacevolmente pieno, rotondetta di forme, ma in linea, coerente, per così dire, con la statura media, che la avvicina a Susy. Omissis sulle facili deduzioni fisiologiche. Ah, un dettaglio scintillante: la madre ci ha raccontato che ha voluto sposarsi presto, questa figlia impaziente; che non ha ascoltato pareri e consigli di genitori, preoccupati per il suo futuro non ben garantito dal fidanzato di incerta situazione lavorativa. Altro particolare (per me un po’ croccante): i maschi della famiglia, tre bei ragazzi, non sono affatto esclusi dall’intimità visiva delle femmine, almeno non dalle meno segretabili (o segretande). Susanna dorme col fratellino undicenne nello stesso letto. Una volta che mia moglie azzardò non so che osservazione sulla concomitanza tra la quasi totale nudità di Susy e la presenza del fratellino, lei osservò, tranquilla: “Non fa niente, Giacomino mi sapi (conosce)”. A Rina la cosa fece impressione, abituata, com’è, a ben altro regime domestico (e soprattutto al rigorismo sessuofobico del padre sensibilissimo all’argomento). Susy usa spesso il verbo mangiare in senso traspositivo. Al fratellino che la infastidisce, più d’una volta l’ho sentita gridare: “Mino, ti mangio!”. Lo chiamano Mino: il principio di economia vale anche per il consumo di parole. Di una cosa o persona che le piace, Susy dice “la mangerei”. Farebbe la felicità del fagista Gulizza (ma, ovviamente, non soltanto per le metafore fagiche!).

28 marzo, sera.

Siamo stati al cinema, invitati da Susanna, il cui zio gestisce un cinema nel paese. Abbiamo visto “La donna più bella del mondo”. Che pena quel Gassmann! Quale spreco di risorse autentiche.
Finito il film, la famiglia Castrati, presente al cinema in folta rappresentanza, è venuta a casa mia, invitata da noi: c’erano la madre, Susanna, le sorelle Rosina e Tina, il fratellino peste. Abbiamo offerto l’aperitivo e qualche dolcetto, abbiamo chiacchierato un po’. Disturbati dai bambini, il mio, la bambina di Rosy, Giacomino. Ho ascoltato la storia della madre di Susanna. Bella donna e sposa di un uomo esuberante, ha messo al mondo otto figli ed ha avuto, tra spontanei e procurati, una decina di aborti. Gli ultimi tre (procurati), dopo la nascita dell’ultimo rampollo: si vergognava, poverina, di farsi vedere col pancione dai figli ormai grandi. E’ arrivata, a volte, in fin di vita, ed ha perso un po’ di vista. Il marito, quarantacinquenne, è sano e roseo e robusto come un giovanotto di trenta. Questo ingordo incosciente credo abbia un po’ disgustato del sesso la moglie troppo “usata”. E pare non bagnasse il calamo in un solo calamaio. Io non so come siano i loro rapporti, oggi, ma ho l’impressione che lui chieda sempre a ritmo serrato e lei si conceda solo di tanto in tanto, se non proprio malvolentieri, certo con scarso entusiasmo. Insomma, sono coetanei, ma lei sembra venti anni più vecchia di lui. Pur conservando i segni, illanguiditi ma sicuri, dell’antica bellezza. Né sembra azzardato supporre che il marito integri altrove i pasti domestici insufficienti. Tanto più che la donna ha anche qualche difficoltà intima al rapporto, e ha subito un paio di interventi ginecologici. Si capisce che con si forti alibi il mandrillo pascoli anche out of bounds.

29 marzo

Anche stasera al cinema con la stessa comitiva. Abbiamo visto “Le ore nude”, di Marco Vicario. Con una provocante Rossana Podestà più nuda che vestita. Buone sequenze, quelle del bagno, del campanile, della visita al paesetto decrepito e suggestivo. Ottima trovata, il battito dei due cuori galoppanti verso il tumulto dell’orgasmo. Belle, quasi tutte, le inquadrature della bellissima Rossana, fresca e appetitosa come una pesca succulenta.
Sala piena come un uovo. Uomini rossi di desiderio, donnine eccitate. Rosina osserva, parlando a mia moglie, che gli uomini, stasera, devono averlo tutti dritto. La più turbata della comitiva sembra Susanna.
Lasciando il locale, sosta a casa nostra, aspettando l’ora del rientro a casa loro, accompagnate da me, con la vecchia Giulietta del cognato. Nasce una discussione sul film. Susanna solidarizza con la protagonista adultera: il marito la trascurava, veniva a casa solo una volta al mese e la notte le “dormiva” accanto. Con un ghiacciolo simile, vorrei vedere chi non si sentirebbe provocata a tradire.
“Balle” dico, ben intenzionato a irritarla. “Era lei che lo scoraggiava.”
Mia moglie condannava senz’appello la peccatrice. Io, naturalmente, ero d’accordo con lei. E spiegavo che l’unico movente reale di quella colpa – a parte il possibile capriccio della donna – era un’insoddisfazione fisica. Lo dicevo con un sottinteso puntiglio moralistico, tutt’altro che disinteressato (con le corna non si scherza). O non percepito da Susanna. La quale, anziché lasciarsi intimidire da quella moralina sospetta, sviluppa il suo pensiero in chiare note.
“Quando una donna è così …” dice.
“Calda” volle precisare mia moglie, anche lei un po’ “caricata” dall’atmosfera.
“Calda” accettò Susanna, senza imbarazzo, anzi vieppiù accesa. “Quando è così calda, una donna non deve essere delusa dal marito. Se il marito la delude, fa bene a fargliele.”
Mia moglie era (o si mostrava) scandalizzata.
Dove mi sono cacciato? Tento di “aggiustare”, ma sono palesemente in difficoltà. Tento, comunque: “Se una donna è troppo calda, il marito, che ha altre cose cui badare oltre all’amore e al letto, farebbe bene a praticarle iniezioni di bromuro. In ogni caso, il temperamento caldo non giustifica il tradimento.” Ero lanciato, e non mi fermai lungo quella china scivolosa. “Se una donna non se la sente di restare sola a lungo, può chiedere al marito di non lasciarla sola. A costo di rinunciare a certi vantaggi (che spesso sono agi e lussi. Cioè, capricci)”
E dicendo così insinuavo nel discorso una certa intenzione allusiva verso la sorella maggiore di Susanna, la piccola e vispa Rosina, che, appunto, aveva “costretto” il marito a imbarcarsi per guadagnare di più. “Il fatto è” conclusi “che certe donne volete, pardon, vogliono, il benessere, magari un po’ di lusso, il marito sempre pronto, e a volte un paio di amanti di riserva. Ma c’è solo il letto, dunque, nella vita? Le attività domestiche, i libri, gli interessi artistici…non esistono?”
Fine dello sproloquio. Che non convinse neanche un po’ la calda Susy. E credo neppure la non fredda Rosy. La quale tuttavia recitò la parte della sposa fedele e non diede corda alla saettante sorellina. Io mi sentivo un piccolo ipocrita pataccaro. E ancora di più, il solito sicanico fottuto che fa le corna agli altri, se capita, ma non sopporta neppure l’idea più vaga che il servizio possano farlo a lui. Il sangue non è acqua, dicono dalle mie parti. E le corna pesano.
Naturalmente, si farebbe torto alla Sicania, bella e feroce e delicata, se generalizzassimo troppo: “la Sicania è grande”, recitava una battuta di un film “risorgimentale” sulla taroccata epopea dei Mille (messa in bocca a un noto caratterista). E, perciò, anche molto varia, aggiungiamo: come ci sono i masculi gelosi fino al delitto (d’onore!) ci sono quelli (magari non molti, ma forse anche più del sospettabile) che li sopportano, le corna. O magari li sfruttano, fingendo di ignorarle. Nonché gli altri che, pur dolenti, sono incapaci di violenze brutali.
Serata conclusa con un’imprevista appendice. Un piccolo screzio con Rina, al mio rientro dal trasporto delle ospiti a casa loro. Causa? L’indugio eccessivo della comitiva in casa nostra. Lei ha i suoi orari, e anche ritardare il pasto del bambino di qualche minuto le appare un guasto grave nel suo tran tran. E allora: colpa mia che ho insistito per farli entrare, colpa mia se Gianpiero ha rotto il vasetto dei fiori, colpa mia che do troppo filo a Susanna, colpa sua, di Susy, che quando viene da noi non si muove più. Eccetera. Una conseguenza extraverbale: i bambini le hanno buscate dalle loro mamme. C’est la vie!


31 marzo, tarda sera.

Tengo il mio spirito tra le mani, sotto l’occhio della memoria. E il mio spirito, sussultante, mi narra la sua storia recente. Mi narra l’ultimo incontro col mistero ontologico fenomenizzato in fremente istologia sbarrata. E come svolse il concetto dell’incastro meta-fisico, mi narra; e come premette sullo scudo che occlude le ben infibrate tenebre delle origini; e come le porte degli inferi rustico-decameronici cigolassero sotto l’urto umidiccio dell’acutezza mentale ben tesa; e come d’improvviso suonasse in brusca urgenza l’attimo della ritirata. La ritirata precipitosa, appagata e delusa, nel tenebricoso ricettacolo delle nascite inesplose.
A che tentare ancora le tenebre della trascendenza se si vuole vivere e godere sorrisi di figli? Inde, dintorni. Soglie, anticamere, periferie, cortine giocosamente tentate ma non spezzate. E tante perifrasi. E la mia lingua, loquace e chiacchierina, che svolse ardue fatiche di filosofie illustri, dalla cattedra e dalla poltroncina delle lezioni domestiche, sviluppò, stasera, in un tempo già lontano, già distanziato dal “mitificare” mnestico, sontuose trine di epicuree trame. Di cui è prudente tacere il lessico diretto (visto che il tempio è fornito di lessici). E perché non credere alla verità del corpo, se tanta estasi può danzarsi in punta di linguaggio?
Divino dono, questo del linguaggio, e può parlare senza profferir motto, nel moto pendolare del suo scivolare e ritrarsi, premere e sganciarsi, aderire e non ferire. Grazia del Tempo, che accoglie mistiche ebbrezze e tutto scioglie nel fluido del suo passare. Noumenico o fenomenico che sia. Magic moment: che resterà del tuo vibrare nell’elettrica impotenza del segreto neuronico? Già rotolano i giorni sopra il calore del tuo rapire: quanta neve di oblio ci sarà, fra un anno, sopra questo fuoco di vissuto furtivo e stressante? E fra trenta o quaranta? Ma che pretese di “esistenza in vita”!
Intanto dura questo fremito d’ala, e per poco che sia, non sembra un nulla in transito privo d’ombra. E dura, tremendo, questo roveto, che ha spine di fiamma intorno a viscere contratte. Inevitabili riduzioni crono-metriche alla durata pattuita nel mio gomitolo cromosomico sembrano l’acquisto più puntuale delle mie chances aberranti. Ma tant’è. O “annali” di Afrodite, come picchiate sul mio cuore spossato. O “susine” delle Esperie che nutrite le mie attese! Perché nel roveto non si può trarsi fuori dalle spine di fiamma? Lento e sicuro scivola il Destino sulle vie del tempo. Forse i nostri amici dalla faccia gialla ci salveranno dalla vergogna, cuore mio trafitto di paure?
Ma anche questa simbolica sigaretta volge alla fine. E domani un altro giro di danza: che ci porterà il sole del nuovo giorno? Quali altre paure, quali altre speranze? Ed esorbitanze dehors du légal lit?
Anche tu, mese verde, sei andato. L’anno s’incurva verso estive responsabilità, dietro estivi rimpianti e cumuli di anni delusi. Possa tu scioglierti nel sonno riparatore, spirito mio malato di voluttà rapite e desideri spezzati. Nel fiume ànidro del sonno dai sogni brevi e fragili.
La lezione a Susy è durata due ore. Tra italiano e matematica. Con gli intercalati sopra allusi e codificati. Rina: un po’ nella cucina col piccolo, un po’ in casa degli amici dirimpettai. Forse sospetti e timori si vanno rasserenando.

Rileggendo la pagina con la citazione da Baudelaire, Lo spleen di Parigi, mi accorgo di avere sbadatamente attribuito a Thomas De Quincey I paradisi artificiali del poeta francese, invece che le Confessions of an English Opium-eater, fonte e motrice di quei “Paradisi”.


2 aprile, sera tarda.

Quivi sospiri pianti ed alti guai…Che drammi nella mia scuola. Sette in condotta? Allora, una bella crisi, e la formosa alunna di seconda depone il suo naturale colore, trema tutta, sviene. Chiamo la nostra dottoressa al telefono, e intanto affido la bella addormentata alla robusta signora Maria, insegnante di scienze. Ma non so ancora che c’è un altro caso, che mi tocca più da vicino, ed è Susanna, il suo pianto, la sua crisi. Non voleva quattro in fisica, né cinque in italiano scritto: come hanno potuto? Come hanno osato?! Incarico un’altra signora di consolare l’afflitta: la signora Minniti, la bella, giovane, elegante, paziente e diplomatica signora Irina, insegnante sexy di educazione fisica. Susy tiene duro, rifiuta perfino le gocce di coramina. Poi si lascia convincere. Poi le sto un po’ vicino, tento di calmarla, di indurla a pensare solo agli esami. Dove le cose andranno diversamente. Le raccomando, soprattutto, di non dire nulla in famiglia, di non suscitare allarmi inutili. O peggio: aizzanti (per il focoso genitore).
Macché: fa tutto il contrario. Rientrando in casa, si fa leggere in viso la malfrenata agitazione, rifiuta di mangiare, strilla, inveisce contro ignoti persecutori, se la piglia con chi, in casa, la contrasta. Poi smette di strillare, ma si chiude in un mutismo anche più irritante. Invano madre e padre tentano per un po’ di farla parlare, rivelare la sorgente del diluvio. Ma, com’è inevitabile, alla fine la verità salta fuori. Il padre s’impensierisce, già una volta lo ha messo nei guai. La sera, al cinema del fratello, dove lo vado a incontrare, mi consulta, chiede consigli: che deve fare? Venire a scuola, a parlare con questa signora d’italiano? E magari anche con l’insegnante di matematica e fisica?
“Se mia figlia non studia, e va bene: si prenda pure il voto di insufficienza. Ma forse la signora soffre di antipatia: se mia figlia studia ed è bersagliata ingiustamente io…” Faccio un macello. Ma non gli do il tempo di esplicitare il rumoroso intento.
“Calmatevi, vi prego. Non venite a scuola. Che cosa direste all’insegnante? Come fareste a dimostrare l’eventuale antipatia della signora e l’ingiustizia subita da Susanna? Parlerò io ai colleghi, me la vedo io, lasciate fare a me. Vi dirò, poi, com’è andata. Ma fin d’ora vi dico: state tranquillo.”
Questo il sunto riassunto del colloquio dilapidatore. Il resto, lasciamolo tacere. O lacererebbe questo foglio con i suoi fili di acciaio attorcigliati alle viscere. Che disastro questa Susy! Le avevo raccomandato di non raccontare nulla a casa, e lei spiattella tutto. E avvolge serpi ferrigne a strizzare le mie collane molecolari per tutta la lunghezza del corpo, dai piedi malfermi alla testa ronzante di tremiti dissonanti.

Stasera è venuta a trovarci. Anzi, dimenticavo, è venuta verso le cinque per accompagnare mia moglie a fare degli acquisti per il piccolo. Così ha avuto a disposizione un’altra consolatrice. E’ convinta di avere subito un’ingiustizia con quei quattro e cinque sull’innocente pagella, e dice che la “signora d’italiano” ce l’ha con lei per gelosia e invidia. Congettura tutt’altro che infondata: Susanna è bella, la signora assai meno. Diciamo pure non proprio bella. Pesante, poi, nei tratti del viso e nel corpo massiccio. Ma non si può escludere un’altra componente nell’irritazione di Susanna. Tipo: ma come osano negare qualche riguardo a Susy la bella, la più bella del reame? Donne e uomini che siano. Gli uomini, in particolare: non hanno palle? Quello stronzetto di matematica e fisica, come ha osato darle quattro? E omissis.
*
Giampiero ha fatto la recita stasera: un evento, e una forte emozione per me e il fratello di Rina. Ha recitato una poesiola in onore della madre superiora, che festeggia l’onomastico. Siamo nel teatrino del collegio, che è meno “ino” di quanto mi aspettassi. La capace sala è stracolma di genitori e parenti vari dei bambini coinvolti nella composita recita. Vedere il mio bambino con quel microfono in mano, sul palcoscenico, sentirlo scandire, chiare e marcate, le ingenue paroline accompagnate dal gesto innocente, mi ha rivoluzionato la biochimica fino al coktail di riso e lacrime. Non credevo che la potesse fare. Temevo la sua timidezza, paventavo un blocco e una crisi di pianto. Invece no, niente di tutto questo disastro. E’ stato graziosissimo. Quando è apparso sul palcoscenico, mi ha cercato con gli occhietti ansiosi, io l’ho salutato con la mano, lui ha risposto, sorridente e rassicurato. Poi gli hanno detto di spostarsi più al centro, e lui s’è mosso, reggendo il filo del microfono. E ha improvvisato una scenetta fuori programma. Ha visto sul tavolato del palcoscenico una bella rosa rossa, residuo non rimosso di una scena precedente, nella quale erano state protagoniste le rose, lui s’è abbassato a raccoglierla, dicendo, con vocina squillante e dizione perfetta: “C’è un fiore qui”. Una suora esce dalle quinte e gli si accosta sorridendo, Giampiero le porge la rosa, tutto contento (di aver messo ordine?). Poi avanza ancora un po’ verso il centro, e chiede, con quella stessa vocina sicura di sé: “Va bene qui?” In platea gran coro di risate affettuose: erano, soprattutto, le mie alunne, intenerite da tutta quella recita a soggetto. Ma non solo loro, per la verità: anche colleghi e colleghe, e mamme di altri bambini.
Al fuori programma è seguita la recita vera e prevista. Tutto liscio, memoria e dizione a posto. Finita la sua poesiola, il piccolo miracolato si gode una lunga ovazione. E non se ne viene fuori con un altro “improvviso”? Mi chiede, dal palco: “Papà, l’ho detta bene?” Per poco non mi metto a piangere di commozione. A stento riesco a dirgli che, sì, era stato in gamba. Mentre intorno fioccavano i “bravo, bravo” di alunne e altra gente del pubblico. Poi lui manifesta fretta di tornare a casa. Quasi a volere assicurarsi che io non lo lasciassi in quel posto, malgrado tutto, non assimilato. O forse aveva fretta di rivedere la mamma, garantirsi che non fosse scomparsa dalla sua vita, dal mondo sublunare, visto che non era presente a quella piccola serata “mondana”.
A casa abbiamo trovato Susanna. La quale, più calma ma ancora tesa, e soffrendo di dover nascondere una sofferenza immeritata, accoglie Giampiero con la solita facciata di sorrisi e paroline scherzose, ma con una riduzione di temperatura che forse non è sfuggita del tutto neppure al piccolo coccolato. Poco dopo si esce tutti e quattro, con la macchina di mio cognato. Nel paese Rina non trova nulla per il bambino, così si va a Buffalino, un paese vicino. Ma neanche qui si trova nulla, dopo avere visitato quattro negozi. Allora siamo andati a Siderato, dove mia moglie aveva un conticino da saldare con una negoziante fiduciosa. Io le ho lasciate in negozio col bambino, e sono andato a visitare l’amico libraio Mimì Croce, che ha avuto un incidente. Lo hanno investito con una macchina, mentre attraversava il corso da un marciapiede all’altro. Il solito giovane sconsiderato. Per fortuna niente di grave, ma solo qualche giorno a letto immobile e un’ingessatura alla gamba sinistra per frattura di caviglia. Sempre cuore in mano e ciacola fluviale, il caro Mimmo!
Al ritorno da Siderato, abbiamo accompagnato Susanna a casa sua, dove ci siamo fermati una mezz’oretta, in compagnia della madre e della sorella Rosina detta Rosy. Cicalando, si va a finire sull’argomento scuola-pagella di Susy, e mi tocca rassicurare anche la sorella sull’esito finale e l’ammissione agli esami. Dove poi tutto sarà diverso. Naturalmente, non mi stanco di raccomandare a Susanna di studiare, di cancellare “tutto il resto” dalla sua mente e concentrarsi sui prossimi obiettivi. Inutile ricordare che, quando faccio questa predica, quelle danze molecolari dentro i microcosmi citologici riprendono e accelerano. Più brevemente, si dovrebbe dire “sensi di colpa”, ma se un lettore interessato a questa cronaca leggesse sensi di colpa avrebbe diritto di chiedersi. Perché? Che c’entri tu, se lei non è una cima in fatto di applicazione eccetera?
Indi, a casa, noi tre. Per cenare e vedere, dagli amici dirimpettai, l’irrinunciabile “Studio Uno”, con i suoi valenti comici. Irrinunciabile per le donne, voglio dire: della mia e dell’altra casa amica. Ecco il nostro weekend. Le mie irregolari serate televisive preferiscono “Le inchieste del commissario Maigret”, un saltuario assaggio del “Giornalino di Gianburrasca”, con minore dispersione “Il Conte di Montecristo”: il primo per l’impareggiabile Gino Cervi (che oltre la bravura offre appigli per nostalgie adolescenziali con i suoi film storici del declinante ventennio); il secondo per l’indiavolata Rita Pavone (e un contorno di attori di tutto rispetto: da Arnoldo Foà a Bice Valori, a Elsa Merlini. La poco appetibile Lina Wertmữller, autrice dello spettacolo, ha fatto un terno al lotto). Il “Conte”, più che per la rispettabile, ma non eccelsa interpretazione di Andrea Giordana, mi attira per il romanzo sottostante e l’ambientazione storica.

Domenica, 3 aprile.

Mattinata uggiosa, nuvole e pioggerella. Resto a lungo in casa, Rina e il piccolo sono a messa con le amiche vicine. Faccio un buon bagno caldo ristoratore. Dopo colazione, me ne sto a leggere qualche libro. Per circa un'ora leggo Il pensiero dei primitivi, di Remo Cantoni, e per tutta la successiva, La filosofia di G. B. Vico, del Croce. Cantoni si legge con gusto, sia per la prosa che per le notizie e le idee; Croce più per lo stile fluido, che per la dottrina e l’interpretazione vichiana. Leggendo, ho avvertito un noto prurito neuronico; in parole, una spintarella (non oso dire e non uso la parola ispirazione) per un paio di articoli. Li scriverò mai? Sono in pectore scrittarelli che hanno avuto questa tale spinta tre o quattro o più anni fa, e non sono riusciti a marciare. Anzi, a farsi embrione.
*
Marciare: da dove m’è venuto fuori questo verbo? Mi ricorda Nicola Pende, il mistico fondatore dell’endocrinologia. Scrive Garin che l’illustrissimo andava a far lezione in orbace e chiudeva i congressi di filosofia gridando: “I filosofi devono marciare!” Pende. Un superbo esemplare di homo duplex: valido scienziato dentro i suoi laboratori, pessimo filosofo e deplorevole uomo. Detto altrimenti: una specie di ossimoro vivente. Scienziato e credente, cattolico e fascista. Un guazzabuglio. Quest’uomo ha scritto che basta un milligrammo di iodio in meno nel nostro organismo per ammalarsi di cretinismo mixidematoso, e mi viene a cianciare di anima e spirito. Peggio: dice che gli ormoni delle surrenali influenzano la volontà umana, per cui una carente produzione di quegli ormoni può ridurre la volontà a misera cosa; eppure ciancia di libero arbitrio, di responsabilità e colpa e peccato. Uomo di scienza a mezzo servizio, servitore di due padroni, ragionatore part-time: se parla di molecole e organi, fila; se gli proponete una sequenza logica elementare che tocchi la religione, si ferma e rinuncia. Tipo: se un uomo riceve pochi ormoni e nasce o diventa cretino, che fine fa l’anima, sede e titolare della ragione della volontà e di altro bene? Se uno nasce fornito di scarsa volontà per carenza genetica di sostanze chimiche preposte al fenomeno volontà, che colpa ne ha? Di tutto questo, e delle infinite sciagure che affliggono l’umanità, e delle mille violenze che gli uomini si praticano reciprocamente, in guerre e conflitti e liti a gogò, il primo responsabile non sarebbe il dio creatore che ha (avrebbe) fatto (creato: ex nihilo factum) questo bel mondo e questi campioni di mitezza che sono gli uomini? Non sarebbe quel supersadico ipermegagalattico forse già evocato in questi diari, un ipotetico Creatore responsabile di tanto bene? No, non lo sarebbe, e non si deve parlare di questo: qui si ferma la ragione, tanto vantata come segno distintivo di homo sapiens, qui si arena la disciplina intellettuale che costruisce la scienza, qui si ferma la decenza che fa l’uomo. Il quale può anche essere un valido scienziato, senza essere propriamente un “uomo”.
Ma attenzione: valido per la porzione che si può estrarre da quel guazzabuglio di idee, mezze idee, intuizioni utili e fantasie metafisiche che pretende proporsi come concezione “olistica” dell’uomo, nella sua normalità fisiologica e nelle deviazioni patologiche. In questo ircocervo pretenzioso l’anima della teo-metafisica, lungi dall’essere dissolta e spedita nell’iperuranio dei sogni maldestri, viene promossa e celebrata come realissimo fattore unificante della complessità organica. Il suo “Trattato di Patologia Medica Sintetica” di don Nicola in orbace contiene affermazioni degne della medievali Scholae tomiste, anzi agostinian-tomiste. Eccone un campione incredibile: “L’anima e teologicamente e filosoficamente e medicalmente permea di sé, in unità vitale indissolubile, come vogliono S.Agostino e S. Tommaso, tutta la materia corporea, essa è per noi la sintesi di tutte le energie di tutti gli organi viventi, e questa sintesi è possibile in virtù delle correlazioni esistenti fra tutti gli elementi corporei, e per il dare ed il ricevere stimoli che avviene tra essi ad opera del Sistema Nervoso”.
Per buona sorte esiste un ben diverso “olismo clinico”, che, lungi dal tirare in ballo l’anima semplicetta della tradizione metafisico-religiosa, raccomanda solamente di guardare l’organo malato nel contesto dell’intero organismo e delle correlazioni anatomo-funzionali tra le sue parti. Un’istanza salutare contro la parcellizzazione in auge nel campo medico. Salutare, purché non se ne esageri le implicazioni, cadendo in un diverso, ma altrettanto rischioso dilettantismo.
Il Pende, poi, vanta altri “meriti”: per esempio, l’avere insultato il grande Ippocrate, fondando, insieme ad altri scienziati part-time, la mirabile “Medicina italica correlazionistica, unitaria” e battezzandola col secondo appellativo di “Neo-Ippocratica” Ma quello che fece più scalpore fu il “merito” di essere fra i firmatari del truce e scientificamente ridicolo “Manifesto della razza”. Naturalmente, i suoi devoti (ce ne sono ancora, e anche troppi) negano che abbia firmato quel documento dell’infamia nazional-fascista; ma non osano negare l’innegabile, cioè che il nome di pende figurava fra i promotori del Manifesto.

Pende mi ricorda un altro campione di fede commista a scienza, di contradictio in adjecto: Enrico Medi, fisico di fama e/ma cattolico più convinto del dogma e delle sue implicanze che delle leggi del cosmo. Creatura dei Gesuiti (diploma nel loro Istituto Massimo) fu primo presidente della “Lega Missionaria Studenti”, nonché pupillo politico di Santa Madre Chiesa, deputato alla Costituente e onorevole della prima legislatura Una volta, durante un suo comizio, nella piazza centrale di Realpolia, gioello barocco di chiese e palazzo comunale, all’epoca dello scontro frontale fra il “mondo libero” e la “barbarie” comunista, come dire tra due supposte civiltà contrarie, insomma verso la fine degli anni Quaranta o l’inizio dei Cinquanta, ebbe a dire che il credente subordina lo scienziato; che se le gerarchie ecclesiastiche gli imponessero di sostenere che il sole gira intorno alla terra, il suo dovere di credente sarebbe quello di ubbidire e tacere. E lui, fiero di tanto ardire, lui, “cavaliere della fede”, ignaramente librato fra Hegel e Kierkegaard, non avrebbe esitato un attimo, diceva, a ubbidir tacendo. Con buona pace della Scienza e della signora Ragione. Uno Zichichi pioniere, insomma. E come costui, Medi ebbe alte cariche in campo fisico: fu direttore dell’Istituto Nazionale di Geofisica e nel 1958 fu eletto vicepresidente dell’Euratom. Le biografie non tralasciano di farci sapere che “il 21 luglio 1969 fece il commento agli italiani dello sbarco sulla Luna”.
Questi esemplari di fauna antropica dimostrano l’estro umoristico di madre natura: inesauribile artista, sadica midollare, statua leopardiana di indifferenza assoluta; e anche burlona. Questi ricordi sono vecchi di un quindicennio. E’ bastata una parola a richiamarli, vivi di attualità proustiana. Con un supplemento di maraviglia generata dagli anni: penso che si era all’indomani della seconda guerra mondiale, del più grande orrido e variamente sconcio macello di vite umane di tutta la storia; cioè della dimostrazione più severa dell’assenza del dio mitico, protettore almeno dell’infanzia, e quella gente continuava a credere, e sperare e sognare: contro ogni evidenza dignità e decenza. Anzi, più di prima: cinquanta milioni di malmorti e diecine di milioni di mutilati non solo non sono bastati a spegnere le care illusioni, ma le hanno potenziate rinvigorendo la potenza delle varie chiese e di quella cattolico-vaticana più delle altre. Fino a infeudare, di fatto, attraverso un partito e malgrado un’opposizione social-comunista ben organizzata, il sedicente Stato laico democratico e repubblicano.
Mi viene in mente un’altra correlazione. Se scienziati così in vista sparano quelle scempiaggini colossali a difesa maldestra della fede, non vuol dire, tutto ciò, che la parola d’ordine del moderatismo benestante e miliardario, di qua e di là dell’Atlantico, dal bianco Santo Padre alla Casa Bianca, la priorità assoluta è: sbarrare la strada alla Russia, fermare il comunismo interno? Anzi, il comunismo planetario, minaccioso non solo per la fede, ma anche, e soprattutto, per la cara proprietà privata e libertà di arricchirsi. Insomma, Mammona über alles.
Ultimo pensierino: se al signor Medi le Gerarchie avessero ordinato di gasare e infornare gli ebrei, lui avrebbe ubbidito? E un sospetto atroce mi vellica l’esofago: temo di sì, temo che un soggetto di quel tipo sarebbe stato capace di ubbidire anche a un tale ordine. Ancora. Prescindendo dal referente di fede, che sia la santità papale e il correlato dio o la diabolicità di un Hitler e il contesto nazista, la condizione interiore di un Medi e di Goebbels, di un Pende e di un capetto responsabile di un lager con gas e forni non è la stessa? E allora con quale coerenza e faccia di bronzo si inorridisce di questa e si ammira quella? Si respinge ad inferos il funzionario tedesco (o uno Speer) che confessi la sua fede nazista con cruda sincerità e si esalta l’ubbidienza cattolica a qualunque sentenza papale ostile alla civiltà laicizzante (cioè, all’unica, se non vera, rispettabile e appetibile: vale a dire, con prezzi di sofferenza ridotti al possibile).
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Ma che c’entra questa fauna illustre e questa problematica politico-religiosaa con la mia domenica anemica e palliduccia? La meccanica dell’associazione: come può farci divagare! La mia domenica povera mi fa registrare, a margine delle letture di estro e mirate, la replica della recita dei bambini davanti al pubblico dei genitori. Stasera fra il pubblico c’era anche mio cognato, che ha voluto raccogliere vendetta contro la sua timidezza infantile. Giampiero ha esitato e perfino pianto prima di staccarsi da noi. Temeva che ce ne andassimo, che lo lasciassimo solo tra le mille teste occhiute del mostro Folla. E voleva assicurarsi che la recita potesse farla per noi due. Lo abbiamo tenuto con noi durante alcune scenette recitate da altri bambini. Poi, spontaneamente, è sceso dalle mie ginocchia ed è andato sul palcoscenico direttamente dalla sala, rifiutando ogni accompagnatrice. Da solo, dunque, e senza aiuti, ha salito la scaletta e s’è fermato davanti al sipario abbassato, suonando con la sua vocina musicale un tenerissimo “permesso?”. Si sono sentite di nuovo calde risa di tenera approvazione tra sala e quinte, e subito il bambino è stato risucchiato dalle mani amorose della suora maestra. Pochi secondi dopo è riapparso col microfono in mano, delizioso e commovente. Lo zio mi diceva che il cuore gli batteva forte, come se dovesse farla lui la recita. Anche il mio batteva, malgrado il rassicurante precedente di ieri sera. Ci si immedesima totalmente. Gianpiero non ha deluso: la sua vocina ha scandito chiara e gradevole le parole dei pochi versi, guadagnandosi il secondo largo applauso della sala. Rientrato tra le quinte, da dietro il sipario ha gridato al microfono: “Papà, l’ho detta bene?”. E giù, di nuovo, un divertito scroscio di risa complici per tutta la sala, a coprire la mia umida risposta di approvazione all’appagato attoruccio “liberato”. Il quale, ormai sgravato dal peso dell’esposizione sociale, e smanioso di rifugiarsi nel nido caldo degli affetti esclusivi, fece di corsa le tavole del palcoscenico e della scaletta e venne tra noi. Lo zio lo prese sulle sue ginocchia, riassorbendo una lacrimuccia lucente. Questi sciupafemmine! Sanno anche essere dei morbidi teneroni con la tenera carne degli amori casti.
*
Rina non aveva partecipato alla festicciuola: temeva il confronto del suo modesto abbigliamento con l’eleganza prevedibile, anzi garantita, del pubblico femminile: una folla di mamme e mogli della prevalente, vanesia, esibizionista borghesia impiegatizia del paese supercattolico, vescovile, bancario. E mafioso. Ci aspettava a letto, sola in casa. Ma prima di rincasare, ho portato un po’ in giro Giampiero con la macchina del cognato. Il collega di italiano, e amico e compagno, padre di uno dei ragazzini, che aveva recitato nel ruolo di un rosso diavoletto debitamente cornuto e caudato, mi chiede di accompagnarlo a Siderato, per ascoltare un comizio del capogruppo comunista alla Camera. Così siamo andati a finire nel paesone vicino, fra compagni, colleghi e amici. Un amico, soprattutto, ha interessato Giampiero: il mio ex alunno di lezioni private Beppe Comasso, che il piccolo chiama “Pepè del bar”. Lo incontra, infatti, quasi sempre nel bar di famiglia. E lì mi ha “portato” il furbacchioncello. Beppe era presente anche stavolta, e gli ha fatto la solita festa di accoglienze. Festa, peraltro, o fortunatamente per il piccolo, parca di parole e folta di doni: stasera, il frugoletto (divento lezioso, lo so, ma qui siamo tra le mura di casa) ci ha guadagnato un bell’uovo di Pasqua e altre leccornie. Hoc erat in votis! Abbiamo appreso, nell’occasione, che Beppe s’è fidanzato. La fortunata è figlia di un vecchio comunista militante, addirittura, dicono, il fondatore del Partito a Siderato, paese da sempre “sinistro” e in rotta di campanile col clerico-borghese Zefiria. E’ una bella ragazza, diplomata ragioniera e di formosa presenza. Auguri, che più sinceri non potrebbero essere.
*
Il rientro a casa mi riserva una sorpresa: mia moglie triste, e poco dopo in lacrime. A stento riesce a congratularsi col bambino, poi si scioglie. E sia pure col pudore che le compete geneticamente. Lacrime silenziose, dunque, da nascondere al bambino. Che però qualcosa di storto avverte. Lo distraiamo con giocattoli e promesse, e io tento di venire a capo del mistero. Ma i miei tentativi di farla parlare scivolano senza presa sopra la sua marmorea resistenza bagnata. Ma che cos’hai, che cosa è successo? Niente. Come niente? Piangi, e dici niente? Andiamo, parla! Su, fai uno sforzo. Niente. La risposta, uguale e blindata in cupa difesa, mi agitava in crescendo. Fino a un vero allarme a pieno giro d’orizzonte. Dove, in qualche punto, stagnavano paure laceranti di scandali possibili. Niente. Che sarà accaduto di così grave? Dietro quel niente pesante come piombo la paura disegnava scenari lugubri. La invito a uscire. Esita, tace. Insisto, resiste. E la mia paura si fa angoscia verace. Per poco non mi tradisco con qualche improvvido anticipo congetturale, con nomi e ipotesi di circostanza. Ma finalmente cede, si lascia convincere, almeno, a uscire. Facciamo un giro per il paese domenicale, con gente sul corso e tante luci, poi le propongo di andare a trovare Susanna, che è facile immaginare in casa con una o due sorelle, mentre il resto sarà fuori.
Acconsente. Era come previsto: Susy è in casa; a farle compagnia, Tina, Rosina e, saltuariamente, come quel folletto inquieto che è, Giacomino, il quale esce e rientra a piacer suo. Si sta un poco a chiacchierare. Quindi la sorella Rosina propone di ascoltare qualche disco. Cambiamo stanza, e ascoltiamo i dischi, gli ultimi successi sanremesi, e i soliti ballabili. Facciamo anche qualche ballo, e così la mia angoscia e la tristezza di mia moglie stemperano in più sopportabili umori. Io mi alterno con le dame disponibili, regalando al corpo, sempre indipendente nei moti protervi delle sue oscurità, qualche spintarella umoral-muscolare introversa. Si focalizzi, soprattutto, l’introversa.
Più tardi vengo a sapere il contenuto del mistero elegiaco: Rina era triste perché s’era sentita abbandonata dagli amici dirimpettai, e nuovi parenti acquisiti del fratello. Erano usciti senza invitarla! Uh, che sconquasso! E mi ti rabbui per così poco? Ammesso si sia trattato di malagrazia, e non di semplice ignoranza (sei sicura sapessero che eri sola in casa?); o al più noncuranza senza malizia; o magari solo discrezione (non sei tu che vai da loro?), che t’importa di queste bazzecole? Lasciali uscire fra loro, noi abbiamo altri amici, un altro giro indipendente da questo. E sappiamo anche stare fra noi, no?

Che gran salti faccio. Torno indietro. Susy, in casa, stava in pantaloni neri. E si è “spaventata” (col caratteristico tapparsi la bocca con il palmo della mano destra, a sua sbilenca protezione) nel vedersi colta in quella mise. Perché? Teme di apparire stravagante, sfacciata? O ha piuttosto paura che la sua “piccolezza” venga esaltata dai pantaloni, mentre le gonne, e le vesti, in genere la coprono meglio? Sciocchezze. Del resto, il suo charme è prevalentemente nel viso, decisamente bello, come Rina riconosce senza riserve. Né il suo corpicino efebico, snello e longilineo, sfigura sotto quel volto perfetto: ha pure la sua grazia ed eleganza plastica. Il fatto, poi, che non svegli desideri troppo carnali è piuttosto un vantaggio per lei, che un handicap. Vederla danzare, magari da sola, questi balli moderni è sempre una gioia per gli occhi. E un sottile piacere per lo…spirito. Peccato che l’intrusivo lampeggiare della scuola arcigna sopra l’attualità evasiva guasti un po’ quel piacere pensoso. Non studia abbastanza, Susy. Né come quantità di ore né come intensità concentrata e non distratta. Ho una gran paura che mi faccia fare brutta figura agli esami. Che mi devo godere io, quale designato rappresentante di classe.
Ho ballato molto con Rina, stasera, e pochi giri ho fatto con Susy e sorella. Il compenso è stata la gioia di vederla rasserenarsi. Siamo tornati a casa abbastanza restituiti alla normalità quotidiana. E Rina conversava col piccolo, sulla recita e i regali di Beppe e altre cose.

Post scriptum. Trentacinque anni dopo. Si sente un non sconosciuto odore di maschera rassicurante ad usum delphiRinae in certa prudenza descrittiva de Susanneo corpore.

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