venerdì 3 aprile 2009

Susanna frammento 20


1 marzo, ore 19.30

Su, su, qualcosa ormai devi buttarci. Sei venuto qui, mazzo malfermo di brandelli scombinati appena costretti nel perimetro fisico di un corpo astenico; hai destato questa provocazione bianca rigata d’ironia, chiamata quaderno, la quale era rimasta in letargo per quasi un mese, e forse sperava di non essere più disturbata (o masturbata): ora parla. Confessati, sfogati, vomita.
Diremo dei nuovi fastidi gastro-enterici e neurovegetativi?
O del nuovo sgomento che mi possiede?
Ma sì, diamo corso al lamento, voce dello sgomento. Ohimè: chi può lamentarsi della vita? Non c’è minuto nelle ventiquattro ore che non abbia il suo duro pungiglione pronto a trafiggere. A trentaquattro anni mi pare sia proprio il caso di procedere a non ardui bilanci. Non ardui, dico, per l’evidenza della materia: un fascio zampillante di promesse mancate, un morbido bouquet di ambizioni consumate nell’oscenità dell’immaginazione pura: cioè sganciata dalla realtà spinosa, ripiegata su se stessa, in se stessa, nel giro infecondo dell’intérieur ruminante.
Allora, come resisto? Vedi, spero ancora, o piuttosto mi illudo di credere, nell’Occasione. L’attendo da lustri, la inseguo da anni, anno dopo anno. Lei, essa, la Cosa, la Forza magica che mi strappi all’inerzia ricorrente, alla maledizione del ciclico scoramento, delle ricadute recidivanti. Che annienti, per sempre, la malvagità dell’astenia cromosomica. Continuo a sbagliare direzione, certo: ma che monta? E’ la mia vigliacchietta ragione di vita. Non so come, quando, quale sarebbe, ma l’attendo. Sarò famoso!
Capisci, quaderno delle mie varie impotenze? Sarò celebre, sarò famoso. Me lo ripeto come il bambino, nel buio, si recita: non c’è l’orco. Va tutto bene!
A volte, rileggendo vecchie pagine, quella promessa trilla di certezze frenetiche. Ma è bello – mi dico – ma vale proprio la pena di riprendere, sviluppare. Avrò il mio libro: la storia diaristica della mia inutile vita sarà la giustificazione del mio ingombro mondano: giustificazione letteraria, ma anche morale ed esistenziale. Riscatterò l’inutile, cancellerò l’orribile aggettivo dalla mia vita.
Già: ho bisogno di giustificazione. Invano quel corpo lento mi dimostra che si può vivere vegetando, o appena su di lì: io ho bisogno di ragioni, di nobili intenzioni, di esiti superiori. Ho bisogno di parole scritte, pubblicate, commentate. Ho bisogno dell’opera redentrice. Magari di trasformare, se non il fango di Parigi, il mio, privatissimo e personale, in oro: oro di poesia, di buona letteratura, di pensiero. Ma non così dimessamente, non con la presente modestia quantitativa di gloria poco più che paesana: voglio la gloria vera, grande, internazionale.. In una parola (oscena?), voglio l’impossibile. Ma è stato detto: “anima mia, esaurisci prima il campo del possibile”: da un Francese all’altro, da Baudelaire a Camus. Ma un altro ha detto: osa l’impossibile! al possibile bastano i mediocri.

Poi un folletto sagace mi ronza dentro le orecchie: che cavolate ti racconti? Giustificare, redimere, nobilitare. L’opera il libro il molteplice testo che inchiodi la gloria al tuo capo insidiato dalla calvizie. Ma dì piuttosto che hai questi pruriti ritmici e vuoi dargli corso. Purtroppo, mancano di continuità, i tuoi pruriti. Mancano di costanza, tenacia e, forse e soprattutto, di fiducia in te stesso. La bella calda spudorata fiducia dei semicoscienti. Non sono buoni a realizzare un’opera, forse non ci credono abbastanza, i tuoi pruriti. Ed ecco che agisci in modo che l’Occasione si allontani, un poco alla volta.
Sarò famoso! Intanto mi sa che sei soltanto fumoso.

Qual è l’interesse supremo della tua esistenza? Ecco una domandina semplice e sarcastica. La letteratura, mi dico. E subito dopo l’amore, il sesso, la dispersione affettiva mi fanno eco con allegra derisione. L’amore, allora – rettifico. Ed ecco che il prurito delle lettere, della scrittura, della parola pensante mi formicola nella testa. Né il pendolo si arresta. La paternità, il destino, il futuro di mio figlio. Come se dipendesse da me: soltanto da me, o prevalentemente. E poi, vogliamo un altro pargolo, fra qualche anno: una bella femminuccia. Possibilmente, a genoma normanno, del ramo nonno paterno. Con grandi occhi verdi pieni di sentimento. Gli occhi dello zio Marcello (ma calmi, non sensuali e scintillanti come i suoi). O del paterno nonno: azzurrissimi, questi, verdi, proprio verdi quelli: del vagabondo che piace alle donne.
“Io non sono che letteratura” – gridava l’infelice Franz di cognome Kafka. – “E tutto il resto mi annoia e mi affligge: famiglia, lavoro, parentela…”. Io (questo piccolo io che qui si gratta grattando i fogli) non sono tutto, e soltanto, letteratura. Né invidio il destino dei Kafka del mondo: vivere una vita strozzata per diventare celebre a mezzo della sofferenza, materia grezza dell’alchimia letteraria. Non mi sento sì nobile vocazione.. Non fino a questo punto, non fino al martirio. Ma una vena, un aspetto non secondario di questa fisiologia mi costituisce. Posso dire (o ridire, chissà per quale ennesima volta) che le mie esperienze (tutte, ma quelle in particolare) hanno, se non un’unica origine, una sola ragion d’essere: diventare racconto. Sia pure una pagina di diario. Insomma, trovano compiutezza nella conversione in opera d’inchiostro. E’ dalla tenera età di anni sedici che tengo quasi ininterrottamente un
diario. E resistono ancora ai tarli vecchi quaderni dalla copertina nera scritti, in tutte le pagine, con l’alfabeto morse! Incredibile? Mica tanto: che altro poteva escogitare un ragazzetto a protezione dalle eventuali incursioni paterne (non sia mai, mettesse il naso, quel genitore curioso, nelle mie prime gioie e pene d’amore perdute). Dico paterne perché soltanto mio padre, ai miei sedici anni, aveva l’uzzolo di leggere: il giornale, innanzitutto, ma anche libri e riviste varie che gli capitassero a tiro. Dev’essere da quei lombi che mi viene questa passioncella. Che lui, però, ha tradito, smobilitando, dopo avere brillantemente saltato una classe, in seguito a dolorosi reumatismi che lo costrinsero alla reclusione domestica per lunghi mesi.
E’ così, io dico seguitando: vivo le mie esperienze per poterle narrare, convertirle in parola scritta. Si manifesta un destino, in questa attitudine e tentazione. Ma ciò non toglie che ci sia del patologico. Quanto? difficile misura, cotesta. Tutta questa enfatizzazione della parola, non è un succedaneo degradato del Verbo che presiede alla Creazione, un residuo religioso, forse maldestramente sconsacrato e laicizzato? E non è abbastanza ridicolo, questo surrogato del culto dissolto? Ma se non diventa un qualche culto, e fede, questa attitudine verbale e ritmica non è abbastanza forte da produrre effetti consistenti, prodotti da cui attendersi soddisfazione mondana. Pare proprio che il sapientone al quadrato, l’uomo dico, non possa fare a meno degli idoli: smette un culto, se ne fabbrica un altro. I più lardosi e intraprendenti ne hanno anche più di uno, e a prevalere su tutti è il solito, anzi solido, Mammona.

Qui il discorso si complica. Non è solo alibi della mia modestia ricordare che certa schiettezza non aiuta nelle relazioni produttive, non favorisce le amicizie che mondanamente pesano. Né la masochistica timidezza, che sostituisce la ritrosia all’intraprendenza. Strana algolagnia, peraltro, se capovolge in sofferenza reale la fuga dalla sofferenza virtuale implicita, secondo logica nucleare, nell’intraprendenza. Quel poco che ho fatto finora, e continuo a fare (collaborazioni giornalistiche e simili) è frutto, in gran parte, di amicizie e spinte interessate di casuali conoscenze con entrature. Mancando le quali, sarei rimasto ai diari: una sorta di masturbazione mentale. Ma su questi binari non si può che rimanere in provincia, lontano dai palcoscenici nazionali. Ed extra..
Non meno vero che senza supporti e spinte di massima autorevolezza non si può, da noi, raggiungere il massimo della notorietà: io non ne ho a portata di mente. Per la carriera universitaria cominciavo a sperare in Giovanni Maria Bertin, allievo, sì, del boss milanese Antonio Banfi (esponente di un tortuoso razionalismo laico, qualificato problematicismo), ma anche persona di varia e larga cultura e capacità di autonomia. E’ andato via appena è riuscito ad agguantare una cattedra di teoretica a Bologna. E con lui sono volati i miei sogni. Fino alla diserzione dall’esame per assistente ordinario propiziato dal titolare di filosofia teoretica: troppo estraneo al mio residuo etico l’inganno che avrei dovuto consumare col professore Lastrada, doppiamente barone ipercattolico. Collaboratore di Gulizza? nessuna speranza di carriera accademica. Vittima delle congiure castali, è stato, lui stesso, bloccato alla libera docenza consolata dai ricordati incarichi annuali del tutto precari. Libera professione di scrittore? Magnifico: ma troppo lontano dalle mie unghie corte. Al diavolo. Mi affiderò ai posteri? L’amico Giacomo di Recanati mi suggerisce di rileggere la sua operetta morale, Parini, o della gloria. O l’ Epistola al conte Carlo Pepoli.
*
Vita interessante, oh sì. Malgrado tutto. Il volto del divino succedaneo mi sorride con occhi luminosi, succhianti. Màcchino convergenze difficili, agguanto le ragioni profonde della realtà ben al di fuori dalla letteratura, ben al di là (al di qua?) della filosofica odissea. M’incombe, due, tre volte in un mese (talora di più) il dovere raro di essere felice. E di gridarlo nel deserto del mondo, sotto la volta stellata (niente allarmi, quaderno, è solo metafora per cieli interni).
Ah, delizia della scoperta metafisica attraverso l’ordine fisico: allorché lungo i sentieri della fenomenicità restituita all’innocenza della physis succhio la verità antica della citologia fremente, aspiro il mistero dell’essere, mastico il verbo che si fa carne, e dimora fra gli uomini (e le donne), e parzialmente si concede, nei segreti odorosi delle agevoli tessiture, e nei penetranti perché spinti a pulsare, attenti e pazienti, da caldo sangue irriguo e inturgidente.

Ecco, ecco la mia ragione, signori imponenti (impotenti?) della Ragione. Ecco i miei esercizi spirituali, o pontefici ed officianti dello Spirito (sempre) santo. L’abdicazione del Pensiero pensante doveva, no?, riempire il vuoto di più mistiche occlusioni carnali. In interiore domo, ed extra moenia. Con l’Innominata filosofica si tratta sempre di chances controllate. Cioè, frenate, strozzate, mutilate. Scritture mozze, incompiute. Dolorosamente e gaudiosamente. Con variabilità tensiva da un polo all’altro. Certe volte il freno concettuale stride di strazi ingorgati. Né compensa, l’esito non solido pur sempre (spesso) garantito, quella mutilazione pragmatica, quell’assurda assenza ontica. Interruptus...

2 marzo

Con tutto il rispetto, tavole dei (santi) valori. E competenti propalatori. Per uno stipendio mensile di centocinquantamila lire come potreste pretendere un servizio più servizievole, santissimi Ideali della Scuola, della Civiltà, della Patria, della Religione, della Libertà, della Democrazia, dell’Umanità, della Cultura, insomma dello Spirito (santo)?
Perciò lasciatemi vagabondare per i sentieri di campagna dell’anima che divaga si slarga si esplora nella riscoperta complessità del corpo. Novello, e minimale, Atteone, il moi spirito contempla Diana nuda, e si scopre natura: ma questo devo averlo già scritto, mi suona troppo fresco, di familiarità abusata. Basta, allora. Cancello? Non ne vale la pena: neanche volta al maschile. E’ anch’essa un indizio della tendenza inerziale che mi insidia. Un campanello d’allarme contro le ripetizioni frequenti e ricorrenti. Vitandae al possibile.
Tanta solerzia profanatrice è solo esercizio di alta coerenza. Il mio mondo? Un prato verde, ombroso di boschi a sua larga corona, sonoro di uccelli e ruscelli, con ninfe e satiri in libertà di copula. E, sopra, in un impossibile cielo partecipe, il supremo potere inflessibile di mettere a tacere gli intolleranti, i violenti, i fraudolenti (a cominciare dai maiuscolari del sacro e della rinuncia fasulla). Inflessibile nella burla smascheratrice, nell’ironia che sveste, frustrante e vendicatrice. Ah, preti pedofili, assassini di anime, che osate predicare la castità. E turbate perfino gli innocenti in ginocchio di trepidazione confessionale: con domande insinuanti, con inquisizioni minaccianti inferni e purgatori degni di sanguinosi delitti. Ai miei tempi era così. Oggi non va meglio, temo.
Che c’entra tutto questo con te, propellente segreto e insidiato della mia tortuosa corsa nel tempo dei giorni puntuali? C’entra: è il tuo, il nostro alibi.
Intanto, la bufera addensa i suoi neri montoni per spaventare lo “spirito” sbalordito da tanta puntualità. Ancora una cornata, e i neri montoni avrebbero bucato il muro della domestica quiete. L’autore della Cosa sulle tracce del fellone, sparato dal tallone del Caso.
Caso o vecchio Ananke? La faccenda mi puzza. Dopotutto, non c’è stata epopea nella mia mediocre odissea che non abbia avuto, prima o poi, la carezza ruvida del torvo divino Burlone. La china scivolosa degli anni mi propone esempi luminosi. La carezza d’acciaio è una costante dell’avventurosa traiettoria.
Io rispondo fumando. Mi fa tanto male che mi rende euforico. Sigarette, proibite; indi, fumare oportet. Che brividi. Il molteplice convergere degli “interventi”, d’un’abbagliata eloquenza, mi hanno comunicato l’antica devastazione della mente. A momenti mi veniva la diarrea. Forse, pensai  con pensieri di brace  cala il sipario? La domanda è sospesa. Parve, nell’immediata successione delle ore e dei giorni, che la recita dovesse continuare. Pare, ancora, che duri. Quo usque? Thanatos, vecchio marpione, ti preferisco, sai, a quello scempio. Se Qualcosa può captare il mio appello, vi prego, Dèi dei miei testicoli stanchi: meglio, mille volte meglio la vecchia baldracca. Mio figlio? Dimenticherebbe. E’ il privilegio dei piccoli. La mia metà? Si salverà, nessun dubbio. Forse perfino si reintegrerebbe. Magari più acconciamente. E’ così facile.

Ah, avventurata sorte dell’esploratore pavido: sei sulla soglia, protendi il capo nel vortice, spiani e schiudi, con sapienza digitale, tanto varco, tanta bramosia di introduzione calettante, avanzi di qualche brivido. E ti ritiri. Come puoi? Ma ti ritiri, ti ritrai, inverti il senso dell’andare dell’invicolare dello scivolare. Pauroso scandagliatore, chiedi poi al tuo dolore, al tuo discreto indolenzimento locale (borsale) la conferma dolcissima della tua autenticità iniziatoria.
Autenticità? Un’autenticità interrotta può essere autentica? E il termine di tanta pavidità, il telos vibrante di siffatte economie di sangue può, pensi che possa, accettare, giustificare, ammettere così vile reticenza? Oh, povero, pavido esploratore dei misteri dell’essere. Perché non osi se la voce dell’essere ti chiama, ti provoca, ti brama? Non temi venga tradotta e scritta vigliaccheria la tua calcolante generosità prudenziale?
Hai maculato il lino candido dell’audacia bellissima col rosso autografo della sua integrità ontica. Hai paura? Tanta quaderno. Quanta ne può dare l’idea dello sfacelo, del figlio orfano, della madre inconsolabile.
Ma la voce chiama. Quanto durerà dunque la mia prudenza, la mia rinuncia? O la mia esistenza, in questa penitenziale strozzatura del santo pasto?
Sono davvero malato? O si tratta di uno scherzo degli Oscuri? Quante analisi, radiografie, elettrocardiogrammi. Quanti inutili tributi di tempo alla oscura signora inappellabile, la Paura!

E ora non stare a chiedermi esplicitezze ed explicationes, quaderno complice e vittima: lo sai che non si può, che non si deve. Stanotte, prima di prendere sonno, mi ripasserò la sequenza sismica qui sottesa. Risento già i brividi. Ma a te non posso dare di più. Caso mai, a lei, la legittima integrazione talamica. Il risveglio mnestico avverrà pur sempre dentro la logica molecolare, e le spremute ormonali farebbero ressa dentro vasi sanguigni e neuroni per una replica di erogazione in gaudium.. Sarà quel che sarà. Magari la stanchezza prevarrà. E forse meglio sarà. Insomma, I ran the risk of beeng catched in clear sinwithher...because of an unexspected spot.


3 marzo, ore 21, 45

La giornata. Due ore di lezione in quarta e due in terza. Ho tenuto il broncio alla terza. Perché? Perché sono geloso del collega di scienze, al quale le fermentose fanciulle mostrano calda simpatia. Il mio trono, dunque, vacilla? Miseria della vanità. Invecchio, insomma. E che brutta cosa, che cosa mostruosa un bambino vecchio. Pasolini si definisce “feto adulto”, io mi accontento di “lattante cresciuto”.
Già, il miracolo: ho, nientemeno, finito, alla meno peggio, sotto l’obbligo delle cinque cartelle, l’articolo su Pasolini “profeta del corpo”. Che miracoli meschini mi toccano! Tanto più che c’è sempre, in me, nella mia zona più viscerale, quella insofferenza per gli omosessuali. No, non approvo discriminazioni e intolleranza persecutoria (ci mancherebbe); ma il loro “uscire allo scoperto” comincia a farsi troppo scoperto. Sfiora l’arroganza esibizionistica. Manca poco che si ritengano dei privilegiati della Grande Baldracca, o Natura leopardiana che sia: matrigna sadica e capricciosa burlona. Mi costringono a una certa ipocrisia: in pubblico, massima tolleranza e difesa dei loro diritti civili; in interiore homine questa riluttanza invincibile. Ci fosse almeno un pregiudizio religioso! Non posso farci nulla: la visione di una loro copula, fossi al colmo dell’eccitazione normale, mi ammoscia (è capitato con certi spettacoli
filmici assaggiati per scrupolo informaivo). Perfino con preconati di inversione peristaltica. Ecco, l’ho detto. Diamine, almeno fra noi, caro diario, diciamoci la verità. Del tutto fisiologica.
E peggio per te se domani, diventato pubblico racconto, scatenassi l’ira vendicativa delle nascenti lobbies omocratiche. Ma in fondo, scusatemi, cari gay, anch’io sono vittima dell’“antica natura onnipossente / che mi fece all’affanno” (compreso quello orgasmico): non vi basta che io sia contro ogni discriminazione? Mica sono un ayatollah che voglia la vostra lapidazione. Se al cuore non si comanda, figurarsi al corpo. Se poi siete artisti validi, tanto di cappello: giusto il caso di Pasolini. Non direi altrettanto di un certo Busi.

Lo stesso collega di cui sopra, poi, mi ha procurato una più puntuale amarezza. Il mio Sole fa qualche ombra per volgersi a lui. Eppure, solo ieri sera brillava di radiosa conferma. Ed è cosa bellissima, un sole di sera. Ho bisogno di fosforo e vitamine. Mobilisation oblige. Capìta l’antifona, diario? Va bene, va bene, pas d’offense, excusezmoi! Lo so che capisci tutti i miei nondetti, lo so.
*
Giampiero si abitua all’asilo? Che cuore gonfio, ogni volta, al distacco. E lacrime senza freni. Oggi ha pianto di nuovo. Erano le 12, 15, non ero ancora andato a prenderlo, era rimasto solo, essendo, gli altri bambini, andati a pranzo. Avrà temuto che l’avessi dimenticato. La suora me lo portava quando sono andato a prelevarlo. Mi ha detto che aveva visto chiusa la porta della mia aula e aveva creduto che io non ci fossi più, che fossi andato via. Quali meriggi intravedo da queste albe di nebbia…
Per farti capire questo discorso, lettore del 3000, sappi che uno stesso spazio, abbastanza ampio, ospita un convento di suore, la loro scuola materna e le classi di una sezione staccata dell’istituto dove insegno. Sezione che il preside mi ha affidato come suo vicario. Giusto per procurarmi rogne con colleghe allergiche alla puntualità. Una delle quali esorbita. Forse la collega di educazione fisica si sente garantita dalla sua evidente bellezza di volto e di corpo.
Giampiero. A volte pare l’unica ragione valida di questa esistenza sforacchiata di delusioni. Quanto durerà? Crescendo, non aggiungerà i suoi buchi? Ma che domande pleonastiche: non parlano chiaro le albe di cui sopra?
*
Hanno ammazzato un uomo di questo paese: era in bicicletta, lo hanno investito con una macchina, stasera, poco prima che io partissi da casa, con Rina e il piccolo, per recarmi a Siderato. Quante volte mi è accaduto di evitare per un pelo ciclisti imprudenti, pedalanti sul ciglio della nazionale al buio. I fari medi della Giulietta di mio cognato fanno così poca luce. Né io possiedo, ancora, una macchina mia: troppo presto per una spesa, modesta in sé, esosa per la retribuzione di questo micragnoso Stato, ricco di sonanti paroloni, nei fatti sprezzante della dignità dei suoi fedeli servitori (ah, il giuramento di fedeltà alla Costituzione!).
Chi sarà questa ennesima vittima delle leggi fisiche e della bestialità umana? La quale non crede di poter rinunciare alla velocità neanche se si trova in Cinquecento. Giustappunto, due Cinquecento mi hanno sorpassato, stasera, tanto più pericolosamente in quanto altre macchine venivano sulla strada in senso opposto.
*
C’è, non c’è; è, non è: dall’essere al nulla. Uno stato del corpo trapassa in altro stato. Tutto qui? Ma sembra che crolli un mondo con ogni uomo che muore. E certo, una Weltanschauung si cancella. Essere e non essere: un’operazione fisica: questo è certo. C’è dell’altro? Ma cos’altro? Se ci fosse, dovremmo, dobbiamo pensarne la possibilità come inscritta, totalmente, nell’ordine fisico. Non abbiamo un solo elemento di conoscenza che possa legittimare fantasie extrafisiche. L’altro che sfugge alla percezione, e dunque al correlato pensiero, c’è, avviene; ma soltanto nelle invisibili trasformazioni della materia-energia: è l’avventura molecolare della sostanza organica. Suscettibile, anche oggi, di controllo scientifico; ma soltanto parziale, soltanto parcellare. Probabilmente, anche in futuro, nel futuro prevedibilmente più agguerrito della scienza, delle sue tecniche e dei suoi strumenti di osservazione: si spingeranno
fino al livello molecolare e sub-molecolare. Occhi elettronici frugheranno fin dentro le strutture atomiche delle macromolecole proteiche, e altrove, fino ai minerali. Probabilmente potremo realizzare una rappresentazione iconica del Dna, monitorarne sequenze e movimenti, operatività ed effetti plastici. Forse non è azzardato ipotizzare una visualizzazione elettronica dei meccanismi funzionali. E magari una riproduzione delle attività fisiologiche, fondamentali e secondarie. Di più non si può congetturare. Ma tutto questo resterebbe pur sempre interno alla corporeità: macro o micro che sia. Chi cercasse l’anima, lo spirito, la mente, i sentimenti come alterità assoluta rispetto alla realtà fisica, si troverebbe alle prese sempre con questa fisicità sconfinata e perentoria. L’unica alterità cadrebbe fra la struttura e il suo funzionamento, tra le sostanze e il loro movimento. Che alterità sarebbe? La stessa che c’è fra la mia mano
che sta scrivendo e i suoi modulati movimenti. Insomma, tutto nell’ordine fisico. Anche le fantasie spirituali: nient’altro che moti molecolari, anche esse, nel microcosmo complicato e superveloce del cervello e correlati.
Dov’è che ho letto della memoria esplicita e implicita? Non ricordo, ma trovo strana quell’aggettivazione: a che scopo? Forse per evitare sospetti di freudismo, parlando di conscio e inconscio? Ma il senso è quello. L’esplicita sarebbe la memoria cosciente, l’implicita l’incoscia o immediata. La prima troverebbe il suo supporto anatomico e funzionale nell’emisfero sinistro del cervello, l’altra in quello destro. Quale semplificazione!

Che tirata, mon Dieu! Possibile che ogni spunto mi si trasformi in tentazione di pensiero? Scendiamo, dunque, alle bassure della quotidianità domestica (pur se con l’occhio mentale alle vette della “creazione”).
Adesso ho anche il tavolinetto per la macchina da scrivere: non ho più alibi. Tutto è in ordine. Tutto? Tranne, forse, l’atmosfera. Ma è sufficiente questa carenza per scusare la mia “assenza” (una facile rima per dire pigrizia)? Sufficiente, no; ma l’atmosfera è importante. E’ essenziale potersi isolare, chiudersi, stare, periodicamente, al riparo dalle interferenze della quotidianità indaffarata, impicciona. La quale include anche Rina. Anzi, soprattutto lei: lei con i suoi problemi di moglie e di madre, lei con la sua “inquietudine” sulle nostre amicizie, con certa sospettosità e gelosia. Naturalmente infondate (come tu sai, quaderno!)
Ma ci vuole anche altro. Dove prendere, per esempio, una buona scorta di energia? Dove un po’ più di coraggio sociale? Nonché una pingue dose di entusiasmo. Ingredienti distinti, poi, o aspetti di un unicum, che si potrebbe chiamare “forte motivazione”.

Barcollo. Da qualunque lato mi volga, mi mancano gli appigli, mi difettano i saldi sostegni. Del resto, si tratta anche di un fatto più strettamente organico, di ricorrenti défaillances fisiologiche. Ora, per esempio, ho ancora le vertigini. Le mie ricorrenti vertigini: che strane forme assume, a volte, la fedeltà.

Un altro incidente tragico: otto soldati morti. La piccola guerra della circolazione stradale continua. Notizia appena scodellata dalla televisione. C’è dell’incredibile in questa casualità cieca. Che mima così bene la metafisica, intransigente Necessità programmante.
C’è poi, naturalmente, la guerraguerra, anzi le guerre. Ma non voglio parlarne, ora. Troppo preso dalle mie personali difficoltà, a parlarne rischerei di profanarne la satanica sacralità sacrificale.


Venerdì, 4 marzo

Tutto chiarito, dunque?
Ah, Caron dimonio con gli occhi di bracia, et tu?
E Tu, mon dèlice, mon cauchemar, se l’affaire dura dal principio dell’anno scolastico, perché non me l’hai detto prima? – Ti sottrai, mi assicuri. –“Esci, sta lì; debbo dirti una parola” – così invita le coquin – Tutto qui? Né mi resta sostanza bastante a respingere tanta semplicità: ti credo, sì. Ma tu, sua Diana preferita, ne sarai lusingata. Ne sarai? Certo che lo sei. Ma questo è tutto dentro il più naturale dei fenomeni nel mondo fenomenico al femminile antropico. Non posso obbiettare niente. Forse dovrei perfino gioirne. Tritolo non è forse meglio del qui sottinteso? Con tutta la sua blefarite. E libero, infine. Da moglie e seguito domestico. Disponibile, dunque, a una più santa sequenzialità relazionale.
Non debbo dubitare mai, mai? Dici. Ed io replico: potessi! Sarei un corpo più felice.

Luce balenante di certezze succhiate fra ombre di dubbi, grazie di te, di voi. Grazie della fatalità del Disordine cosmico. Grazie al Grande Surrogato.
Se tu non ci fossi, viscere delle mie viscere, morte più santa non conoscerei che svanire sopra il suo Dono. Sfinge dallo sguardo di risacca. Machado de Assis, Don Casmurro: echi di vecchie letture. Di antiche letture in lutto.
Peraltro, Sfinge, è una costante delle mie chances: conosco gli aculei da quando avevo quattordici anni. Ed è, soprattutto, sfiducia, scarsa stima del moi corporel. Complesso di inferiorità fisica. “Ma non è il mio tipo”. No? Il moi si raggrinza e crede, Erato. Come vivrebbe, se no, in questa prigione di ossa non tutte dritte? Non è il suo tipo. Credere non credere dubitare.
Troppo ermetismo grado zero? Infatti. Non che possa dubitare del decrittare futuro, ma l’improbabile lettore del 2050 si stancherebbe con tanta copertura metafisica. Mettiamo la révélation dentro la candida veste dell’innocenza.
Susy mi ha confessato che il collega di disegno le fa la corte. Dagli inizi dell’anno scolastico. Le ha annunciato che le deve “dire una parola”. Lei si sottrae: “Non è il mio tipo”, assicura. Ma l’artista non è brutto: ha solo gli occhi arrossati. Per questo dettaglio le inventive fanciulle della classe lo hanno battezzato Caron dimonio.

Sabato, 5 marzo, ore 20, 30

Nemmeno mio cognato sarebbe il tuo tipo, dunque! – “Tra me e lui, dimmi…” “Che domande!” “Legittime, credi; più che legittime” “Lui?” “Lui, precisamente. Non scherzare” “Non mi importa di tutti gli altri, lo vuoi capire?” “Vorrei.” “Uffa! Arrangiati, dunque!” “Va bene, non ti offendere. Ti credo.”
Ma il cognato insidia. Sleale. Che malessere, buon Surrogato. Non potersi fidare neppure dei propri familiari. Dice di capire, lui, mi fa i complimenti, mi copre di “comprensione”, e poi! Figlio di… Ma tant’è. Non sarà che vuole misurare la portata dei miei dinieghi? Perché io nego, ovviamente. Che altro potrei fare col fratello di mia moglie? Non gli ho mai ammesso che lei mi interessa, che io le interesso. Anche se lui “non la beve” dice e ripete  In ogni caso, avrebbe un alibi: “Non dici che non ti interessa?” – potrebbe obiettarmi. Già.
C’è gente che non si rassegna a lasciare un boccone agli altri: quanto cade sotto i loro occhi merita una sola valutazione: me gusta o no? Se sì, non sanno resistere alla tentazione predatoria. Forse siamo un po’ tutti così, i predatori bipedi implumi. Forse solo la maggior parte. Io, infatti, trovo difficoltà a insidiare “domìni” altrui. Impossibile, poi, concepire un torto interno alla famiglia. Nell’amicizia, m’è capitato, anni fa. Ma fui preda più che predatore. Di una strana, dolce creatura, alla quale vantavo i meriti di un collega innamorato con l’intento di accenderle almeno un fuocherello di reciprocità. Finì che si innamorò (così insisteva a dire) di me. E io? Un po’ m’innamorai anch’io di lei. Amor che a nullo amato amar perdona. Ma fu un amore senza lieto fine. Forse un giorno o l’altro, se le Potenze cieche mi lasceranno abbastanza tempo, e forza, “mi” racconterò quella storia. Che in verità è
già tutta in vecchi quaderni diaristici. Non si sfugge al proprio destino biotrofico spiralato. Ad ogni modo, lei non era mia cognata. Lui e lei erano colleghi universitari: così ci si chiama fra studenti universitari.
Aspettavi questo strappo di materia mal plasmata? E hai rischiato un intervento disciplinare per questa attesa debordante? Caro dono.
(Appunti per un romanzo che non si farà).
“Le vorrebbe tutte ai suoi piedi, capisci!?” “Non l’ha ingoiata ancora.” – Insiste. Sleale. Ma chi? Non te lo posso dire, quaderno. Abbi pazienza. Forse un giorno (ma lontano) te lo dirò.

Che giornata: ho fatto (comminato, si dice), a scuola, una sospensione di due giorni a un’intera classe. E ho sospeso tutti i permessi di anticipo sull’orario di uscita per i “pendolari”. Che barba. Ma le ragazze sono terribili: appena allenti un po’ più del solito le briglie, si scatenano. E parlano, chiedono di uscire, cioè di andare in bagno, in tre quattro per volta, alcune solo per fumarsi la rituale sigaretta in barba alle restrittive norme “igieniche”. Oppure vengono alla cattedra, si ammucchiano, gomiti sulla cattedra, ti fanno corona… Una battaglia, uno stress. L’unico modo di chiuderla resta l’incazzatura e la punizione. Dopo, ci si sente male. Una specie di nausea in tutto il corpo.

Dunque, cara, conservi nell’astuccio dell’animella più segreta tanta zavorra di risentimento! La tua purezza maculata, le mie presunte volgarità, i miei cosiddetti ricatti: a dieci anni di distanza, dopo tanto amore e così larga condivisione di gioie e dolori, con un sì bel bambino, vieni a tali rinfacci. Per questo non ti sei affezionata più di tanto a me. Per questo non hai saputo amarmi quanto volevi, quanto io speravo. Credi che non l’abbia sentito, in tanti anni di mie piccole infedeltà occasionali catalizzate dalla tua freddezza? Ma tu mi assicuri che nemmeno un pensiero men che lecito, nemmeno la più vaga fantasia di platonici, sì, neanche di platonici compensi, ha occupato le tue massoline grigie e percorso le tue calme vene. Voglio crederlo. Voglio credere alla tua buona volontà. Le tentazioni non sono state molte, ma nemmeno zero: forse qualche bel giovane avrà solleticato la tua fantasia, qualche sguardo ammirativo di
apprezzabile provenienza avrà acceso fuocherelli di rimpianti, periodi ipotetici del terzo tipo, umidi languori ben serrati nell’anima. Sì, ho fede nella tua integrità morale, nella tua educazione domestica e religiosa. E nella tua placidità fisiologica
Niente, tuttavia, mi concederà una certezza assoluta, quasi sempre fuori luogo nelle faccende umane, e più in particolare nelle femminili proteste e pretese. Non penso tanto a occasioni fisiche, pressoché impensabili, ma a qualche emozione, a una lieve inclinazione, a un penchant magari fuggevole. Per esempio, non sarebbe normale che tu non sentissi attrazione per i fratelli di Susanna, così belli e fusti. Ecco un caso di tentazione virente, bloccata dal contesto, ma potenzialmente rischiosa per la tua virtù e la mia fronte. Viva il Contesto, intanto. Per l’avvenire ci pensi… ancora il contesto.
Però: che strana accusa quella di aver violato la tua innocenza. Intanto, mai pensato, durante il fidanzamento, di attentare alla tua integrità fisica, mai chiesto più di qualche contatto quasi innocente. Dopo tutto, eri una studentessa magistrale: a scuola si imparano certe nozioni, si parla, fra ragazze, dei vari rapporti e contatti possibili fra maschi e femmenine. Dal bacio in poi.
Ancora un omaggio: il tuo sentimento materno è a prova di sacrifici. Rischieresti la vita per il bambino. E, speriamo, la bambina che verrà..


6 marzo

Mi sa che la schermatura protettiva faccia acqua qua e là: qualche buchino s’è aperto, me ne accorgo rileggendo le pagine precedenti. Che fare? Tappare i buchi, o lasciar perdere? O addirittura allargarli? Vediamo.
Così, carissima, Caron dimonio ti ha tentata, ti ha fatto, e ti fa ancora, la corte. Ti guarda, ti chiede di aspettarlo fuori dell’aula, ti vuole parlare. Il giovane collega dagli occhi arrossati, dai globi oculari un po’ prominenti, Caron dimonio, appunto, ti concupisce; forse, a suo modo ti ama. Ma a chi non piaci, tu, piccola Venere nervosa e così poco greca? Nel caso di Tritolo scenderà in campo anche la sua sensibilità di artista, di cultore e insegnante di belle arti. Insisti a dire che non ti piace, che non è il tuo tipo? Particolari a parte, non è che si possa negargli attrattive: buon fisico, volto regolare, età giusta (sulla trentina), che gli manca di essenziale? Non ti piacciono gli occhi, la loro forma; non la loro luce interiore? Mah, sarà. Però, ammettilo, ti senti lusingata. E un po’ ti ci spassi, no? – No? Non è credibile. Se poi penso al confronto delle “offerte”, l’incredulità mi cresce: che cosa ti posso
dare io? Che cosa ti offro, oltre questa straziata febbre di desiderio innamorato, ma senza avvenire? Lui ha un canestro colmo: desiderio, apprezzamento, amore (credo), forse una vita coniugale, quel che si dice un avvenire.. Lei: di nuovo sbuffa e dice “piantala di insultarmi” – Insultarti? E come lo farei, se non faccio altro che stare al dunque di madre natura? Pensi che ti stia considerando poco seria? No, no, non è questo. Nooo! Omissis.
Sì, lo so: al cuore non si comanda, e la ragione c’entra poco con le sue faccende. Ma che cosa ti lega a me? Amore, dici. Con te presente, in tua augusta presenza olimpica, ti credo. Cioè fingo di crederti, ti credo a metà, accetto la tua buona fede, non mi permetto più che dei plausibili dubbi da buon senso e modestia. Ma qui, nel silenzio serale del mio quasistudio solitario, non posso transigere con vanità e altre miserie. Mi dico la verità, me ne recito le motivazioni, senza sconti, con sofferenza e masochismo (e ce ne vuole, per una spietata autocritica): tu non mi ami, non puoi, non ci sono le condizioni. Tu sei lusingata del mio amore, subisci quel tanto di suggestione legata al mio ruolo, ti trovi in condizione propizia ai contatti, sei sensibile al maschio, non ti ispiro repulsione fisica, ed ecco un mazzo di ragioni buone all’esito del nostro contrastato rapporto. Dici e precisi che ti piacciono i miei occhi, le mie labbra, le
mie mani; e poi la mia sensibilità, cultura, oratoria (!). E ti attrae pure la mia sensualità, così in apparente contrasto con la mia vocazione culturale. E chissà che altre venerande virtù e qualità.

Io me ne appago. Cerco di essere lucido, realista: che altro potrei pretendere? Che altro, col mio corpo tirato su in economia, col mio viso non mostruoso, certo, no, ma nemmeno bello, col mio naso invadente ? Non lo trovi brutto, mi assicuri. Mah. Gli occhi? Sì, me li vantano tutti: “taglio lungo”, giusta “apertura”, “calda luce interiore”, et similia. Sono complimenti che ricevo da lustri, e li ho riportati con le parole originali delle intenditrici sparse nel tempo della mia maturazione, dall’infanzia ignara a questo “mezzo del cammin di nostra vita”. Ma possono colmare tutte le buche delle restanti défaillances? La bocca, dici? Anche, forse. Ma solo di taglio, di labbra, poco mirabile nel totale. Con la brutalità sconsiderata che lo caratterizza, Zio Marcello mi disse una volta che sono “brutto di bocca” ; un compagno di liceo, oggi pittore e scultore, di buon successo commerciale, lodava la “linea perfetta” delle
mie labbra: oh relatività degli umani pareri. Chi era più intenditore? Credo che lo zio si riferisse al mio tre quarti destro, un po’ pronunciato di guancia, quasi a mimare un lieve gonfiore da mal di denti. Il compagno pittore mi guarda di fronte, e non può sbagliare. Ma che ponzamenti, stasera. Colpa tua, Innominata. Quando mi trovo vicino ai tuoi fratelli, che disagio! Istintivamente mi gonfio, mi stiro in verticale, non so come ridurre le svantaggiose differenze morfologiche.
La cultura, l’intelligenza, e l’indole generosa? Ma che c’entrano? Ammesso che siano tutto questo tesoro. E meno male che il mio metro e settanta mi fa alcuni centimetri più alto di te. Altro imbarazzo, sulla spiaggia. Le mie cosce poco atletiche, il mio mediàstino proustiano (niente da fare, lettore del duemilatrenta: non chiarisco l’ermetico mimetico), le mie braccia, i miei polsi in formato muscolare ridotto: che sofferenza. Buoni i polpacci, dritte le gambe, belli i piedi. Ma, ancora: che me ne faccio? Ecco come sono fatto: buoni certi particolari, altri difettosi, l’insieme poco appetibile dal femminino ingordo; appena accettabile dal meno esigente. Rina sembra di quest’ultima “banda”. E tu?
Lei, i suoi sentimenti? Un po’ di stordimento contingente, risultante di varie suggestioni convergenti: ut supra dixi. Forse in mezzo a tanta flora è nata anche una pianticella di sincera attrazione, un misto di affetto e riconoscenza, di quasi amore o infatuazione che sia. Mi basta? Altro che. Possa, io, parlare al suo corpo il linguaggio dei ciechi (come chiedeva quel personaggio panziniano); i miei occhi percorrerne da vicino e in concorrenza col tatto le svariate grazie; le nostre bocche incollarsi cercandosi, e l’inquieto loro interno non soffrire repulsioni. Tanto mi basta. Mi accontenta anche il suo credere di amarmi, il suo attaccamento reale, quale che sia, quali che ne siano radici e componenti. Bisogna essere modesti. Cioè, realisti. Non posso dire che non lo siano anche fratello e cognato, quando sognano tutte le belle ai loro piedi: esagerano, certo, ma loro hanno i requisiti fisici per legittimare l’attesa. Ed è pur vero che, a
volte, hanno solo l’imbarazzo della scelta. Ma quelli come me gridano al miracolo se una bella ragazza non li respinge del tutto, e vanno in tilt da eccesso gioioso se li accetta. Anche solo a tempo, anche per spinte appetitive non travolgenti.

“Hai rischiato una punizione, l’altro giorno, a scuola, aspettandomi, in corridoio, troppo a lungo. Che cosa avevi di tanto urgente da dirmi? Meglio evitare, non dare nell’occhio. Ma sì, io apprezzo, e te ne ho già ringraziato; pure, debbo frenare certa impazienza sterile di esiti appetibili e gravida di noie possibili. Dunque, carissima, prudenza. E pazienza.” Così parlò il diarista invaso.
Che ora deve provvedere a nascondere le pagine in esplicito appena riempite di verità denudata e di paure dette e sottintese.

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