mercoledì 20 aprile 2011

PASSEGGIATA CRIMINALE

Ancora Libia. Complimenti a “Repubblica on line” per la sua Fotostoria della guerra in Libia. La quale non sembra affatto stanca. Anzi, marcia di buona lena, infischiandosi di minacce, incontri di superministri targati Ue, esternazioni di capi di Stato europei, consultazioni e conciliaboli di altri divi della Politica. Sul Corsera di domenica 10 aprile leggiamo: In campo gli africani Vertice sulla Libia con Onu, arabi e Ue. Mentre Gheddafi ricompare in tv. Sembrerebbe l’annuncio di un miracolo, la fine del conflitto, e dunque del suo fatale indotto satanico: le vittime civili da “fuoco amico” (una corvée che sembra inseparabile da ogni effusiva festa di homo bellator). Ma basta un dettaglio a far capire che non sarà così: le personalità che ipotizzano quel solenne incontro col Raìs, puntano su una sua rinuncia virtuosa, mentre i ribelli non ci stanno. “Vinceremo o moriremo”, rispondono i loro leader, “riprendendo lo slogan del capo partigiano Omar El Mukhtar al tempo della resistenza anti-italiana”. Da dove scende così eroico (o masochistico) proposito? Da questa semplice convinzione: “Gheddafi è un terrorista, un criminale di cui non ci si può fidare. Tradisce la parola data. Approfitterà della tregua per assassinare tutti i suoi oppositori”. Questa convinzione, fondata o no, è ben diffusa tra gli uomini della rivolta. Intanto Gheddafi sembra “guadagnare punti. Ieri la tv di Tripoli ha trasmesso le immagini di lui sorridente mentre visita una scuola attorniato da una folla di fedeli che scandisce slogan anti-occidentali”. Ostentazione propagandistica? Non soltanto. Continua, il servizio, toccando il punctum dolens del dramma: “La realtà è che i ribelli non sono in grado di battere le milizie agli ordini del Colonnello. Ci hanno provato, si erano illusi. Dopo l’avvio delle sommosse a metà febbraio si erano meravigliati della rapidità con cui avevano liberato la Cirenaica. Le brigate di giovani volontari, con tanto coraggio ma nessuna preparazione bellica, si erano lanciati all’inseguimento del nemico con le armi trovate nelle caserme date alle fiamme. Per un paio di settimane è stata l’euforia della vittoria. Sino alla cittadina petrolifera di Ras Lanuf è andata più o meno bene. L’entusiasmo era confortato dalle rivolte a Misurata, nella regione al confine con la Tunisia”. E riacceso (quando cominciò il risveglio amaro) dal dinamismo missilistico dei supervolenterosi, Francia e Gran Bretagna, benedetto dalla Casa Bianca. Oggi, cioè dopo tanto spreco di missili e vittime innocenti, si ripiega sull’ipotesi del dialogo e la speranza di convincere il Colonnello ossoduro a lasciare. Errore di valutazione prima dell’intervento fragoroso (pensando che il mitico popolo tutt’intero si fosse sollevato contro il tiranno), errore rinnovato in questa speranzella poco ardita. Ma una novità più clamorosa ci attende: Sarkozy, il bellicoso custode della verginità democratica maghrebina, il Presidente della Francia paladina che è stata la prima, il 19 marzo, “ad attaccare i gheddafiani che assediavano Bengasi”, si dichiara “disposto ad accettare un Gheddafi in carica”. Clamoroso? Di più: spudorato. Hanno scatenato, lui e quel suo compare britannico, un inferno di fuoco “crociato”, e tutto finirebbe in una sorta di “scusate, abbiamo scherzato”? La condizione-speranza che un “Gheddafi in carica” sarebbe pur sempre “a tempo” non cancella il colore giallo del voltafaccia. Lo stesso dicasi del discutibile passo indietro del giorno dopo (quando quelle “confidenze” segrete vennero alla ribalta mediale), quale sventola dai titoli odierni: Parigi attacca la Nato, annuncia il Corsera del 13 aprile. E riporta le fiere pungolate del direttorio francese: “Deve bombardare di più. Rasmussen ha voluto il comando, ora agisca. Ad assegnare il comando alla Nato, il 24 marzo, è stata, a maggioranza, la sua Assemblea. Ed ecco la sorpresa: il 9 aprile il Segretario Rasmussen dichiara, papale papale: “una soluzione militare in Libia è impossibile”. Sarkozy, che aveva dovuto ingoiare l’indigesta decisione, è costretto a constatare che l’azione targata Nato, anziché crescere, dimagrisce. Il perché ha una spiegazione nobile: la paura di moltiplicare le vittime civili, che già non sono poche. La requisitoria anti-Nato accusa il comandante militare della missione, il canadese, Charles Bouchard, di essere “ossessionato dalla paura di danni collaterali fino all’inazione”. Accuse di apparenza disinvolta, con qualche granello di cinismo nazi-mongolico. Che deve sfuggire al ministro degli Esteri Alain Juppé se il 12 aprile, “ha criticato duramente la coalizione”. L’avverbio non sembri eccessivo per le seguenti parole da capoccia infuriato: “La Nato non svolge abbastanza il suo ruolo, deve fare di più. Ha voluto prendere la direzione militare delle operazioni, e noi lo abbiamo accettato: ora adempia al suo compito”. Lo sprone, guarda caso, sventola lo stesso motivo umanitario che fa esitanti le armi Nato: evitare “che Gheddafi usi ancora armi pesanti per bombardare la popolazione civile”. “Una censura” (commenta il Corsera) “aperta, inconsueta, all’organizzazione di cui la Francia fa pur sempre parte”. Insomma, la solita concordia capovolta delle grandi occasioni, quando le alleanze scricchiolano sotto il peso delle responsabilità. Se i rivoltosi giudicano il Colonnello cinico abbastanza da usare “scudi umani” per sputtanare gli attaccanti, la soluzione, comunque difficile, può facilitarsi con disinvolte stragi di inermi civili dalla “parte buona”? Una volta tanto perfino Frattini, nostro ministro degli Esteri, pronuncia parole pensose: “Cento anni dopo aver occupato la Libia non vorremmo trovarci di nuovo a uccidere civili”. Parole al vento,  peraltro, alle orecchie di Sarkozy e Juppé, catafratti nel loro sospetto spirito missionario odoroso di petrolio. Che si vedono costretti a impinguare la dose dei rimbrotti anti- Rasmussen, colpevole (perfino!) di un incontro con il segretario dell’Unione africana, ostile alla missione Nato: una vera “invasione di campo”. L’appoggio inglese conforta il Quai d’Orsay nella sua campagna di sprone-Nato: più Tornado, più attacchi, togliere a Gheddafi le occasioni di far dubitare gli insorti del pieno appoggio “democratico”. Richieste che, tra l’altro, urtano contro la realtà: “Parigi e Londra senza più bombe a guida laser” titolava la Repubblica di domenica 17 aprile. E il testo di Angelo Aquaro (da New York) ha un incipit “allarmante”: “ La guerra della coalizione dei non-così-tanto-volenterosi contro Muammar Gheddafi potrebbe finire nel modo più inglorioso possibile: per mancanza di munizioni”. E spiega il drammatico allarme, ricordando che, a scorno dei micidiali attacchi recenti, Gheddafi stringe sempre più da presso “l’assedio a Sirte e Misurata, dove anche ieri si sono contate numerose vittime degli insorti”. Mentre le “parole al vento” dei volenterosi stanchi evolvono fino a una dichiarata rinuncia italiana alle bombe sulla Libia, Barak Obama, costretto dalla situazione politica interna a uno strano “ruolo di supporto” ch’è disimpegno reale (non può dare le bombe al laser a Francia e Inghilterra!) mobilita Hillary Clinton per convincere l’Italia a sganciare quelle bombe che Berlusconi vorrebbe risparmiare all’enfatico amico di un tempo felice. Donde il sottotiolo di “Repubblica”: Libia, domani La Russa al Pentagono. Gli Usa chiederanno all’Italia maggiore impegno. Intanto la cresta gallica continua a rimpallarci quei migranti che (dopo un momento di euforia precoce per un rallentamento della sorveglianza) attraversano l’Italia per raggiungere la mitica Francia Allons envants de la Patrie.
         Migranti. Tema del momento. Tema e tormento. Comunque la giri, qualunque ipotesi di solidarietà concepisci ti si para dinanzi una roveto di difficoltà e contro-indicazioni. Al momento, l’italo permesso di soggiorno a termine (sei mesi) viene bocciato dalle vestali della verginità europea. La sentenza suona: non vale per godersi Schengen. Ripassiamoci le condizioni della mitica Schengen sbandierata anche dalla douce France sarkozyana. L’articolo 5 del patto stabilisce le condizioni per l’accesso a quell’Area: soldi e documenti. “30-60 euro la somma giornaliera che il migrante deve possedere per esservi accolto”. La sentenza della responsabile Cecilia  Malmstroem è drastica: “Avere un permesso di soggiorno non dà il diritto di viaggiare nell’area Schengen”. La reazione di Maroni veleggia tra il risentimento e il fatalismo preveggente: “Una risposta che non sorprende. Posizione scontata, per noi non cambia assolutamente nulla”. Ma le sparate del solito Calderola complicano la situazione: “Riportiamo a casa i nostri soldati per difendere i nostri confini”. Né il coro leghista si ferma qui, anzi tocca un apice con la patetica minaccia di uscire dalla materna Ue che fa la matrigna: che ci stiamo a fare dentro, se non se ne può fare uso? Questo il senso non troppo nascosto delle esternazioni leghiste. Che preoccupano il nostro presidente Napolitano: indi, paternale a Frattini: “Più cautela, occorre salvaguardare l’Unione”. Tempi duri, per le unioni più o meno sacre e utilitarie a un tempo. E il primum movens delle difficoltà si chiama, appunto, immigrazione brada. Una cifra di riferimento aggiornata segna “25.000 gli stranieri approdati in Italia nei primi tre mesi dell’anno”. Dei quali, “18 mila sono partiti dalla Tunisia dopo la rivoluzione dei ciclamini”. Un bel problema. Che va dritto a sollecitare quel proverbio che dice: al peggio non c’è fine: ed ecco il serafico Castelli dichiarare, pari pari: “Bisogna respingere gli immigrati, ma non possiamo sparargli. Almeno per ora”. Se, in seguito, il problema dovesse gonfiarsi fino a diventare “enorme”, be’ dovremo “porci il problema di usare anche le armi”. E dove sarebbe lo scandalo? -domanda ai perplessi. Non è palese che “le controversie internazionali spesso, come abbiamo visto in Iraq o in Kosovo, si risolvono con le armi”? Che gli dèi ce la mandino buona. Anche se Gheddafi non incoraggia l’augurio: il Corsera del 15 scorso ha questo titolone lungo quanto la pagina: “Ondata di migranti in arrivo dalla Libia” E i Servizi precisano: “15 mila scarcerati da Gheddafi”. Stranamente, questo allarme incrocia un momento di cauto ottimismo, forse prematuro, del ministro  Maroni: “Quello che succede in Libia è sotto stretta osservazione”. Non solo, c’è (ci sarebbe) di meglio, Maroni dichiara “conclusa la fase acuta dell’emergenza” tunisina: “L’accordo sta funzionando”. Sarà così? Forse. Ma fino a quando? Le dichiarazioni con richiami alle regole di Schengen non sono né smentite né superate da chiare aperture. E chiudiamo sugli immigrati con un pensiero agli annegati, come dire alle ormai migliaia di vittime sacrificali offerte al Moloch marino dalla nostra Civiltà liberale in combutta con l’oscenità del fanatismo comunque colorato. E in particolare alle due madri del 14 aprile, inghiottite dal mare davanti a Pantelleria. Non senza aggiungere un secondo elogio a Repubblica per un altro servizio fotografico (11 splendide foto a colori) sulla protesta degli ultimi migranti lungo i binari dell’ostile stazione di Ventimiglia.
         Crimini lenti. Che saranno mai questi crimini al rallentatore? Sono una categoria misconosciuta: spettri, che si materializzano sul lungo tempo. Ne diamo appena un assaggio (evocando qualche precedente nella personale terapia dello sfogo estetico). Cominciamo con un inchino di pura riconoscenza alla Tavola rotonda 2000, i cui Cavalieri rispondono da tre lustri alla compagine di Governo. Criminali, questi famosi campioni dell’Italia maggioritaria? Sì, almeno nel senso qui presupposto. Chi fa leggi talmente ad personam da servire un solo padrone produce qualcosa che col tempo partorirà effetti criminali. E via alle riforme: giustizia, col processo breve, la prescrizione idem, le intercettazioni proibite se “incontrano” il premier, la separazione delle carriere, e chissà che altro verrà fuori. Sia detto senza negare che la nostra patria giuridica abbia bisogno di riforme anche radicali. Ma non mirate al salvataggio di un discutibile bucaniere osannato da masse drogate di egoismi molteplici e illusioni a termine (prima o poi ci si sveglierà). E come definire se non criminali le ingiurie che il Cavaliere di ogni brutta causa sbatte in faccia ai magistrati che fanno il loro stretto dovere? Insulti cretini, ma tossici per quella fetta di illusi scaltri lestofanti carrieristi svampiti e servi vocazionali che formano le sue maggioranze (lentamente in calo, pare). Insulti che svettano fino al paradossale capovolgimento della realtà, anche della più drammatica: vedi i manifesti con la scritta “Via le Br dalle procure”, che hanno indignato Napolitano. E che, ovviamente, hanno acceso indagini per gli eroi capovolti di questa impresa, Giacomo di Capua, segretario del coordinatore Pdl lombardo, Mario Mantovani, e Roberto Lassini. La solita Santanchè, intervistata dal Corsera, minimizza: “Ci sono cose più gravi oggi su cui scandalizzarci”. Tipo? I manifesti “comparsi domenica fuori dal Teatro Nuovo, davanti ai poliziotti della Digos, e che offendevano il presidente del Consiglio. Alcuni facevano accapponare la pelle. E allora? Nessuno dice nulla? Nessuno si indigna?” Insomma, protesta la signora:: siamo alle solite, “due pesi e due misure”, Lei sarebbe per la più democratica parità: ladri uguali a onesti gendarmi, per esempio. Oppure: giudici assassinati dalle Br e altre formazioni terroristiche (vedine l’elenco sul Corsera di oggi, 19 aprile, con dati e foto: una toccante iniziativa) uguali ai loro assassini. Non meno di questo implica quel parificare le accuse al Berlù con quelle rivolte ai giudici: il primo caso rinvia a sospetti, condanne penali di Dell’Utri, confessioni di pentiti e altro; le bestemmie contro i giudici, colpevoli di fare il proprio lavoro con serietà, sono pura cialtroneria da drogati del potere.
         Supercompensi ai manager di grosso calibro (o di very successful “lato B”): stipendi faraonici, liquidazioni da nababbi, piogge di bonus, stock actions, e altra dolceria angelica (il denaro, sterco di Stana? Quando mai!). Si obietterà: ma in che modo puoi assimilare al crimine questa logica del merito? Semplice (o banale, come preferite): in un Paese (e in un mondo) dove i numeri che segnano le diverse povertà (dei luoghi e delle classi) sono astronomici, le morti per fame di bambini e adulti scandiscono la quotidianità con cifre da brivido, non ha niente di criminale questo scialo immondo? Peggio quando si passa ai campioni del calcio, dei bolidi a quattro o a due ruote, delle audience tv, o del grande schermo, e via elencando. Il pensiero di queste diseguaglianze madornali guasta la salute: a lungo andare può intaccare la normalità epatica o cardiaca. Ripudiamo la “regola del merito”? Nient’affatto: respingiamo gli eccessi. Ricompensate pure, ma con decenza, facendo nostro il monito di Orazio: est modus in rebus. O, più direttamente: Ci sia un limite al guadagno. 
         Uno sguardo alla Politica. Ecco un  altro settore dove l’abuso è più di casa ancora che nel mercato manageriale, sportivo, artistico eccetera. Qui si predica da anni e decenni: abbassiamo il costo della politica, aboliamo le Province, riduciamo il numero dei parlamentari, e via promettendo. E ancora: tagliamo le spese del Quirinale, dove anche un barbiere guadagna quanto un professore universitario. E sono moduli di spesa intangibili. L’onesto Napolitano ha tagliato dove ha potuto, rammaricandosi per l’intoccabile. Hai voglia di scrivere denunce come La casta, di impallinare ogni settimana abusi e scandali spreconi: ogni cosa storta rimane e fa le boccacce ai sensibili di salute debole: crepate pure, noi custodi del Disordine sociale ambientale morale eccetera abbiamo spalle larghe e stomaci di acciaio. Ci consoleremo ancora col Poeta romano? Magra consolazione quel suo monito: “La morte raggiunge anche chi fugge”.
Pasquale Licciardello

giovedì 7 aprile 2011

Carrellata avvelenata

Cominciamo da quella che ormai possiamo definire “La guerra libica”. A quasi due mesi dall’inizio come rivolta interna della nostra ex colonia le nostre poco ottimistiche previsioni si godono quotidiane (quanto non desiderate) conferme. Avevamo capito subito (non ci voleva molto acume) che Gheddafi non era (non è) il supposto tirannello sbruffone che si possa scalzare dalla robusta sella del quarantennale potere con il più o meno improvviso (e incauto) entusiasmo guerriero di una parte della popolazione subito qualificata (anzi amplificata) con il pomposo nome di Popolo (giusto con la maiuscola che la sua grafia sottintende nel giudizio di chi pronuncia quell’ambiguo sostantivo). E così, tra alti e bassi nel serpentone dei giorni di fuoco, tra salti di euforica gioia e cadute di cupo sconforto in partibus infidelium, o campo dei rivoltosi speranzosi, siamo arrivati all’ultimo giorno di marzo con il seguente genere di titoli e testi nei reportage della stampa: Un’altalena di sangue in mezzo al deserto. “Armare o non  armare i ribelli, questo è il dilemma. A Washington e a Parigi se lo pongono con la calma imposta alle grandi diplomazie. Qui, dove gli eventi si succedono travolgendo i ragionamenti razionali, il problema assume un’urgenza angosciante. Le truppe di Gheddafi hanno recuperato in poche ore quasi tutto il terreno che avevano perduto durante il week-end” (La Repubblica). I ribelli potranno consolarsi con quest’altro titolo: Libia, Obama pronto a dare armi agli insorti? A parte il fatto che il “pronto” dei vertici politici vuole essere preso col beneficio d’inventario delle decisioni sacre, viene ai tasti, dal fondo della legittima curiosità, una domanda: tutto qui l’effetto del fragoroso tambureggiamento a base di missili apocalittici spiegato per giorni e giorni sul corredo militare del Raìs? Senza dimenticare il dettaglio, non certo euforizzante, delle vittime civili denunciate non soltanto dal governo come effetto secondario non voluto (ma, volenti o nolenti, messo in conto dai “picchiatori” celesti). Questo sanguinoso tira e molla si corona di false notizie e boatos a produzione continua: da qualche giorno si parla di trattative fra i figli di Gheddafi e certi governi europei, senza che si avverta odore di verità garantita. Altro indotto del conflitto è l’attenzione effusiva del giornalismo di commento etico-psicologico di cui ci dà un esempio Pierluigi Battista sul Corsera del 3 aprile: “E la guerra guerreggiata? Sprofonda nell’indifferenza, nel disinteresse, nella noia. Non succede solo con quella di Libia. Ormai, corazzati di cinismo e assuefazione, non facciamo quasi più caso ai nostri soldati che perdono la vita nella missione in Afghanistan. Ma con la guerra di Libia, a un passo da casa, l’attenzione è tutta concentrata sul molo di Lampedusa, sui barconi dei disperati, sulle tendopoli, sulle distinzioni sottili e insieme grottesche tra ‘profughi’ e ‘clandestini’, ‘rifugiati’ e new entry nella follia lessicale che ci assilla, ‘immigrati economici’. La strana guerra. Una guerra che non è una guerra. In Italia sostenuta da un governo che ce l’ha più con chi l’ha voluta, Sarkozy, che con chi dovrebbe temerla, il colonnello Gheddafi”. E così “il monopolio del neo-pacifismo” si trasferisce sulla destra: la stessa che dipingeva “Saddam Hussein come il nemico dell’Umanità”, il Colonnello come un  padre di famiglia o giù di lì, tutt’al più un po’ severo. E, in ogni caso, non è facile disturbare un buon socio in affari. Quanto agli insorti, oltre alle difficoltà militari (che li spingono a sollecitare la Nato perché faccia di più in loro aiuto), subiscono pericoli di inquinamenti, e lo steso numero del Corriere li segnala: Tre generali e un qaedista. Chi comanda sugli insorti. La rivalità al vertice aumenta il rischio di infiltrazioni islamiste. I dubbi degli Usa, il pressing di Londra: “Armiamoli”. Come propone il ministro della Difesa inglese, Liam Fox, convinto che “La risoluzione delle Nazioni Unite permette di armare i rivoltosi”. Continuano, intanto, le “dicerie” su presunti incontri diplomatici dei figli di Gheddafi con diversi governi europei. Le ultime notizie a ridosso dello sperato invio del presente “spunto” suonano questa musica barocca (Corsera, 6 aprile): I ribelli riprendono a esportare il petrolio, Ma il leader militare accusa la Nato: Misurata abbandonata alle forze del Raìs”. Tanto, fra titolo e “catenaccio”: fra testo e “fascette” si può raccogliere questa modulazione: “La Nato ci ha deluso. I suoi jet non sostengono le nostre truppe di terra”: così il Capo di stato maggiore dei ribelli, Abdulfatah Younis. Quanto all’Italia, si becca l’accusa (fondata) di “ondivaghismo”: Lo zig-zag della diplomazia italica. ‘Ondivaghi? Come tutti gli altri’. Così se la cava il mini-ministro Brunetta. Che si concede perfino una presa di euforizzante hegeliano: “Io la vedo così: il reale è razionale, in questo caso l’andamento ondivago è nell’ordine delle cose. Non sono stati ondivaghi Barak Obama, Muammar Gheddafi, altri Paesi europei? Noi che cosa dovevamo fare: tra denunciare il Trattato di amicizia italo-libico o confermarlo aveva senso una delle scelte?” “la ricostruzione” recita: “L’oscillazione è così evidente che latitano perfino le smentite”. E, per una volta, non si può negare alla situazione oggettiva l’indotto di questa oscillazione quasi inevitabile. Né giudicare fantapolitica l’ipotesi di una futura (si spera sia prossima) mediazione italiana. Al presente ci resta da registrare l’accusa rivolta al Raìs di usare “civili come scudi umani”. Credibile? Non incredibile!
         Se dal terreno dello scontro fragoroso passiamo a quello dell’indotto civile non si trova molto da consolarci. Con buona pace del Burlone fantasioso che è venuto in Lampedusa a recitare il suo show auto-promozionale con la solita raffica di promesse spavalde e, in più, il gesto simbolico della casa acquistata in loco, per “diventare lampedusano”: come dire, l’ennesima bufala del Cavaliere Ciarla: nessun acquisto di casa o villa è avvenuto, né era possibile. Perché il dramma dei boat people magrebini che “assaltano” le nostre coste è tutt’altro che chiuso e concluso. Il movimentismo che sposta gli sfortunati pellegrini dai loro Paesi agli approdi europei, con la tappa obbligata sulla nostra isoletta soffocata dall’Eccesso non è in nessun caso una scampagnata eugenetica. E’ benignamente vero che alcuni di loro hanno ricevuto la  pratica evangelica del rifocillare gli affamati, ma l’esito prevalente del disagio generale ha titoli meno felici, anzi di segno contrario all’esortazione sopra richiamata. E non soltanto dal naturale emergere del “precetto” biologico, mors tua vita mea. Il quale non viene esibito, certo, in chiare lettere, anzi mediato dal più umanistico appello “un poco ciascuno non fa male a nessuno”, non perciò è meno presente e operante, visto che quel tale appello non trova il doveroso e pronto riscontro nelle orecchie deputate a riceverlo. Il peggioramento della reazione all’inarrestabile flusso migratorio verso le nostre coste fermenta nelle cose stesse: nessuno, che non abbia la cecità dell’aspirante alla beatificazione, può eludere l’esplodere della paura e della sua coda aggressiva. Già la cronaca registra episodi eclatanti che acquistano anche il valore di sintomi e simboli: la fuga in piena dilatazione dei migranti concentrati nei centri di raccolta (tendopoli e recinti ben poco accoglienti) e il loro dilagare sul territorio con la violazione delle zone coltivate a spese della locale produzione di roba mangereccia: nei casi segnalati, arance e mandarini. I proprietari che hanno avuto largamente “alleggerita” la produzione, e sia pure dalla perentoria fame di quei raccoglitori coatti (come resistere al primum movens del nostro destino biologico?) si pensa che ne siano lusingati per l’involontaria applicazione di quel tale precetto evangelico?  Ebbene, questa emergenza non è stata ancora affrontata con la grinta e la scienza necessarie: l’opposizione delle Province prevale sul limitato consenso delle poche volenterose, e qui l’appello costituzionale alla superiore autorità dello Stato non si è fatto ancora vedere. Anzi, il fenomeno si dilata talmente che ci regala addirittura il caso di un giovane migrante in preda a raptus suicida. Salvato da pronto intervento, ma sul futuro non si vedono ancora garanzie che non siano le derisorie promesse del premier istrione e le proteste delle organizzazioni umanitarie (“Medici senza frontiere” e Emergency) per le condizioni bestiali in cui languono gli sfortunati. Intanto l’Ottimista proverbiale che sgoverna l’Italia con la sua banda ministeriale di suonatori di piffero prosegue il suo giuoco elettivo di vantare successi e iniziative smentiti dai fatti e dalle dichiarazioni della millantata controparte: in fattispecie, la Tunisia. Per vari giorni Berlusconi ha recitato questo ritornello: abbiamo stretto un solido patto per rimandare quei migranti al loro Paese. Rispondeva quel governo: quando mai? E il presunto accordo fresco di giornata come la buona frutta risaliva la china di Crono verso un impreciso passato superato dagli eventi recenti. Oggi, finalmente, un accordo c’è, ma non nei termini (e nei costi) vantati dal premier: cresciuti i costi, dimezzati i vantaggi. Questa “prima intesa con la Tunisia” prevede “20 mila permessi temporanei a chi è già sbarcato in Italia”. Maroni tenta di mostrarsi soddisfatto, ma non può nascondere che “non basterà”. L’accordo prevede che “I nuovi arrivi saranno rimpatriati”. Ma la dispersione dei migranti evasi dalle tendopoli o da altro risibile “comfort” sul territorio, già sperimentata con successo, non agevolerà il controllo. Solo qualche giorno fa sui quotidiani si leggevano questi titoli: La fuga in massa dei tunisini dalla tendopoli di Manduria. E Mantovano gridò: “Basta con la logica del tutti al Sud”. E si dimise. EA riassumere le difficoltà implicite nell’accordo provvede un altro articolo del Corsera: Le fatiche di un’intesa debole: né date né certezze. Per esempio negativo, una delle tante rinunce “Il governo italiano ha dovuto accantonare l’idea di procedere al rimpatrio di massa”. Ci consoleremo con  il conforto del ministro francese Fillon? Le sue parole ci sorridono: “Immigrati, l’Italia ha ragione […]è un problema europeo”. I fatti non ancora.
         Né questo patto cancella la tragedia dei migranti in fuga da una patria inaffidabile e finiti in mare a migliaia, come ricorda, con dovizia di dettagli, un ampio servizio della Repubblica del 4 aprile che si annuncia in prima pagina con questo titolo Quei 500 fantasmi nel cimitero d’acqua, si apre con un cupo incipit e si sviluppa alle pagine 6-7: “Dai nostri inviati Attilio Bolzoni, Francesco Viviano, Lampedusa. Se non li vedono gonfi d’acqua e trascinati dalle onde, li chiamano ‘dispersi’. Mai partiti e mai arrivati. Non hanno una faccia, non hanno un nome, neanche li segnano da qualche parte”. Il titolo principale di pg. 6 recita: La storia. Cinquecento fantasmi sulle rotte della disperazione. “Quel mare è un cimitero” Negli ultimi venti giorni una strage senza fine”. Una rassegna a ritroso dei “precedenti” riempie due colonne: la prima comincia dal 2009 (naufragio del 31 marzo, 400 salvati, oltre cento i “dispersi” (idest, affogati) e finisce con l’ottobre del 2003, quinto naufragio: “Strage su un barcone di clandestini somali alla deriva da giorni sulla rotta verso Lampedusa. In undici muoiono per gli stenti, si salvano in 14, ma c’è il sospetto che altri corpi siano stati gettati in mare durante la traversata”. La seconda colonna riprende il 2003, giugno: ennesimo naufragio, ennesima strage, solita meta (mancata), Lampedusa. Altri naufragi, negli anni 2002, 1999, 1997, 1996: “La notte di Natale uno degli incidenti più gravi degli ultimi anni: 283 immigrati – d a India, Pakistan e Sri Lanka – muoiono annegati tra Malta e la Sicilia, dopo lo scontro tra il cargo libanese Friedship e la motonave Yohan. Lo scontro avviene a 19 miglia da Portopalo di Capo Passero (Siracusa)”. Il crudele salasso non salta, quasi, giorno: ieri un altro naufragio: “Lampedusa, affonda un barcone: 250 vittime, molti bambini (occhiello). Migranti, apocalisse in mare (la Repubblica, 7 aprile). Servizi alle pagine 34-35, con un intervento di Adriano Sofri (Quattrocento dollari per morire). E si auspica, in un ampio articolo di Carlo Petrini, Un impegno di tutti a ospitare i migranti. Un’idea nobile (per usare un aggettivo frusto), che, tuttavia, inciampa nella barriera sopra segnalata. Che si può scrivere anche in latino: Quo usque tandem? Est modus in rebus: e via seguitando. E allora, per allontanare al possibile il triste “adagio” del Mors tua vita mea, ci vorranno sforzi, scontri, liti, malintesi, esplosioni di egoismo alla Bossi e peggio (ché lui parla, ma altri, muti la pensano anche peggio: al cinismo di homo sapiens non c’è limite. Non di tutti e in tutti i suoi esemplari, ovviamente, ma a far la media, quella è la tendenza prevalente. L’unica soluzione tentabile è quella del limite condiviso: un po’ a ciascuno (come si diceva sopra). E, visti e letti certi sfoghi, anche questo limite della saggezza trova ostacoli. Mentre aspettiamo l’Orazio del XXI secolo c’è tempo per leggere qualche buon articolo sulle difficoltà di intesa fra nazioni della cosiddetta Unione europea. Quello di Sergio Romano è un excursus storico sui non sempre facili rapporti fra le nazioni battezzate ironicamente (?), Francia e Italia, protagoniste di un recente, non insolito, né ancora del tutto risolto, attrito di frontiera (la polizia francese che respinge i migranti passati in territorio francese al non-mittente italiano). La “Lettera alla Francia” di Romano, che esibisce un titolo già ironico, Un eterno tango fuori tempo (Corsera, 1° aprile), percorre brillantemente la storia dei variabili rapporti con l’Italia
         .        Altro titolo di non-gloria nazionale, le risse in Parlamento. La scompostezza è arrivata ad un grado di intollerabilità che fa temere un non-ritorno disastroso. L’intervento di Napolitano, meritevole quanto autorevole, è certamente un buon segnale: sottintende “ulteriorità” da scongiuro. Come escludere un eventuale futuro scioglimento delle Camere se la rissa continua ne pregiudica la regolare funzionalità? La Carta lo prevede, e l’incancrenirsi della situazione potrebbe rendere inevitabile quel gesto estremo. Ma qui bisogna parlare chiaro, dando “a ciascuno il suo”: scrivere dei buoni articoli dividendo la responsabilità in parti uguali fra maggioranza e opposizione non va bene, non rende giustizia alla seconda, non inchioda come merita la maggioranza. Che è sempre più spudorata nelle sue esose pretese di prendere a calci la normalità parlamentare, di sfidare fin la più scialba e paziente delle componenti oppositive: sovvertendo l’ordine dei lavori, presentando disegni di legge provocatori, usando urli e insulti da stadio (sia detto senza offesa per quei primatisti della rissa), il tutto a esclusiva difesa dell’indifendibile in punta di normalità legislativa e funzionale.
Pasquale Licciardello