venerdì 26 marzo 2010

Susanna, Frammento 61


Non dimentichiamo che quel funesto 1992 fu anche l’anno della Tangentopoli esplosa e della sua dialettica conseguenza, Mani pulite, una specie di “Primavera dei popoli” per procura: una pattuglia di magistrati coraggiosi, coscienti o no di cogliere un’occasione storica (il crollo del Muro di Berlino del tardo autunno 1989), si mobilita contro la corruzione endemica e sistemica dei signori politici di ogni ordine e grado, che s’erano inventati e sconciamente gonfiato, lungo gli anni della pacchia indisturbata, l’alibi del “costo della politica”. Antonio Di Pietro, un mezzo contadino tenace e scaltro, all’apice di una brillante carriera che lo aveva visto anche poliziotto, era diventato un giudice onesto quanto implacabile: a lui toccò l’onere e l’onore di iniziare quella straordinaria avventura che vide politici di gran peso sbavare di disagio e vergogna sotto i fari delle televisioni inclementi. Boselli, Colombo, Greco, Ingroia e tutti gli altri magistrati del tribunale di Milano, e poi di altre città accese di sacro fuoco emulatorio, furono i nuovi idoli del popolo umiliato, che a quei vendicatori tributava onori da trionfo, contrappuntati da scherno e disprezzo per i corrotti di ogni risma, ma soprattutto per quei politici famelici e felloni. Fino al lancio di monetine addosso ai signori della Tangente universale, da Craxi in giù. Si lamentarono eccessi, da parte di avvocati interessati e anime più o meno sinceramente pietose, ma soprattutto da complici minacciati e parenti trepidanti: eccessi negli arresti, nella durata delle carcerazioni preventive, nell’egalitarismo severo che non distingueva fra persone diverse per sensibilità e vulnerabilità. Ed è difficile negarlo, qualche eccesso. Alcuni dei quali con esiti tragici, come nel caso del grande amico di Craxi, Gabriele Cagliari (dal 1989 presidente dell’ENI, dopo Franco Reviglio), arrestato nel marzo del ’93, per i quattro miliardi pagati al Psi di Craxi, e tenuto in carcere (contro promesse e false speranze) ben 134 giorni. Fino al crollo e all’esito tragico: un suicidio per auto-soffocamento, nel bagno del carcere. Si stupiva, Cagliari, di tanta severità: ma non sarebbe stato il caso di stupirsi, prima, della vergogna tangentizia onnipresente? Non sarebbe stato il caso di allentare la stretta amicizia (certe “strettezze” soffocano) con il leader del Psi? E semmai porre su tappeto lavabile il problema di quel “sistema” corrosivo di alibi e valori, purtuttavia sbandierati ad ogni pubblica occasione. Toccano, ad ogni modo, le parole scritte da quel martire sbagliato, a suggello del gesto estremo buttato in faccia a chi pretendeva di farne un delatore e un traditore di amici e colleghi. “Era il sistema”, si difese, e credeva non ci fosse questo gran male nelle tangenti, sostitutive del legale finanziamento dei partiti bocciato dal referendum. Ingenuo? Come che sia, le sue parole e il suicidio staccano la figura del personaggio dalla comune misura degli altri tangentari, ponendolo su un piano di dignità recuperata che invita al rispetto: “Miei carissimi […] sto per darvi un nuovo grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici, ha fatto il resto. Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta nel canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto.” Nella lettera al suo avvocato: “Questa indagine si è qualificata fin dall’inizio anche come strumento di lotta contro il vecchio establishment che ne è uscito irrimediabilmente sconfitto. Sul piano più propriamente politico questo risultato è ormai evidente e incontrovertibile. Sarebbe folle, da parte di chiunque, non riconoscere questo fatto e, ancora peggio, non accettarlo come una necessità per rimettere il paese in una nuova strada di progresso. E’ chiaro comunque l’obiettivo politico perseguito dai magistrati che pone, oggettivamente, la corporazione giudiziaria in una prospettiva di potere dominante. Per questa via non sarà possibile evitare il ‘processo di Norimberga’ al quale alcuni di noi certamente non sfuggiranno, io tra questi… La confusione tra chi ‘collabora’ e chi ‘non collabora’ sta proprio nella qualificazione ‘politica’ dell’inchiesta”. Cagliari ha deciso di non collaborare, cioè di non intrupparsi fra delatori e spioni. “E’ certamente mio diritto rifiutarmi di diventare un capro espiatorio di situazioni superate, o una vittima di questa cultura della vergogna e del rancore”.
Prima di Cagliari s’era ucciso, una pallottola in bocca, Sergio Moroni (settembre del ’92), deputato socialista di Brescia, anche lui lasciando un “testamento”, rivolto, questo, al presidente della Camera, Giorgio Napolitano: “Tutti i partiti devono modificare sostanza e natura del loro ruolo, ma non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito di vittime sacrificali […] Ho commesso un errore accettando il sistema, ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questa era prassi comune […] mai e poi mai ho pattuito tangenti, eppure vengo accomunato nella definizione di ladro, oggi così diffusa. Non lo accetto, nella serena coscienza di non avere mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile non resta che il gesto”.
Altre vittime innocenti o meno colpevoli “pioveranno” su quell’Italia sgomenta e tripudiante: ma è sufficiente, questo, per maledire tutta Mani pulite? Lasciamolo fare ai tanti (troppi?) che hanno personali ragioni per farlo: chi qui si confessa non ha che qualche pressione di pura sensibilità umana per “maledire” e moltissime di sensibilità etico-politica per “benedire” quella straordinaria stagione. Io, come membro della sciagurata categoria degli insegnanti, sono stato una delle troppe vittime innocenti dello sbafo tangentizio e del connesso spreco della politica e dell’anarchia della spesa pubblica. Soprattutto nella supervergogna delle “grandi opere” incompiute o compiute e inutilizzate, per torbide beghe di spartizioni politiche (di cariche e incarichi), quasi mai sganciate dal ghigno di Mammona. Anzi, abbandonate, quelle (troppe) costruzioni incompiute o inutilizzate, al tripudio del vandalismo allegro e del marpionismo ladrone e saccheggiatore. Crimine diffuso (nell’intera lunghezza e larghezza dello Stivale), del quale a nessun responsabile della non benedetta Casta è stato chiesto il conto o attribuita una titolarità penale tanto evidente, in rebus, quanto autoprotetta e diluita fino all’evaporazione indenne sotto il paravento della pluralità sequenziale degli atti, degli anni, delle cariche. Per tacere, poi, dei doppioni, dei troppi ospedali, per esempio, costruiti con supporti finanziari targati Ue, per essere abbandonati alla volenterosa erosione delle meteore stagionali. E, quel che è infinitamente peggio, lasciandosi alle spalle criminali carenze nella sanità pubblica, per plurima scarsità-insufficienza: d’igiene posti-letto professionalità clinico-infermieristica e onestà amministrativa. Inutile ricordare che il primato in questo sfacelo spetta, di lugubre diritto, alle solite Regioni meridionali. Anche se non mancano episodi tristi, e taluni clamorosi, nel più serio, e più vanitoso, Centro-Nord.
Non esclusa l’operosa Lombardia, con la sua metropoli tarlata: vero monopolio, madre e figlia, della sanità bigotta, pullulante di obiettori anti-aborto e clientelismi all’acqua benedetta (ah, l’impagabile Formigoni! E l’ingegnoso don Verzé! E il Caimano, complice sovvenzionante di opere pie: che meraviglia di terzetto santo!).
Ultimamente il fertile genio italico ha scoperto il metodo per sanare i conti in rosso della pubblica sanità devastata dai predoni di regime: ridurre i servizi, amputare una parte degli ospedali tagliando reparti e accorpandoli, con serena nonchalance verso giovani bambini e anziani bisognosi di ricoveri e cure assistenziali, non gravati dalla penitenza delle eccessive distanze. E poi aumentando i ticket anche a carico di chi ha esenzioni da codice 048 e simili. Data questa realtà, appare dubbio il merito di certi magistrati che accettano incarichi regionali nell’ingrato settore con l’ingratissimo compito di raddrizzarne i conti. Invece di processare i responsabili degli sprechi. Dei quali soltanto pochissimi sono stati condannati per frequentazioni mafiose e contorni di altre imprese fuorilegge: per esempio, la fioritura “miracolosa” di cliniche convenzionate nella giungla palermitana, con moltiplicazione dei costi ad libitum. Si è letto nella stampa che in Sicilia sono 4 mila, contro le 200 lombarde.
Tornando alle ricadute laterali, e magari lontane, dello sperpero, come tacere, da testimone-vittima le tante vergogne? Sul misero stipendio, prelievi fiscali da usura istituzionale, indi: contrazione delle spese di sostentamento, privazione di libri e altri strumenti di lavoro per incapacità pecuniaria, ferie turistiche confinate quasi esclusivamente nelle “missioni” di accompagnatore delle classi in viaggi d’istruzione. E come tacere, seguitando, degli edifici scolastici decrepiti, impropri (utilizzo di murature nate per altri destini...) a rischio di crolli e inondazioni. Eccetera. Insomma, io sono vittima di lor signori. Come centinaia di migliaia di colleghi di ogni ordine e grado. E milioni di persone dietro di noi lo sono di più. Gli innocenti capri espiatori? Nessuno poteva esserlo al cento per cento: non erano mica ignari ragazzini, quei signori. Né mancavano di studi e dottrina per confrontare i privilegi goduti con i sacrifici imposti agli alieni delle categorie sociali povere di difese. O con i valori rutilanti di fiamme verbali nei comizi e nelle interviste.
Taluni volavano tanto alto da credersi personaggi storici di epoche felici. Gardini, che spargeva miliardi a palate con piglio “da gran Signore rinascimentale” (“La chimica sono io”!) per fare bocconi grassi, è l’altro nome grosso della sezione suicidi. Ma la moglie insiste nel gridare al delitto complottardo. Avesse pure ragione, chi toglierebbe le responsabilità dalle spalle del “Corsaro”? E se delitto e complotto ci fu, bisogna guardare a gente molto più sporca di lui. Magari a boss di mafia, sospettosi di tradimento su possibili impegni finanziari faraonici affidati al geniale guerriero degli affari e della vela. Ma personalmente più che al complotto mi sembra plausibile credere a coerenti esiti della megalomania “corsara”: ci si scopre scivolati dentro un pozzo senza uscite, non resta che il gesto esemplare. Alla Moroni? Non precisamente: quello rivendicava una dignità offesa da calunniose imputazioni e disonoranti pretese; questo, sceglie l’harakiri alla pistola per togliere ai suoi nemici (tra i quali, appunto, non sono da escludere finanziatori pelosi, magari mediati da banche altrettanto vellose) il piacere della punizione drammatica.
Pietà sì, per certi casi umani, assoluzione no. Possiamo pure concedere a Craxi un pizzico di ragione, quando lamenta, come fa Moroni, che altri capi e capetti politici immersi nel sistema l’hanno fatto franca. No: dal “mariuolo” (copyright Craxi) Mario Chiesa, allo stesso lider maximo socialista, fuggiasco da condannato in Tunisia (e dunque tecnicamente latitante), nessuno può dirsi pulito e vittima sacrificale. Può soltanto maledire la fortuna o il burlone dio Caso. O altra divinità interessata alle svolte e giravolte della grande politica internazionale: ah, quel Crollo del terminale ’89, che copioso indotto di conseguenze, grosse e storiche, e meno grandi e grosse, s’è lasciato dietro. In via diretta e immediata, o indiretta e tortuosa.
E’ voce corrente e luogo comune indicare il vecchio Pci come il furbone risparmiato dalla faziosità dei pm, che gli avrebbero usato partigiana clemenza. A me risultano un paio di cose che non voglio risparmiare a questi sfoghi privati (o destinati a futura, lontana esposizione pubblica). Innanzitutto, il sistema di finanziamento del Pci poggiava, strutturalmente, sull’interscambio Italia-Urss, elargitore di percentuali legalmente incassate e conteggiate nei bilanci del Partito. Niente di eccepibile. Poi c’erano (e ci sono) le coop rosse: anche da lì, proventi, ma non segreti: in bilancio. Qualche caso di personale fellonia tintinnante? Ci sarà stata, ma non è emersa dalle indagini. Le quali sono state condotte con scrupolo dal giudice incaricato (Nordio, mi pare). Anzi, con una specie di puntiglio persecutorio, lungo un paio d'anni. Ma c’è la “quaestio compagno Greganti”. Vediamola. Portava soldi del partito nella famosa valigetta? Erano soldi tangentizi? Chi lo può affermare con tranquilla coscienza? Quale veggente del cavolo potrebbe giurarlo? Greganti non lo ammise mai: erano soldi suoi, lo disse e ripeté per mesi. E fu abbastanza virile da farsi in santa pace non so più quanti mesi di carcere.
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Naturalmente, su Tangentopoli e Mani pulite si discute e si polemizza ancora, né la bagarre sembra destinata a finire. Decennali, ventennali e altre date rotonde accenderanno riflettori e fiamme di polemiche (si spera solo metaforiche) sul contenzioso di quella stagione memorabile. Magari per spremerci qualche lacrima di rabbia delusa guardandoci intorno e ricevendo da muri e suolo e facce il ghigno beffardo della delusione imposta. Non ci sono dubbi, per le persone oneste (anche solo relativamente) e lucide, per quelle che sembrano ridotte a minoranze umiliate, buone solo per cortei e sfoghi e denunce su stampa e siti internet e media in genere, ma non armate abbastanza per sconfiggere la matta bestialità delle maggioranze vincenti. E banchettanti.
L’evoluzione salutata in quella “primavera del popolo” si è presto capovolta in una involuzione pesante, pilotata dal grande capitale affaristico-mafioso nazionale e globale, a scorno della possibilità speranzosa che la severa lezione subita potesse indurre la classe politica a una certa modestia riformatrice eticamente memore degli svantaggiati di ogni categoria e grado sociale. Questa “minaccia” mobilitò le eterne forze del malaffare più o meno coperto, ed eccoci ripiombati in una situazione deprimente, dove alle documentate denunce e proposte contro l’ingordigia trimalcionica delle varie “Caste” (e lobby), contro gli sprechi non stop, e simili mali non seguono mai azioni coerenti per migliorare la moralità pubblica e distillare un soffio di sensibilità autentica verso le carnali sofferenze sopra accennate.

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Ora, e qui, voglio ritornare al contesto Susanna e contorno. Qualche mese dopo, l’idillio di quelle due sere tra la coppia Susanna-Marco e il cognato era finito. Dissolto come un’allucinazione. Cos’era successo? I misteriosi personaggi romani investiti del compito difensivo avevano chiesto a Marco la somma di venti milioni, da pagare subito: non so se come anticipo e rata o come totale. Ma ritengo come totale. Le notizie provenienti dal cognato mi apparivano alquanto reticenti: lui diceva che gli amici romani del suo amico barone massone erano rimasti delusi dalla tircheria del soggetto. Ma io tirchio non lo sapevo. I Romani bui si difendevano allegando la necessità di ungere ruote per muovere il convoglio; il “soggetto” assicurava che, a compito esaurito, lui avrebbe pagato quanto richiesto. E protestava che al momento non poteva disporre di quella somma. Quelli non gli credevano, e giudicavano male la sua riluttanza ad aprire la borsa. Nel tira-e-molla, l’affare non decollò. E, ripeto, Salvo, dava la colpa a Marco: che cos’era mai questa diffidenza? E dov’era andata la sua baldanza di “capitalista” solvente e di larghe vedute?
Chi aveva torto e chi ragione: come fare a decidere? E poi, si sa, nelle faccende dei bipedi pensanti, torti e ragioni, saranno magari divisi in parti diseguali fra i “contraenti” (come direbbe Aristotele), ma non stanno (quasi) mai da una parte sola. Sono le parti (in causa) a pretendere l’assurdo: l’assolutizzazione del proprio punto di vista. Fui colpito sfavorevolmente da questo ingorgo non previsto. E mi si rizzò in testa l’idea-evidenza che la brutta figura maggiore toccava al cognato e ai suoi favoleggiati amiconi ultrapotenti. Che bisogno c’era di chiedere anticipi o prime rate o che? Dov’era, allora, il privilegio dell’amicizia? Meglio ancora: una filiera di amicizie autentiche avrebbe bisogno di siffatti “lubrificanti”? Più meditavo sul caso più mi si drizzava in testa la convinzione che nell’affaire s’era infilato qualcosa di sporco. Tra quei personaggi potenti ce n’era qualcuno che odorava di ‘ndrina? Come escluderlo! Ma il titolare di queste amicizie, mio cognato Salvo, non era turbato dal minimo dubbio di liceità sul contesto: a lui bastava il crisma del Potere per sopire ogni problematicità. Politici massoni mafiosi, purché di rango, erano allo stesso titolo epifanie di una sola sostanza metafisica, il Potere, appunto. Che poi questa sostanza si spiegasse nel mondo fenomenico anche attraverso delitti e illeciti vari, non era cosa che lo potesse inquietare fino all’insonnia. Probabilmente non rifletteva abbastanza. Oppure rifletteva troppo. Per esempio, giudicando labili e incerti i confini fra la criminalità esposta e quella implicita nel sistema legale del capitalismo diffuso. Forse era arrivato a trovare l’omologia fra l’uccidere con lupara o tritolo e l’ammazzare a fuoco lento nelle strettoie del sistema imperniato sul culto mammonico. Ma non è il caso di sottilizzare qui, tanto meno di attribuire sagacia tutta da provare a un geniale sprecadonne (geniale, s’intende, soprattutto nello spreco).
Ma poi. Mafiosi o politici e amministratori e funzionari corrotti, anzi rotti alla pratica tangentizia, che differenza sostanziale fa? Anche non ci fosse odore di malavita canonica, c’era quello, non meno puteolente, della corruzione generalizzata. Dimentico, forse, che siamo in epoca “Mani pulite”? Che stiamo parlando dell’anno, ormai storico, della Grande Scoperta: l’Italia di Tangentopoli. E del Grande Rimedio: la cura giudiziaria, sopra ricordata.
Io, intanto, mi compiacevo della mia estraneità alla brutta storia: meno male, mi dicevo, che non c’entro nulla. E tuttavia la cosa mi coinvolse in negativo. Non ebbi più notizie di Susanna e famiglia per parecchi mesi, e forse per più di un anno. Ma la memoria non mi assiste che in proporzione inversa all’età crescente. Né ho trovato, fra le mie carte (sì, la storia si ripete), appunti chiarificatori. Forse non li ho neppure cercati col giusto impegno. Fra questa piccola selva di “forse” le certezze superstiti si presentano smarginate ed essenziali, prive insomma di dettagli illuminanti e della precisione di connotati temporali sequenziali. Nel nebuloso dell’incerto, la prima certezza “essenziale”che rintraccio è una mia telefonata a lei, la Grande Silente. E’ sottinteso che la telefonata fu propiziata dalla mia solitudine in casa. Benedette chiese che impegnano mogli devote.
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La telefonata. La mia voce, vibrante di emozione per l’incertezza dell’accoglienza: “Ciao, Susy, come stai?” “Chi parla?” “Non riconosci la mia voce?” “No… Sì… Mi pare. E’ il prof...” “Il prof..., sì. Ma, da molto tempo, per te, soltanto Paolo Assaggi. Anzi, soltanto Paolo” Brevi intervalli di silenzio. “E’ che non mi aspettavo la chiamata.” “Ma perché mai?” Pausa di silenzio più lunga. Ansia in me. Sospettavo la botta triste. Che arriva. Lei: “Dopo la delusione con tuo cognato avevo deciso di rompere ogni rapporto con tutta la famiglia”. Replico, contento che mi si offra la possibilità di chiarire, di farle ascoltare l’altra campana. E di avere notizie dall’altra fonte. “Scusami, Susy, ma io che c’entro con mio cognato? Io e la mia famiglia siamo una cosa, lui e la sua un’altra.” “Certamente, è così; ma ero troppo amareggiata...” “Va bene, ti capisco, e ti giuro che la cosa mi ha addolorato. Non pensavo che mio cognato avesse amici così, diciamo, strani.” “Marco si è trovato a trattare con mala gente. Gli chiedevano quei soldi, per subito. E quasi lo minacciavano. Lui non si negava del tutto, ma insisteva perché si aspettasse l’esito della pratica; a cose fatte, avrebbe pagato anche di più. Ma quelli premevano per il pagamento immediato, e così l’affare è svanito. L’aspetto più odioso di tutta la faccenda è stato il dover trattare con quella gente.” Ripetei tutto il mio dispiacere; esposi la versione del cognato, che poi era quella degli amici romani del suo amico barone; chiesi ancora che lei facesse distinzione fra me e Salvo. Io – precisavo ad abundatiam – non avevo quelle amicizie, né le cercavo. Il che mi privava della possibilità di aiutare persone care in difficoltà, ma mi concedeva quel tanto di tranquillità che mi occorre per i miei impegni domestici, i miei studi e lavoretti di testa e tasti. Susy accettò di continuare un rapporto telefonico (in mancanza, e in attesa, forse illusoria, di un improbabile “meglio”) con me, ed eventualmente, con Rina. Le chiesi notizie delle figlie, che studiavano con profitto, ma le davano, ancora, problemi. La grande aveva qualche ricaduta nell’anoressia, sia pure in forme meno violente del passato e con riprese non più troppo lontane dagli attacchi. In realtà, pensavo, la ragazza non è guarita del tutto: qualche tarlo maligno continua a roderla dentro, e lei resiste con variabili esiti e inevitabile discontinuità di successi parziali.
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Questo contatto telefonico dura da pochi anni. Chiamo sempre io, una o due volte l’anno, prevalentemente entro il primo o secondo mese dell’anno nuovo. Invano le ho chiesto di chiamare lei una volta, e parlare anche con Rina. Alla quale io ho finito col rivelare questi contatti innocui, cercando di smuovere la sua compassione per le difficoltà che ingombrano la tarda esistenza di Susy: col lavoro, nei suoi rapporti para-convivenziali, con le figlie, la maggiore soprattutto. Ma né Susy né Rina hanno chiamato finora. Susy ripete che ci prova, ma all’ultimo momento scatta il blocco: “Che le racconto?” – dice – “Solo lagne posso offrire io, e sono stufa di scodellare guai e sofferenze dentro le orecchie degli altri, certamente non privi dei propri.”. E Rina: “Ma se lei non chiama, perché dovrei forzare la sua volontà? Vuol dire che non se la sente di parlarmi, di confidarsi. Rispettiamo il suo silenzio, la sua discrezione.”
E vai a convincere quelle testoline. Pausa. Quel vezzeggiativo, appropriato all’infanzia, mi ha increspato le labbra a un mesto sorriso: le testoline in argomento sono ormai abbastanza canute sotto il loro vernissage: rosso Tiziano in Susy (o è cambiato?), nero tenue in Rina. Che voglia di vederle, le belle chiome d’un tempo lontano, private delle loro pietose maschere. Dunque sono stato sempre io, lungo questi ultimi anni, il promotore dei dialoghi telefonici. A ogni contatto, lei mi ha aggiornato sui casi della sua vita e delle figlie. Ho appreso così che sono entrambe sposate, che i loro mariti fanno il loro stesso mestiere, che, a dispetto di questa barriera protettiva, i disturbi anoressici di Sonia si ripresentano di tanto in tanto, che i suoi rapporti con la madre non sono del tutto sereni. E perfino che questa serenità non è garantita neppure nella sua relazione con il suo Marco, ormai unico suo sostegno economico, come datore di lavoro. Lei, dice, è diventata una buona collaboratrice, e si guadagna il suo stipendio con un’applicazione competente e scrupolosa.
A che cosa alludono, dunque, le mezze frasi di lei su uno svolgimento non del tutto sereno della loro liaison? Ordinaria amministrazione, si dirà, dei rapporti di lungo corso tra uomo e donna. E così è, non c’è che dire e almanaccare. Per un verso, io me ne dispiaccio, per un altro ne godo. Che cosa ci possa essere da godere, non saprei dire. O meglio: potrei scovare, sì, vaghezze ottative allungate su un futuro nebuloso, ma dovrei avere il pudore di confessare che “non è una cosa seria”. Che io e Susy, in quel futuro di nebbie possibiliste tra musiliane e pirandelliane possiamo trovare uno squarcio di cielo azzurro per noi due? A quali condizioni? Dovrebbe sparire Rina. E come? O per tresca con Thanatos (vedo che torna il vecchio vizio prudenziale della maschera all’esplicito!) o per separazione consensuale. Mi vengono i brividi su entrambe le ipotesi vagabonde. La prima non è, a dire il vero, estranea a certe mie cupe tristezze sognanti indotte dall’aggressività spropositata di lei, del suo consumo verbale. Ma poi, passata la scarica adrenalinica, il brontolio emozionale si sfilaccia, a volte rapidamente, a volte con una certa lentezza, e finisce che alla rabbia sottentra la pietà, la compassione. Per cosa? Ma per i suoi stessi difetti, per questo caratterino scattante, che la menopausa ha peggiorato, per le sue conseguenze deprivanti. Tra le quali, una spinosa difficoltà di rapporti umani. Più dolente nello spazio degli affetti familiari, padre, marito, figli. Ma specialmente con la nuora. Col figlio litiga, ma poi corre al soccorso, ad ogni soffio dei suoi bisogni: ed è sempre pronta a proteggerlo, badando ai bambini, convincendo la piccola a nutrirsi contro la sua capricciosa ritrosia, fornendogli prodotti alimentari di qualità. E via allargando, nella sua disponibilità, piuttosto prodiga che ragionieresca. La seconda ipotesi, mi fa arrossire: separazione, divorzio, alla nostra età e con figli sposati e nipotini? E’ vero che la convivenza antropica non langue per carenza di simili derive, ma vibra in noi tutti la più convinta riluttanza a siffatte “soluzioni”. Più decisamente in me. Detto questo, non c’è indovino che possa escludere l’impensabile attuale. “Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena di infinite assurdità, le quali, sfacciatamente, non hanno neppure bisogno di parer verosimili, perché sono vere”. Non è così, mie agende-diario, voi così zeppe di umane assurdità? Anche fra le più mostruose. Ma facciamo gli scongiuri e proseguiamo.
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Quanti anni sono passati, e quali eventi della frivolezza e soprattutto dell’incurabile, inarrestabile pandemica distruttività umana hanno riempito questi anni! Un titolo bussa alla porta della memoria stuzzicata: Erich Fromm, “Anatomia della distruttività umana”. Librescamente ponderosa, ma scientificamente reticente, approssimativa, e troppo “umanistica” nella caccia alle radici ultime di questa maledizione strutturale, quella “anatomia” è pur sempre una rispettabile immersione nelle acque sulfuree dell’orrore antropico (il sadismo stragista e seviziatore svampa per tutti i secoli e millenni della storia umana in tutte le sue sezioni luoghi civiltà culture religioni). A trovarle, quelle radici originarie, bisogna guardare alla cellula, alla sua natura amorale, alla sua vocazione cannibalica. Come intuisce il maggiore antropologo contemporaneo, Joseph Campbell, quando la cellula, appunto, icasticamente descrive e, per così dire, presenta ai lettori di cervello non spento dalla Grande Menzogna religiosa. E come s’avventura a fare, distesamente indagando ed esemplificando, il grande ostracizzato dell’Italia culturale e relativo conformismo idealistico, prof. Gerolamo Gulizza.
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Rileggendo, scopro che non ho fatto per il novennio del secondo black out susannico, un sistematico sommario dei più significativi parti-eventi del suo ventre prolifico (fin qui toccato solo sporadicamente). Dove l’aggettivo “significativi” vale, sì, il solito “degni di ricordo”, ma punta alla preferenza negativa dei più tragici e orrorosi. Purtroppo (o per fortuna!) l’esorbitanza di quella materia non ci lascia ulteriore spazio che per cenni veloci in una selezione magrissima di casi eclatanti. Quanto basti a delineare lo sfondo évenementiel delle mie private bagatelle in correlato con obblighi e scelte professionali.
Il primo anno successivo al compimento del primo black out ci regala l’affaire Watergate, l’eclatante episodio di spionaggio elettorale che costò la presidenza a Richard Nixon, costretto a dimettersi da un compatto, e vario, schieramento di guastatori puntati all’impeachment. Un disastro, che sembra annunciare l’epilogo di un altro sfacelo, di quella “deposizione” ben più tragico e spaventosamente più costoso: in termini di vite umane, di corpi mutilati, di menti sconvolte, di ferite inguaribili nel corpo e nell’anima. Insomma di orrori: si vuol dire la guerra di aggressione americana al Vietnam, chiusa l’anno successivo: dopo ulteriori stragi militarmente inutili, gli spocchiosi “difensori della libertà di tutti” piantano baracca e burattini e fuggono da quell’inferno da loro stessi acceso e alimentato per oltre un decennio, lasciando nel pantano delle giuste vendette i loro alleati sudvietnamiti. Conclusione umiliante per tanta Potenza. E fuga resa più ingloriosa con tardivi colpi di coda contro una nave inoffensiva. In quello stesso anno comincia e per anni si prolunga la tragedia dei boat peoples, masse di sudvietnamiti compromessi col regime quisling e terrorizzati dalla propaganda anticomunista, i quali lasciano il Paese con mezzi di fortuna e inadeguati, che spesso li rovesciano in bocca agli squali (salvo i pochi – notabili, per lo più – ­che riescono a farsi imbarcare negli aero-navali americani).
Se l’anno di quella fine si può, nell’ordine dell’ovvio relativo, salutare come “felice” per il Vietnam, l’anno successivo homo necans si affretta a regalarci nuovi exploit “idealistici”: in altra zona del lontano Oriente, al Vietnam contigua, la tormentata Cambogia, già coinvolta in quella guerra, conosce l’epopea sinistra dei “kmer rossi”, versione vieppiù sadica della dommatica maoista: fa scempio di qualche milione (quanti, nella realtà, e fuori dalle amplificazioni della effusiva aritmetica occidentale?) di connazionali contagiati di “spirito borghese” e dunque da rifare in capite et in membris. Eliminando, in corso d’opera, con breve pazienza di attesa, o con frettolosa impazienza sottrattiva, gli irriducibili, i refrattari alla spigolosa pedagogia. Veri e testati che fossero, o falsi e degradati a pattume, anche al metro di quella contrazione di tempi rimodellatori. In sostanza (di ostie carnali) si tratta dell’ennesima ostensione dello “spirito religioso” fanaticamente consequenziario. Una tragica burla, se si pensa alle buone intenzioni che ispiravano quei capi e teoreti dell’uomo nuovo, tutto fraternità e socialità.
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Naturalmente, continuavo, in quel novennio denso di eventi, a occuparmi intensamente del Vietnam come giornalista free-lance e come insegnante di storia nel liceo di Realpolia. Come per il passato, anche in quegli anni settanta che sequenziarono prima un crescendo di orrori consumati contro la popolazione civile del Vietnam (Sud soltanto, per i primi anni, poi anche Nord, con bombardamenti sulle città e i villaggi) dalla sadica e stupidissima ostinazione americana, poi la loro plateale disfatta aureolata proprio da quella vergogna che avevano creduto di scansare con lo stragismo al napalm e al fosforo giallo, andavo offrendo letture in classe di saggi autorevoli e di qualche mio articolo. Fra i libri assaggiati nelle mie classi, quello del famoso dottor Benjamin Spock (“collaborato” da E. Mitchell Zimmerman), “In Europa si parla, in Vietnam si piange” (Loganesi & C., 1968) è il privilegiato di una pluralità alimentata da “omaggi–per recensione” provenienti da vari editori (ma soprattutto da Longanesi, che, per anni m’inviò libri, specialmente di Russell). Una parte dei miei articoli letti nelle classi (e talvolta forniti in fotocopie ai giovani più interessati) sono, appunto, recensioni a quei libri sul Vietnam. Oltre al saggio citato sopra, ricevetti, tra i più significativi, questi due: Wilfred G. Burchett, “Nella giungla con i vietcong”; Bertrand Russell, “Crimini di guerra nel Vietnam” (stesso editore). Le mie agende di quegli anni sono ricche di appunti su quelle vicende, spesso come citazioni e abbozzi degli articoli destinati al “Gazzettino d. g.”. Me ne servirò per dare un’idea del mio interesse e coinvolgimento passionale per quella tragedia.
La presentazione di copertina del saggio recita una “promozione” nient’affatto eccessiva: “Un implacabile pamphlet contro il massacro dei giovani e dei bambini, scritto dall’autore della famosa ‘Bibbia delle madri”. L’ “interno” è un’articolatissima rassegna-confutazione di tutte le false ragioni della guerra, di tutti i miti giustificativi strombazzati da politici, generali, presidenti federali e fabbricanti di mezzi bellici e porcherie per stragi indiscriminate. Nonché lo smascheramento delle colossali menzogne e promesse tradite che coronano l’infausto intervento. Ecco qualche passo. “Il 21 ottobre 1964, il presidente Lyndon Johnson disse. ‘Noi non intendiamo mandare giovani americani a quindicimila o sedicimila chilometri dalla patria per fare ciò che i giovani asiatici dovrebbero fare per loro conto”. Promessa dismessa poco dopo, per giungere a fine 1967 a questo “gonfiore”: da presidente “Johnson aveva inviato più di mezzo milione di giovani americani...” Lo stesso Johnson che aveva sbeffeggiato Goldwater per aver predicato i bombardamenti sul Nord Vietnam, comincia a bombardarlo lui tre mesi dopo la sua elezione. La capital lie, la menzogna suprema di quella spudorata illegalità fu la presunta aggressione del Sud Vietnam da parte del Nord, mentre si trattò per anni del solo rientro dei viet mihn nel loro territorio dal Nord, dove li avevano sospinti gli accordi del 1954, dopo la sonora sconfitta francese di Dien Ben Phu ad opera dell’eroico generale Giap. Un ritorno più che motivato dalla smaccata violazione di quegli accordi da parte americana: erano previste libere elezioni nel ’56, ma i sondaggi Usa davano una tale maggioranza (più dell’80%) per l’unificazione del Paese sotto Ho Chi Min, che i signori della guerra la lasciarono sospirare ancora oltre cinque anni dopo. Ecco la “costrizione” che spinse i combattenti in attesa al Nord a riprendere le armi nel Sud retto dai Quisling capitalisti foraggiati dai “democratici” americani e dai loro militari super-armati. I primi mesi di chiari fallimenti militari non convinsero Mc Namara, segretario alla Difesa, (che aveva promesso il ritorno a casa dei soldati Usa per il natale del’65) a lasciare il paese al suo destino di libera indipendenza. Ma nel ’67 “riconobbe che” gli americani avrebbero “potuto continuare a combattere per altri vent’anni”. L’intensità del “sostegno” americano ai latifondisti e mercanti vietnamiti del Sud (questo era il “popolo” libero protetto dagli Usa) fa capolino dai numeri di quell’impegno: “Entro l’estate del 1968 avranno sganciato sul Vietnam, un paese più piccolo della California, un numero di bombe maggiore di quelle che sganciammo su entrambi i fronti durante tutta la seconda guerra mondiale”. L’inutile strage di innocenti civili e bambini bruciati dal napalm indusse molti militari americani a confessioni di questo genere: “Entusiasta sottotenente dei marines, partii per il Vietnam certo di avere risposto all’invocazione di un popolo aggredito. /Questo convincimento svanì dopo circa due settimane. In luogo di battermi contro aggressori comunisti, constatai che, il novanta per cento delle volte, le nostre azioni militari erano dirette contro la popolazione del Vietnam del Sud. / Molto si è scritto sulle tattiche terroristiche impiegate dai vietcong. In base alla mia esperienza, il terrore e le rovine che noi apportiamo fanno sembrare la guerra dei vietcong qualcosa di simile a un picnic di giovani esploratori. Nel Vietnam siamo impegnati in una guerra che si propone di costringere un popolo a sottomettersi a un governo il quale gode di un ben scarso appoggio popolare o non ne gode affatto” (lettera al senatore Fulbright, anno 1967). Quando la sciagurata logica della solidarietà mammonica, detta liberismo e capitalismo, indusse gli avventati leader e militari Usa a buttare miliardi dollari e bruciare milioni di vite umane nella fornace vietnamita sostenendo i francesi in difficoltà e prossimi alla sconfitta, forse avrebbero avuto qualche esitazione se avessero ascoltato tutti questa confessione di un vietnamita a un viaggiatore europeo: “‘In Francia i francesi mi piacevano...Erano chic e generosi, e noi avevamo tra loro molti amici. Conservo ricordi piacevoli dei francesi in Francia. Ma i francesi qui?’ Si sporse oltre il tavolo’. Li odio. Li odiamo tutti di un odio che a lei deve riuscire inconcepibile, perché non ha mai saputo che cosa significhi vivere da schiavo sotto un padrone straniero’”. Confidenza e veemenza: un binomio di garanzia. Come questo “documento”: “Nella loro dichiarazione di indipendenza del 1945, i nazionalisti vietnamiti proclamarono” quanto segue. “Hanno costruito più prigioni che scuole. Hanno massacrato spietatamente i nostri patrioti; hanno affogato le nostre rivolte in fiumi di sangue...per indebolire la nostra razza ci hanno costretti ai vizi dell’oppio e dell’alcool. /Ci hanno spogliati completamente, hanno impoverito e devastato il nostro territorio. Ci hanno rubato le risaie, le miniere, le foreste e le materie prime”. Ebbene, gli americani hanno seguito quel solco, ma ingrandendo in proporzione dei loro dollari e mezzi bellici gli effetti tragici dell’imbroglio stragista: migliaia di testimonianze documentano la devastazione del territorio, avvelenato da napalm, fosforo giallo, diossina, un paio di milioni (raddoppiando il milione del periodo bellico francese, 1946-54) di morti con netta prevalenza di civili assassinati in modi crudelissimi bruciati da quei miracoli della bella chimica sperimentale. Con picchi di orrore nella strage dei bambini: spellati e uccisi dalla satanica chimica, mutilati di braccia, gambe, vista, udito, e via marciando sui luminosi sentieri della civiltà democratica modello quisling capitalista. “Ho chi Minh, quando stava respingendo l’esercito francese, distribuì le terre ai contadini che le avevano coltivate. Ma Diem, non appena insediato al potere dagli Stati Uniti, si affrettò a restituirle ai latifondisti, che ne erano sempre rimasti lontani.” Si aggiunga: tasse esorbitanti, corruzione dilagante, inflazione al 30% annuo, disoccupazione al 50%, carcere, fucilazioni (con la facile accusa di essere vietcong), prostituzione coatta, droga, disperazione (anche fra gli americani). In sintesi: “Il governo americano pompava nel paese una quantità enorme di aiuti, ma questi aiuti rimanevano nelle mani della classe al potere. L’uomo della strada era ridotto alla miseria [...] Diem cercò di soffocare lo scontento crescente. Nel 1958 incominciò un regno del terrore”. Scrisse lo storico francese Philippe Devilliers: “Le retate dei dissidenti divennero più frequenti e più brutali” con torture deportazioni ed esecuzioni capitali. La favoletta dell’attacco “nordico” si sgonfia da sola con date alla mano: nel 1958 il Nord sperava ancora nelle elezioni previste dal trattato del ’54 (entro il ’56), “alla fine del 1958 era in corso una rivolta popolare contro Diem”. Subito partì l’accusa al Nord, di voler “conquistare il Vietnam del Sud”. Due eminenti professori universitari americani smentiscono seccamente con una rigorosa documentazione: la rivolta armata fu la risposta inevitabile “al regno del terrore di Diem”. I rapporti della stessa Cia riferiscono che radio Hanoi “inveiva contro questi gruppi” armati, temendo conseguenze per il Nord, e “continuò, nei primi mesi del 1959, a scagliarsi contro coloro che esortavano alla ribellione. Hanoi esortava alla calma”. Intervenne solo quando cominciarono i pretestuosi bombardamenti su Hanoi. Nel marzo 1964 il New York Times scriveva: “Non è stata accertata alcuna cattura di nordvietnamiti nel Sud”. Ancora nel 1966 lo stesso Rusk, segretario di Stato americano era convinto che almeno “l’ottanta per cento di coloro che vengono denominati vietcong sono, o sono stati, gente del Sud”.

lunedì 15 marzo 2010

SUSANNA, Frammento 60


La pagina del 23 ottobre della stessa agenda contiene soltanto una citazione da Tolstoj, Guerra e pace (Einaudi, pp.1240-41): la trascrivo per sfidare l’immancabile lettore/trice del 2092 a trovare il nesso con quanto seguirà, dalla stessa fonte (intendo, per fonte, l’agenda).
“Ora soltanto Pierre aveva capito tutta la forza di vitalità dell’uomo e la forza salvatrice dello spostamento di attenzione che si trova nell’uomo, simile a una valvola di sicurezza in una caldaia, che fa uscire l’eccesso del vapore appena la sua pressione oltrepassa una data misura.
Egli non vedeva e non udiva come si fucilavano i prigionieri rimasti indietro, benché più di cento di loro fossero già periti in questo modo. Non pensava a Karatajev che s’indeboliva ogni giorno di più e che, evidentemente, presto avrebbe dovuto subire la stessa sorte. Anche meno Pierre pensava a stesso. Quanto più difficile si faceva la sua posizione, quanto più terribile era il futuro, tanto più gli venivano lieti e rasserenanti pensieri, ricordi e immagini, che erano indipendenti dalla situazione nella quale si trovava”.

E la pagina del 30 ottobre risuona ancora tutta e solo di Tolstoj. Ecco un pensiero “retrogrado”, ma tanto sofferente di verità-umanità quanto attuale. Trasferisco.
“Sono cose magnifiche, l’illuminazione elettrica, i telefoni, le mostre e tutti i giardini d’Arcadia con i loro concerti e spettacoli, e tutti i sigari e i portafiammiferi, e le bretelle e i motori; ma vadano tutte in malora, e non solo loro, ma le strade ferrate e tutti i panni e le stoffe del mondo, se per la loro produzione è necessario che il 99 per cento degli uomini siano in schiavitù e periscano a migliaia nelle fabbriche necessarie per la produzione di questi oggetti”. (Lev Tolstoj, La schiavitù del nostro tempo, 1900)
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Nel 1901 la Chiesa russa scomunicò solennemente Tolstoj, con una dichiarazione del Santo Sinodo, perché egli dedicava “la sua attività letteraria e il talento donatogli dal Signore alla diffusione tra il popolo di dottrine contrarie a Cristo e alla Chiesa”.
Commentino. Niente di nuovo sotto il sole (della religione). Cara religione, sempre implacabile nel condannare i sofferenti della verità nuda. La quale riesce, misteriosamente, sempre contraria a Cristo e alla sua Chiesa. E chiaramente minacciosa per gli interessi (ahimé, quanto tangibili!) dei monopolizzatori catafratti di Cristo e di questa o quella delle Sue troppe Chiese. Cari, osceni padroni della religione. Di questa o di quella, che pari sono.
Ma facendo salvi i pochi che un po’ in tutte le epoche prendono sul serio le parti migliori dei testi sacri: quelli che additano gli svantaggiati di ogni genere e tempo come campo di azione solidale.

Pagina di venerdì, 31 luglio

Imprevisto exploit, stasera, alle Terme di Realpolia. Vi si teneva il convegno su Sciascia e il cinema d’impegno civile, con grossi nomi, o comunque noti, distribuiti fra cinema politica tribunali avvocatura e via. Conduttore, Nuccio Fava, il quale introduce abbondantemente, toccando punti salienti della carriera del Racalmutese, con relative polemiche trasversali di non conformistica accensione leonardiana. Il regista Damiani, dopo avere ricordato le ultime vergogne del regime appena mascherato (culminati nei massacri dei giudici Falcone e Borsellino e relativi contorni stragisti) si chiede che cosa ne avrebbe detto Sciascia. E richiama il famigerato articolo corrieresco sui presunti Professionisti dell’antimafia, del 10 gennaio 1987, che lui, confessa, non ha mai capito. Dopo altri interventi più o meno distanti dall’ “effettuale” dei due massacri ancora fumanti (di sangue vanamente eroico), parla Vitale, giovane avvocato facondo e ipersicuro, che polemizza con Damiani. La cui domanda, pretende il brillante giovanotto in posa tribunizia, “non ha senso”. E chiarisce: Sciascia ha lasciato abbastanza documenti per poter intuire cosa avrebbe detto sugli ultimi tragici eventi. Finito il giro della tavolata in palco, chiedo di poter intervenire, e mi viene passato un microfono giù, in platea (troppo movimentato sarebbe riuscito uno spostamento dal mio sedile al tavolo). Mi dico subito d’accordo con Damiani, richiamandomi, a mia volta, all’incauto avventato articolo che suscitò incredule e indignate reazioni più che motivate. In sostanza, mentre ripetevo la stima e l’affetto per lo scrittore, che, dissi, continuavo a leggere con vero godimento e profitto, ne condannavo l’infelice sortita come un passo falso. Aggravato, poi, dal titolo (per me, poco innocente, anzi sospettabilmente peloso) voluto dal direttore Ostellino, un liberale più metafisicamente dottrinario che scrupoloso realista attento ai fatti; nonché conseguenzialmente fanatico dei diritti individuali fino a un garantismo poco gentile verso i giudici a rischio e, di fatto, molto con i criminali di ogni conio e risma. Naturalmente, espressi la mia sofferenza per quella scivolata dell’amato autore, del quale, per inciso, mi ero occupato con convinta simpatia in due articoli sul quotidiano La Sicania e sulla Gazzetta dello Stretto. Simpatia ripagata da Sciascia con il bel libro fotografico di Scianna, Feste religiose in Sicilia, e la ghiotta presentazione dello scrittore, che ci scrisse sopra una gradita dedica. Al mio schietto intervento replica Vitale, che conferma la sua precedente arringa, senza aver colto il senso del mio dissenso. Sciascia, secondo lui, avrebbe detto le stesse cose su quei presunti professionisti. A caldo, ribatto: “e avrebbe sbagliato ancora”. Poi chiedo a Fava qualche minuto ancora per replicare alla lunga requisitoria del Vitale che mi puzza sempre più di scarsa sensibilità verso i giudici-eroi. Mi vedo costretto ad appesantire le obbiezioni a Sciascia, rievocandone l’ostinazione nell’errore e l’uso di un linguaggio greve contro quei giovani del Coordinamento Antimafia palermitano, a loro volta troppo eccitati (ma comprensibilmente) contro l’idolo “traditore”. Ne segue un vivace scambio di battute tra il sottoscritto e l’avvocato eloquente. Mormorii di disapprovazione in un gruppo di radicali presenti, tra cui qualche mio ex alunno troppo pannellizzato. Qualcuno ricordando un giudizio imbecille di Pannella (quest’altro fanatico malato di ipertrofia dell’ego, come gli rinfacciò un suo ex sodale) che arrivò ad accusare Falcone e il pool antimafia di “ammutinamento contro lo Stato”, mi eccitò a cantarle ancora più alte: “Pannella non perde occasione di sparare anche qualche sonora sciocchezza!” Rina, spaventata dalla piega che prendeva la serata, e temendo per la mia salute, ha insistito perché andassimo via, spalleggiata da mia figlia e dal suo ragazzo. E si è tornati a casa, “così com’ella volse.”

Il convegno era preludio introduttivo a una rassegna cinematografica estiva con periodicità annuale organizzata da certi amici e sponsorizzata dal nostro Assessorato comunale alla Cultura. Le pagine successive dell’Agenda registrano la nostra presenza alle proiezioni dei film ispirati ai romanzi di Sciascia. E la pagina del 30 mi rammenta un’altra partecipazione impegnativa: Convegno su Sciascia e la Francia, presente il proconsole francese di Sciascia, Ambroise. Sede dell’incontro, la “sala conferenze” del Comune di Realpolia, che per la ghiotta occasione si è riempita. Molti i miei colleghi di liceo presenti e un buon numero gli alunni del mio corso e di altri. Non si sono ascoltate novità interessanti, tranne, parzialmente, quelle di Ambroise e del mio compaesano Savacca, ordinario di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’ateneo di Liotria (che è tanto generoso con le operose mediocrità accomodanti quanto refrattario agli ingegni creativi, ma severi alla Gulizza). Ho fatto il mio bravo intervento, col solito pass di emotività cardiocinetica. Ho chiesto ad Ambroise se avesse fatto caso all’uso frequente dell’aggettivo “cretino” nella pagina di Sciascia, e, nel caso, cose ne pensasse. Non ci ha fatto caso, e mi sembra una stranezza, in tanto critico. Io cosa ne penso? Penso a una specie di “fissa”, di idea ossessiva, con radici in un (non so quanto inconscio) timore-terrore che qualche suo lettore o critico potesse coglierlo in una o più scivolate degne di quell’aggettivo perentorio. E così lui prende prima, e fa dare del cretino al prof. Laurana e a tanti altri personaggi della sua ricca galleria (specie del Contesto). E implicitamente distribuisce l’insulto ai suoi critici di stento elogio o facili riserve. Una specie di complesso dell’autodidatta. Rilievo che non vuol togliere nulla al valore del narratore e dell’intellettuale impegnato (chi non ha le sue zone molli?). Salvo gli scivoloni occasionali, come “I professionisti dell’antimafia” che, ovviamente, sono dei poveri “cretini”, illusi di fare lotta alla mafia, in realtà avidi, alcuni di loro, di premi carrieristici per quella finta guerra di affollati cortei e vocalizzi altisonanti. Ma che premi e che carriere!
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Non direi che l’incontro di Sciascia con Borsellino, propiziato dal sindaco di Marsala Enzo Genna, il 27 gennaio del 1988, abbia dissolto in fragili nebbie in preda al vento purificatore dubbi e deduzioni attossicate uscite dal ventre di quell’infelice intervento. Sì, è vero, Sciascia chiarì e il giudice frainteso accolse il chiarimento: “Ebbe la gradevolezza di darmi una interpretazione autentica del suo pensiero, che mi fece subito riflettere sul fatto che quella sua uscita mirava a ben altro”. Queste le parole di Borsellino, sulla nobile “persona che aveva estrema importanza nella ‘sua’ formazione e anche nella ‘sua’ sensibilità antimafia”. Il 7 luglio del 1991, a un convegno cui partecipa anche Falcone, dichiara, accanto al ministro della Giustizia Martelli, ritornando sull’articolo di Sciascia: “l’uscita fu sfruttata purtroppo all’interno di una pesante corrente corporativa della magistratura che sicuramente non voleva quei giudici e quel pool. E sono probabilmente le stesse componenti corporative della magistratura che si oppongono a che i pubblici ministeri, opportunamente coordinati, funzionino davvero”. E sta bene: Sciascia dovette capire di avere sbagliato, quantomeno nel tono e negli esempi allusivi di quello sfogo. Il giudice aveva confermato il volenteroso gradimento della pacificazione in altra, precedente, occasione di incontri amichevoli, condita di buon pesce fresco e innaffiata di generoso vino siciliano, in un ristorante sul mare (Mauro Rostagno fece in tempo ad essere “cronista d’eccezione” dell’evento per una Tv locale). Ma sta di fatto che il 25 giugno del 1992, un mese dopo l’eccidio di Capaci, nella Biblioteca comunale di Palermo, Borsellino pronunciò queste dolenti parole: “...il paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, l’anno dell’articolo del Corriere...” Segno che quell’‘uscita’ da via Solferino tornava a bruciare. Meno di un mese dopo, in quel 19 luglio di fuoco, quel Contesto avrebbe consumato un altro crimine da Guinness satanico, in quella via d’Amelio per nulla controllata. Anzi, forse troppo: ma dal mefistofelico Nemico plurale che, probabilmente, ne predispose il dettaglio (l’innocente Cinquecento parcheggiata al fianco della casa materna del giudice) alla torva missione di quel repulisti (in ultima istanza sempre mammonico). Non si è detto che il tipo di esplosivo usato non era di quelli accessibili ai giustizieri del nostro inferno quotidiano? Il tritolo mafioso è diverso da quello militare: ed ecco l’esperto renitente al Complotto affermare che proprio di quest’ultimo tipo era quello di via D’Amelio.
E che dire della famosa Agenda rossa così “misteriosamente” scomparsa e diventata irreperibile? Eppure si sa chi la prese, lo si vede nei filmati, quel carabiniere, quell’esecutore dell’ordine terminale. Invano ad ogni annuale ricorrenza di quella data il fratello di Paolo e tutta la “parte” che non si rassegna ai troppi misteri dolorosi della fascinosa Italia “sedotta e abbandonata” (ai suoi torvi stupratori), tornano a parlarne, ad accusare, a rinnovare memoria e sofferenza per le minoranze ancora prive di callosità emozionali protettive del nostro peggio. Invano. Perché gli appunti del Giudice eliminato come fastidioso ingombro sul groppone del malaffare “complicato” fanno paura a qualche fetta di complicità infetta. E così, pur rivedendo quel fantasma catodico di carabiniere che la porta via sottraendola al suo naturale destino inquisitorio, non si conoscono i mandanti di tanta “prudenza”, né la “tutela” ultima del prezioso quanto dirompente testimone imbavagliato.
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Tornando al tema “Sciascia e l’antimafia” aggiungiamo al testo di Paolo Assaggi questa espansione integrativa (il curatore dei suoi diari).

[...] Amicizia precede Amore. Deve precederlo. Perché la vera amicizia si specchia nella verità.” (Matteo Collura, Alfabeto eretico, Longanesi, voce “Amicizia”)

Caro Matteo,
ripenso alla tua vibrata reazione contro il mio giudizio sul “famigerato” articolo di Sciascia, “I professionisti dell’antimafia”. Ad Acitrezza, al cospetto dei ciclopici Faraglioni, hai pronunciato una sentenza: “La mediazione è dei politici, uno scrittore deve testimoniare la verità quando sente di farlo”. Parola più parola meno, la frase era questa. Ma in quel lembo di Crono votato all’agape amicale, la piccata sentenza fu giustamente lasciata volare nei liberi cieli dell’inessenziale.
Non ho usato a caso la parola ‘sentenza’: il tono perentorio (tale mi suonò) della tua “replica” al mio dissenso sui modi e i tempi di quella sortita gravita, infatti, nella zona del sentenziare. Nel mio linguaggio, equivale a dire: nel clima del “maiuscolarismo”. Per Maiuscole si intendano i valori “assolutizzati”, resi metafisici e pertanto sottratti al controllo empirico e all’empirica flessibilità orientata al “minor male”. In fattispecie, la mediazione e la politica c’entrano poco: quando è in gioco la vita e la morte delle persone, bisogna (credo) andare cauti con gli assoluti. Dopo la mattanza dei giudici (Chinnici, Ciaccio Montalto, Livatino...) e militari (Boris Giuliano, Basile, Cassarà, Antiochia....) assassinati dalla mafia, scendere in campo per accusare l’antimafia non appare, certamente, come una prova di sensibilità umana. So che questa accusa ti farà imbufalire. Ma se ritrovi la calma, potrei tentare di spiegarmi.
Sciascia era un siciliano di temperamento molto reattivo. Un certo fastidio provocatogli da alcuni campioni chiassosi dell’antimafia verbale lo ha distratto dalla sanguinante realtà degli (di quegli) eccidi ancora fumanti di sangue generoso, bloccandone la disponibilità empatica verso chi merita e il merito s’è acquistato con il sacrificio supremo. Non ci sono scuse e scorciatoie discorsive e razionali distinguo alla diserzione da quest’obbligo. E dunque solo quella temporanea “distrazione” può spiegare l’incauta sortita. Quanto è venuto dopo (l’orrore di Capaci e Via d’Amelio, le bombe troppo selettive e mirate di Roma Firenze Milano del ’93) conferma tragicamente l’inopportunità di quella presa di posizione.
“Ora bisogna guardarsi non soltanto dalla mafia, ma anche dall’antimafia” si legge nel tuo bel libro, col seguito del commento: “E lo dissero i siciliani ‘puliti’, non implicati in alcun modo con la mafia”. Ti chiedo: ne siamo certi? O non si rischia di ammucchiare fra i ‘puliti’ i quaquaraquà di don Mariano Arena? I quali, è vero, non sono “implicati in alcun modo” con la mafia, se implicarsi significa colludere in modo attivo. Ma in verità un poco implicati siamo tutti, indirettamente. E tutti i ‘puliti’ subiamo le conseguenze di quel non essere implicati. Tra le quali, il tributo del pizzo. Grosso, se siamo commercianti o professionisti che pagano la ‘protezione’; piccolo e molto laterale se siamo operai impiegati insegnanti pensionati salvati (finora) dall’esazione targata Piovra. Come lo paghiamo? Semplice: i taglieggiati diretti devono rifarsi in qualche modo di quella tassa impropria, e ne scaricano gli effetti sui prezzi delle loro merci o servizi.
Che poi ci sia stata un’antimafia chiassosa e spettacolare è un altro discorso, e lo si poteva liquidare con un sorriso di non feroce ironia. O magari di amara ironia, visti gli esiti ‘effettuali’ (posso, di tanto in tanto, “copiarvi”, te e Sciascia?) quasi nulli di quel folklore. Ma non era possibile, stando a quel che leggo: “[...]in Sicilia l’antimafia aveva finito col praticare metodi mafiosi per affermare la sua supremazia, il suo monopolio nella sacrosanta lotta alla mafia”. Bontà tua, aggiungi: “Non tutta l’antimafia, si capisce: solo quella che, se non fosse esistita la mafia, non avrebbe avuto alcuna occasione di carriera e di notorietà”. Con dolore e disagio scrivo quanto segue. Quali sarebbero i metodi mafiosi dell’antimafia criticabile e clamante? I presunti “sospetti, teoremi e crociate”? Ma la mafia non usa teoremi e crociate, e i suoi sospetti sfociano in ben altri metodi: avvisi chiari (tipo, proiettili incartati, teste d’agnello in buste di plastica, bombe su macchine vuote e contro negozi,...), con sbocco sommitale (degli avvisi sterili di esiti pragmatico-monetari) in risolutivi omicidi “pedagogici”. Vogliamo dire quanti morti ha prodotto l’antimafia?
Occasione di carriera: ma quali carriere ha favorito questa patetica antimafia? Quella di Orlando? Di Borsellino? Che carriere! Colui che davvero meritava una promozione per reali meriti, dico Falcone, fu servito con il contrasto subdolo del suo procuratore capo, il boicottaggio di corvi e traditori subordinati, l’umiliazione di vedersi scavalcato da un quaquaraqua nella direzione di quell’ “Investigativa” che lui aveva elevato a efficiente macchina anti-cosche (il lavoro del successore imposto fu lo spezzettamento del monoblocco investigativo del pool in mille rivoli indipendenti, mentre il capo della Procura umiliava Falcone in compiti ridicoli). Il tutto, come si scoprì in seguito, con il lavoro sotterraneo di certa massoneria e dei (soliti) servizi segreti “deviati”. Il fatto è che Falcone e Borsellino avevano, collaborando con Carla Del Ponte, individuato il bersaglio giusto: le banche svizzere e di altri paradisi fiscali (europei e di più remoto marchio) i quali custodivano e ripulivano gli ingenti capitali insanguinati. Le parole, a volte, “sono pietre” (come scoprì Chi vide Cristo fermarsi a Eboli) e prima di lanciarle sarebbe bene valutare ponderatamente il bersaglio. Specie se si tratti di iperboli. E dire che il pool stava realizzando i suggerimenti di Sciascia: “Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche: mettere mani esperte nelle contabilità...” (Alfabeto eretico, voce “Mafia”. Con quel che precede e segue).
Come mi spiego la “distrazione” di don Leonardo? Con la sua biografia (della cui conoscenza non ringrazierò mai abbastanza l’autore del “Maestro di Regalpetra”), la sua acuita sensibilità alla giustizia ingiusta. L’esperienza traumatica della disavventura paterna con l’avvocato traditore e l’ingiusta “condanna”, il suicidio del fratello. E via seguendo le tue stesse indicazioni. La diffidenza verso la Giustizia con la maiuscola, tradita (troppe volte su cento) nella quotidiana prassi da giudici vili corrotti collusi con politici e mafiosi o militanti in certa massoneria tralignata, è l’esito inevitabile di tanta amarezza biografica. Un discorso simile (e complementare) può farsi per la Giustizia sacralizzata e il suo fanatismo: ma non sembra, questa, la “forma” più minacciosa. Tale privilegio storto spetta all’altra versione, quella schizzata sopra,
Detto questo, ne faccio seguire quest’...altro: proprio perché la giustizia giusta è sempre stata un esito minoritario (ah, i polli di Renzo!) della competente prassi, debbo apprezzare al meglio i pochi giudici che la garantiscono, o tentano (nelle strettoie delle leggi, e fra le trappole dei boicottaggi interni) di realizzarla, fosse pure soltanto in parte (per colpa di quelle trappole nel “sistema”). Vedi maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino. Dove sarebbe, allora, lo scandalo se un giudice antimafia viene promosso per le sue capacità specifiche contro la pratica idiota della mera anzianità? Le promozioni (ivi compresa la progressività degli stipendi) per mera anzianità sono il cancro da estirpare (ma, campa cavallo!) in tutta l’amministrazione pubblica (perlomeno): un vasto capitolo dell’imperante scialo targato Sprechi di Stato.
Concludo con un “appello”: credimi se ti assicuro che non voglio bene di meno a Sciascia per questo mio parziale dissenso (indotto da uno “specifico” ben delimitato); che lo rileggo con piacere stima e profitto. A sostegno, mi concedo una citazione, dalla “Vita di Galileo” di Brecht: “Non tutto ciò che fa un grand’uomo è grande”. E si può aggiungere: non c’è grand’uomo che non abbia le sue colpe i suoi vizi le sue occasionali défaillances. Io non mi sono mai associato agli insulti dell’antimafia “cattiva” (o soltanto incautamente offesa) contro Sciascia, ma non potevo né posso accettare quella sortita come un merito della sua battaglia contro il malcostume e le piaghe della vita politico-sociale, proprio perché si prestava a un uso strumentale pernicioso, nei fatti puntualmente praticato dalla canaglia “bipartisan” della politica stile “Giorno della civetta”, “Il Contesto”, “Toto modo”, e via denunciando. O da critici frettolosi.
Quando Sciascia dice: “Non sono infallibile, ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”, mi trova pienamente d’accordo (attraversando il lungo sentiero produttivo che va dalle “Parrocchie” all’ultimo testo). Quando afferma “ho da rimproverarmi e da rimpiangere tante cose” bisogna pure prenderlo in parola. Magari, semmai, sostituendo il “tante” con “alcune”, o “certe”. Né ho dubbi sul consentire quando, a compimento del pensiero, rivendica: “ma nessuna che abbia a che fare con la malafede, la vanità e gli interessi particolari”. Basta, tanto, perché la nostra amicizia non sia turbata da questo parzialissimo, ed eventuali altri, dissensi? Da parte mia, ne sono convinto. Ti abbraccio [fine lettera]
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Vedo che il tema è tornato d’attualità e continua a scottare, riproponendo i due schieramenti di vent’anni fa: un ventennale non si presenta invano alla ribalta mediatica. Ottima occasione per rifare i propri conti, riconsiderare gli argomenti altrui, massime quelli delle “grandi firme”. Ho letto la pagina della Repubblica del 28 dicembre (“Quel j’accuse di Sciascia”, di Attilio Bolzoni, con intervista alla figlia Maria), ho letto Pierluigi Battista, ho letto Piero Ostellino. E mi capiterà di leggere altro. Sempre col vivo interesse di vent’anni fa, quando il sangue mi fluiva più caldo nelle vene, ma, oggi, con minore propensione (spero) a perderci il sonno: troppa esperienza degli umani mi ha costruito la certezza scettica che l’ego di ognuno finisce col dominare le nostre sensibilità, a volte fino a sospenderne l’ingresso nelle elucubrazioni stolidamente credute del tutto “asettiche”, cioè tutte di puro filato razionale.
Le “grandi firme” hanno un’incontrollabile tendenza a volare subito verso i massimi sistemi: fanno della teoresi e obliterano fatti destini sofferenze di persone “carnali” coinvolte del contenzioso; e ludicamente bazzicano con manichini di plastica e robottini di pura verbalità. Di tutto il bla bla bla messo in campo, mi gusto le notizie documentate, le parole dei familiari, sommari-catenaccio come questo di Repubblica: “Fu uno scandalo: dalle pagine del “Corriere” puntava il dito contro Paolo Borsellino e il sindaco Orlando, ma non ce l’aveva con le persone, come poi si capì”. Non ce l’aveva con le persone: ecco un testo che seduce al commentino smagato: ma se le indicava col dito dritto puntato contro! Ma se picconava le ragioni dell’uno e dell’altro senza sbavature di equivoci e anòdine genericità! “Poi si capì”? Non sarebbe più “amichevole” verso la verità, la sincerità e lo stesso Sciascia dire che poi capì di avere quantomeno esagerato e precisò (in incontri privati e dichiarazioni pubbliche, attenuando con un secondo il primo articolo, che non ce l’aveva con i due chiari bersagli, ecc.)? Il bailamme suscitato lo aiutò a prendere coscienza del botto sparato. Come si dice? Meglio tardi che mai: e questo gli fa onore. Ma sarebbe stato ancora meglio ammettere che i meriti antimafia guadagnati sul campo a rischio della vita (puntualmente, e prevedibilmente, perduta pochi anni dopo, in quella maledetta primavera-estate del 1992) giustificavano la promozione di Borsellino nella “trincea” (non certo nella sinecura) di Marsala, come bollavano d’infamia la vittoria del Meli su Falcone al Csm inquinato da giudici complici e quaquaraquà (recentemente, uno di questi ha tentato di censurare il film con Dapporto-Falcone, colpevole di alludere alla sua non eccelsa figura: aveva votato, tra l’altro, contro il giudice al Csm). Tipico caso in cui il formalismo delle astratte regole uccide la sostanza di carne e sangue. Ma non seppelliamo il fatto che, spesso, l’astratto si muove al guinzaglio del molto concreto e corposo “particulare” guicciardiniano. Ne costituisce il gallonato servitore.
Come previsto, ho “dovuto” leggere altri testi sulla querelle. E mi si è confermata l’idea che in Italia si procede spesso a ondate di conformismo e di mode: nel ventennale di quella tempesta pare diventata moda la pretesa di chiedere scusa a Sciascia. O almeno, dargli ragione “senza se e senza ma”. Che quella pretesa parta da un Pierluigi Battista, pazienza: da sempre lo qualifica l’ambizione del moralizzatore dalla fluida penna. Il fluiloquio a galoppo (dire la stessa cosa in tre-quattro modi in fila saltellanti di gioia lessicale) gli sembra argomento sufficiente per sentenziare a destra e a manca senza la fatica del documentarsi e meditare pazientemente sugli eventi e i loro protagonisti: di veri argomenti, infatti, c’è ben poco nel suo “argomentare”, quasi sempre rimuovente e selettivo a senso unico. La fattispecie non fa eccezione. Né possiamo dimenticare che Battisti integra il folto manipolo degli “anticomplottisti”: una sottospecie culturale che va crescendo all’ombra del vessillo “down with plots!”. E spiace che vi si imbranchi un cervello lucido come Sergio Romano, di solito così cauto nelle sue rivisitazioni storiche. Mentre non suscitano perplessità “arruolamenti” come quelli di un Ostellino, di un Panebianco e altre glorie solferiniane. Insomma, gli anticomplottisti sono già maturi per contendere il primato ai complottisti fanatici. E forse sono peggiori, se possono spingersi fino a negare il complotto di Dallas 1963, e prendere per buono quell’“insulto all’intelligenza” (Bertrand Russell) che fu il “Rapporto Warren”.
Pazienza, si diceva. Ma che perfino un Tano Grasso ripeta il ritornello “Sciascia aveva ragione” vuol dire che siamo alla moda del capovolgimento: dal crucifige al Gloria in Excelsis. E manco male che non si associ al “chiedere scusa”. Come invece vorrebbe un altro campione del libero pensiero quale (si ritiene) Piero Ostellino, accodandosi al Battista (che ironia, a volte, nei nomi: nomen omen?). Il quale Ostellino tira fuori l’asso del “pensiero totalizzante” e dottamente attribuendolo ai suoi oppositori e ai contestatori di Sciascia di ieri e di oggi, predica, in sostanza, il diritto del singolo a dire quel che pensa sempre comunque e in qualunque contingenza, senza badare ai possibili effetti delle sue esternazioni. E questo sarebbe il maximum del liberalismo etico-politico! “Minchia, signor tenente!”, verrebbe fatto di esplodere. Ci permettiamo di opporre, a tanta sicurezza, qualche dubbio: chi apre bocca non dovrebbe, dunque, porsi sempre l’interrogativo (etico, prima che politico) sui possibili rischi di danno sociale e confrontare i prevedibili vantaggi e svantaggi verso terzi avanti di scrivere o pronunciare parola? Noi, si parva licet, crediamo di sì. E se non lo fa, non stia poi a piangere incomprensione o gridare al complotto del pensiero illiberale quando gli effetti del suo predicare gli si rivoltano contro, dai fatti e dai giudizi altrui (di gente meno “astratta” e più corporalmente “partecipe” di lui).
Fra tutte le parole dette su cui ho stancato gli occhi mi suonano familiari le dichiarazioni del più arrabbiato dei critici di “quello” Sciascia: Francesco Petruzzella. L’unico che abbia evocato il clima di quel 1987, e ricordato, rivivendolo, il lutto delle stragi quasi quotidiane, la paura e l’inferno di quella Palermo maledetta sporcata di sangue innocente, dove una parola sbagliata poteva esporre al rischio di finire massacrati dal piombo mafioso. E’ l’autore di quell’eccesso denigratorio che io non condivisi nemmeno allora, in quel clima sovreccitato che pure sveleniva, almeno in parte, certe reattive sortite paradossali. Con questo culmine: “Sciascia quaquaraquà” che “si colloca ai margini della società civile”! Ma è un uomo di coerenza, questo Petruzzella, lui sì, un vero “siciliano pulito”, un ex ragazzo che merita tutta la comprensione di chi non confonde il sangue con l’inchiostro, la battaglia di carne a rischio totale con il ping-pong delle ideuzze predicatorie da sventolare su grandi fogli ben paganti. Ecco le parole che mi sono trascritte nella mia agenda-diario: “Non mi pento di nulla, certo la mia fu una reazione rabbiosa, ma la crescita umana e culturale di un’intera generazione siciliana è stata scandita dai morti, dai funerali, dal terrore. Quando lessi quella mattina del 10 gennaio 1987 l’articolo di Sciascia, rimasi pietrificato. Perché l’ha fatto?, mi chiesi. Perché Sciascia non si è limitato a descrivere uno scenario ma ha invece indicato due uomini  Orlando, il sindaco del grande cambiamento di Palermo e Borsellino, un magistrato integerrimo, come esempi dell’antimafia che fa carriera.”
Ecco un “giovane” che si espone, forte della sua pura coscienza. Quando apparve la famigerata “lettera” del Petruzzella nel putiferio subito esploso la maggioranza dei “putiferanti” attaccò l’antimafia, credendosi in obbligo di santificare l’icona Sciascia: una ventata di conformismo clamante. Molto sospetta, peraltro. Particolare interessante per misurare il clima del tempo e la viltà criminale dei quaquaraquà doc: “Poi i nostri nomi furono pubblicati uno per uno sul giornale locale. Tutti quelli del consiglio direttivo. Il titolo era: “Chi sono gli accusatori: una tessera rossa con la piovra nera” . Un episodio che meriterebbe commenti di fiamme, altro che la rinnovata “accademia” dei culi in carriera schermati contro ogni autentico rischio: l’ex giovane si limita a un sobrio commento:  “Un segnale brutto per Palermo, fare i nomi pubblicamente di chi stava contro la mafia.” Un “chi” parcamente plurale e, soprattutto, senza conforto di chiari consensi e corazze istituzionali: “Eravamo pochi, eravamo soli... In quel periodo avevamo paura anche di riunirci nelle nostre case, il clima di quegli anni era infame”. Ancora un dettaglio di peso al servizio di una valutazione onesta di quella “rabbia”: “La mia famiglia è di Racalmuto, il paese di Sciascia. E io Sciascia l’ho sempre amato, come d’altronde tutti i siciliani. Ma quell’articolo ha rappresentato uno spartiacque nella vicenda palermitana. Mentre noi cercavamo di ribellarci allo strapotere della mafia e andavamo in piazza a gridare “Palermo è nostra e non di Cosa Nostra”, gli intellettuali siciliani se ne stavano in silenzio, non si schieravano, facevano finta di non vedere e di non sentire in una città dove era impossibile non vedere e non sentire. Poi Sciascia addirittura parlò dei rischi dell’antimafia, non dei rischi della mafia. E fece quei due nomi, Orlando e Borsellino. Due personaggi che stavano provando per la prima volta a spaccare un sistema di potere mafioso [...] avremmo avuto bisogno di un sostegno, di una solidarietà da parte di intellettuali come Sciascia che non è mai arrivata [...] Ci ritrovammo soli. Dopo l’articolo sui ‘Professionisti dell’Antimafia' ancora più soli di prima.” Alle mirate (e finte) “provocazioni” dell’intervistatore, che lo vorrebbe contrito e confuso, quel “professionista” risponde: “Dopo vent’anni penso ancora che da Leonardo Sciascia mi sarei aspettato un altro gesto, la sua voce alta si sarebbe dovuta far sentire per aiutare i siciliani onesti a liberarsi dalla mafia [...] Palermo era avvolta nella paura. E Sciascia, il nostro migliore scrittore, il raffinato intellettuale, se la prendeva proprio con l’antimafia. No, dopo vent’anni non rinnego nulla.” Ecco delle parole di virile sentire. A fronte delle quali come suona falsa la supponente prosa dell’Ostellino in cattedra: “Vent’anni fa  dopo aver pubblicato sul Corriere, che allora dirigevo, l’articolo di Sciascia intitolato ‘I professionisti dell’antimafia’  scrivevo: ‘E’ bastato che Sciascia sollevasse il problema della compatibilità fra autonomia individuale e lotta collettiva alla mafia perché nei commenti di giornalisti e uomini politici rispuntasse il ‘pensiero totalizzante’. Oggi [...] rispunta quello stesso pensiero.” Eccolo qua, invece, il pensiero volante: fra libere astrazioni dalle sonorità cattivanti. Dove rimane confinata la spietata realtà “corporale” che s’affaccia nelle parole dritte di Petruzzella? Quanto poca aderenza di viscere s’intravede in simili distillati di (presunto) puro cervello frontale? Tanto poca, quella, quanto del tutto presunto questo, perché, in termini di scienza, si tratta in realtà del laboratorio encefalico di ogni emozione e commozione (compresa la multicefala superstizione): il “sistema limbico” col suo ippocampo, la sua amigdala e così via. Ed ecco il parto di tanta gravidanza: l’enorme implicazione dello scritto regalpetrino “sublimata” fino alla rarefazione di una civetteria scolastica: “il problema della compatibilità fra autonomia individuale e la lotta collettiva alla mafia”!
Ora tanti degli ex ragazzi del ’87 vanno a chiedere scusa alla vedova Sciascia: fanno bene, se l’oggetto delle scuse sono le parole grosse da me respinte. Giocano, invece, a un nuovo “invasamento”, quegli ex giovani, quando ricantano il salmo dell’ “aveva ragione”. E non c’è da stupirsi: tanti di loro hanno fatto carriera (di avvocato giudice docente universitario...). Qualcuno, forse, aiutato da meriti anti-mafia? Può darsi. Altri hanno, semplicemente, tradito quella nobile illusione: vedi Pintacuda, buonanima, Carmine Caruso, figlio di una vittima della mafia assassina finito nelle file di gente che con la Piovra ha avuto solidi e non tanto occulti legami (per non parlare della figlia di Dalla Chiesa). Gli ex fondano un’Associazione intitolata a don Leonardo, ritrovano l’orgoglio civile, ma ripetono parole fruste, formule logorate dai molteplici abusi (“rifondare la politica in Sicilia”, “nuova fase” nell’eterna “lotta alla mafia” di puri gargarismi...). Fino al grottesco: in questa nuova fase “non ci sia né la delega ai magistrati né l’indignazione morale” (sic).
Si avverte l’equivoco odore delle astrazioni a gogò, flora lussureggiante in Accademia, negli studi “avvocatili”, nei talk show televisivi, nelle sudate prosette dei quotidiani prudentissimi. E dei rotocalchi con l’anima nella pancia e più giù. Quanto più verace, nella sua candida follia giovanile, quella rabbia, quella indignazione. Ai miei studenti di liceo mi sforzavo di trasmetterne un soffio, pur non essendo, io, giovane, in quei torridi anni Ottanta. E pur sapendo che fra loro c’erano alcuni figli di papà paganti il pizzo alla disonorata società (costruttori, farmacisti, medici specialisti ricchi di clientela, negozianti...). E usavo parole congeneri al “pietrificato” petruzzelliano. Pagavano, quei mercanti (del farmaco e del giure, che differenza fa?) e pagano. Altri miliardari, della politica e degli affari in felici sponsali, sono addirittura più addentro alle segrete cos(ch)e.
Al Battisti, che non ha le attenuanti della giovinezza, rivolgerei le parole che Nando dalla Chiesa indirizzò a Sciascia: “Non ti viene mai in mente di scrivere una bella terza pagina sul Corriere sui magistrati che fanno carriera proprio perché non attaccano la mafia, perché insabbiano?” Agli amici di Sciascia (tra i quali mi colloco a fronte alta) suggerirei, inoltre, di valutare l’influenza che può avere avuto l’amicizia con Pannella, la discutibile frequentazione dei radicali. Brava gente, ma “invasata”, spesso, a senso unico (fino a perdere, a volte, il sopra richiamato senso della “carnalità” degli eventi-persone). Per loro, la priorità di quegli anni era il “giusto processo”, non la lotta alla mafia. Erano le garanzie di trattamento umano ai carcerati, mafiosi (cioè pluri-assassini), compresi: che sono, magari, nell’in-sé della teoria, cose sacrosante, ma non quando si antepongono al vitale confronto con gli stragisti alla lupara (anzi, ormai, al kalashnikov e al tritolo, legittimi eredi di quel vecchio arnese), creando difficoltà supplementari ai giudici e ai poliziotti realmente impegnati su quel fronte privo di tregue. I boss gliene furono tanto grati, infatti, da iscriversi al partito. Come il super boss Piromalli. E da ordinare, dal carcere, il voto a tappeto per il partito socialista di Craxi-Martelli e compagnia bell[ic]a.
Leggo, nel servizio di Repubblica, “il presente” dell’ex ragazzo Petruzzella: “fa volontariato con i bambini a rischio dei quartieri popolari di Palermo, è amico di molti magistrati della Procura, pubblica articoli e saggi su riviste siciliane, raccoglie scritti su Cosa Nostra e dintorni”. Insomma, non è diventato un pentito accademico, o notarile e simili rifugi della vocazione al quieto vivere.

Ostellino, invece, continua ad essere quel dogmatico strabico che si crede democratico e liberal: approva tutte le scelte dell’America peggiore, adora Israele, qualunque porcheria commettano, l’una e l’altro, accusa di metafisica (un metafisico come lui!) pacifisti anti-unilateralisti, critici delle disastrose scelte yankee (ma sì, qualche parolina forte ci vuole di tanto in tanto), vuoi in politica estera marziale criminale e maldestra, vuoi nell’inquinamento sistematico dell’ambiente. L’ultima cavolata del ex direttore si scioglie sotto un titolo “titanico”:Terrorismo e chiacchiere. Poco poco, questo anti-metafisico di sogno teorizza il diritto degli Usa a bombardare qualunque Paese sovrano sospetto di ospitare terroristi. Anche a costo (come è accaduto diecine di volte e continua ad accadere in Iraq e Afghanistan mentre scriviamo) di mietere migliaia di vittime innocenti. L’immacolato Occidente fantasticato dagli Ostellino resta sempre senza macchia: e con nessuna responsabilità nella coltura del terrorismo. Se al peggio non c’è limite, neanche nel fortilizio-tempio del moderatismo duttile, non è difficile trovare sul “Corriere della sera” altri campioni dell’occidentalismo miope, con incluso l’americanismo affettivo nella versione estrema: Angelo Panebianco, Ernesto Galli della Loggia, e altri illustrissimi. Fermo restando che il rifugio elettivo di simile antropologia rimane il complesso arcoriano della multiforme medialità (giornali, magazine, tivvù e quant’altro): dove li trovi eroi della bufala cubitale così spudoratamente alieni dai fatti dalle evidenze dalle prove visibili e tangibili per qualunque distesa di autenticità, inclusa quella direttamente personale e pluri-registrata?

sabato 6 marzo 2010

Susanna, Frammento 59


Qualche anno dopo quell’incontro romano io stavo in Calamagna, ospite del cognato e famiglia, nonché commissario di filosofia alla maturità scientifica del paese di Boccalino, a pochi chilometri da Letizia Marina, luogo di residenza dei cognati. La cognata (come ho già ricordato) s’era messa in testa di riprendere gli studi universitari interrotti anni prima, e mi chiedeva spesso di spiegarle, registrando, certi argomenti più o meno asprigni. Stavamo in una sala del primo piano della loro “grande casa” (suggestione verbale da letture recenti, ma niente a che vedere con ...le “grandi case” cinesi di Pearl’s Buck), e io dipanavo la sillogistica aristotelica, con tanto di dettagli su “schemi” e “modi”, depositando la mia (non proprio paradisiaca) voce sul nastro magnetico, quando sul “terzo modo della prima figura”, il Darii, picchia un fulmineo tamburo di nocche sulla porta interna avvolto e travolto da un lampo di vento. Il tutto in due secondi, e piomba in sala la nipotina, cellulare in mano e luce di sorridente malizia negli occhi: “C’è una signora che telefona dalla Salerno-Reggio e cerca del professore Paolo Assaggi”. Salto su, punto da una non vaga sensazione di presentimento: “Come t’ha detto che si chiama, la signora?” Mi stuzzicava il cervello l’idea che la nipotina, già signorinella, e non ignorando il nome di Susy e relativo contesto, ben noto alla famiglia, avesse taciuto il nome per godersi la mia risposta emotiva e l’immancabile domanda. Accentuando quel sorrisetto, e spargendolo su tutto il bel visotto paffutello, rispose: “Mi pare che si chiami Susanna Castrato. Ma forse non ho capito bene”. Salto su, senza sottrarmi del tutto al gioco: “Hai capito benissimo, birbantella!” Mi passa il cellulare e rispondo, non senza un tremito nella voce e un turbinio di umori per tutti i canali, grandi e minimi, del corpo squassato. “Sono Paolo Assaggi, sei tu Susy?” Dall’altro “capo”: “Oh, che piacere risentirla: sì, sono io, sto per arrivare, diciamo fra un paio d’ore al massimo: possiamo venire a farvi una visitina?” “Ma certo, come no! Ti passo mia cognata”. La quale, agitata da più conscia malizia, non vedeva l’ora di blablare su quel telefonino.
Parlarono pochi minuti, le due dame, e si confermarono promesse e inviti. Susanna ricalcolò le probabilità del tempo frapposto tra quel contatto tecnologico e la reciprocità incuriosita della presenza corporale e corresse in parte la prima indicazione: fra un’ora e mezza-due ore. Il bel dialogo con il Maestro di color che sanno subì uno scompiglio dal quale tentai di risollevarlo, con successo soltanto parziale. Ma bisognava, al punto in cui si era giunti, concludere almeno l’esposizione della logica. Non era necessario esaurire la noiosa tiritera dei modi di tutte e quattro le figure sillogistiche: bastavano i quattro della prima, e pochi esempi di applicazione. La cognata ascoltava con diminuita attenzione, e fremeva d’impazienza: diversa dalla mia, ma di comparabile intensità, chiedendosi quali novità potesse recare quella visita piombata sul nostro routinario quotidiano come il proverbiale fulmine a ciel sereno.
Era trascorso un altro decennio dall’ultimo incontro calamagnese (ma solo qualche anno da quelli romani). Rivederla nella cornice ambientale della nostra love story, questo, sì, era un vero ritrovarsi. E sia pure mutilo e deformato. Quelli romani erano una specie di para-incontri, un’imitazione approssimativa. Non privi, certamente, di un loro fascino, no, perché nell’Urbe venivano a congiungersi, in qualche modo (il solito modo memorial-sentimentale dell’amarcord introverso) le tre-quattro storie del mio ultimo quarto di secolo in love. Come ho già sospeso a un fugacissimo cenno precedente. Ma Susy doveva stagliarsi nel glorioso rilievo della singolarità incomparabile: e per questo ambizioso target [sic] occorreva la magica mitica tragica Calamagna jonica. O meglio, quel tratto che pullula di pulsanti ricordi.
*
L’impatto “olistico” con Susanna fu un fiotto di emozioni compresse: l’uomo al suo fianco non mi impediva di vedere ascoltare baciare sulle guance odorare (stavo per scrivere sniffare) e stringere mani, ma filtrava quelle sensazioni ed emozioni. Che ne venivano alquanto mortificate. Compresse, appunto. La prima fase dell’incontro si esaurì nelle reciproche informazioni sulle rispettive famiglie. Susanna parlò delle figlie, la maggiore incredibilmente già laureata in medicina e in via di specializzazione neuro-psichiatrica, la seconda diplomata in ragioneria, studiava economia. Notai che non accennò, in presenza degli altri, alle difficoltà e sofferenze della sua vita di madre separata con una figlia anoressica. Naturalmente, io assecondai il suo riserbo. Mia cognata, Luisa, parlò della sua “bambina”, ancora alle prese con gli studi medio-superiori, ne decantò gli ottimi risultati, e via elogiando. Quando rientrò il cognato, altri saluti e sorrisi e cerimonie. Luisa non si era sbilanciata con inviti e complicazioni, ma il capo famiglia sparò subito l’invito a cena. Indispensabile condizione per una chiacchierata espositiva esauriente del problema che, dopo lo scambio delle ritualità verbali, era affiorato come reale e ponderoso movente dell’inatteso evento: il signor Marco Crivelli, buon amico della signora Castrati, si trovava in difficoltà con la burocrazia di quel ministero che sappiamo e la buona amica Susanna, spremendosi il cervello in cerca di aiuto, aveva pensato al suo ex professore di filosofia e al suo intraprendente cognato come persone cui poter chiedere soccorso. In realtà Susanna non poteva aver dimenticato che il sottoscritto, alieno dalla politica attiva e militante, non godeva di fiorenti amicizie altolocate. Insomma, io le servivo solo da ponte per arrivare a mio cognato, del quale doveva ricordare le frequentazioni politiche (e forse anche le massoniche?). Certo, sperava, anzi contava, con tranquilla sicurezza, sul mio personale appoggio presso il fratello di Rina, tornata sua buona amica dopo le riferite tempeste degli anni ormai lontani. Così, anche il mio ruolo era necessario, e non secondario. Già prima di conoscere i dettagli del complicato impiccio, Salvo si dichiarò disponibile.
La cena fu grandiosa (come disse mia nipote). Salvo non badava a spese, quando si trattava di fare bella figura. Massime se con una bella donna. E ancora di più se la bella donna era stata così importante per il cognato sottoscritto, al quale non aveva mai lesinato comprensione solidarietà e, occorrendo, complicità. Dal ristorante di fiducia aveva drenato, via telefono, un menù ricco e vario, a prevalenza marina: pesci crostacei scampi e quant’altro di meglio, per qualità e freschezza, il noto locale potesse offrire a persona di riguardo e a famiglia amica. I due ospiti mostrarono di gradire qualità e quantità, e la serata si sviluppò in gaia armonia masticatoria e ciarliera. Volendo dettagliare, furono soprattutto l’amico di Susanna e mio cognato a onorare la traboccante cornucopia mangereccia. Il qui scrivente, come si conviene a un occasionale dispeptico di capacità gastro-enteriche forzatamente modeste, si limitò ad assaggiare questo e quello del “gran varietà”. E fu presto incapace di ingurgitare fosse pure un ultimo gamberino. Tre qualità di vino innaffiarono il simposio semi-pantagruelico: anche qui, con prevalenza decisa dei due buongustai appena elogiati. Io sorseggiai qualche centimetro cubo più del solito, tanto da contrastare con qualche successo la componente atrabiliare della vibrante ambivalenza in atto. Né mancai di saettare sguardi furtivi alla mia Susy ciacolante in spensierata allegria. La nipotina mangiò, anche lei, più del suo solito, ma ebbe netta preferenza per i dolci finali. E sono certo che il faro curioso del suo sguardo piccato, esplorando l’orizzonte prossimo, puntò più volte sulla direttrice zio–Susanna. Mi chiedo: chissà quanto del mio interesse sfuggito all’incostante autocontrollo avrà colto con birichina soddisfazione di cacciatrice fortunata. Ne avrà fatta esposizione e commento con la ciarliera mammina? Come dubitarne? L’unica, ma debole, incertezza sta nella domanda: ha iniziato la madre la “trattazione” dell’argomento? O la figlia?
Mangiando, si parlava della situazione tecnico-burocratica del Marco postulante via Susanna. Il cognato confermò di potere rivolgersi a persone di peso e fiducia. Ed era quasi commovente il brillio di libidine cratofila nei suoi verdi occhi da favola: se ne aveva, lui, di amicizie forti! La serata si concluse dunque con soddisfazione degli ospiti e dei padroni di casa. Il meno coinvolto nell’affare, cioè io, era anche il più “pensieroso”: pensavo che alla fine della serata eccezionale, ci sarebbe stato un seguito di letto dionisiaco per i due viaggiatori. E, in qualche modo, eccezionale anch’esso: paese nuovo, nuove condizioni alberghiere, e via segnalando. “Pensavo” questo invidioso dolore: “pensum”, peso. L’origine arcaica del pensare-pesare mi si accese nella mneme fisicalistica spontanea con perentoria pressione neuronale. Pensum, peso, appunto. All’occorrenza, dolore. Per me, solo la speranza di chiudere nel sonno propiziato dal buon vino e dalla nutriente cena d’eccezione le fantasie beffarde su quel “dopo” separato.
A meno che... Già: un folletto sgambettante in ilare danza tentò di sgonfiare un po’ la nube di malinconia: a meno che, insinuò ciarliero e benaugurante, l’eccesso dell’ingombro gastro-enterico, e un convergente effetto sedativo dell’ottimo vinello troppo bevuto, non abbiano fiaccato le forze operative del “rivale” fortunato. Forze che la sciagurata Salerno-Reggio (faticosa, la sua parte, e a quel tempo in fase di iniziale cantierizzazione non-stop) aveva pensato, di suo, a provare con severità. Lo speravo sinceramente. Magari nella species di un beffardo flop copulatorio. Un’erectio mancata? troppo breve? molliccia? Alla buona sorte la scelta del medium vendicatore. Vendicatore di che? Ma della mia dabbenaggine, passata e presente. E sia: ma le congetture filano. Sarà stata notte di riposo. Pronto a scommetterci.
Last but not least, mica si può dimenticare, come stavo facendo, quel bendiddio di veleni tabagici ingoiati nel vulcanico ingolfarsi delle stramaledette fumate. Confermo la scommessa. Ma disturbata. Che ne sapevo, io, della resistenza fisica di certe complessioni? Io, così esposto agli scherzi degli eccessi. Ba’. Convochiamo anche l’età del soggetto, che, dopotutto, non era più un giovanotto di trantacinque-quarantacinque anni. Poi un ghignetto allegramente sadico: e le altre notti del soggiorno?
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Quanto precede è l’espansione narrativa di un gramo appunto sulla pagina 27-28 giugno dell’agenda del compiuto decennio, anno dell’ultima mia avventura scolastico-esaminale nella Calamagna. La pagina, divisa in due metà, per il sabato la domenica, non poteva contenere più di quel forzato estratto fugace della registrazione mnestica interna, in sé fin troppo folta di vario materiale. L’agenda è un ritrovamento recente che mi consente di correggere e riscrivere la seconda parte di questo ricordo scheggiato dalla lontananza cronotropica.
Ho scritto “ritrovamento recente” Si impone una divagazione. Recente quanto? con quale referente di anno mese e settimana? quand’è che sto scrivendo queste righe? E quante volte le ho riviste e modificate? Quante ancora, e quali, torsioni subiranno nel prossimo futuro? Ma ecco lo scarno appunto agendale.

“Dies inaudita. Ore 17 c.: s’avviava alla conclusione una lezione sulla logica aristotelica che la cognata mi aveva chiesto di registrare per lei (non ben vedente) quando la nipotina L. ci porta il telefonino con una chiamata di Sa, l’Assente-presente in my life. Omissis. Verso le 21 era con noi. Purtroppo, con il suo “amico”. Veniva a chiedere aiuto al cognato per difficoltà nel suo lavoro. Sono rimasti a cena. Abbiamo trascorso una serata out of usual: piena di buoni cibi, vino e, ohimé, nicotina e catrame in fumo dannato. Fino a mezzanotte et ultra. Lei sempre chiacchierina, prorompente. Un po’ meglio della volta scorsa. Lui un po’ peggio. Quel loro fumare come diavoli!”
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Nei giorni seguenti Salvo contattò il primo anello della catena protettiva, il barone Macarì, noto proprietario terriero della Calamagna, Venerabile della locale Loggia (rito, Grande Oriente d’Italia), buongustaio della mensa e del letto, spregiudicato finanziere, politico di area repubblicana, già deputato al parlamento nazionale e a quello regionale. Il barone avrebbe consultato e attivato gli amici romani, i più adatti dei quali si sarebbero impegnati a concepire e attuare una strategia di contrasto sui nemici interni dell’amico di Susanna. Il cognato informò del movimento l’interessato in una sorta di preludio alla seconda grande cena di quell’estate. Stavolta, su invito dell’ingegnere Marco, che aveva prenotato nel migliore ristorante del paese. Fu un’altra serata memorabile, per me, che vivevo lontano da simili tentazioni ed occasioni. Ma ancora più che per la fastosa cena (dato il mio già denunciato consumo riduzionale di cibi e bevande), per il “preludio” che la precedette nella Grande Casa.
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Ecco la pagina dell’agenda-diario dell’8 luglio di quell’anno.
“Clou: il secondo incontro con Sa. Il suo Mensch und Herr va all’incontro per soli maschi massoni; Sa resta con noi (moi e cognata). Ad un certo momento, verso le 21,30, rimango solo con Sa. Mi racconta i suoi più recenti guai di salute e di vita. Di nuovo la cisti alla tiroide: dice che non si farà operare più (ha subito ben sette interventi, conteggiando i due cesarei). E la gola è bruciata dal fumo. Il padre soffre tanto per il tumore alla prostata. Omissis. Ripenso, da quel balcone-ballatoio dove si incontrarono lei e Rina, e da dove le vidi (ancora giovani, nel 198...) passeggiare da buone amiche ritrovate (lei confidava a metà la nostra intesa degli anni 60), al passato remoto e meno remoto; alle mie prurigini romanzesche, al mito Sa… Le confesso che cosa ha rappresentato per me, quanto ho scritto su di lei… And then I asked her for a kiss lips to lips…even light. She said that it would be dangerous. Why? It could be make up the ancient fire…And it should be dangerous for two persons…Stuffs! Ricordo anche la mia dolorosa rinuncia di allora; e lei precisa che tanto grande questa rinuncia non la si potrebbe proprio dire…Omissis. Più tardi, la cena: opulenta. Al Charlie Brown. Offre il suo man. Ero senza digestivi. Pazienza. Sa allegra. Si vive così, fra la dolorosa coscienza e l’oblio “terapeuta”. Dice (mi aveva detto quando eravamo soli nello studio, e poi nel salone del cognato) che vorrebbe lasciare lui per smettere di portargli jella. Ricorda che aveva avuto corteggiatori ricchi e li aveva sempre respinti. Rimpiange di non avere scelto un partito del benessere sicuro e senza problemi. “Tanto, sono finita sempre così” Eh, sì, sei jellata cara la mia Sa. Che tristezza! Ma non credo a quel rimpianto: troppo pulita per quella vendita.
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Questo lo scheletro narrativo di quella serata ricca: di emozioni e parole, ricordi e confessioni. Ma pure di omissioni. Bisogna che attinga al serbatoio mnestico interno per appiccicare un po’ di carne allo scheletro poco coperto.
Quando la cognata si allontanò dallo studio lasciandoci, così, soli (la nipotina stava fuori con le amiche) ci furono le confidenze di Susy accennate nel diario, e poi le mie, meno condensate delle sue e attente ai punti chiave della ruminazione introversa sulla nostra (e soprattutto mia) avventura.”Soli eravamo e sanza alcun sospetto”. E’ pur vero: non avevamo in mano nessun libro galeotto, ma dentro i cervelli ferveva un brulichio di memorie remote, che il sottoscritto immaginò di uguale temperatura nei piani alti (e bassi?) dei due corpi. Leggevo, in fondo, io, il libro virtuale delle mie memorie. E parlai, traducendo a sprazzi da quei quaderni, a una Susanna attenta e lusingata; dissi il mito ch’era stata nella mia esistenza scomposta e complicata, non garantita abbastanza negli affetti da un vicendevole amore coniugale. Le parlai dei miei diari segreti, del cassetto sotto chiave in cui depositavo emozioni e pensieri legati a lei, profumai di languide gardenie questa seconda vita sotterranea, alimentata, per un paio d’anni, dalla nostra reciprocità desiderante e sottostanti furtivi contatti consumati largamente e variamente minacciati. E poi, dopo l’infausta sua “fuga” senza ritorno, dalla sofferenza dell’“abbandono”. Bruciante sofferenza, con estrema difficoltà contrastata, perfino ricorrendo a un palliativo ambiguo: parlare di lei con Rina, sia pure criticandola insieme alla famiglia. Un mezzo spinoso per sentirmi in qualche modo vicino all’Assente, che da lontano mi tormentava: con i suoi silenzi, le sue promesse non mantenute, le sue bugie (o mezze bugie) sulla salute che ne ostacolava il ritorno. E perfino con le novità seduttive di quel soggiorno-destino, le nuove conoscenze, l’accoglienza calorosa, e via graffiando. Non le nascosi neppure che speravo di fare un romanzo della nostra vicenda. Sì, lei ascoltava con lusingata attenzione, probabilmente frastagliata di flash memoriali. Alla confessione, finalmente libera dopo ventisei anni di quasi totale silenzio sul vibratile tema, seguì quel mio tentativo di strapparle un bacio lips to lips. La sua reazione l’appuntai in inglese per il solito timore di un eventuale (ma così poco probabile, invero) incontro dei begli occhi di Rina con quelle righe rugose. Anche quell’inglese è uno scheletro, ma avrei poco da incollarci ad augendum. Susy temeva di far torto a due persone, Rina, la cui amicizia non voleva più tradire; e Marco, che era tanto buono con lei. Io dissi “sciocchezze”, ma non ebbi tempo di organizzare una replica saldamente motivata. E cioè, (sottinteso) meglio attrezzata per fare breccia sulla...roccia. Che poi così rocciosa non era se potè avvolgere il rifiuto in un dolce sorriso di ostentata saggezza e disse che era meglio di no, che ormai la nostra storia apparteneva al passato, che era preferibile non risvegliare sopiti fantasmi facendo torto a vive presenze corporalmente assenti, ma non perciò meno reali e titolari di diritti. E nominava Rina, l’amica pluritradita, alla quale, disse, le rimordeva di avere rifilato mezze verità e grandi omissioni. In conclusione, il bacio non ci fu. E forse ne mancò il tempo di maturazione operativa, visto e considerato che la cognata ritornò in sala prima del previsto poco vagamente agognante. Comunque fu un vuoto opaco della luminosa serata. Una specie di sberleffo, anche, per Paolo e Francesca. Non solo non ci furono mortali trafitture di infernali metalli, ma anche “quel giorno più non vi leggemmo avante” sarebbe una bugiarda violenza all’alta poesia del Massimo: via telefono, qua e là, il “vibratile tema” fu toccato, “riletto”, sia pure per cenni.
Non trascorsero, davvero, molti minuti prima che ritornasse la cognata. Che forse ci aveva lasciati soli spiandoci per cogliere sviluppi piccanti di quell’occasione ghiotta. Era il tipo da farlo, e lo aveva fatto più volte, nel recente passato, a danno e scorno del marito farfallone, che più d’una volta aveva sorpreso in flagranza di fellonia galante. Sì, era diabolica la piccola polputa Luisella ciarlona. Difficile dubitare che anche in quell’occasione non abbia ascoltato nascosta le nostre parole. Almeno in parte. E magari, quando avrà sentito che Susy non mollava il bacio invano propiziato da tanto amarcord, decise di rientrare. In sintesi: non c’erano le condizioni per un sia pur piccolo strappo, necessario, pur sempre, di quel contrattacco convincente che mancò: né di spazio né dell’altro polo del… relativistico cronotropo! Ci fossero state (così prova a dettare, non sappiamo se la vanità o la perspicacia), lei, certamente, no, non mi avrebbe negato quel bacio per troppi anni desiderato nell’interminabile digiuno. Vanitas vanitatum...
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La serata al ristorante mi vide seduto di fronte a Susy, e io mangiavo gustosa materia di cibi molteplici: paste e carni e pesci e via moltiplicando con bocca mediocremente dentata; e con avidi occhi, vanescenti ma non meno ghiotti ectoplasmi: di viso seno movimenti e mimica loquace dell’ “antica” Susanna ragazza, nella nuova e “vecchia” ancora vistosamente reperibili. Avidi, sì, i miei occhi affaticati dal troppo leggere e scrivere: quasi volessi farmene una provvista per i lunghi anni del digiuno prevedibile. Ma in verità, non previsto, poi, di tanto lunga durata. Fui tentato di fare piedino, ma mi frenai, non trovando la cosa compatibile con la mia età e posizione (sociale e conviviale).
Si fece tardi, consumando e parlando: non più di affari, argomento già esaurito nel preludio, ma di cibi luoghi usanze e cucine locali e politica. Mi pare di ricordare anche una passeggiata finale (dopo la mezzanotte) sulla vicina, sconfinata spiaggia di sabbia e minuto ciottolame levigato. Ma credo che il deambulo si sia svolto quasi tutto sull’asfalto usurato del lungomare e le sue banchine di cotto. C’era la luna? Non la trovo nel rabberciato ricordo dell’agenda.
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La pagina del 9 luglio ospita ancora un cenno a Susanna. Anzi a lei e a Didia, e dunque a quell’area dello spazio-tempo che la dea Mneme custodisce sotto il segno della mitologia umana troppo umana del mio privato cosmo-poetico. Trascrivo la pagina.

Levata, ore 6 circa, a causa della cena pesante di ieri sera. A scuola, due esami di filosofia: una bene e una mediocre. Serata: cena all’Hotel President, offerta dai proprietari, i coniugi Giovanna Diamante (Gianna) e Dario Mammoliti. La cognata, all’ultimo momento, dichiara forfait: non viene. Dice di sentirsi male. Andiamo io, il cognato e la figlia Lorella. Compriamo 9 rose per la signora Gianna, color rosa pallido. Pago io: lire 27.000! Avevo già speso 7000 di Essen. Di questo passo sarò sotto, anche rispetto a un’eventuale spesa (ridotta) d’albergo (quello dove figuro alloggiato per gli esami in corso).
Menu: tagliatelle al salmone, spaghetti alle vongole, antipasto con prosciutto crudo di vario tipo, salmone e limone; secondo con pescespada, gamberi, eccetera; frutta varia, vino bianco siciliano, amaro di varia marca, a scelta… Tanto bla bla su ovvietà: figli, nipoti, ecc.. Sandrina, la maturata sprint dell’anno scorso, ha fallito la sua prima prova universitaria. Mi ricorda sempre Silvana. Era elegantissima. E’ venuta a cena finita, mentre sorseggiavamo l’amaro, sotto la tettoia, seduti davanti allo spettacolo di animazione.
Sono venuti , rientrando, anche Sa e il suo hombre. Il quale le aveva appena comprato un abito, spendendo salato! Soliti casti Küße auf die Wangen e presentazioni. Alla fine rivelo a Sa che la proprietaria dell’albergo è sorella di Didia, la sua compagna di classe. Grande svelamento: Gianna si ricorda di Sa (“ mi dicevo: ma io l’ho vista prima d’ ora…!”). E giù con i ricordi (Adele Tallario, Stella Cirunzo, ecc.), i pettegolezzi su di me e le alunne preferite. Fumo un’altra sigaretta e bevo ancora. Saluti con Küße alla fine (ore 24). A casa. Leggo un po’, mi viene sonno, spengo. Ps. Parlato di Didia con Gianna. Mi dice che il figlio alla maturità ha risolto tutti i quesiti di matematica. Ha avuto 10!
In testa al foglio, a parte: Tel.ta a Rina. Disdetto, a causa di ricor., invito a cena da Frag.ni

Dunque, ancora Sa, cioè Susy. Con pieno gradimento, al primo inatteso impatto (non sapevo, forse, che alloggiavano all’Hotel President). La paginetta rastremata mi riaccende la fiammella emotiva dell’epoca remota: i Küße auf den Wangen ebbero il soffio bramoso del solito registro. Il pieno gradimento si raggrinzò un pezzetto alla notizia dell’abito costoso in campo: io non avrei potuto fare mai un tale dono alla beneamata. Tutta la mia cultura e bravura era e sarebbe stata sempre esclusa da tanto riscontro. Miserabile Stato e vacca società del santo Capitale. Umiliato? Sospiro. Un sospiro che annuisce. Ancora, dopo trentacinque anni? Ancora. Ma con le sottrazioni imposte dal cumulo di Crono sulle spalle.
Ghiotto anche l’amarcord su Didia, Adele, Stella, Mimma, le compagne confidenti, la scuola, quel tempo perduto ripollante dal sottosuolo del limbo mnestico. E il gossip, i cari e temuti pettegolezzi sul mio conto e persona e predilezioni pupillari…Tutto saporito, il pasto che si sommava all’altro, che forse ne faceva il digestivo appropriato. Didia. Sapevo di questo suo figlio prodigio. L’avevo conosciuto bambinello di sette-otto anni, in un viaggio con Rina e Manuela, ospiti di un amico e collega rimasto vedovo, e del suo unico figlio di dodici anni. Didia s’era rallegrata con noi del fanciullo super. Aveva anche una bambina, di qualche anno più piccola del maschietto, e rivedo una tenera scenetta balneare: il bambino dell’amico Beppe Cavalli e la bambina di Didia sdraiati, i loro teneri corpi vicini e innocentemente attratti, curiosi l’uno dell’altro, sulla sabbia assolata della spiaggia jonica calamagnese. Fortunata, la maestrina Didia, con la sistemazione borghese: un marito fisicamente gradevole e innamoratissimo, due figli benedetti dagli dèi. Me ne compiacevo per lei con la sorella Gianna. La quale era alquanto bella e più sexy della magrolina Didia, anche lei fortunata nel matrimonio, un po’ meno con la prole, forse troppo libera. La Sandrina venuta nell’albergo in svampante mise era la maggiore delle due figlie di Gianna. Viziate dall’eccesso di benessere.
Pur districandola dal cespuglioso intrico del suo adolescenziale contenzioso, stentavo a pensare Didia madre di un diciottenne maturando. Che oggi sarà un laureato, forse un ingegnere. Didia anziana: quello scricciolo in love col professore “troppo in alto.” Ma un pensiero ancora mi si sveglia da sotto il compiacimento per la fortuna sentimental-borghese di Didia: non era stata lei a confidarmi, in uno di quei dialoghi serrati, a voce e per lettere, che un difettuccio l’innamorato l’aveva pure lui? era un po’ “mammolino”. Come avrà curato questo handicap la brava Didia? Certo, lo stare lontano dalla suocera avrà facilitato il suo programma di nuora indipendente. Ma va a sapere i dettagli. Un punto certo: la destinazione romana, ottimo coibente.

Altri ricordi convitati nella stessa pagina: Frag. si completa agevolmente in Fragomeni, si tratta di una ex alunna, di gradevole volto e di corpo un po’ robustella, sposata, con marito vivente, e figli.
Non minore l’effetto magia mi formicola nell’interieur al contatto con queste pagine dalla frettolosa scrittura a penna nera, con questa agenda del ventiseiesimo anno. Della quale sono tentato di (anzi, costretto a) rileggere e qui trasferire la pagina successiva a quella della cena d’albergo: l’umore che ne trasuda è tutto interno alla bassa del “dopo festa”, alla sua psico-fisiologia.

Luglio / 10 / venerdì.
Levata, ore 5,30. Pass.ta – caffè offerto. Scuola. Oggi, 4 “filosofie”: tre scarsi e una ottima (Letizia Marando). Cognato e famiglia a Me. Per controllo oculistico. Su e giù con l’umore. A volte, voglia di chiudere. Tutto e subito. Voglia di apocalissi indolore per tutta la baracca planetaria. Anzi, cosmica. – A scuola, oggi, seguito esame di francese.- Confidenze con la graziosa collega, Marisa Catenota: i miei studi e scritti di letter. francese, i suoi dubbi prima di accettare la nomina a commissario (per via della letteratura, che lei non ripassava da dieci anni: insegna al tecnico; ecc.). Qualche mia battuta durante un infelice esame di filosofia (messaggio scritto, con successo umoristico). Passaggio in macchina: da Angela. Che oggi era vestita con spropositata indecenza: da una gonna aderente e corta traspariva lo slip e le cosce e il sedere abbondante…

La pass.ta è la consueta passeggiata supermattutina sul lungomare, con lo show dell’aurora, il caffè al bar Miramare o in altro locale degli impianti balneari sparsi lungo l’immensa spiagga. Offerto, significa che qualche amico me l’ha offerto: ma chi? Ah, saperlo! L’umore lugubre e altalenante non ha bisogno di ulteriori chiose: dopo la “festa Susanna” è normale risposta. Conversazione con la collega di francese, umorismo compreso: armi di distrazione di massa. L’imput, la graziosa giovane professoressa. I miei scritti di letteratura francese: a quell’epoca avevo già pubblicato, come “servizi speciali”, sulla terza pagina del quotidiano La Sicania due mini-saggi su Camus, due su Stendhal, uno su Flaubert (il mini è forse un po’ avaro: si trattava, in effetti, di sei o sette colonne per l’intera pagina, non ancora infetta dalla moda riducente degli ultimi anni). La diabolica Angela trasparente doveva essere la collega di educazione fisica: bel pezzo di gnocca. Starle seduto al fianco mi guariva dalla susannopatia incidentale. Cosa si dicevano queste vicinanze brillanti di malizia? La pagina non riporta nulla. E dire che non è esaurita dal poco scritto versatovi. La fretta che cassa i ricordi. Così non conservo un chiaro disegno del volto.
Striminziti anche i souvenirs dei giorni successivi, memorabili per spanciate para-luculliane su graziosi inviti di amici. Giorno 11 ospiti di un ex alunno del quale avevo esaminato con vero piacere la figlia Anna, bella ragazza ben preparata, di pronte ed esaurienti risposte: da Kant a Marx, da Hegel a Dewey… Video-scrivo la paginetta non priva di elementi titillanti in vari sensi:

Scuola. Nessuna candidata con filosofia, oggi. Però: tre su cinque scarsi e due accettabili. Nulla da certo Pal.ra. Siamo urtati. Il rappr. Chiarisce e peggiora: è figlio di mafiosii. Ci si incazza. Lo bocceremo?
Poi a pranzo da Cuzzaglia, insieme al cognato, che mi viene a prendere al liceo di Boc.no. Aria pura, silenzio, colline coperte di stoppie gialle sul declivio e di arbusti verdi e pini in cima. Cibi squisiti, abbondanti. Annaffiati da ottimo vino. Caldi di premure femminili: la giovane (sotto i quaranta) wife, le due daughters (15 e 18 anni) in shorts. Poi gita a Brunzino vecchio. E, icredibile dictu, salita fino alla cima della roccia incastellata, fino ai ruderi delle due stanze residue. Con rischio e stress. E che spettacolo! Al ritorno: ci ferma la polizia stradale. Solo un furtarello di tempo: qui si cerca sempre il mariuolo latitante. Omissis. E poi ci incontra il collega Mod.ri che mi portava doni… Serata in casa con la dolce Gioelina (Lina), ospite dei parenti. Lina è assistente all’università zanglese, facoltà di Storia moderna. Ha avuto una love story con un barone di cattedra, impostore e sposato. Finita (6 anni) con ”bruciature”. Ora è in forte crisi. C’è un tizio tira e molla.

Quel pranzo fu una delle esperienze più incisive di quella breve stagione congesta di eventi. Le tre donne, tutte e tre di gradevole aspetto e gentili, erano una squadra instancabile di cuciniere determinate a preparare e offrire il meglio in quell’agape d’impegno. Io ero, in quanto commissario alla maturità della figlia Anna, il motore un po’ mitico di tanto interesse, il cognato, in quanto, anche lui, ex professore del marito, un invitato di gradito complemento. Che giornata! Non sapevano cosa offrire alla mia limitata capacità ingestiva e digestiva. E al palato, disposto all’assaggio, sia pur frenato, di ogni leccornia e sollecitazione gustativa. Particolare non secondario: gran parte di quelle meraviglie del palato erano di rigorosa preparazione domestica. E precisamente, di prevalente impegno femminile, con perno operativo sulla madre delle due girls.
Gli altri cenni, più meno strozzati, gravitano sul clima locale di quell’esame. Il tizio che non rispose a nessuna domanda, o quasi, era l’avatar occasionale di un vizio regionale: alla ‘ndrangheta non si può dire di no. Qualunque sia il favore richiesto. Anche nell’inespresso del solo presentarsi. Il rapp. È il rappresentante di classe, il quale, illustrando di luce chiarificatrice la situazione, urtò, se non tutti, alcuni commissari certamente. Tra i quali, il più incazzato mi sentivo io. E forse lo ero.
Mod. è il collega di matematica Modafferi, che mi recava doni in casa del cognato, a Letizia Marina: un capicollo e del buon vino. A che titolo? Non ricordo se qualche suo parente o protetto fosse stato premiato da un buon esame. Ma il collega era anche tipo da fare regali a un amico forestiero per il solo piacere di donare e di leggere l’ammirata gratitudine negli occhi del fortunato.
Gioelina: ospite sulla mezza pagina dell’agenda per il suo charme discreto e attrattivo. La cognata ne lodava apertamente il fondoschiena “a mandolino”, io sentivo quella imspiegabile attrazione che si suole dire “attrazione delle pelli”. A parte il topos invocato, quel suo incarnato tra luna e albicocca mi attizzava abbastanza per un dialogo non epidermico. Anche se forzatamente strozzato.
La men che mezza paginetta della domenica 12 annota più che fugacemente un altro specialissimo invito a pranzo. Recita l’appunto:

Matinée solita. Poi, clou del dì: pranzo a Guardavalle, ospiti della famiglia Sapato. La figlia, Rita, ex alunna del cognato, è anche amica della moglie Luisa, ed è, come si suol dire, “di casa”. Salvo l’aiuta nelle materie universitarie a lui accessibili. Stamattina è stata qui. Siamo andati al suo paese con la nuova Punto del cognato. Si era in cinque, perché Gioelina è stata invitata, anche lei, da Rita. Prima del pranzo, un piacevole bagno (per me, il secondo della stagione). Mare calmo e pulito, spiaggia stile jonico-calamagnese: larga, lunga, comoda da stendercisi e godere il sole filtrato da un ombrellone smorza-furori. Dopo l’abluzione sal-iodata, una bella doccia fresca di acqua pura. Quanto di meglio si potesse predisporre per una festa del serpentone trofico: pranzo sontuoso (ancora uno!), con tante, perfino troppe, portate: antipasti con frutta di mare, ostriche, risotto ai funghi, gamberoni, spiedini di carne, e peperoni fritti e arrosto e ripieni, funghi e altro bendiddio che non ho spazio per ricordare. Dopo il grande torneo ingurgitorio, un assaggio di amaro locale (squisito), caffè (forte) e sigaretta (leggera), per me, cognata e Lina. Viaggio di ritorno: le donne sono andate per conto loro con Rita, io e il cognato siamo rimasti soli. E lui ha dato la stura ai ricordi galanti di fattura recente. Che faccia tosta.
A Letizia Marina, dopo la siesta, bicicletta con Lina e la nipotina. In serata, telefonata da Susy. Avevano fatto un buon viaggio, il suo Marco aveva appuntamento con gli amici del barone, e via notiziando. Ha chiesto di me, le ho parlato. Brividi fra le fibre nervose e muscolari. Qualche pizzicotto anche alle parti inferiori solleticate dalla sua voce leggermente, piacevolmente roca. Nonché “fraternamente” affettuosa. Dentro l’aura coatta dell’avverbio, il filo del prurito memoriale sottinteso.

La pagina del 13 luglio registra sensazioni distraenti dal collagene mnestico. Gioelina, contratta in Lina, vi gioca un ruolo di causa efficiente con le sue forme e il suo charme “solistico”. Trascrivo.

Solite ore 5.30-6.30. Passeggiata marina. Scuola: nessuna filosofia, stamane. Si fa vivo Seby Marano per la serata da passare insieme. Tanta Lina to day. Gesprächsubung a pranzo, con lunga coda salottiera, dopo il pasto. E tanta grazia visiva di ghiotta carne in esposizione innocente: up and down, de la poitrine jusqu’à les appetissantes jambes, insofferenti del caldo afoso. E’ sempre in crisi, anzi sempre più: tempo ed età di grandi decisioni e di correlate incertezze. Tra l’altro: andare in Brasile o no? Sera. Gran movimento in casa per lavori tra un bagno e l’altro, quello di lusso e il suo servo modesto, ma assistito da comoda doccia (l’ho usata tante volte in questo soggiorno di lavoro, che forse sarà l’ultimo della mia carriera). C’è stato anche uno scambio di specchi fra i due siti dell’intimità protetta.
Alle 8,30 p.m., io e il cognato Salvo siamo in casa dell’ex alunna Fragonemi, ospiti a cena sul di lei caloroso invito. Ci aspetta alla stazione di Boccalino il figlio maggiore, studente in legge, che ci porta a casa sua. Calda accoglienza dalla famiglia quasi al completo: lei, il marito (entrambi maestri elementari), i due figli maschi. La femmina è fuori con il ragazzo: l’antica “gelosia” dei genitori è un ricordo del passato quasi remoto. Si sfogliano i ricordi di scuola, le notizie sulle amiche e compagne. Cena varia, con ottima insalata di riso ricca di ingredienti e tante ghiotte piccole cose, spesso specialità della cucina locale. Una foto del 1959 mostra la sua classe, in quell’anno la seconda del biennio magistrale. Riconosco tante ragazze che ho trovato, tre anni dopo, in quarta, cioè l’anno finale del corso. Tra loro, la graziosa, mite sensitiva del primo banco, di cui non ricordiamo il nome, né io né Salvo né lei. Meglio rinnovabile il ricordo di altre, tra cui la Rina a quel tempo much in love with me. Io lusingato ma senza approfittarne troppo. Notizie giunte al cognato parlarono di un coinvolgimento indiretto della ragazza nei tragici fatti di Piazza Fontana. Si vociferò di un’ospitalità di Freda in casa sua, mediata dal suo ragazzo. Se la cosa è vera (e sembra di sì) me ne addoloro. Dice, anche l’ospite, che ne parlarono giornali e televisioni. Mi sembra strano che mi sia sfuggita una cosa tanto coinvolgente. Forse ero malato quando la notizia fu diffusa.
Abbiamo fatto tardi, e al rientro Gioelina era già a letto. Mi affaccio da solo sul terrazzino che sormonta e limita il giardinetto, e mi godo la luna piena che speravo di ammirare leopardianamente con lei.

Le note del giorno dopo appuntano il rientro di Gioelina nella sua città, un piccolo contorno di movimenti ed emozioni sull’evento, l’andamento degli esami al liceo boccalinese. Trasferisco qui sotto quelle note per un’integrazione non estranea all’Assente lontana.

Martedì, 14 luglio
Gioelina ritorna a Zancle: il cognato l’accompagna alla stazione, dove prenderà la corriera di Falarico che la porterà fino ai traghetti. Con lei, la cognata. Ero nel bagno quando sono usciti. Faccio in tempo, correndo, a raggiungerli prima della partenza. Saluti con Küße auf den Wangen. Alcuni minuti tra il mio arrivo affannato e quello placido del pullman consentono brevi scambi di parole e pareri: le rinnovo il consiglio di partire per il Brasile. Sarebbe un’esperienza e un’occasione di meditazione a distanza per decidere sulla tentazione del nuovo legame sentimentale. Per due giorni, intanto, saremo, se dio vuole, senza la co. fra i co. Che silenzio regnerà nella casa!
Interrogazione, stamane, della candidata in ospedale. Ha “dato” fisica come prima materia, e qualcosina ha detto. Poi, come seconda materia, filosofia. E mi ha raccontato un minuzioso Fichte. Poi ho chiesto qualcosa di Schelling, Schopenhauer, Feuerbach. Insomma, me ne ha detto più di tanti cialtroni di sesso forte non infortunati… Osservavo i movimenti delle sue gambe sotto il lenzuolo: l’emozione vi si scaricava tutta. Alla fine l’abbiamo salutata con baci e auguri. Ho dato un giudizio di 7, e in fisica ha avuto 6,5.

Erklärung: sui due co. Il primo significa cognata; il secondo, lasciamolo intuire. I due convenzionali Küße sulle guance furono dati con una piccola lentezza reciproca. Il mio consiglio sul viaggio in Brasile non si scaldò in nessun vero interesse. Gioelina era stata una piacevole compagnia in quei pochi giorni della sua presenza in casa dei cognati.
La ragazza in ospedale era vittima di un brutto incidente: il ragazzo che la portava sul sellino posteriore della sua moto era stato investito da una macchina malguidata da un frettoloso stronzo in sembianze antropoidi. Feriti entrambi, lei a un paio di vertebre cervicali. Muoveva nervosamente le gambe sotto il lenzuolo. Impossibile bloccare quei balzi, quegli scatti improvvisi, quella ghiotta cinetica: veniva tanto la voglia di afferrarle un piede a titolo di incoraggiamento. Il tanto finì in un gesto quasi incosciente di presa digitale: il piede coperto si arrestò docile tra dita e palmo, con un moto di commossa sorpresa: “Non essere così nervosa, stai tranquilla, va tutto bene”. Queste, pressappoco, furono le mie sorrise parolette brevi. Poco beate e beatificanti, ma dette con un discreto trasporto: s’era sentito dire in giro che il padre era un tipo duro e che la ragazza, la sera dell’incidente, aveva detto che usciva con una compagna e amica. Il vuoto di notizie sul dopo mi comunica ancora un po’ di tristezza.
Quanti vuoti nelle nostre povere informazioni.
L’indomani cominciarono gli scrutini. Apprendo dal diario troppo breve che nella prima metà del giorno furono “fatte” le sezioni A e B e nel pomeriggio la C. Gli appunti dicono: “Grande battaglia scrutini. Il solito tira e molla”. Alla pausa del mezzodì i professori della commissione restiamo a pranzo in paese tutti insieme. Nell’agenda sono segnati i nomi delle colleghe rimaste con me. Una di loro ci suggerì un ristorante di sua conoscenza garantito, “La magnolia”. Si mangia bene e si paga appena 25.000 a testa. “Dura la ripresa pom. dopo sì folto pasto e sì largo spruzzo di vini” : così la nota del diario strozzato.
Il giorno appresso si continua con gli scrutini. Diario.
Qualcuno cerca di convincere il presidente a “rivedere” qualche trentasei. Ma non si può. Abbiamo dato solo tre 60/60: 2 in C e 1 in B. Nessuno in A. Ma la classe ha la media più alta. Preoccupazione del collega che rappresenta la V C, dove ci sono figli di notabili con pretese e un rampollo certo di temutissimo boss. Al figlio del sindaco, democristiano, è toccato un dignitoso 52 contro un 60 o, al peggio, un 58 atteso e sollecitato, mentre al suo diretto “concorrente” il rotondo 58 che è sfuggito a lui. Il solerte genitore sindaco aveva “programmato” anche il voto per il rivale: al massimo quel debole 52 che invece è toccato al figlio diletto. Così, nelle confidenze del rappresentante di classe, deluso e quasi preoccupato, poveretto, ma anche intimamente convinto della giusta proporzione che il politico viziato (e potenzialmente ricattatore?) aveva previsto capovolta e infiorata di presunta giustizia. Dove va a ficcarsi la boria familistica. Noi commissari esterni siamo stati piacevolmente piccati da questa obiettiva inversione di esiti.
Rientrando a casa. Notizia bomba: è morta la madre di Cuzzaglia, l’ex alunno che ci regalò quella radiosa giornata di gaudio rimuovente. Ha telefonato lui a casa del cognato. L’ha trovata morta rientrando dal suo viaggio a Letizia Marina, dove era venuto a portarci (a me e al cognato) il pacco-regalo promesso: un capicollo, una ruota di formaggio pecorino,10 litri di vino bianco, altri 10 di rosso-greco. Due pacchi, uguali. Io l’ho”rimproverato” per aver lasciato la madre morente, ma lui dice che doveva farlo…Un buco di lutto nella trama dei programmi. Salta, così, anche il progetto di accompagnamento a Zancle.
Il 17 luglio è una pagina piena, a servizio di un pieno di eventi. La mattinata viene spesa in parte a completare la confezione del pacco-esami e del resto burocratico. Con seguito di consegna in segreteria, da dove il pacco viene spostato in presidenza e chiuso nella relativa cassaforte. Un’altra parte a incassare il secondo anticipo, 2 milioni. Lunga e tediosa l’attesa alla banca, dove mi porta la collega Virginia: che non è precisamente un incanto e perciò non ha titoli per alleviare la noia plumbea dell’attesa. Finalmente riesco e sbloccarmi. Mi congedo da Virginia e mi lascio prelevare dal collega rappresentante di classe della sezione C, Màllano, il quale mi porta in un ristorante immerso nel verde, “L’aranceto”. Bel posticino. Dove si muove, tra tavoli civettuoli e verdissimi aranci, una deliziosa polacchina, bionda, occhi azzurri, tratti fini, corpo snello e scattante, che mi ricorda Susanna a vent’anni. Fa la cameriera nel locale e ne allieta l’aura prosaico-mercantile d’un fiato poetico. In attesa del pranzo, si parla, con Màllano, degli esami appena conclusi, delle “battaglie” durante gli scrutini, e poi di altri argomenti, che svariano dalla politica alla ‘ndragheta, onnipresente invisibile. Che però in questi esami non abbiamo lasciato prevaricare. Si scambia qualche parola con la ragazza, che ci narra un po’ la sua vita recente di emigrata in cerca di lavoro.
Alla fine del lauto, vario, saporito pasto, spruzzato dei soliti vini speciali del luogo, lui, imprevedibilmente, insiste per offrirmi il pranzo. Io resisto per pagare la mia parte, ma alla fine, cedo alla sua insistenza leale e volenterosa. Nel congedarci dai proprietari, lascio (cioè, aggiungo ai suoi soldi) cinquemila lire di mancia per la polacchina. Che ringrazia, sorridente e con lieve rossore sulle guance delicate. Pensiero: chi dei giovani padroni se la porta già a letto o sta tentando di farlo? Pensiero triste, ma sciolto dall’imperativo categorico.
Non è finita: Màllano mi invita a casa sua, dove la simpatica moglie ci offre un gradito tonificante e denso caffè. Abitano in campagna, ma a breve distanza dal paese. Hanno tre figli: due femminucce e un maschetto, tra i 12 e i sei anni.
Sera. Telefono a casa. Con Rina concordiamo che mi vengano a prendere domani. Non dico nulla ai cognati. Ho telefonato da una cabina di fronte alla loro casa. Serata tarda: si va a Roccabella, a prendere la nipotina Luisella, ospite di una famiglia amica. Tutti e tre mi invitano a restare da loro fino a lunedì: mi darebbero un passaggio fino a Villa. Allora dico che, forse, verranno a prendermi i miei, domani. Clou del dì: visita, con il cognato Salvo, a Mimì Cuzzaglia, e ordinazione di un cuscino di fiori per il funerale della madre. Spesa, centomila lire. Ha voluto pagare tutto Salvo. Che corsa! Al ritorno, lui mi lascia al liceo, da dove Virginia mi porta alla banca: ut supra dixi.
L’indomani, nel primo pomeriggio, arrivano i miei: Rina, Manuela e il suo ragazzo. Restiamo un po’ in casa dei cognati, e poi ci trasferiamo all’albergo President, dove pranziamo e pernottiamo. Domenica 19 luglio, di mattina, colazione in albergo, poi bagno in un mare calmo e caldo. Segue doccia. Attesa pranzo, si mangia bene, gli amici proprietari ci trattano da amici anche nei prezzi. Tentativo di siesta fallito. Alle sei pomeridiane siamo sulla superstrada Jonio-Tirreno, in viaggio di rientro alla patria sicanica. Ed ecco, verso Villa, ci arriva in testa una mazzata incredibile: la radio di bordo ci dà la notizia dell’agguato di via D’Amelio. Il giudice Borsellino e la sua scorta sterminati nelle condizioni più sconciamente imprevedibili. Che perciò puzzano di tradimento e complicità istituzionali lontano un miglio. Resto squassato. Colpiti anche gli altri. Ma non quanto me, che mi sento toccato più direttamente per la mia attenzione professionale agli eventi e ne scrivo su rivistine e periodici locali. Il resto del viaggio è tutto un ascolto delle notizie aggiornate fornite dalla radio di bordo. Un’ombra nera si staglia su quella deliziosa carrellata di lavoro gradito e vacanza-premio.
Fino ai traghetti, non c’è che l’ascolto e i miei commenti infocati di rabbia furente e sbalordito dolore. Era stato incredibile l’assassinio del generale prefetto Dalla Chiesa: ma era avvenuto. Incredibile, ancor più, il quasi annunciato assassinio di Falcone, in quel sabato 23 maggio di quello stesso anno maledetto: ed era accaduto anche quello. Preannunciato, si può dire, dall’agguato fallito dell’Addaura (che alcuni, specialmente fra i politici, vollero diminuire in semplice avvertimento). Anche quel “messaggio” aveva avuto dell’incredibile: come avevano potuto depositare quella borsa esplosiva sullo scoglio frontale, in teoria sorvegliatissimo dalla scorta? Nel film Falcone Michele Placido, protagonista incazzato, fa serpeggiare in uno sfogo esplosivo una tacita insinuazione. Fare i conti non era difficile: simili imprese criminali non possono accadere senza complicità interne: senza il tecnologicamente attrezzato servizio dei Servizi segreti impropriamente detti deviati. Ne riparleremo.