giovedì 1 aprile 2010

SUSANNA, Frammento 62


Non erano mancate autorevoli voci a sconsigliare una guerra terrestre in Asia: l’idea, secondo il generale Ridgway, era “un piano scervellato”. Più colorito il generale Mac Arthur: “Chiunque impegni le forze terrestri degli Stati Uniti sul continente asiatico, dovrebbe far controllare le proprie condizioni mentali”. Sarebbe comico, se non fosse tragicamente serio sul terreno, l’incredibile giochetto dell’ottimismo imbecille che millantava progressi spostati di anno in anno. 1962, maggio: Mc Namara sbandiera “progressi e speranze per l’avvenire”. 1963, febbraio: Rusk annuncia: “Lo slancio della spinta comunista è stato bloccato”; maggio: dal Pentagono: “ci stiamo avviando alla vittoria”; agosto: il generale Harkins, “chiaro e tondo. ‘I vietcong stanno perdendo’”. 1964, maggio: “segni di progresso nei mesi a venire”. Ottobre 1965: lo stesso: “Abbiamo smesso di perdere la guerra”. 1966, agosto, il segretario Rusk, fatto modesto dagli eventi, si limità ad annunciare “alcuni indizi del successo”. 1967, Agosto: nientemeno che “il capo di stato maggiore dell’esercito” si giocò l’intero capitale di credibilità scampanando su questo ottimismo: “Finalmente stiamo procedendo verso il collasso dello sforzo nemico”. E per farsi più convincente, aspira a piene narici “l’odore del successo”. A quell’anno si ferma il libro. Facile immaginare quante altre autorevoli fanfaronate siano volate da quel 1967 al 1975, anno della disfatta, anno della spietata verità. Vien fatto di esclamare: quanti Berlusconi ha conosciuto la storia umana!
Tra quelle “farfantarie” (direbbe il commissario Montalbano), brilla di evidenza capovolta il mito ostinato, che fosse il terrore a tenere uniti e vincenti i vietcong. Scrive Spock: “La verità è di solito tutto l’opposto: i vietcong sono appoggiati dalla popolazione non perché diffondono il terrore, ma perché lo fanno cessare”. Là dove i funzionari dei governi fantoccio usavano carcere predazione assassinio torture, “i vietcong scacciarono questi funzionari o li giustiziarono”. Non erano da meno di quei funzionari corrotti i soldati del Sud foraggiati dagli Usa: “hanno atterrito la popolazione civile degli altopiani centrali, saccheggiando i villaggi” (1965). Ricorda Spock: “I vietcong hanno spesso protetto il popolo da quell’esercito per anni di seguito”. Max Clos, per “Le Figaro”, spiega, da Saigon: “I vietcong dicono alla popolazione: ‘Voi siete oppressi da uomini corrotti, i quali rappresentano un governo venduto a un paese straniero’. Udendo ciò, i contadini si guardano attorno. Il capo della provincia nominato dal governo di Saigon abita in una grande casa, viaggia su una Mercedes e copre la moglie di gioielli”, e se ne sta lontano e inaccostabile dalla piccola gente, nella sua blindata protezione poliziesca e militare. “Il suo equivalente vietcong è visibile ogni giorno. Si reca tra il popolo. Veste, come un contadino, di cotonina nera, e porta sandali le cui suole sono ricavate da un vecchio pneumatico. Si aggira a piedi per il suo distretto, percorrendo le strade. Di una cosa si può essere certi: non si sta arricchendo a spese del popolo”. Agli inizi della rivoluzione armata (1959-60) alcuni funzionari di Saigon, macchiati di provata corruzione, e qualche riccone non migliore, furono eliminati dai Vietcong, e Saigon provò a eccitare il popolo contro questi “terroristi”. Scrive Clos: “Ma fu un errore. Nella maggior parte dei casi, i contadini avevano contribuito a liquidare brutalmente quegli uomini. Anziché assassini, i terroristi erano considerati dispensatori di giustizia”. La famosa scrittrice americana, Mary McCarthy, testimoniò a lungo contro la barbarie dei connazionali. In uno dei suoi reportage descrive gli incendi provocati dai bombardamenti indiscriminati degli aerei Usa (questa sorta di “occhiuta onnipotenza”distruttiva): “Del tutto indipendentemente dai principali campi di battaglia...le campagne sono sempre costellate da incendi”, che “a prima vista sembrano falò”. Sul “New York Times” Tom Buckley scrisse: “il numero effettivo dei profughi”, provocati dall’incendio sistematico delle campagne, è probabilmente dell’ordine di quattro milioni” (già nel 1966-7!). Il prof. di Psicologia Ralph K. White interpreta l’anima del contadino sudvietnamita in questi termini. “i guerriglieri sono ‘i nostri’ ragazzi nati e cresciuti nel nostro villaggio, o in villaggi simili al nostro. I loro scopi sono buoni, in quanto si battono per ‘noi’ contro i nostri nemici naturali, la gente ricca delle città, i grandi proprietari terrieri che si prendono il nostro riso, sebbene non abbiano lavorato affatto per coltivarlo, i funzionari governativi che ci frodano, i soldati che ci torturano se cadiamo nelle loro mani, e ora anche gli americani dalla strana lingua, con i loro bombardamenti e le loro bombe al napalm”. Il quale può cadere anche addosso agli stessi spietati utilizzatori: è avvenuto più volte, grazie alla fretta di spegnere ogni sospetto di presenza vietcong, anche la più sballata. Ecco il racconto di un soldato Usa a un giornalista: un improvviso “calore bruciante sulla faccia. Un cacciabombardiere americano aveva mal calcolato le posizioni comuniste e aveva sganciato una bomba al napalm. /La benzina gelatinosa in fiamme, dalla quale è impossibile liberarsi quando arriva sulla pelle, sprizzò sul terreno come un enorme getto di fuoco, a meno di 25 metri di distanza. Urla vinsero il ruggito delle fiamme. Due americani uscirono incespicando dall’inferno. I loro capelli bruciarono in un attimo. Avevano le uniformi incenerite ... Trascorse un’ora prima che un elicottero dei servizi medici potesse arrivare. Un dottore mi chiede di aiutare a portare gli uomini sull’elicottero. Non c’erano barelle. Con precauzione sollevammo i soldati. Io sostenevo una gamba dell’uomo più gravemente ustionato. Non fui abbastanza attento: un grande lembo di pelle bruciata mi rimase in mano”. Ed ecco gli effetti della cosiddetta “ricognizione fumogena”. Resoconto di Franck Harvey, autore del libro “Air-War-Vietnam”, richiestogli dall’aviazione militare Usa. “Il colonnello Goldberry improvvisamente sganciò una granata fumogena rossa che cadde in una risaia accanto a una fila di case lungo un canale. Una fitta nube di fumo cremisi si riversò sul verde [...] Se nella risaia si nascondevano vietcong, il fumo avrebbe potuto spaventarli e indurli a tentare la fuga. In tal caso avremmo richiesto un attacco aereo”. Commento di Spock: “E’ logico però che ogni civile vietnamita si spaventerebbe se un aereo americano lo sorvolasse e sganciasse una bomba fumogena. Per noi la loro paura era punibile con la morte”.
Perfino un “falco”, come il deputato Clement Zablocki, reduce da una missione in Vietnam, dovette riferire alla Camera “che in certe missioni ‘cerca e distruggi’ perivano sei civili per ogni vietcong”. L’autodifesa dei massacratori al napalm è di una “ingenuità” lugubre: non siamo responsabili dei civili massacrati perché non era nostra intenzione ucciderli. Lo storico Theodore Draper commenta: “Chi apre il fuoco con una mitragliatrice contro una folla per uccidere una sola persona, difficilmente può sostenere di non avere avuto l’intenzione di uccidere altri individui ‘deliberatamente’. Né può aspettarsi che coloro i quali si trovano tra la folla lo considerino un difensore”. La sporca guerra travolge anche la semantica: “Vaste zone del Vietnam del Sud sono state dichiarate ‘zone aperte agli attacchi’”, dando per certo che vi si trovino vietcong o loro simpatizzanti. Ma i contadini che vivono della poca terra ancora salva da fuoco e veleni non la possono abbandonare per morire anche d’inedia: non importa, e peggio per loro. “Qualsiasi cosa si trovi in una zona aperta agli attacchi è considerata un bersaglio legittimo [...]: case, bestiame, campi, e, naturalmente, tutte le persone che vi abitano”. Detto più chiaramente: “la definizione di obiettivo militare è mutata rispetto alle guerre precedenti [...] Stando a un manuale dell’aviazione militare americana (1966): ‘Ogni cosa, persona o luogo costituiscono un obiettivo legittimo se contribuiscono a distruggere la volontà del nemico di opporre resistenza”. Non si sventolava come foglia di fico la conquista degli animi dei sudvietnamiti? Un generale chiarisce, perentorio: “Ci troviamo qui per insegnare loro a uccidere i comunisti”. Gli si ricorda che i francesi ne uccisero un milione, di nazionalisti, “perdendo ugualmente la guerra”. Il generale si accigliò, pensoso? Macché, replicò, marzialmente sprecone: “Non ne uccisero abbastanza. Insegneremo a questa gente a ucciderne di più”. Quei cervelloni non riuscivano a capire che le stragi indiscriminate di combattenti e civili (molti dei quali bambini) creavano, giorno dopo giorno, “la ragione per cui riesce impossibile agli Stati Uniti riportare la vittoria nel Vietnam”.
Una previsione chiara e facile: ma non per le menti drogate di fanatismo ideologico, per le quali la parola “comunismo” racchiude una sola semantica, rigida e fatale: tirannia terrore povertà imperialismo castrense e planetario e altro marciume morale. Com’era ricca, in quegli anni, la nostra “serva Italia di dolore ostello” (ma non per padroni e ladroni del boom!) di menti murate in quel dogma, di giornali ligi alla propaganda yankee, di giornalisti autorevoli quanto pomposi nell’accogliere come verità sacre le balle della propaganda “Usata”. Ironia delle cose, è nel Paese responsabile dei peggiori crimini che si può trovare qualche mente aperta all’evidenza quanto rigorosa nel testimoniarla, contro la dogmatica anticomunista: Joseph Alsop (una delle autorità mondiali del giornalismo d’inchiesta) già nel 1954 (l’anno della vittoria a Dien Bien Phu), dal Vietnam controllato dal Viet Minh, diede una testimonianza leale sulla realtà negata dalla propaganda franco-americana: “Era difficile per me, come lo è per ogni occidentale, concepire un governo comunista che servisse gli ‘autentici’ interessi del popolo. Stentavo a immaginare un governo comunista che fosse anche un governo popolare e quasi un governo democratico. Ma proprio questo era il genere di governo che lo Stato della capanna di fronde di palma [Viet Minh] effettivamente rappresentava, mentre andava svolgendosi la lotta contro i francesi. Il Viet Minh non avrebbe potuto assolutamente continuare la resistenza per un solo anno, e non parliamo di nove anni, senza l’energico e compatto appoggio della popolazione” (citato da Spock). Un pensiero congruente con questo espresse il ministro della Difesa cinese, Lin Piao: “Per fare una rivoluzione è imperativo aderire alla politica della fiducia in se stessi. Se non si agisce con i propri sforzi, ma si fa conto esclusivamente sull’aiuto straniero, non è possibile riportare alcuna vittoria”.
Magari quel “quasi” sarà la breccia per la prevedibile risposta scettica dei fanatici dei pio Occidente (e delle presunte “radici cristiane”); ma qui non si pretende onorare la perfezione assoluta, tantomeno generalizzare: che ci siano stati casi di regimi comunisti troppo dogmatici è un fatto, che altri siano stati crudelmente frettolosi nel generare “l’uomo nuovo”, è un’altra triste realtà (che si affaccia dalla Cambogia, sopra ricordata, dalla Cina immersa nei repulisti della troppo pretenziosa “rivoluzione culturale”, e quant’altro). Né si può ignorare il bagno di sangue del regime sovietico alle prese, negli anni Venti-Trenta, con la sorda resistenza dei Kulaki ai programmi collettivistici.
Il libro di Spock si chiude con una serie di suggerimenti pratici rivolti al movimento pacifista americano, e l’autore non esita a scrivere: “Chi crede che il proprio paese stia commettendo delitti contro l’umanità, ha l’obbligo di disubbidire al proprio governo”. Chissà quanto abbiano influito queste parole sulle decisioni di molti giovani che fuggivano in Messico o in Canada per evitare la vergogna di quel servizio militare disonorante. A queste parole finali bene si congiungono quelle che aprono il libro: “La morte di un bambino è l’incubo peggiore di noi madri e padri.” In Vietnam se n’è fatta imperdonabile vendemmia.
*
Come annunzia il titolo, il libro di Burchett racconta la lunga frequentazione dei vietcong da parte del maggiore esperto di cose del sud-est asiatico: un testimone serio, che sa smuovere gli animi con la sua misura testimoniale e perfino con certe scintille di poesia che riesce a strappare alla vita impossibile dei patrioti combattenti tra mille pericoli e ad altissimi costi umani contro un nemico spietato e falso, capace di quei “crimini di guerra” che l’onesto quanto versatile e geniale Bertrand Russell (premio Nobel per la letteratura 1950) denuncia nel suo pamphlet: “violenza cinicamente orientale, stupri, gente bruciata viva, il classico supplizio della goccia d’acqua, donne incinte sventrate, bambini sepolti vivi, contadini vittime di aggressivi chimici sotto forma di defolianti, bombe al fosforo, bombe del tipo lazy dog, contenenti migliaia di affilatissimi frammenti di acciaio che penetrano nelle carni, infanticidio, genocidio.”
Anche questo libro fu recensito da me. Ecco alcuni titoli dei miei interventi sul Vietnam apparsi nel “Gazzettino d. g.” in quegli anni caldi di coinvolgimento appassionato: “Rapporto dal Vietnam di Mary Mc Carthy”. Un testo ampio, ricco di citazioni da quel “rapporto” (stampato in Italia, in esclusiva, dalla rivista “Tempo presente”) minuziosamente impegnato a svelare gli altarini della propaganda americana (l’articolo è illustrato da una grande foto di prigionieri vietcong ridotti a quasi scheletri tipo lager nazisti). “Marciume a Saigon”, basato sul Servizio di Robert Guillam ospitato dalla rivista “Sapere” (luglio 1967), dove si può leggere questa verità pudenda, di solito nascosta dalle coscienze “patriottiche”: “All’estero si immagina che Saigon viva in un clima di guerra. Guerra? Ma chi ci pensa qui, se non per detestarla e fuggirla, approfittarne con il giro vorticoso dei dollari, dileggiarla con i piaceri? [...] Saigon non pensa che a trafficcare e a divertirsi [...] Di tanto in tanto, è vero, il plastico distrugge e uccide. Ma, salvo la sfortuna, ciascuno si sente sicuro [...] Perché, poi, i vietcong dovrebbero seminarvi il terrore quando la città è rosa dal di dentro da un male ben più insidioso, la corruzione? Mi diceva un vietnamita: ‘In questa guerra il cervello è marcio’ E il cervello è Saigon”. Cioè, una Gomorra del nostro tempo, dove “l’industria più diffusa e redditizia è la prostituzione”. Altri miei titoli. “Gravi decisioni per il Vietnam”. E cioè “intensificare la guerra terrestre” e l’aggressione aerea, con “nuovi obiettivi a nord del 17. parallelo”: parola di Johnson. Che nello stesso tempo celebra “la pace, primo articolo all’ordine del giorno dell’umanità” (si preparava il nuovo tour della Commissione per il disarmo, un rituale ipocrita e di scarso valore pratico). “La crociata globale”: come dire, dall’America latina al Sud Est asiatico, la politica aggressiva non stop dei civilizzatori al napalm, devoti ferrigni al santo capitalismo di rapina. “Il sorriso di Johnson e la missione della speranza”: speranze illusorie, alle condizioni Usa (dove intanto si fanno più frequenti ed alte le voci autorevoli che invitano a usare le bombe atomiche contro il Vietnam del Nord. Voci che fanno da contraltare a quelle, non meno forti, del dissenso militante). “Uomini e sottouomini”: le millantate vittorie americane in Vietnam sparano cifre di perdite coerenti col titolo: pochi gli Usati, moltissimi i sottouomini “gialli” (anche se non si trovano i corpi spenti! Quando si dice la comicità nella tragedia”). Durante la famosa offensiva del Thet il mio impegno rasentò la follia: seguivo l’evento con un vero e proprio “Diario sul Vietnam” a puntate settimanali sul paziente e ospitale “Gazzettino d. g.”
Ma la soddisfazione più eccitante me l’ha regalata Ciaccò pubblicando sulla troppo moderata e destrorsa “Gazzetta dello Stretto” una recensione plurale, dai cui titoli si può misurarne l’estensione. ‘Opinioni sul Vietnam’ (occhiello). “Tutti discordi sulla guerra” (titolo) ‘Libri di Chomsky, Schlesinger, Limberti, Maccelli, Toccafondi, Venuti, Gurgo, Salysbury, Browne, Burchett, Russell e McCarthy’ (catenaccio). L’articolone riempie due colonne (misura larga) del supplemento settimanale “Gazzetta letteraria”, e viene aerato da ben quattro titoli-finestre nel corpo del testo: ‘I cattolici fiorentini’ (arruolati, sindaco La Pira in testa, contro la “sporca guerra” e i suoi sostenitori italiani), ‘Nazionalismo o comunismo? (in realtà, un originale mix ben funzionante)’, ‘Cervelli a confronto’ (in sostanza, i due contrapposti fronti polemici sul conflitto), ‘Un discorso spregiudicato’. Sotto quest’ultimo titolino si cita il pamphlet “Vietnam massacro” (S.E.A., 1967) seguito dal mio commento: “un atto d’accusa che emana dai fatti contro questo Occidente sedicente cristiano”. Il “Rapporto” della pluri-citata McCarthy, questa parata di “fatti pregiudizievoli agli interessi americani” (che l’autrice “candidamente” dichiara di essere andata a cercare in Vietnm), spruzza sdegno in queste sue parole, messe a chiusura dell’articolo: “La peggior cosa che potrebbe accadere al nostro paese sarebbe di vincere questa guerra”. Né mancano, nel corso dell’articolo, espressioni, mie o da citazioni, anche più energiche contro quella sequenza di crimini che ha segnato una generazione di giovani sensibili. Il breve elenco di titoli, com’è sottinteso, è solo uno specimen del totale, che si stende dai primi anni Sessanta al 1975, anno della fine ingloriosa dell’aggressione macellaia, ma non del ludibrio acquistatone da chi la volle e impose a un Paese riluttante a maggioranza ostile.
*
Nell’Oriente vicino il fulgore sulfureo di Tell al Zaatar, la collina maledetta del Libano infelice, si offre a un confronto imbarazzante con l’orrore cambogiano: dove cè stata maggiore empietà distruttiva, in quello o in questo massacro? Lì la frettolosa catechizzazione forzata al verbo comunista produsse orrori di tipo religioso (nel senso del fanatismo, e delle inquisizioni e delle magnifiche guerre di religione che allietano la storia); qui, la religione rinnova in chiave cristiano-maronita la proverbiale ferocia degli antichi mongoli: una moltitudine di palestinesi civili e militari viene stretta in un cerchio di acciaio e di fuoco che impedisce ogni rifornimento vitale, dal cibo ai farmaci, dall’acqua alla luce elettrica. I bambini che vengono mandati, nella vampa della torrida estate, ad attingere qualche secchio d’acqua da una vicina fontana vengono fulminati come topi molesti in un sinistro gioco di tiro al bersaglio. Chi, fra le zanne delle situazioni estreme, quei bambini mandava o lasciava andare, sperava, certo, che un residuo di “umanità” resistesse in quelle belve ubriache di sangue: uccidere dei bambini? Come pensarlo, andiamo! Quando, infine, la piccola Varsavia che replica il famigerato ghetto “nazificato” al massacro nel ’44 si arrende al “combinato disposto” di fame sete malattie e promessa di vita salva ai superstiti, i valorosi guerrieri di Cristo fanno lubrico mosto dei palestinesi ingannati pestandoli, vivi, sotto i cingoli dei loro carri armati. Il tutto, sotto l’occhio benedicente dei loro alleati israeliani, beniamini di certa noblesse intellettuale italiota ed europea. Lo scempio si ripete, amplificato, sei anni dopo, in un’altra estate di fuoco e di umana vergogna, al compimento del “nostro” novennio, a pochi mesi dal “fatidico incontro” sul lungomare di Zefiria. Stiamo “tacendo” (come parlarne, infatti, con adeguata verbalità?) di Sabra e Chatila. Nel binomio-apice della distruttività qui adombrata lo scenario muta, la sostanza rimane, replicata senza risparmi: pura macelleria di carne umana, praticata dalla stessa orda drogata di dio e di anfetamine. Lo scenario: due campi di profughi palestinesi, popolati, al momento della “soluzione finale”, soltanto di donne vecchi e bambini. Anche questa eroica impresa ebbe l’imprimatur israeliano: quei soldati con la stella di Davide fumavano tranquille sigarette agli ingressi dei due campi nel medesimo arco di tempo che i falangisti di un Cristo satanizzato riempivano di raffiche indiscriminate e di urlante terrore. Particolare di illuminante significato, i due campi erano inondati dalla luce di potenti fari installati dagli israeliani ai loro confini. Nessuna fuga possibile, nessuna traccia di umana pietà nei massacratori, nessuno slancio di resipiscenza nei biblici guardiani degli ingressi. O nei loro kafkiani ufficiali. Era ministro della Difesa, in questo ennesimo tempo marcio della storia israeliana, Ariel Sharon; era lui, la botte di grasso, il vertice responsabile di quel nuovo “sacro macello della Valtellina”. Anzi, di quel clone di ogni sacro macello della magnifica e progressiva Storia degli Umani. Una tardiva inchiesta della magistratura ebraica non escluse, negli anni successivi, quella responsabilità, ma la verbalistica condanna non impedì allo sciagurato Sharon la salita al top della carriera politica. Né la provocatoria passeggiata, da premier, sulla Spianata delle moschee (pura provocazione attizza-odio) e relativo codazzo di Seconda Intifada, nuovi sparpagliati scontri, vecchie operazioni di pulizia etnica camuffata da autodifesa e altro bene, culminante nella fragorosa epopea del kamikaze islamico, inedita figura nell’horror medio-orientale e triste, disperata risposta di spietato contrappasso alle stragi di palestinesi consumate in oltre mezzo secolo di arroganza marziale israeliana. Assistita o tollerata da un Occidente che si avviava verso la punizione del nascente terrorismo islamico.
E pensare che c’è gente, ancora oggi, che tenta di giustificare quel repulisti osceno: si disse, e si ripete, che fra quei civili, tra quei vecchi donne bambini s’erano nascosti resistenti armati. Bugia colossale, ma se anche qualche briciolo di verità ci fosse in quella bastarda legittimazione, se qualche palestinese sbandato si fosse rifugiato in quello spazio elettivamente tagliato fuori dagli scontri, quale logica bellica potrebbe riscattare quell’orrore senza scuse (uccidere cento innocenti per eliminare un colpevole)?
Inutile ricordare che anche di questi eventi io mi sono occupato con i soliti articoli. Ma quando il “glorioso gazzettino” morì (prima del suo bravo direttore, che lo seguì pochi anni dopo) e nel mio ambiente curialesco non c’era un giornalino laico disponibile, scrissi articoli-saggi per una rivista romana, “Passioni”, che mi ospitava soprattuto come autore culturale. Un titolo che trattava, sulla rivista, un arco di temi collegati, reca il titolo “La crisi mediterranea”: una rassegna di quella “crisi” che si stendeva fra il sempre vivo confronto Israele-palestinesi e gli abusi americani contro la Libia di Gheddafi, bombardata con l’accusa di un criminale sabotaggio aereo.
*
L’anno di Sabra e Chatila ospitò, in contemporaneità mensile, un altro evento drammatico: di assai minore impatto globale, ma con una sua multipla rilevanza di non trascurabile peso: umana, socio-storica, mediatica. E, last but non least, privata e personale. Alludo all’incidente che troncò la vita di Grace Kelly; a quel 13 settembre che vide precipitare fuori strada, sulla Corniche superiore, la Rover di Grace, ferendola mortalmente. Ma che c’entra il “personale”?, direte. C’entra, per via di innocenti coincidenze. Anno e mese del matrimonio di Grace con Ranieri di Monaco coincidono con quelli dell’incontro “fatale” con Rina. Alla festa di un battesimo: una cugina di una sua compagna d’infanzia battezzava una pargoletta che oggi è una matura signora e una giovane nonna. Ballando e conversando, si fece amicizia, e io mi offrii di darle lezioni di filosofia-pedagogia e matematica. Lei ne parlò alla madre, che fu felice di cogliere l’occasione di un’assistenza gratuita alla figlia, certamente preziosa, e chissà se non aperta a futuri sviluppi. Felice, quella madre tenera e semplice, anche perché il sottoscrito era figlio di una cara amica di giovinezza e adolescenza: frequentavano la stessa “mastra”, cioè sarta che tiene allieve. Sarta maestra, insomma, e nel fatto assai competente e perciò molto richiesta. Quanto agli sviluppi auspicati, ahinoi, ci furono. Anche precocemente, se germogliarono dopo soltanto un trimestre o poco più. Poteva, la mia “suscettibilità” estetica resistere a quel volto di madonnina dai tratti così fini delicati raffaellescamente ben distribuiti? E allora, si dirà, che c’entra quel sospiro? Omissis, sui sottintesi geni dati ai figli.
Da questa scoperta, il nome di Grace Kelly entrò amichevolmente nella nostra vita. Ragion di più, perché un secondo nome, poco usato, di Rina coincideva con quello della diva e principessa, già tanto felice e ora tragicamente sfortunata. Per tutto ciò, ed altro ancora, fu un sincero dolore la notizia della sua morte. Come altresì un propellente di curiosità affettuose per la vita e carriera della brava attrice. Io avevo visto qualche suo film, credo l’intero trittico hitchcockiano: Delitto perfetto, La finestra sul cortile, Caccia al ladro. L’anno prima del matrimonio regale, con La ragazza di campagna, aveva vinto l’Oscar. Da quel lontano passato la festa mediatica su Grace e la sua famiglia non è più cessata: le hanno dedicato canzoni, biografie, saggi di genere investigativo sul “mistero della sua morte”. Forse avremo occasione di riparlarne.
*
Fra gli eventi capitali del novennio come privare di almeno un soffio di cenno la morte e l’avvento dei papi dell’epoca? Muore Paolo VI, gli succede l’evanescente e mite Giovanni Paolo I. Che toglie il disturbo un paio di mesi dopo (non senza code di sospetti e ipotesi borgesche presto organizzate in esiti editoriali più o meno plausibili). La scomparsa del primo apre la strada al secondo Giovanni Paolo. Un papa che ha svangato la storia recente fino a collassi sismici di sistemi e assetti internazionali. Un Uomo di anatomia e fisiologia opposte a quelle dell’innocente Luciani: bello, virile, voce tanto maschia quanto femminea la precedente, uomo di carisma garantito. E non solo per i cattolici di tutto il pianeta, anche per tanti cristiani non cattolici, e per i tiepidi, gli agnostici, gli atei dichiarati. I quali, beninteso, ne misurarono, contrastando (con sforzi anche penosi di lucidità) l’universale tentazione al cedimento, più le conseguenze “negative”, cioè più o meno conservatrici, che quelle positive dell’irenismo convinto. Insomma, quell’espansionismo missionario-politico che l’instancabile apostolato itinerante favorito dalla simpatia umana guadagnava alla causa e potenza di una rivitalizzata Chiesa cattolica, sempre più impicciona nelle faccende della ragione laica. Un odi et amo complicato. Del quale, superfluo notarlo, il sottoscritto partecipava con notevole impegno delle sue emozioni e risorse dialettiche.
Ad esaltare quel carisma intervenne, quel 13 maggio 1981, l’attentato di Ali Agca in piazza San Pietro. Che aprì un capitolo drammatico di nuovi misteri nell’elezione non casuale di quel personaggio tanto polarizzato. Da un lato, la coincidenza dell’attentato con l’anniversario della favoleggiata apparizione di Fatima nutrì di nuova sostanza superstiziosa quel mito: il misterioso attentato era stato predetto dalla Madonna! Lo credette, stando alle sue parole, anche il papa (ma sarà vero? verosimile, non sembra, in sì forte tempra). Dall’altro, le ipotesi politiche in piena fioritura: i sospetti volarono in un palleggio bipolare tra gli estremi della Cia e della Bulgaria, con diramazioni laterali sempre inserite in quello schema. Va bene i “Lupi grigi”, magari, ma per incarico di chi, di quale potenza e sistema di potenze? Chi e Cosa aveva interesse alla morte del pontefice? Come c’entra, nel ghiotto mistero, un altro episodio oscurissimo, il rapimento dell’incolpevole giovinetta Emanuela Orlandi, figlia di un modesto dipendente vaticano, mai più ritrovata? Dopo due decenni e passa il mistero è più fitto che mai. Né l’incontro del papa col suo attentatore, nel dicembre ’83, rischiara quelle tenebre: “Ho parlato con lui come si parla con un fratello al quale ho perdonato. Quello che ci siamo detti rimarrà un segreto fra me e lui”. Questa dichiarazione di Wojtyla prosciuga ogni speranza di luce da quella parte. A meno di sorprese future, mai da escludere.
*
Il caso Orlandi merita ancora qualche rigo. Da quel 22 giugno del 1983, data della sua sparizione, non è trascorso anno, quasi, senza una novità testimoniale su Emanuela. E a ogni novità il caso s’è arricchito e aggrovigliato un po’ di più, coinvolgendo in complicità macchinose e insospettabili sempre nuovi personaggi altolocati e figure della criminalità “d’autore”. Un caso per tutti. L’amante di un boss della famigerata Banda della Magnana, impresaria del rapimento, sostiene di avere saputo dal suo compagno per conto di chi sia stata rapita e forse dove sia stata sepolta la ragazza, uccisa, in seguito, forse (ancora forse) per tapparle la bocca. Su che cosa? Tra le nebbie di qualche incertezza, la donna, Sabrina Minardi, dice addirittura di averla vista, la ragazza, intontita come per effetto di droga; e di avere riconosciuto un prete fra “magnanesi” impicciati nel caso. Quel prete coinciderebbe con l’alta figura di monsignor Marcinkus, e proprio costui viene senz’altro identificato come mandante del ratto di quella innocentissima “sabina”. Ed ecco che il caso si slarga, macchia sfrangiata di molti tentacoli: il famigerato presidente della banca vaticana, lo Ior (Istituto Opere di Religione), fu magna pars nel tragico destino di Roberto Calvi, direttore del Banco Ambrosiano. Pare che gli ingenti prestiti di Calvi al Marcinkus non siano mai rientrati e che ne siano rimaste sacrificate cospicue somme di provenienza mafiosa. Quest’ultimo pesante dettaglio sarebbe il movente del presunto suicidio di Calvi dentro l’improbabile cornice dei “Frati neri”, nome di un famoso Ponte sul Tamigi, in una Londra sinistra da romanzo gotico. Un’altra vittima illustre (se non altro per onestà, altrimenti qualificata ingenuità) fu l’avvocato Ambrosoli. Ricordo che ne appresi la notizia nella magia romantica della Roma scolastica: ero di nuovo commissario di maturità nell’Urbe babilonica, in quel luglio del ’79, e lessi in titoloni sui quotidiani del pomeriggio la notizia del delitto. Anbrosoli ebbe il torto, agli occhi di gentiluomini come Sindona e complici di malavita e politici, di avere preso sul serio il compito affidatogli: fare luce sui conti e gli sconti e gli ammanchi del Banco Ambrosiano. E, come spesso succede nelle faccende di homo oeconomicus, la verità emersa da quei controlli troppo scrupolosi investiva sempre nuovi potenti e insospettabili delle “due sponde”: perciò fu festeggiata con la morte anticipata del valoroso impiccione. Ebbi un brivido di rabbia impotente, in quel ritaglio di personalissima pax romana deambulante: ancora una volta, il giusto veniva sacrificato alla feroce ingordigia di Mammona Pantocrator. Ne venne avvelenata la mia svagataggine passeggiante nella sera magica. Poco competitivo, più tardi, in quanto contrappasso risarcente, il risolutivo caffè al cianuro servito in carcere al troppo intraprendente Sindona (conferma o ripresa di una gloriosa tradizione romano-rinascimentale riattivata almeno dai tempi di Pisciotta, strumento divenuto inservibile e ingombrante dopo la tempestiva liquidazione di Salvatore Giuliano, sinistro eroe-servo di Portella della ginestra). Mistero fra i mille misteri italiani, la morte di Sindona, maniacale fondatore di banche a rischio, non mancò di divergenti interpretazioni. Una delle quali (di fonte autorevole) insinua che a preparare il caffe “dosato” sia stato lo stesso Sindona, per fingere un avvelenamento esterno. E che la morte sarebbe dovuta a un errore in quel dosaggio fatale. Errore personale, o intervento di operatore esterno furtivo? Sul mistero si continua a discutere e discettare. Non senza onorare anche la sfuggente presenza dell’immancabile Andreotti, detto, onorevolmente, anche Belzebù, in tutta l’aggrovigliata faccenda. Né soltanto Andreotti: altri personaggi, direttori e presidenti di Banche, furono tirati dentro per i capelli. Alcuni con esiti di sofferenze immeritate, come Baffi e Calvi.
*
Ma che c’entra tutto questo con Manuela rapita? Voci dicono cose pesanti: che monsignor Ior fosse un vizioso, ghiotto di tenere fanciulle indifese. Altre voci precisano (come accennavo sopra) che la bocca di Emanuela si rivelò a rischio e bisognò saldarla nell’eterno mutismo. E ancora voci, più o meno credibili, correggono che il ratto doveva tappare un’altra bocca, quella del padre, e che la cosa poi sfuggì al silenzioso controllo criminale. In questo caos calmo, una cosa salta fuori con non scalfibile evidenza: le complicità vaticane. “Pensate un po’”, dicevo ai miei studenti sicanici, “il mafioso Enrico De Pedis, detto Renatino, uno dei protagonisti dell’affaire, giustiziato, a colpi di pistola, il 2 febbraio del ‘90, dai “fratelli” in Magnana (interno, e buio, regolamento di conti), è stato seppellito nella cripta della santissima chiesa di Sant’Apollinare, come un benefattore emerito, un quasi santo!” In una intervista la sorella maggiore di Emanuela, Natalina, ricordò che, anni prima, in una telefonata anonima a “Chi l’ha visto”, una voce d’uomo aveva detto: “Se volete risolvere il caso di Emanuela Orlandi guardate nella tomba di Renatino De Pedis”. Naturalmente la sorella ha chiesto alle potenze senza volto di aprire quella tomba. Finora, invano. Insiste, anche, Natalina, sulla scarsa attendibilità della versione che vuole Emanuela uccisa per punire qualche potente: il padre, Ercole, morto nel 2004, era solo un messo della Casa Pontificia, un fattorino di lusso, ma sempre fattorino, non è che avesse “chissà quali poteri”. La signora ricordò pure che i “Lupi Grigi dichiararono che Mirella Gregori era stata rapita per ricattare lo Stato italiano ed Emanuela, invece, cittadina vaticana per colpire la Santa Sede”. La Gregori era stata rapita il 7 maggio ’83, un mese prima di Emanuela. Aveva 15 anni come lei. La famiglia Orlandi le associa e le ricorda insieme. L’associazione “Penelope” riunisce i parenti stretti di persone scomparse di cui si ignora la sorte: lottano, decisi a non cedere alle tenebre, per conoscere sorte e verità contestuali di quelle scomparse.
Particolari ammiccanti: Emanuela è stata rapita in Corso Rinascimento, vicino a Palazzo Madama; la chiesa di Sant’Apollinaire si trova nei pressi, Renatino è stato ucciso in Campo dei fiori, sotto l’occhio bronzeo di Giordano Bruno che sprizza scintille di memorie truci. Nell’ultimo mio impegno romano in qualità di commissario alla maturità classica del liceo “Virgilio”, nel recarmi, la mattina, dal mio albergo in quella scuola, passavo davanti a Campo dei fiori e sostavo, se avevo tempo, davanti al monumento, in memore raccoglimento.
E fermiamo qui un cenno che minaccia di farsi espansiva macchia d’olio scritturale, mentre nella realtà continua a produrre complicazioni e nuovi misteri. Coinvolgenti perfino laghi sotterranei e faglie sotto l’onusta superficie della Roma laica e vaticana, e via Pignatelli e corso Rinascimento e chissà quant’altro. Con altri raccapriccianti particolari, come quello che vorrebbe il corpo spento di Emanuela dentro un sacco di spazzatura in transito, prima dell’inumazione segreta. Nel tempo in cui scriviamo la situazione è in movimento, e sembra difficile pensare che si possa chiudere con la verità svelata senza ombre di menzogne funzionali a questo o quell’interesse losco, a cavallo fra la Roma politico-economica e il Vaticano degli imbrogli e delle omertà. Si tenterà, forse, più autorevolmente, anche di ottenere l’apertura della tomba-cripta. Si tenterà...

Nessun commento: