venerdì 26 marzo 2010

Susanna, Frammento 61


Non dimentichiamo che quel funesto 1992 fu anche l’anno della Tangentopoli esplosa e della sua dialettica conseguenza, Mani pulite, una specie di “Primavera dei popoli” per procura: una pattuglia di magistrati coraggiosi, coscienti o no di cogliere un’occasione storica (il crollo del Muro di Berlino del tardo autunno 1989), si mobilita contro la corruzione endemica e sistemica dei signori politici di ogni ordine e grado, che s’erano inventati e sconciamente gonfiato, lungo gli anni della pacchia indisturbata, l’alibi del “costo della politica”. Antonio Di Pietro, un mezzo contadino tenace e scaltro, all’apice di una brillante carriera che lo aveva visto anche poliziotto, era diventato un giudice onesto quanto implacabile: a lui toccò l’onere e l’onore di iniziare quella straordinaria avventura che vide politici di gran peso sbavare di disagio e vergogna sotto i fari delle televisioni inclementi. Boselli, Colombo, Greco, Ingroia e tutti gli altri magistrati del tribunale di Milano, e poi di altre città accese di sacro fuoco emulatorio, furono i nuovi idoli del popolo umiliato, che a quei vendicatori tributava onori da trionfo, contrappuntati da scherno e disprezzo per i corrotti di ogni risma, ma soprattutto per quei politici famelici e felloni. Fino al lancio di monetine addosso ai signori della Tangente universale, da Craxi in giù. Si lamentarono eccessi, da parte di avvocati interessati e anime più o meno sinceramente pietose, ma soprattutto da complici minacciati e parenti trepidanti: eccessi negli arresti, nella durata delle carcerazioni preventive, nell’egalitarismo severo che non distingueva fra persone diverse per sensibilità e vulnerabilità. Ed è difficile negarlo, qualche eccesso. Alcuni dei quali con esiti tragici, come nel caso del grande amico di Craxi, Gabriele Cagliari (dal 1989 presidente dell’ENI, dopo Franco Reviglio), arrestato nel marzo del ’93, per i quattro miliardi pagati al Psi di Craxi, e tenuto in carcere (contro promesse e false speranze) ben 134 giorni. Fino al crollo e all’esito tragico: un suicidio per auto-soffocamento, nel bagno del carcere. Si stupiva, Cagliari, di tanta severità: ma non sarebbe stato il caso di stupirsi, prima, della vergogna tangentizia onnipresente? Non sarebbe stato il caso di allentare la stretta amicizia (certe “strettezze” soffocano) con il leader del Psi? E semmai porre su tappeto lavabile il problema di quel “sistema” corrosivo di alibi e valori, purtuttavia sbandierati ad ogni pubblica occasione. Toccano, ad ogni modo, le parole scritte da quel martire sbagliato, a suggello del gesto estremo buttato in faccia a chi pretendeva di farne un delatore e un traditore di amici e colleghi. “Era il sistema”, si difese, e credeva non ci fosse questo gran male nelle tangenti, sostitutive del legale finanziamento dei partiti bocciato dal referendum. Ingenuo? Come che sia, le sue parole e il suicidio staccano la figura del personaggio dalla comune misura degli altri tangentari, ponendolo su un piano di dignità recuperata che invita al rispetto: “Miei carissimi […] sto per darvi un nuovo grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici, ha fatto il resto. Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta nel canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto.” Nella lettera al suo avvocato: “Questa indagine si è qualificata fin dall’inizio anche come strumento di lotta contro il vecchio establishment che ne è uscito irrimediabilmente sconfitto. Sul piano più propriamente politico questo risultato è ormai evidente e incontrovertibile. Sarebbe folle, da parte di chiunque, non riconoscere questo fatto e, ancora peggio, non accettarlo come una necessità per rimettere il paese in una nuova strada di progresso. E’ chiaro comunque l’obiettivo politico perseguito dai magistrati che pone, oggettivamente, la corporazione giudiziaria in una prospettiva di potere dominante. Per questa via non sarà possibile evitare il ‘processo di Norimberga’ al quale alcuni di noi certamente non sfuggiranno, io tra questi… La confusione tra chi ‘collabora’ e chi ‘non collabora’ sta proprio nella qualificazione ‘politica’ dell’inchiesta”. Cagliari ha deciso di non collaborare, cioè di non intrupparsi fra delatori e spioni. “E’ certamente mio diritto rifiutarmi di diventare un capro espiatorio di situazioni superate, o una vittima di questa cultura della vergogna e del rancore”.
Prima di Cagliari s’era ucciso, una pallottola in bocca, Sergio Moroni (settembre del ’92), deputato socialista di Brescia, anche lui lasciando un “testamento”, rivolto, questo, al presidente della Camera, Giorgio Napolitano: “Tutti i partiti devono modificare sostanza e natura del loro ruolo, ma non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito di vittime sacrificali […] Ho commesso un errore accettando il sistema, ritenendo che ricevere contributi e sostegni per il partito si giustificasse in un contesto dove questa era prassi comune […] mai e poi mai ho pattuito tangenti, eppure vengo accomunato nella definizione di ladro, oggi così diffusa. Non lo accetto, nella serena coscienza di non avere mai personalmente approfittato di una lira. Ma quando la parola è flebile non resta che il gesto”.
Altre vittime innocenti o meno colpevoli “pioveranno” su quell’Italia sgomenta e tripudiante: ma è sufficiente, questo, per maledire tutta Mani pulite? Lasciamolo fare ai tanti (troppi?) che hanno personali ragioni per farlo: chi qui si confessa non ha che qualche pressione di pura sensibilità umana per “maledire” e moltissime di sensibilità etico-politica per “benedire” quella straordinaria stagione. Io, come membro della sciagurata categoria degli insegnanti, sono stato una delle troppe vittime innocenti dello sbafo tangentizio e del connesso spreco della politica e dell’anarchia della spesa pubblica. Soprattutto nella supervergogna delle “grandi opere” incompiute o compiute e inutilizzate, per torbide beghe di spartizioni politiche (di cariche e incarichi), quasi mai sganciate dal ghigno di Mammona. Anzi, abbandonate, quelle (troppe) costruzioni incompiute o inutilizzate, al tripudio del vandalismo allegro e del marpionismo ladrone e saccheggiatore. Crimine diffuso (nell’intera lunghezza e larghezza dello Stivale), del quale a nessun responsabile della non benedetta Casta è stato chiesto il conto o attribuita una titolarità penale tanto evidente, in rebus, quanto autoprotetta e diluita fino all’evaporazione indenne sotto il paravento della pluralità sequenziale degli atti, degli anni, delle cariche. Per tacere, poi, dei doppioni, dei troppi ospedali, per esempio, costruiti con supporti finanziari targati Ue, per essere abbandonati alla volenterosa erosione delle meteore stagionali. E, quel che è infinitamente peggio, lasciandosi alle spalle criminali carenze nella sanità pubblica, per plurima scarsità-insufficienza: d’igiene posti-letto professionalità clinico-infermieristica e onestà amministrativa. Inutile ricordare che il primato in questo sfacelo spetta, di lugubre diritto, alle solite Regioni meridionali. Anche se non mancano episodi tristi, e taluni clamorosi, nel più serio, e più vanitoso, Centro-Nord.
Non esclusa l’operosa Lombardia, con la sua metropoli tarlata: vero monopolio, madre e figlia, della sanità bigotta, pullulante di obiettori anti-aborto e clientelismi all’acqua benedetta (ah, l’impagabile Formigoni! E l’ingegnoso don Verzé! E il Caimano, complice sovvenzionante di opere pie: che meraviglia di terzetto santo!).
Ultimamente il fertile genio italico ha scoperto il metodo per sanare i conti in rosso della pubblica sanità devastata dai predoni di regime: ridurre i servizi, amputare una parte degli ospedali tagliando reparti e accorpandoli, con serena nonchalance verso giovani bambini e anziani bisognosi di ricoveri e cure assistenziali, non gravati dalla penitenza delle eccessive distanze. E poi aumentando i ticket anche a carico di chi ha esenzioni da codice 048 e simili. Data questa realtà, appare dubbio il merito di certi magistrati che accettano incarichi regionali nell’ingrato settore con l’ingratissimo compito di raddrizzarne i conti. Invece di processare i responsabili degli sprechi. Dei quali soltanto pochissimi sono stati condannati per frequentazioni mafiose e contorni di altre imprese fuorilegge: per esempio, la fioritura “miracolosa” di cliniche convenzionate nella giungla palermitana, con moltiplicazione dei costi ad libitum. Si è letto nella stampa che in Sicilia sono 4 mila, contro le 200 lombarde.
Tornando alle ricadute laterali, e magari lontane, dello sperpero, come tacere, da testimone-vittima le tante vergogne? Sul misero stipendio, prelievi fiscali da usura istituzionale, indi: contrazione delle spese di sostentamento, privazione di libri e altri strumenti di lavoro per incapacità pecuniaria, ferie turistiche confinate quasi esclusivamente nelle “missioni” di accompagnatore delle classi in viaggi d’istruzione. E come tacere, seguitando, degli edifici scolastici decrepiti, impropri (utilizzo di murature nate per altri destini...) a rischio di crolli e inondazioni. Eccetera. Insomma, io sono vittima di lor signori. Come centinaia di migliaia di colleghi di ogni ordine e grado. E milioni di persone dietro di noi lo sono di più. Gli innocenti capri espiatori? Nessuno poteva esserlo al cento per cento: non erano mica ignari ragazzini, quei signori. Né mancavano di studi e dottrina per confrontare i privilegi goduti con i sacrifici imposti agli alieni delle categorie sociali povere di difese. O con i valori rutilanti di fiamme verbali nei comizi e nelle interviste.
Taluni volavano tanto alto da credersi personaggi storici di epoche felici. Gardini, che spargeva miliardi a palate con piglio “da gran Signore rinascimentale” (“La chimica sono io”!) per fare bocconi grassi, è l’altro nome grosso della sezione suicidi. Ma la moglie insiste nel gridare al delitto complottardo. Avesse pure ragione, chi toglierebbe le responsabilità dalle spalle del “Corsaro”? E se delitto e complotto ci fu, bisogna guardare a gente molto più sporca di lui. Magari a boss di mafia, sospettosi di tradimento su possibili impegni finanziari faraonici affidati al geniale guerriero degli affari e della vela. Ma personalmente più che al complotto mi sembra plausibile credere a coerenti esiti della megalomania “corsara”: ci si scopre scivolati dentro un pozzo senza uscite, non resta che il gesto esemplare. Alla Moroni? Non precisamente: quello rivendicava una dignità offesa da calunniose imputazioni e disonoranti pretese; questo, sceglie l’harakiri alla pistola per togliere ai suoi nemici (tra i quali, appunto, non sono da escludere finanziatori pelosi, magari mediati da banche altrettanto vellose) il piacere della punizione drammatica.
Pietà sì, per certi casi umani, assoluzione no. Possiamo pure concedere a Craxi un pizzico di ragione, quando lamenta, come fa Moroni, che altri capi e capetti politici immersi nel sistema l’hanno fatto franca. No: dal “mariuolo” (copyright Craxi) Mario Chiesa, allo stesso lider maximo socialista, fuggiasco da condannato in Tunisia (e dunque tecnicamente latitante), nessuno può dirsi pulito e vittima sacrificale. Può soltanto maledire la fortuna o il burlone dio Caso. O altra divinità interessata alle svolte e giravolte della grande politica internazionale: ah, quel Crollo del terminale ’89, che copioso indotto di conseguenze, grosse e storiche, e meno grandi e grosse, s’è lasciato dietro. In via diretta e immediata, o indiretta e tortuosa.
E’ voce corrente e luogo comune indicare il vecchio Pci come il furbone risparmiato dalla faziosità dei pm, che gli avrebbero usato partigiana clemenza. A me risultano un paio di cose che non voglio risparmiare a questi sfoghi privati (o destinati a futura, lontana esposizione pubblica). Innanzitutto, il sistema di finanziamento del Pci poggiava, strutturalmente, sull’interscambio Italia-Urss, elargitore di percentuali legalmente incassate e conteggiate nei bilanci del Partito. Niente di eccepibile. Poi c’erano (e ci sono) le coop rosse: anche da lì, proventi, ma non segreti: in bilancio. Qualche caso di personale fellonia tintinnante? Ci sarà stata, ma non è emersa dalle indagini. Le quali sono state condotte con scrupolo dal giudice incaricato (Nordio, mi pare). Anzi, con una specie di puntiglio persecutorio, lungo un paio d'anni. Ma c’è la “quaestio compagno Greganti”. Vediamola. Portava soldi del partito nella famosa valigetta? Erano soldi tangentizi? Chi lo può affermare con tranquilla coscienza? Quale veggente del cavolo potrebbe giurarlo? Greganti non lo ammise mai: erano soldi suoi, lo disse e ripeté per mesi. E fu abbastanza virile da farsi in santa pace non so più quanti mesi di carcere.
*
Naturalmente, su Tangentopoli e Mani pulite si discute e si polemizza ancora, né la bagarre sembra destinata a finire. Decennali, ventennali e altre date rotonde accenderanno riflettori e fiamme di polemiche (si spera solo metaforiche) sul contenzioso di quella stagione memorabile. Magari per spremerci qualche lacrima di rabbia delusa guardandoci intorno e ricevendo da muri e suolo e facce il ghigno beffardo della delusione imposta. Non ci sono dubbi, per le persone oneste (anche solo relativamente) e lucide, per quelle che sembrano ridotte a minoranze umiliate, buone solo per cortei e sfoghi e denunce su stampa e siti internet e media in genere, ma non armate abbastanza per sconfiggere la matta bestialità delle maggioranze vincenti. E banchettanti.
L’evoluzione salutata in quella “primavera del popolo” si è presto capovolta in una involuzione pesante, pilotata dal grande capitale affaristico-mafioso nazionale e globale, a scorno della possibilità speranzosa che la severa lezione subita potesse indurre la classe politica a una certa modestia riformatrice eticamente memore degli svantaggiati di ogni categoria e grado sociale. Questa “minaccia” mobilitò le eterne forze del malaffare più o meno coperto, ed eccoci ripiombati in una situazione deprimente, dove alle documentate denunce e proposte contro l’ingordigia trimalcionica delle varie “Caste” (e lobby), contro gli sprechi non stop, e simili mali non seguono mai azioni coerenti per migliorare la moralità pubblica e distillare un soffio di sensibilità autentica verso le carnali sofferenze sopra accennate.

*
Ora, e qui, voglio ritornare al contesto Susanna e contorno. Qualche mese dopo, l’idillio di quelle due sere tra la coppia Susanna-Marco e il cognato era finito. Dissolto come un’allucinazione. Cos’era successo? I misteriosi personaggi romani investiti del compito difensivo avevano chiesto a Marco la somma di venti milioni, da pagare subito: non so se come anticipo e rata o come totale. Ma ritengo come totale. Le notizie provenienti dal cognato mi apparivano alquanto reticenti: lui diceva che gli amici romani del suo amico barone massone erano rimasti delusi dalla tircheria del soggetto. Ma io tirchio non lo sapevo. I Romani bui si difendevano allegando la necessità di ungere ruote per muovere il convoglio; il “soggetto” assicurava che, a compito esaurito, lui avrebbe pagato quanto richiesto. E protestava che al momento non poteva disporre di quella somma. Quelli non gli credevano, e giudicavano male la sua riluttanza ad aprire la borsa. Nel tira-e-molla, l’affare non decollò. E, ripeto, Salvo, dava la colpa a Marco: che cos’era mai questa diffidenza? E dov’era andata la sua baldanza di “capitalista” solvente e di larghe vedute?
Chi aveva torto e chi ragione: come fare a decidere? E poi, si sa, nelle faccende dei bipedi pensanti, torti e ragioni, saranno magari divisi in parti diseguali fra i “contraenti” (come direbbe Aristotele), ma non stanno (quasi) mai da una parte sola. Sono le parti (in causa) a pretendere l’assurdo: l’assolutizzazione del proprio punto di vista. Fui colpito sfavorevolmente da questo ingorgo non previsto. E mi si rizzò in testa l’idea-evidenza che la brutta figura maggiore toccava al cognato e ai suoi favoleggiati amiconi ultrapotenti. Che bisogno c’era di chiedere anticipi o prime rate o che? Dov’era, allora, il privilegio dell’amicizia? Meglio ancora: una filiera di amicizie autentiche avrebbe bisogno di siffatti “lubrificanti”? Più meditavo sul caso più mi si drizzava in testa la convinzione che nell’affaire s’era infilato qualcosa di sporco. Tra quei personaggi potenti ce n’era qualcuno che odorava di ‘ndrina? Come escluderlo! Ma il titolare di queste amicizie, mio cognato Salvo, non era turbato dal minimo dubbio di liceità sul contesto: a lui bastava il crisma del Potere per sopire ogni problematicità. Politici massoni mafiosi, purché di rango, erano allo stesso titolo epifanie di una sola sostanza metafisica, il Potere, appunto. Che poi questa sostanza si spiegasse nel mondo fenomenico anche attraverso delitti e illeciti vari, non era cosa che lo potesse inquietare fino all’insonnia. Probabilmente non rifletteva abbastanza. Oppure rifletteva troppo. Per esempio, giudicando labili e incerti i confini fra la criminalità esposta e quella implicita nel sistema legale del capitalismo diffuso. Forse era arrivato a trovare l’omologia fra l’uccidere con lupara o tritolo e l’ammazzare a fuoco lento nelle strettoie del sistema imperniato sul culto mammonico. Ma non è il caso di sottilizzare qui, tanto meno di attribuire sagacia tutta da provare a un geniale sprecadonne (geniale, s’intende, soprattutto nello spreco).
Ma poi. Mafiosi o politici e amministratori e funzionari corrotti, anzi rotti alla pratica tangentizia, che differenza sostanziale fa? Anche non ci fosse odore di malavita canonica, c’era quello, non meno puteolente, della corruzione generalizzata. Dimentico, forse, che siamo in epoca “Mani pulite”? Che stiamo parlando dell’anno, ormai storico, della Grande Scoperta: l’Italia di Tangentopoli. E del Grande Rimedio: la cura giudiziaria, sopra ricordata.
Io, intanto, mi compiacevo della mia estraneità alla brutta storia: meno male, mi dicevo, che non c’entro nulla. E tuttavia la cosa mi coinvolse in negativo. Non ebbi più notizie di Susanna e famiglia per parecchi mesi, e forse per più di un anno. Ma la memoria non mi assiste che in proporzione inversa all’età crescente. Né ho trovato, fra le mie carte (sì, la storia si ripete), appunti chiarificatori. Forse non li ho neppure cercati col giusto impegno. Fra questa piccola selva di “forse” le certezze superstiti si presentano smarginate ed essenziali, prive insomma di dettagli illuminanti e della precisione di connotati temporali sequenziali. Nel nebuloso dell’incerto, la prima certezza “essenziale”che rintraccio è una mia telefonata a lei, la Grande Silente. E’ sottinteso che la telefonata fu propiziata dalla mia solitudine in casa. Benedette chiese che impegnano mogli devote.
*
La telefonata. La mia voce, vibrante di emozione per l’incertezza dell’accoglienza: “Ciao, Susy, come stai?” “Chi parla?” “Non riconosci la mia voce?” “No… Sì… Mi pare. E’ il prof...” “Il prof..., sì. Ma, da molto tempo, per te, soltanto Paolo Assaggi. Anzi, soltanto Paolo” Brevi intervalli di silenzio. “E’ che non mi aspettavo la chiamata.” “Ma perché mai?” Pausa di silenzio più lunga. Ansia in me. Sospettavo la botta triste. Che arriva. Lei: “Dopo la delusione con tuo cognato avevo deciso di rompere ogni rapporto con tutta la famiglia”. Replico, contento che mi si offra la possibilità di chiarire, di farle ascoltare l’altra campana. E di avere notizie dall’altra fonte. “Scusami, Susy, ma io che c’entro con mio cognato? Io e la mia famiglia siamo una cosa, lui e la sua un’altra.” “Certamente, è così; ma ero troppo amareggiata...” “Va bene, ti capisco, e ti giuro che la cosa mi ha addolorato. Non pensavo che mio cognato avesse amici così, diciamo, strani.” “Marco si è trovato a trattare con mala gente. Gli chiedevano quei soldi, per subito. E quasi lo minacciavano. Lui non si negava del tutto, ma insisteva perché si aspettasse l’esito della pratica; a cose fatte, avrebbe pagato anche di più. Ma quelli premevano per il pagamento immediato, e così l’affare è svanito. L’aspetto più odioso di tutta la faccenda è stato il dover trattare con quella gente.” Ripetei tutto il mio dispiacere; esposi la versione del cognato, che poi era quella degli amici romani del suo amico barone; chiesi ancora che lei facesse distinzione fra me e Salvo. Io – precisavo ad abundatiam – non avevo quelle amicizie, né le cercavo. Il che mi privava della possibilità di aiutare persone care in difficoltà, ma mi concedeva quel tanto di tranquillità che mi occorre per i miei impegni domestici, i miei studi e lavoretti di testa e tasti. Susy accettò di continuare un rapporto telefonico (in mancanza, e in attesa, forse illusoria, di un improbabile “meglio”) con me, ed eventualmente, con Rina. Le chiesi notizie delle figlie, che studiavano con profitto, ma le davano, ancora, problemi. La grande aveva qualche ricaduta nell’anoressia, sia pure in forme meno violente del passato e con riprese non più troppo lontane dagli attacchi. In realtà, pensavo, la ragazza non è guarita del tutto: qualche tarlo maligno continua a roderla dentro, e lei resiste con variabili esiti e inevitabile discontinuità di successi parziali.
*
Questo contatto telefonico dura da pochi anni. Chiamo sempre io, una o due volte l’anno, prevalentemente entro il primo o secondo mese dell’anno nuovo. Invano le ho chiesto di chiamare lei una volta, e parlare anche con Rina. Alla quale io ho finito col rivelare questi contatti innocui, cercando di smuovere la sua compassione per le difficoltà che ingombrano la tarda esistenza di Susy: col lavoro, nei suoi rapporti para-convivenziali, con le figlie, la maggiore soprattutto. Ma né Susy né Rina hanno chiamato finora. Susy ripete che ci prova, ma all’ultimo momento scatta il blocco: “Che le racconto?” – dice – “Solo lagne posso offrire io, e sono stufa di scodellare guai e sofferenze dentro le orecchie degli altri, certamente non privi dei propri.”. E Rina: “Ma se lei non chiama, perché dovrei forzare la sua volontà? Vuol dire che non se la sente di parlarmi, di confidarsi. Rispettiamo il suo silenzio, la sua discrezione.”
E vai a convincere quelle testoline. Pausa. Quel vezzeggiativo, appropriato all’infanzia, mi ha increspato le labbra a un mesto sorriso: le testoline in argomento sono ormai abbastanza canute sotto il loro vernissage: rosso Tiziano in Susy (o è cambiato?), nero tenue in Rina. Che voglia di vederle, le belle chiome d’un tempo lontano, private delle loro pietose maschere. Dunque sono stato sempre io, lungo questi ultimi anni, il promotore dei dialoghi telefonici. A ogni contatto, lei mi ha aggiornato sui casi della sua vita e delle figlie. Ho appreso così che sono entrambe sposate, che i loro mariti fanno il loro stesso mestiere, che, a dispetto di questa barriera protettiva, i disturbi anoressici di Sonia si ripresentano di tanto in tanto, che i suoi rapporti con la madre non sono del tutto sereni. E perfino che questa serenità non è garantita neppure nella sua relazione con il suo Marco, ormai unico suo sostegno economico, come datore di lavoro. Lei, dice, è diventata una buona collaboratrice, e si guadagna il suo stipendio con un’applicazione competente e scrupolosa.
A che cosa alludono, dunque, le mezze frasi di lei su uno svolgimento non del tutto sereno della loro liaison? Ordinaria amministrazione, si dirà, dei rapporti di lungo corso tra uomo e donna. E così è, non c’è che dire e almanaccare. Per un verso, io me ne dispiaccio, per un altro ne godo. Che cosa ci possa essere da godere, non saprei dire. O meglio: potrei scovare, sì, vaghezze ottative allungate su un futuro nebuloso, ma dovrei avere il pudore di confessare che “non è una cosa seria”. Che io e Susy, in quel futuro di nebbie possibiliste tra musiliane e pirandelliane possiamo trovare uno squarcio di cielo azzurro per noi due? A quali condizioni? Dovrebbe sparire Rina. E come? O per tresca con Thanatos (vedo che torna il vecchio vizio prudenziale della maschera all’esplicito!) o per separazione consensuale. Mi vengono i brividi su entrambe le ipotesi vagabonde. La prima non è, a dire il vero, estranea a certe mie cupe tristezze sognanti indotte dall’aggressività spropositata di lei, del suo consumo verbale. Ma poi, passata la scarica adrenalinica, il brontolio emozionale si sfilaccia, a volte rapidamente, a volte con una certa lentezza, e finisce che alla rabbia sottentra la pietà, la compassione. Per cosa? Ma per i suoi stessi difetti, per questo caratterino scattante, che la menopausa ha peggiorato, per le sue conseguenze deprivanti. Tra le quali, una spinosa difficoltà di rapporti umani. Più dolente nello spazio degli affetti familiari, padre, marito, figli. Ma specialmente con la nuora. Col figlio litiga, ma poi corre al soccorso, ad ogni soffio dei suoi bisogni: ed è sempre pronta a proteggerlo, badando ai bambini, convincendo la piccola a nutrirsi contro la sua capricciosa ritrosia, fornendogli prodotti alimentari di qualità. E via allargando, nella sua disponibilità, piuttosto prodiga che ragionieresca. La seconda ipotesi, mi fa arrossire: separazione, divorzio, alla nostra età e con figli sposati e nipotini? E’ vero che la convivenza antropica non langue per carenza di simili derive, ma vibra in noi tutti la più convinta riluttanza a siffatte “soluzioni”. Più decisamente in me. Detto questo, non c’è indovino che possa escludere l’impensabile attuale. “Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena di infinite assurdità, le quali, sfacciatamente, non hanno neppure bisogno di parer verosimili, perché sono vere”. Non è così, mie agende-diario, voi così zeppe di umane assurdità? Anche fra le più mostruose. Ma facciamo gli scongiuri e proseguiamo.
*
Quanti anni sono passati, e quali eventi della frivolezza e soprattutto dell’incurabile, inarrestabile pandemica distruttività umana hanno riempito questi anni! Un titolo bussa alla porta della memoria stuzzicata: Erich Fromm, “Anatomia della distruttività umana”. Librescamente ponderosa, ma scientificamente reticente, approssimativa, e troppo “umanistica” nella caccia alle radici ultime di questa maledizione strutturale, quella “anatomia” è pur sempre una rispettabile immersione nelle acque sulfuree dell’orrore antropico (il sadismo stragista e seviziatore svampa per tutti i secoli e millenni della storia umana in tutte le sue sezioni luoghi civiltà culture religioni). A trovarle, quelle radici originarie, bisogna guardare alla cellula, alla sua natura amorale, alla sua vocazione cannibalica. Come intuisce il maggiore antropologo contemporaneo, Joseph Campbell, quando la cellula, appunto, icasticamente descrive e, per così dire, presenta ai lettori di cervello non spento dalla Grande Menzogna religiosa. E come s’avventura a fare, distesamente indagando ed esemplificando, il grande ostracizzato dell’Italia culturale e relativo conformismo idealistico, prof. Gerolamo Gulizza.
*
Rileggendo, scopro che non ho fatto per il novennio del secondo black out susannico, un sistematico sommario dei più significativi parti-eventi del suo ventre prolifico (fin qui toccato solo sporadicamente). Dove l’aggettivo “significativi” vale, sì, il solito “degni di ricordo”, ma punta alla preferenza negativa dei più tragici e orrorosi. Purtroppo (o per fortuna!) l’esorbitanza di quella materia non ci lascia ulteriore spazio che per cenni veloci in una selezione magrissima di casi eclatanti. Quanto basti a delineare lo sfondo évenementiel delle mie private bagatelle in correlato con obblighi e scelte professionali.
Il primo anno successivo al compimento del primo black out ci regala l’affaire Watergate, l’eclatante episodio di spionaggio elettorale che costò la presidenza a Richard Nixon, costretto a dimettersi da un compatto, e vario, schieramento di guastatori puntati all’impeachment. Un disastro, che sembra annunciare l’epilogo di un altro sfacelo, di quella “deposizione” ben più tragico e spaventosamente più costoso: in termini di vite umane, di corpi mutilati, di menti sconvolte, di ferite inguaribili nel corpo e nell’anima. Insomma di orrori: si vuol dire la guerra di aggressione americana al Vietnam, chiusa l’anno successivo: dopo ulteriori stragi militarmente inutili, gli spocchiosi “difensori della libertà di tutti” piantano baracca e burattini e fuggono da quell’inferno da loro stessi acceso e alimentato per oltre un decennio, lasciando nel pantano delle giuste vendette i loro alleati sudvietnamiti. Conclusione umiliante per tanta Potenza. E fuga resa più ingloriosa con tardivi colpi di coda contro una nave inoffensiva. In quello stesso anno comincia e per anni si prolunga la tragedia dei boat peoples, masse di sudvietnamiti compromessi col regime quisling e terrorizzati dalla propaganda anticomunista, i quali lasciano il Paese con mezzi di fortuna e inadeguati, che spesso li rovesciano in bocca agli squali (salvo i pochi – notabili, per lo più – ­che riescono a farsi imbarcare negli aero-navali americani).
Se l’anno di quella fine si può, nell’ordine dell’ovvio relativo, salutare come “felice” per il Vietnam, l’anno successivo homo necans si affretta a regalarci nuovi exploit “idealistici”: in altra zona del lontano Oriente, al Vietnam contigua, la tormentata Cambogia, già coinvolta in quella guerra, conosce l’epopea sinistra dei “kmer rossi”, versione vieppiù sadica della dommatica maoista: fa scempio di qualche milione (quanti, nella realtà, e fuori dalle amplificazioni della effusiva aritmetica occidentale?) di connazionali contagiati di “spirito borghese” e dunque da rifare in capite et in membris. Eliminando, in corso d’opera, con breve pazienza di attesa, o con frettolosa impazienza sottrattiva, gli irriducibili, i refrattari alla spigolosa pedagogia. Veri e testati che fossero, o falsi e degradati a pattume, anche al metro di quella contrazione di tempi rimodellatori. In sostanza (di ostie carnali) si tratta dell’ennesima ostensione dello “spirito religioso” fanaticamente consequenziario. Una tragica burla, se si pensa alle buone intenzioni che ispiravano quei capi e teoreti dell’uomo nuovo, tutto fraternità e socialità.
*
Naturalmente, continuavo, in quel novennio denso di eventi, a occuparmi intensamente del Vietnam come giornalista free-lance e come insegnante di storia nel liceo di Realpolia. Come per il passato, anche in quegli anni settanta che sequenziarono prima un crescendo di orrori consumati contro la popolazione civile del Vietnam (Sud soltanto, per i primi anni, poi anche Nord, con bombardamenti sulle città e i villaggi) dalla sadica e stupidissima ostinazione americana, poi la loro plateale disfatta aureolata proprio da quella vergogna che avevano creduto di scansare con lo stragismo al napalm e al fosforo giallo, andavo offrendo letture in classe di saggi autorevoli e di qualche mio articolo. Fra i libri assaggiati nelle mie classi, quello del famoso dottor Benjamin Spock (“collaborato” da E. Mitchell Zimmerman), “In Europa si parla, in Vietnam si piange” (Loganesi & C., 1968) è il privilegiato di una pluralità alimentata da “omaggi–per recensione” provenienti da vari editori (ma soprattutto da Longanesi, che, per anni m’inviò libri, specialmente di Russell). Una parte dei miei articoli letti nelle classi (e talvolta forniti in fotocopie ai giovani più interessati) sono, appunto, recensioni a quei libri sul Vietnam. Oltre al saggio citato sopra, ricevetti, tra i più significativi, questi due: Wilfred G. Burchett, “Nella giungla con i vietcong”; Bertrand Russell, “Crimini di guerra nel Vietnam” (stesso editore). Le mie agende di quegli anni sono ricche di appunti su quelle vicende, spesso come citazioni e abbozzi degli articoli destinati al “Gazzettino d. g.”. Me ne servirò per dare un’idea del mio interesse e coinvolgimento passionale per quella tragedia.
La presentazione di copertina del saggio recita una “promozione” nient’affatto eccessiva: “Un implacabile pamphlet contro il massacro dei giovani e dei bambini, scritto dall’autore della famosa ‘Bibbia delle madri”. L’ “interno” è un’articolatissima rassegna-confutazione di tutte le false ragioni della guerra, di tutti i miti giustificativi strombazzati da politici, generali, presidenti federali e fabbricanti di mezzi bellici e porcherie per stragi indiscriminate. Nonché lo smascheramento delle colossali menzogne e promesse tradite che coronano l’infausto intervento. Ecco qualche passo. “Il 21 ottobre 1964, il presidente Lyndon Johnson disse. ‘Noi non intendiamo mandare giovani americani a quindicimila o sedicimila chilometri dalla patria per fare ciò che i giovani asiatici dovrebbero fare per loro conto”. Promessa dismessa poco dopo, per giungere a fine 1967 a questo “gonfiore”: da presidente “Johnson aveva inviato più di mezzo milione di giovani americani...” Lo stesso Johnson che aveva sbeffeggiato Goldwater per aver predicato i bombardamenti sul Nord Vietnam, comincia a bombardarlo lui tre mesi dopo la sua elezione. La capital lie, la menzogna suprema di quella spudorata illegalità fu la presunta aggressione del Sud Vietnam da parte del Nord, mentre si trattò per anni del solo rientro dei viet mihn nel loro territorio dal Nord, dove li avevano sospinti gli accordi del 1954, dopo la sonora sconfitta francese di Dien Ben Phu ad opera dell’eroico generale Giap. Un ritorno più che motivato dalla smaccata violazione di quegli accordi da parte americana: erano previste libere elezioni nel ’56, ma i sondaggi Usa davano una tale maggioranza (più dell’80%) per l’unificazione del Paese sotto Ho Chi Min, che i signori della guerra la lasciarono sospirare ancora oltre cinque anni dopo. Ecco la “costrizione” che spinse i combattenti in attesa al Nord a riprendere le armi nel Sud retto dai Quisling capitalisti foraggiati dai “democratici” americani e dai loro militari super-armati. I primi mesi di chiari fallimenti militari non convinsero Mc Namara, segretario alla Difesa, (che aveva promesso il ritorno a casa dei soldati Usa per il natale del’65) a lasciare il paese al suo destino di libera indipendenza. Ma nel ’67 “riconobbe che” gli americani avrebbero “potuto continuare a combattere per altri vent’anni”. L’intensità del “sostegno” americano ai latifondisti e mercanti vietnamiti del Sud (questo era il “popolo” libero protetto dagli Usa) fa capolino dai numeri di quell’impegno: “Entro l’estate del 1968 avranno sganciato sul Vietnam, un paese più piccolo della California, un numero di bombe maggiore di quelle che sganciammo su entrambi i fronti durante tutta la seconda guerra mondiale”. L’inutile strage di innocenti civili e bambini bruciati dal napalm indusse molti militari americani a confessioni di questo genere: “Entusiasta sottotenente dei marines, partii per il Vietnam certo di avere risposto all’invocazione di un popolo aggredito. /Questo convincimento svanì dopo circa due settimane. In luogo di battermi contro aggressori comunisti, constatai che, il novanta per cento delle volte, le nostre azioni militari erano dirette contro la popolazione del Vietnam del Sud. / Molto si è scritto sulle tattiche terroristiche impiegate dai vietcong. In base alla mia esperienza, il terrore e le rovine che noi apportiamo fanno sembrare la guerra dei vietcong qualcosa di simile a un picnic di giovani esploratori. Nel Vietnam siamo impegnati in una guerra che si propone di costringere un popolo a sottomettersi a un governo il quale gode di un ben scarso appoggio popolare o non ne gode affatto” (lettera al senatore Fulbright, anno 1967). Quando la sciagurata logica della solidarietà mammonica, detta liberismo e capitalismo, indusse gli avventati leader e militari Usa a buttare miliardi dollari e bruciare milioni di vite umane nella fornace vietnamita sostenendo i francesi in difficoltà e prossimi alla sconfitta, forse avrebbero avuto qualche esitazione se avessero ascoltato tutti questa confessione di un vietnamita a un viaggiatore europeo: “‘In Francia i francesi mi piacevano...Erano chic e generosi, e noi avevamo tra loro molti amici. Conservo ricordi piacevoli dei francesi in Francia. Ma i francesi qui?’ Si sporse oltre il tavolo’. Li odio. Li odiamo tutti di un odio che a lei deve riuscire inconcepibile, perché non ha mai saputo che cosa significhi vivere da schiavo sotto un padrone straniero’”. Confidenza e veemenza: un binomio di garanzia. Come questo “documento”: “Nella loro dichiarazione di indipendenza del 1945, i nazionalisti vietnamiti proclamarono” quanto segue. “Hanno costruito più prigioni che scuole. Hanno massacrato spietatamente i nostri patrioti; hanno affogato le nostre rivolte in fiumi di sangue...per indebolire la nostra razza ci hanno costretti ai vizi dell’oppio e dell’alcool. /Ci hanno spogliati completamente, hanno impoverito e devastato il nostro territorio. Ci hanno rubato le risaie, le miniere, le foreste e le materie prime”. Ebbene, gli americani hanno seguito quel solco, ma ingrandendo in proporzione dei loro dollari e mezzi bellici gli effetti tragici dell’imbroglio stragista: migliaia di testimonianze documentano la devastazione del territorio, avvelenato da napalm, fosforo giallo, diossina, un paio di milioni (raddoppiando il milione del periodo bellico francese, 1946-54) di morti con netta prevalenza di civili assassinati in modi crudelissimi bruciati da quei miracoli della bella chimica sperimentale. Con picchi di orrore nella strage dei bambini: spellati e uccisi dalla satanica chimica, mutilati di braccia, gambe, vista, udito, e via marciando sui luminosi sentieri della civiltà democratica modello quisling capitalista. “Ho chi Minh, quando stava respingendo l’esercito francese, distribuì le terre ai contadini che le avevano coltivate. Ma Diem, non appena insediato al potere dagli Stati Uniti, si affrettò a restituirle ai latifondisti, che ne erano sempre rimasti lontani.” Si aggiunga: tasse esorbitanti, corruzione dilagante, inflazione al 30% annuo, disoccupazione al 50%, carcere, fucilazioni (con la facile accusa di essere vietcong), prostituzione coatta, droga, disperazione (anche fra gli americani). In sintesi: “Il governo americano pompava nel paese una quantità enorme di aiuti, ma questi aiuti rimanevano nelle mani della classe al potere. L’uomo della strada era ridotto alla miseria [...] Diem cercò di soffocare lo scontento crescente. Nel 1958 incominciò un regno del terrore”. Scrisse lo storico francese Philippe Devilliers: “Le retate dei dissidenti divennero più frequenti e più brutali” con torture deportazioni ed esecuzioni capitali. La favoletta dell’attacco “nordico” si sgonfia da sola con date alla mano: nel 1958 il Nord sperava ancora nelle elezioni previste dal trattato del ’54 (entro il ’56), “alla fine del 1958 era in corso una rivolta popolare contro Diem”. Subito partì l’accusa al Nord, di voler “conquistare il Vietnam del Sud”. Due eminenti professori universitari americani smentiscono seccamente con una rigorosa documentazione: la rivolta armata fu la risposta inevitabile “al regno del terrore di Diem”. I rapporti della stessa Cia riferiscono che radio Hanoi “inveiva contro questi gruppi” armati, temendo conseguenze per il Nord, e “continuò, nei primi mesi del 1959, a scagliarsi contro coloro che esortavano alla ribellione. Hanoi esortava alla calma”. Intervenne solo quando cominciarono i pretestuosi bombardamenti su Hanoi. Nel marzo 1964 il New York Times scriveva: “Non è stata accertata alcuna cattura di nordvietnamiti nel Sud”. Ancora nel 1966 lo stesso Rusk, segretario di Stato americano era convinto che almeno “l’ottanta per cento di coloro che vengono denominati vietcong sono, o sono stati, gente del Sud”.

Nessun commento: