giovedì 28 gennaio 2010

Susanna, Frammento 55


Un mastello di quel genere (e livello) di crimini ci costringe a un passo indietro, verso le sopra ricordate Olimpiadi di Monaco di Baviera, anno 1972, dieci dopo l’appena onorato ‘62: un contesto d’eccellenza per la chiusura del “capitolo” in corsa. Un commando palestinese del nuovo gruppo “Settembre nero” (nato in risposta all’eccidio giordano) sequestrò undici atleti israeliani, proponendo lo scambio d’uso in queste occasioni: voi liberate i nostri uomini (un centinaio), noi rilasciamo i vostri. Era il 5 settembre. Durante l’attesa di una risposta, un maldestro assalto delle “teste di cuoio” tedesche fece precipitare gli eventi: gli undici sequestrati vennero uccisi. Quel sangue alimentò la pianta di una vendetta biblica, degna di richiamare certe rappresaglie tedesche del periodo 1943-45. Un paio di giorni dopo l’insopportabile “smacco”, le autorità di Tel Aviv (ispiratrici esigenti di quel fatale tentativo volpesco) affidarono al Mossad l’organizzazione della spropositata controrisposta. Con larga disponibilità di mezzi finanziari, gli uomini del servizio segreto (forse più efficiente e spregiudicato dell’Occidente, se non dell’intero globo politico evoluto) raccolsero informazioni negli ambienti più vari dell’Europa sugli uomini del commando palestinese, sui loro mandanti e collaboratori coperti, sulle aree polarizzate più o meno coinvolte. In lunghi mesi di ricerca e di azione, riuscirono a ucciderli tutti, uno dietro l’altro, con pazienza e intelligenza, violando spudoratamente frontiere e convenzioni internazionali. Anzi, ne uccisero più di quanti fossero realmente e anche latamente responsabili. Né si può accertare se questo surplus di giustizia al piombo veloce sia stato accidentale effetto e coda involontaria della difficile impresa selettiva o, piuttosto, alone di nonchalance per la realtà umana della Resistenza palestinese (e relativo contesto civile). Ma, se un minimo dubbio può ancora resistere sulla estensione della vendetta del Mossad a innocenti civili, nessun’ombra può velare l’evidenza terroristica dei connessi bombardamenti sui campi profughi palestinesi. Iniziativa inescusabile, da zelanti figli dello spietato Jahvé, e del suo massimo delegato in terra, lo sterminatore Mosé. Bombardare un campo profughi vuol dire consumare una strage di civili innocenti, dai vecchi ai bambini: si parlò di oltre duecento vittime. Una modesta replica, insomma, delle gesta del “popolo eletto” ispirato da quel dio, più e più volte “mandante” indiscutibile di stragismo indiscriminato (leggere per credere. Ma senza il filtro vaticano, che perfino il “dio degli eserciti” cantato nei “Salmi” traduce con il candeggiato “Dio dell’Universo”). Specialmente durante la “liberazione” (cioè, l’abusiva conquista sterminatrice) della “Terra promessa” (vale a dire, di territori da secoli appartenenti a diversi popoli, e mai prima abitati da ebrei). La Resistenza palestinese, naturalmente, veniva, da questa esorbitanza assassina, rafforzata nella determinazione militare con nuovi assetti organizzati e tentazioni estremiste, preludio ai fasti capovolti di Hamas, Hesbollah e ai futuri exploits kamikaze.
Ancora un dettaglio. Vertice motore di questo capolavoro dagli effetti micidiali nella storia del Medio Oriente fu il primo ministro Golda Meir. Già: la virago che la stralunata Oriana Fallaci, reduce da un’intervista al miele, aveva ornato degli epiteti più stravaganti: tenera, dolce, molto femminile, materna. E non ricordo più che altro delicatume. Quant’è vero che l’ingorda storia degli umani mescola spesso tragedia e farsa. E che l’entusiasmo acceca, quando supera certe soglie.
Naturalmente, la Fallaci soffiava quei paradossi complimentosi in sottintesa polemica con i responsabili dell’aggettivazione “viragogica” che correva sulla Meir. E non sospettava (è da credere) che quella sua Invenzione dolciastra potesse nascondere il fin troppo virile progetto di una simile strage: non solo, come appena ricordato, paziente, plurale fino all’inclusione di sicuri innocenti, ma anche esposta a informazioni tanto prezzolate quanto oscillanti nell’attendibilità identificatrice di quei resistenti frettolosi. Insomma, un capolavoro di rappresaglia tristemente dissonante col vanto di gemmato modello democratico, che i capi ebrei e tutto l’Occidente vezzeggiatore (e di cattiva coscienza storica) sbandierano ai quattro venti (da parte europea, e tedesca in particolare, in sottinteso titolo di espiazione e remunerazione versus l’orrore della Shoah).
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Quanto a mescolanze, l’ingorda Storia è anche buongustaia, e mette insieme (fino al sadismo sincretistico) sofferenza e diletto, tormenti e piacere, sangue e sesso: l’anno di Monaco fu lo stesso dell’ “Ultimo tango a Parigi”, di Bernardo Bertolucci, con un insospettabile Marlon Brando al burro lubrificante, e una volenterosa Maria Schneider tuttofare. E anche l’anno dell’astro sorgente Edwige Fenech, icona adoratissima della filmografia nuda (premessa dolce all’hard incombente). Il film del lancio ha un titolo pacchianamente prolisso ed esplicito, “Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda”. Ma si era già nel colmo della stagione dell’eros liberato: il ’68 aveva sfornato “Grazie zia”, filmetto che buca il tabù dell’incesto (con Lisa Gastoni e Lou Castel: ragazzo paralizzato lui, zia consolatrice, di mano e altro bene non usurabile, lei); e il ’69 (nomen omen) “scopre” l’orgasmo femminile con “Brucia, ragazzo brucia”. Culmini veri e differenti della rivoluzione sessuale: il ’76 produce “Cattivi pensieri” di Ugo Tognazzi, regista e interprete, con scene di nudo integrale per lui e lei, la collaudata Edwige Fenech. Ma la cima insuperata (salvo che nel tintobrassismo scatenato, cioè nel porno dichiarato, del genere “Così fan tutte”, con l’allora ruspante Claudia Koll, ora tutta preghiere e incensi) dell’hard italico d’autore si chiama “Novecento”, appartiene al Bertolucci, è diviso in due parti ben distinte, ed è esplicito (di organi anatomici al vento e di loro usi e funzioni) fino a far rosso d’imbarazzo il sottoscritto, che si trovò, ignorando l’eccesso in attesa, a vederlo con ragazze della seconda liceo, lui seduto fra due bellezze diciassettenni. Unico conforto, la compagnia dell’amico e collega di scienze Beppe Grasso, non meno imbarazzato. Eravamo caduti in una trappola tesa da quelle smaliziate informatissime figlie ...del tempo: l’invito a vedere insieme il film era venuto, infatti, da loro. Che si saranno fatte maliziose risate, a condimento di piccati commenti. Ah, gli anni Settanta! Quando le ragazze ne sapevano più dei professori. I quali si imbarazzano, certo, ma pure...
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Mini curiosità: un noto politico con la passione cinefila definì “Ubalda” “un presepe minimalista”, esaltato “dalla sofferta interpretazione di Pippo Franco” (nientemeno) e da una Fenech “intensa, personaggio alla Truffaut” (caspita). Quando si dice che la passione stravede (in questo caso, forse, la passione “dal basso”) (Marco Cicala, “I sogni erotici degli italiani? Sono ancora fermi a Edwige, la coscia lunga”, “Il venerdì di Repubblica”, 10 ottobre 2008. Vedi l’ampio servizio a più voci ispirato da un nuovo presunto film scandalo del geniale Woody Allen, “Vicky Cristina Barcelona”, con Penélope Cruz e Scarlett Johansson. E fioccano libri di onesta indagine, tipo “Il porno di massa. Percorsi dell’hard contemporaneo” dello storico Pietro Adamo [nota del curatore dei Diari di Paolo Assaggi].
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A proposito delle beffarde mescolanze della Storia, il sessofago 1969 fu anche l’anno dello sbarco sulla luna (lo so, si dovrebbe dire “conquista”, non “sbarco”: ma quel pomposo termine puzza di maiuscolarismo metafisico). Cioè, l’anno conclusivo della lunga preparazione del progetto: con la serie degli “Apollo” numerati che si avvicinano, passo dietro passo, alla grande meta. Nel gennaio del ’67 si svolgono prove decisive per la messa a punto della navicella; nel novembre dello stesso anno Apollo Otto, in tre giorni di volo, ruota intorno al satellite, ne guarda la faccia nascosta (a noi terrestri), che gli astronauti trovano più “rugosa” della visibile, dallle vicinanze lunari godono la visione del “pianeta azzurro”, cioè la nostra Terra, che la distanza colora di immeritata innocenza. Con un ritorno non proprio liscio, ma, alla fine pienamente successful nell’atterraggio. Seguono polemiche sul “lem”: c’è chi non lo ritiene sicuro, chi lo difende e chi consiglia prudenza e pazienza: lo si studi meglio, lo si renda più sicuro, e via proponendo. Nel marzo del ’69 Apollo Nove svolge quella che doveva essere l’ultima prova prima del volo con atterraggio, ma ce ne sarà un’altra. Piero Angela segue queste avventure e ci informa da par suo. Apollo Dieci, minacciato dalla pioggia, trova presto il sole e parte per la prova generale prima del viaggio-atterraggio (maggio del ’69). Dal solito Cape Kennedy abbranca il cielo con la sua sbalorditiva massa di scienza e tecnologia e sale, prima lento, poi via via accelerando, e pare disinteressato al satellite, mentre esegue gli ordini dei suoi padroni cervelluti (ma poco saggi). Assommerà 800 mila chilometri di orbitazione selenica. Ammaraggio come da programmazione. Nel luglio dello stesso ’69 una drammatica notizia semina perplessità sull’impresa, o almeno sui tempi previsti: un razzo russo, quello che porta l’ennesimo Sputnik, esplode. Alla NASA c’è chi suggerisce una pausa di riflessione: dopo la “conquista dello spazio” da parte dell’antagonista URSS, col volo di Gagarin, nel lontano 1961, l’America in gara sente riacutizzarsi il bruciore dello choc subito in quell’anno. Ma alla fine prevale il senso della sfida Apollo Undici parte (luglio ’69). Dentro lo spazio gravitazionale selenico si dispiega la delicata trama del progetto: gli astronauti si dividono i compiti. Collins resta a bordo del modulo di controllo, in orbita dentro il Lem Eagle Aldrin e Armstrong. Quando accendono il motore per l’allunaggio qualcosa non va. L’allarme si dilata fino alla base operativa. Il centro di controllo sembra sballare. Si rischia grosso. Le pulsazioni di Aldrin superano i 150 battiti al minuto. Momenti di tensione allo spasimo, ipotesi di annullamento della missione a Houston, la velocità di avvicinamento non è quella giusta, il computer-pilota sforna dati divergenti da quelli del radar, alla fine un gesto di coraggio estremo: lasciare il pilota automatico alle sue bizze e manovrare a mano, poi il computer ritorna normale, l’ “allunaggio” riesce, e così, pur con qualche altra complicazione, il ritorno sulla terra, l’ammaraggio, eccetera. A noi poveri indigenti della gravitazione terrestre bastano le immagini con i saltelli degli astronauti ingolfati nella desolazione lunare.
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Se non ricordo male, l’anno finale del settennio fu anche quello di tre famosi film, giudicati capolavori da critica e spettatori sensibili, e certamente degni di memoria storica: alludiamo al felliniano “Amarcord” (con quello stralunato Ciccio Ingrassia che sbraita dall’albero per avere una donna); a “Caos” e “Todo modo”, dei fratelli Taviani. Dalla nostalgia fantasticante di “Amarcord”, servita con riprese e quadri di gustoso impatto emotivo, al variegato mondo novellistico di Pirandello, non meno seduttivo; e dal Caos poetico all’impegno demistificatore e “profetico” di uno Sciascia disincantato, deluso dalla politica dei compromessi e della corruzione. Tre tappe magistrali della filmografia italiana.

martedì 19 gennaio 2010

Susanna, Frammento 54


A confortare le mie interpretazioni mi capita fra le mani un diario del biennio successivo al grande distacco. Didia mi racconta delle dicerie che correvano sul conto mio e di Susy, ma soprattutto le confidenze che faceva Susy alla sua compagna di scuola e amica del cuore, Adele Tallario. Riproduco la pagina (del 3 dicembre, cioè di due anni e mezzo dopo). Abitavamo, dall’anno prima, a Regiumiuli, sullo Stretto, all’estrema periferia della città. Didia, iscritta al magistero di Zancle, veniva ancora a trovarci di tanto in tanto, quando si recava all’università.

Didia da noi (ha portato dolci e un pupazzo per Giampiero, che ne tripudia). Lo accompagna a scuola. Lo dice a me mia moglie al citofono. La raggiungo. Lasciato il bambino (col solito magone, ma rafforzato, dalla presenza di Didia, nella fiducia di non essere ...abbandonato), ritorniamo insieme, con la mia macchina, a casa nostra. Saliamo a piedi. Sulla scala, le do qualche bacio. “Solo sulla guancia”, fa lei, in fil di voce. Perché? – penso. Si sta un po’ insieme con Rina e la bambina (sembra che Didia voglia affezionarsi anche a lei) e poi si va al porto degli aliscafi, lei ed io, che mi assumo il dovere di portarvela in macchina. Sull’ascensore, rapidi bacetti on the lips. E lei ripete la “deviazione”: only on the cheeks, please! Faccio orecchie da mercante e spargo parole: “Ti rivedo sempre con piacere, da quella volta. Ti ricordi?” Guardando verso il suolo e annuendo di testa: “Sì”. Ancora bacetti fugaci. “Sei cambiata, Didia”. “No”. “Sì”. “Sono successe tante cose”. “Cosa?”. Siamo già in macchina, diretti al porto. Riferisce, con accento commosso, quasi a mezza voce, come parlando a se stessa, lo sguardo dritto, in avanti: “Lui mi vuole tanto bene. Mi dice che ha assoluta fiducia in me. Mi sembra male...”. Ho capito: Roberto le entra nel cuoricino smarrito. “Hai ragione, basta”. L’aliscafo non ci accoglie: troppo pieno, “esaurito”. Bisogna aspettare l’altro. Ci restano tre quarti d’ora per passeggiare e parlare. Grandi confidenze e confessioni. Dice Didia: “Vi voglio sempre bene come allora”. Obbietto: “Non mi sembra. Mi riferisco al "come” qualitativo. Lei insiste: “Sì, perché anche allora il mio affetto era diverso da quello che sento per Roberto”. “Diverso come?” –“Diverso” – “Da figlia? Sarebbe assurdo, visto che non lo sei, che io sono un estraneo, voglio dire, non sono nemmeno un consanguineo di un qualche grado.” – “Lo so, ma è diverso, e il mio affetto è intatto” –“E’ cambiato. Tu non pensavi che io potessi baciarti?” – “No, non ci pensavo. Vi vedevo troppo in alto”. Pausa di riflessione: ah ecco, troppo in alto. Penso: la solita amplificazione pupillare. Replico: “Già. Normale ‘promozione idolatrica’ nella fantasia delle ragazzine sensibili che si ‘innamorano’ del professore ammirato. Eppure, dovevi pensarlo che, restando soli, e preso dal tuo tenero, trepidante affetto, si potesse, prima o, poi... Io ero commosso dal tuo attaccamento, e, quasi a compensarlo, finii col valicare il confine del sentimento simil-paterno. Ricordi quella volta, sulla sdraio, quando mia moglie era assente?”– “Sì, ricordo bene”. E nella voce si avverte un’incrinatura di ambiguo intenerimento. Incalzo. “Be’, ho resistito, quella volta: ho vinto la tentazione di un’intimità più spinta. Ebbi come un crampo: Che sto facendo? – pensai. Fu un segnale di svolta. Non accadde più. Lei tace, sguardo basso, lieve rossore. Silente pure io, per qualche minuto: digerisco quel “troppo in alto”. Forse non bisogna scucire la beata idolatria delle fanciulle sognanti, non scendere nella carne e nei sensi. Lei insiste: “Vi voglio bene e vi stimo come allora, ne sono certa. Volete un segnale? Quando mi capita qualche difficoltà più complicata delle solite mi domando: cosa ne penserebbe Lui? Come mi consiglierebbe? Nei punti cruciali della mia poco brillante esistenza vi ritrovo sempre: come confidente, conforto, dispensatore di saggi consigli, appunto.”
Tutto credibile, niente di meno che plausibile. Salvo l’implicito in quel “troppo in alto”. Chiarirlo? Si può tentare. Partendo da un fatto (anzi, ‘fatticità’, alla tedesca heideggeriana): mica protestavi, tu, quando ti baciavo sulle labbra. Neppure per tremuli cenni della maniera più dolce, più rispettosa, più delicata. Insomma, gradivi. Allora che cosa potrebbe essere accaduto dentro la tua testolina? Qualcosa del genere: oh Dio, che succede? io non ci pensavo, non osavo immaginare e sperare questo,… O temere? Sperare-temere? Mio Dio, che intrecci imprevisti, così spiazzanti! Ma intanto succede, e come oserei respingere questo dono inatteso, questa piccola “incarnazione” della mistica “trascendenza” sognata? – Trascendenza a parte, e contorno filosofico spurio, più o meno le sensazioni provate in quei mini-approcci sensuali dovrebbero essersi aggirate in questo campo magnetico dell’emozionalità sessuale svegliata. Del resto, la sua scelta del sì al suo Roberto non era stata estranea al mio “paterno consigliare”. La presentazione che lei me ne aveva fatto mi spingeva a ben valutare il ragazzo come suo eventuale compagno di vita. Dal ricordo della valutazione, poi, estrarre l’accenno di un consiglio non è difficile. Ed eccomi presente nell’immaginario esistenziale della piccola Didia anche in missione di pronubo.

Quello che mutila, e insapora di slealtà rimpiazzante, quei miei slanci, è il copioso background non confessato, né confessabile. Questo tacere forzato, questo inevitabile silenzio su premesse spurie, che copre il disordine emotivo del mio self-control disorientato, decaduto a self-defence.
Si viene a parlare della sua classe, delle dicerie che correvano su di me e Susy. Dichiara, Didia: “Quante, mio Dio! Come ne soffrivo! Ma vi difendevo, io, sempre, non le credevo, mi rifiutavo”. E avvia un cielo fitto di conversazione “anfetaminica”. Io incoraggiante: “Lo so, ti credo. Ma che si diceva, di preciso?”
“Be’, tante cose. Non tutte belle.”
“Qualcosa so. Un po’ le ho sentite anch’io, qualcuno me le ha portate all’ orecchio esplicitamente”.
“Chi, qualche mia compagna?”.
“No: qualcuno molto più in alto, per dirla con la tua espressione.” – Mi guarda, gli occhi avidi di novità eccitanti. Rispondo a quel punto interrogativo così dolce, così innocente.
“Nientemeno che il presidente della vostra commissione di maturità.”
“Addirittura! Davvero? Ma come mai?” – E’ piccata da tanto interesse, così diffuso, e radicato nell’ambiente da raggiungere quel livello. Attende il resto. Pende dalle mie labbra. Racconto.
“Con l’aria più disinvolta del mondo, in piena seduta, dichiara, papale papale, e roteando sguardi mitemente mefistofelici sui presenti allertati: ‘Sapete cosa dicono in giro? Che quella ragazza, Susanna Castrato, è l’amante del professore Assaggi’. Pensa! Un pugno nello stomaco. Ma un pugno di fuoco, una vampa. Ci ho ricamato sopra, non senza sforzo, una risatina modesta, ma sono rimasto basito. A quel punto, dunque, erano i pettegolezzi in paese?”
La confessione stana la lepre. Conferma, Didia:
“E’ appunto questo che si diceva” – Balzo di viscere tra le mie povere ossa colpite. E il gioco avanza.
“Ah! E chi lo diceva?”.
“Tante. Quasi tutte le mie compagne”.
“Immagino. Ma tu non ci hai creduto... Nemmeno un sospetto, un dubbio, un mezzo pensiero sulle debolezze della natura umana?”.
“No. Ve l’ho detto: vi vedevo troppo in alto”.
Vedi, Paolino? Non conviene scendere dal plinto degli dèi. Oh profumato candore delle fanciulle in fiore! Cosa rispondere a tanta, malriposta, fede?
“Cara Didiuccia, non si è mai troppo in alto per certe cose”.
“Ma voi non siete uno qualunque”.
No, non sono un “Uomo qualunque”. Fin qui, nulla da eccepire. Però.
“Eppure, la tentazione c’è stata”.
Abbozza un’ombra di sorriso tra timoroso e fiducioso. E sospira un soave attestato di fiducia tout malgré:
“Lo so, la tentazione…E’ umano, ma voi…”.
“Non sono uno qualunque. Ero troppo alto! Si può scendere, però, in certe situazioni. E lei era del tipo che produce quelle situazioni. E poi era troppo vicina a me quella ragazza. Mi tentava forte, con la sola presenza. Ero più tranquillo quando Rina era in casa. Magari la chiamavo se si trovava dai vicini.”
Sorvoliamo sul facile mentire e abbellire quando necessità comanda: maiora premunt. Sto per rivelare che qui, a questo preciso punto del percorso confidenziale, scoppia una bomba. Didia si sente sciolta dai lunghi vincoli di reticenza discreta, esita ancora un poco, pensierosa, ma poi, spara:
“Si diceva addirittura che lei volesse un figlio da voi.”
“Nooo!!” – “Sì, è così.” – “E chi lo diceva?” – “Lei stessa.”– “Ancora nooo! Non ci credo, questa l’ha inventata qualcuno, anzi qualcuna: qualche compagna invidiosa.” –“Eppure è così.” – Perentoria certezza: donde, dunque? – “Ma non lo diceva a te, non c’era fra voi tanta intimità.” – “No, a me no.” – “A chi, allora, lo diceva?”– “A una sua amica molto intima. E’ lei, l’amica comune, che me lo ha detto.” – “Ma chi?” – Nuova esitazione, qualche secondo ancora di silenzio preparatorio. Poi (ormai è lanciata): “Adele.”– “Adele Tallario?” – Conferma, passa dal voi al lei e viceversa. E’agitata dall’impresa che s’è accollata: quelle rivelazioni la stancano. Ma non desiste. Non può: ormai una speciale forza di gravità spinge il torrentello.
“Sì. Lei sa quanto erano, e credo siano ancora, amiche, quelle due. Non si nascondevano nulla di quanto capitava a ciascuna di loro. Adele mi ha giurato che glielo ha detto lei, Susanna. ‘Voglio un figlio dal professore. Sono la sua amante’ – così le ha detto. Magari non sospettava che Adele fosse tanto amica mia”.
Così, papale papale! E meno male che cercava “soltanto” la mia protezione! Ah, quella lettera bugiarda! Quell’autodifesa imbrogliona e necessaria: verso i suoi, verso Rina. Protesto, intanto, con l’innocente Didia, a mezza strada fra verità e menzogna. – “Ma non era vero!” – “Lo so. Ma lei lo diceva.”
Lo sa: o beata innocenza! Continuo. – “Forse lo diceva anche a qualcun’altra compagna?”
“Chissà. Anzi, che fosse la sua amante lo ha detto senz’altro a un’altra sua amica del giro intimo. Forse a due”
“Addirittura.! Bella pubblicità per uno stimato professore di filosofia pedagogia psicologia! Ma perché mai diceva cose simili? Che ci guadagnava?”
“Non saprei, ma certo era il tipo da dirle, certe cose. E da volerle”
Sì, era il tipo. Ma io, cretino, come mai non sospettavo una cosa simile? Sì, a volte, di tanto in tanto, un sospetto vago di sue possibili confidenze a qualche compagna-amica mi stuzzicava i tempi-tregua del mio ingolfato cerebro; ma non ero mai arrivato a pensare che lei potesse spingersi fino a quel “monstrum”: un figlio da me! Chissà se ricordava queste confidenze quando scriveva la lettera “polarizzata”, tra bugie e mezze verità, dimenticanze e omissioni necessarie.
“Rivetti, Spanò, Speziale e le altre lo sapevano, ci ridevano sù. E spettegolavano.Una volta Spanò, per provocarla, le chiese cosa ci trovasse, in voi, di tanto attraente”.
“E lei, cosa rispose lei?”
“Che vi trovava affascinante”
“Bum! E su quali argomenti e qualità?”
“Non mi fate dire.”
“Dimmi, invece, e fai uno sforzo”
Arrossì, Didia, e concedette solo un paio di dettagli: gli occhi, la loro luce, la grande cultura, la bravura, eccetera. La fonte era sempre Adele.
Dunque Susy era arrivata a dire questo. A vantarsi di essere (e trema pure, mia povera mano vedova, a scriverlo) la mia amante. Ho diritto di chiedermi: si direbbero cose del genere alle amiche intime senza sentire una vera, forte attrazione per l’altro? Vera, corporale, viscerale: per quanto modesta potesse essere. E, modesta o no, certamente era amplificata dal mio ruolo, dal tronetto-cattadra “troppo alto”. Vero è che qualche, e non lungo, tempo dopo queste confidenze e vanterie Susanna cambiava la versione sul nostro rapporto. Diceva, in famiglia, che ero io a volere lei, che non volevo si sposasse, e per questo lei se n’era andata lontano da me, dalla mia famiglia. Che purtuttavia amava. Pura autodifesa: che altro? Doveva schermarsi contro gli strali dei pettegolezzi possibili, e di facile possibilità. Ovvie banalità, che ci insisto a fare?
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Questo, dunque, diceva in giro Susy nel tempo in cui, secondo la versione di comodo data in famiglia e dintorni, lei sarebbe stata presa soltanto da una comune cottarella pupillare per il sottoscritto, accentuata dal bisogno di scolastica protezione. “Sono la sua amante!” – quante volte l’avrà detto in giro? “Sono l’amante del professore Assaggi”: a quante amiche ha recitato questa “poesia”? Volevo chiudere il capoverso con full stop su “protezione”, ma l’eros dei vecchi me lo allunga. Mi arrendo, e continuio. Come si potrebbe mettere in circolazione una tale “confessione” col semplice propellente di una modesta attrazione? No, no, i conti non tornano: bisogna ingrandire quella “modestia”. Fino a leggervi, perfino, una decisa intenzione a lasciarsi “fare” senza reticenze e sbarramenti. Come, del resto, aveva confessato a me stesso, tentandomi dal fondo-fuoco della sua “sofferenza” di demi-vierge. Ah, quel blocco crudele! Quanto deve aver mortificato la voglia di dire chiaro “e dài una buona volta, riempimi questa gola affamata che si contorce di spasimi ingiusti!”
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Il qui presente, intanto, continuava la sua esistenza sbilanciata fra divergenti attrazioni. Quella culturale conobbe, nel settennio, una produzione, non stakanovistica, no, ma di tutto rispetto sì. Fatto conto anche delle mie non esorbitanti riserve energetiche. Per tutto il periodo continuò la mia collaborazione alla Gazzetta dello Stretto e al Gazzettino dei gelsomini, dove apparvero una cinquantina di articoli di vario argomento (dalla letteratura all’epistemologia, con qualche celebrazione di ricorrenze importanti, soprattutto nascite e morti di scrittori o filosofi). Spesso lo stesso articolo entrava alla Gazzetta e al Gazzettino (di solito con una modifica, amplificante per la seconda destinazione. Non c’era ancora “il libro”, ma i saggi distribuiti fra Biosofia, la rivista di Gulizza, Empiria, la rivista trimestrale di Rama, e altri periodici minori, stavano accumulando materiale per quella destinazione. La quale, da troppo tempo agognata, avrebbe dovuto imprimere una svolta decisiva al mio futuro culturale. Gulizza mi aveva anche aperto le porte della Fiera letteraria, dove pubblicavo recensioni ben pagate (male, invece, le retribuzioni della Gazzetta, sempre tirchia e un po’ negriera). La collaborazione con la Gazzetta si chiuse, però, pochi mesi dopo la morte di Ciaccò, l’evento “personale” più triste del settennio. A segnare lo stop (da parte mia, ma in risposta alle condizioni nuove) fu il loro rifiuto di pubblicare una recensione molto severa al libro di Armando Plebe, “Filosofia della reazione”, e in sostanza al nuovo corso del filosofo deluso, scivolato in braccio alla destra estrema (o giù di lì) (con giustificazioni sofistiche e verbosi arzigogoli). Dopo quella “bocciatura” non mandai più nulla al giornale cariddiano. Né la vedova Ciaccò, la vispa Germana, si fece viva a confortarmi nella speranza di una sua eventuale protezione. Era stata assunta al posto del marito, a tutela della famiglia, cioè essenzialmente dei tre figli ancora ragazzini, ma non ne raccoglieva intera l’eredità affettiva. Laureata in Giure, ma non esperta di scritture giornalistiche, non ci mise molto a imparare il mestiere. Giusto appena il mestiere: non raggiunse mai la bravura letteraria del marito sfortunato.
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A chiusura del settennio aggiungo due eventi vicini e distanti (se non l’ho già fatto!), eppur segnati da una nota comune. Doppiamente vicini: nel rapporto temporale fra loro e col finire del settennio. Si tratta del film di Stanley Kubrick, “Arancia meccanica”, 1971, e del tragico colpo di mano del commando palestinese che rapì e poi uccise gli atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco, 1972. La violenza è la logica che accomuna i due eventi, per altri versi distanti: un fatto di sangue della sfera politica e un esempio “estetico” di sadismo personale pimentato di sensibilità musicale sui generis. L’Alex di Kubrick (il bravo Malcom Mc Dowell) congiunge la passione per Beethoven col gusto del sangue e dello stupro: non diversamente, i capi nazisti che consumarono la Shoah amavano la bella musica, suonavano Beethoven e Bach, erano capaci di tenerezza per i loro bambini e per gli uccellini. Un mistero, per la filosofia dualistica col mito dello spirito libero e superiore al corpo: un’epifania “normale” per una visione coerentemente fisiologica dell’uomo. Il “mistero” è rifugio dei teoreti timidi, e una fuga dalla cruda realtà della cellula: dalla sua natura “lasciva, crudele e carnivora” (come icasticamente scrisse il maggiore antropologo vivente, Joseph Campbell nel suo capolavoro, “Le maschere di Dio”). Ricordiamo qui che il film è ispirato a un romanzo di un autore inglese che non ha bende davanti agli occhi, Anthony Burgess. Sviscerato in mille dibattiti cultural-sociologici, il film cult di Kubrick trova, forse, un’occasione ermeneutica più congeniale e meno “topica” dei soliti lai e sospiri da talk show sulla originaria pandemia violenta nella visione biotrofica gulizzana.
Dalla quale non si esce neppure di un millimetro “zoomando” sulla criminalità mafiosa: l’anno prima del bang culturale dell’accoppiata Burgess-Kubrick c’era stata la strage palermitana di Piazzale Lazio: quasi il botto conclusivo della sinistra interminabile festa degli spari malavitosi. E mesi dopo, l’omicidio del procuratore Scaglione (a torto vulgato come evento ispiratore del “Contesto”: lo stesso Sciascia chiarì che la prima parte della “parabola” era stata già pubblicata su una rivista anticipando parecchio sull’evento criminale).
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Un altro caso di violenza minore, ma eclatante, bussa alla magica porta di Mneme e chiede ospitalità in questo suo salottino delle rimembranze dolorose. Niente di personale, neppure qui, ma una meno lontana parentela col racconto “assiale” si può leggerla in filigrana tra analogie e contrasti, di sfondo e dettagli. Si tratta dello stupro rubito da Franca Rame, proprio nell’anno ultimo del settennio. Un branco di bestie fasciste di non troppi anni consumò quel delitto di sadico diletto a turnazione individuale.
La vittima ne fece, poi, materia di una pièce ad alta tensione drammatica. L’ho potuta vedere (e cioè, godere e soffrire) in televisione quando la torbida Rai del ’78 (l’anno del Caso Moro!) mise fine a sedici anni di ignominioso ostracismo contro la coppia Fo-Rame. Perché tanta severità e così provocatorio sprezzo del pluralismo democratico? – si chiesero gli ingenui. Ma come perché! – Dario Fo e la moglie s’erano macchiati di un delitto imperdonabile: avevano ombreggiato di nuvole nere il fulgido meriggio del boom italiano. E come avevano consumato il crimine? Spudoratamente parlando di povertà e discriminazione, di ingiustizie e prevaricazioni, ma soprattutto di mafia. Già, di mafia: niente di più ovvio. Ma l’ideologia catto-capitalistica e vaticanofila aveva decretato la non esistenza della piovra. Gli omicidii a suon di lupara? Malavita comune, rivalità personale di cani sciolti. Non aveva solennemente dichiarato, sua eccellenza cardinale e arcivescovo di Palermo Ruffini, che “la mafia non esiste”? E non gli aveva fatto eco sua importanza l’onorevole Malagodi accusando Dario Fo di calunnia contro il magnifico popolo siciliano? E fu così che mamma Rai venne costretta dal canagliume politico del tempo a mettersi sotto i tacchi servili democrazia pluralismo libertà di pensiero rispetto della verità e altri fulgori assiologici. Alla faccia di proteste e pubbliche dimostrazioni contro tanta censura e così plateale iattanza. Era l’Italia del ’62: di Fo vennero respinti perfinio gli spot pubblicitari. A tanto può arrivare l’imbecillità di persone pubbliche al servizio dei mammonici potenti, specie se olezzanti di stravolta e flessibile religione. L’anno dopo veniva fulminato John Kennedy.

mercoledì 13 gennaio 2010

Susanna, frammento 53


Del resto, quanto mi risale alla memoria basta a riempire ancora decine di pagine. E comincio con il pezzo più caldo. Finita la nostra breve vacanza magnogreca, al momento dei commossi saluti, Susanna ci lasciò il suo indirizzo bresciano e il numero di telefono. Le scrissi, ci scrisse, anche Rina entrò nella corrispondenza. Poi il solito diavolo ci mise di traverso la sua torbida coda. Prima, ispirandomi una lettera incautamente affettuosa, con chiusa ancora più allusiva di lontani sentimenti immutati (forse le parole erano queste: “Con l’ardore di un tempo”). Poi la coda del diavolo spinse il marito separato di Susanna a carpire la mia lettera dalla cassetta postale di casa, leggerla e scatenare un putiferio.
Del quale avemmo ragguagli da un allarmatissimo sfogo epistolare di Susy che aprì un nuovo capitolo nel breve romanzo delle sue confessioni a Rina. Questa lettera è ancora viva, in tutti questi anni l’ho riletta non so più quante volte, ogni volta credo di avere aggiustato e aggiunto qualche piega alla sua interpretazione. E ora ne riferirò qui, con tutto il “campo dei possibili” sgombro da remore ed incertezze “confidenziali”. Ma ecco la lettera.

Carissima Rina,
certo sarai molto stupita, quando riceverai questa mia, dopo tanto silenzio! I motivi del silenzio sono stati molteplici, e non sto qui ad elencarli. Ti dico solo il più importante: sono stata molto malata, e solo ora, se non verranno complicazioni, mi sto rimettendo. Mi danno le forze le mie bambine, che, vedo, hanno tanto bisogno di me, in quanto troppo piccole.
Questa mia lunga malattia e il piccolo caos successo mi hanno fatto vedere chiaro e mi hanno spronato a dirti tutta la verità. Non si può basare una vera amicizia sulle menzogne o i sotterfugi. E’ appunto perché la mia amicizia con te è vera e sincera, che non mi va più di mentirti, con reticenze e mezze verità. Voglio che tu sappia l’intera verità su quello che è realmente successo sette anni fa. Mi perdoni il Professore, tuo marito, se vengo meno ai patti, ma prima o poi era inevitabile, e per la mia coscienza e perché quando scrivo a una persona verso la quale nutro tanto affetto e stima, lo possa fare senza sentirmi in colpa.
Quello che ti dissi quest’estate non era vero, i fatti sono diversi. Non so spiegarmi come o quando è successo. So soltanto che a diciotto anni, e non avendo la possibilità di frequentare altri ragazzi, si fa dei propri professori gli uomini ideali. Io, il mio ideale lo avevo visto in tuo marito, e la cotta venne anche per me, come per tante altre studentesse per questo o quel professore. Non so se fu vera cotta, so solo che mi serviva per essere aiutata a scuola a fare i miei comodi. Mi sentivo sicura, protetta. Quando poi tuo marito si fece avanti facendomi capire che non gli ero indifferente, cominciai ad avere paura di essere abbandonata a scuola, e di rompere l’amicizia che intanto avevo fatto con te. Così stetti al gioco. Gioco che non fu mai pericoloso, perché una cosa è certa: tra me e il professore non è mai successo nulla. Ripeto: eravamo in prossimità degli esami ed io non mi sentivo sicura, così, per essere certa della sua protezione, continuai il mio gioco. Non dimenticare che lui era il rappresentante dell’istituto per la mia classe (e un’altra): la condizione ideale per essere tutelata.
Non credere, però, che tutto questo durasse da molti anni: fu solo nell’ultimo anno, un quattro o cinque mesi. Quando tentai di avvelenarmi, poi, lo feci non perché ero folle, ma perché ero tanto insoddisfatta della mia vita, e mi ero messa in una situazione dalla quale non sapevo più come uscire. Non volevo rompere con te l’amicizia creatasi in tutti quei mesi di assidua frequentazione, ma nello stesso tempo non volevo continuare ad alimentare una situazione che era ormai insostenibile. La mano me la dette mio fratello quando mi invitò a Taranto per un breve soggiorno ospite della sua fidanzata. Se il professore non mi avesse fatta quella proposta, forse non avrei detto niente a nessuno dei miei, ma la prova che mi aspettava al ritorno mi lasciava sconcertata, e non potevo accondiscendere. Tuo marito mi aveva proposto il matrimonio con un tuo cugino, anche lui professore. Non potevo più accettare: il sottinteso di questa proposta mi spaventava. Lui diceva che sarebbe stato contento solo di potermi vedere e frequentare, senza secondi fini. Ma come si fa a non sospettare ben altre attese? Anche ammettendo tutta la sua sincerità.
Così avevo una ragione in più per non voler tornare a casa. E questa ragione, a sua volta, accresceva il mio desiderio di una vita diversa. Diversa, innanzitutto, da quella condotta a casa mia, dove la mentalità tanto ristretta dei miei non mi permetteva nemmeno di recarmi da un’amica. E questo mi spronava a prenderli in giro. Tuo marito serviva, inconsapevolmente, anche a soddisfare questo stupido bisogno di rivalsa verso quei genitori retrogradi. Oggi darei la vita per tornare indietro e ricominciare tutto da capo, anche a costo di non mettere più il naso fuori dalla finestra.
Così raccontai la verità a mio fratello, questa verità, come la sto raccontando a te. Volle naturalmente sapere se era successo qualcosa tra me e tuo marito. Il sospetto mi offendeva, non potevo accettarlo, né potrei ancora, perché la verità è che non è mai successo niente. Tuo marito avrebbe potuto approfittare di me, tanto io stavo al gioco, ma non si è mai comportato da mascalzone. Per questo motivo ho per lui, oggi più di prima, soltanto sentimenti di riconoscenza, e non riesco a giudicarlo che bene, e ad avere altro che stima per lui.
Ecco perché non tornai più a Zefiria, e dammi atto che solo così ho evitato chissà quali inconvenienti. Era l’unica soluzione da prendere, benché tanto dolorosa perché mi esponeva al tuo giudizio negativo. Ma ho preferito essere giudicata da te un’ingrata piuttosto che una traditrice. Quando ti ho rivista, quest’estate, non puoi immaginare la gioia. Pensavo che il professore mi avesse ormai dimenticata, e magari che ce l’avesse ancora un po’ con me, cosicché gli riuscisse più facile considerarmi solo un’ex alunna e una buona amica. E ancora una volta sono caduta nell’errore. Volevo che mi pensasse solo come un sogno, un bel sogno che ha avuto il suo naturale risveglio. Non potevo certo dirgli “professore vi ho preso in giro”. Inoltre, siccome ero ancora in una situazione di avere tanto bisogno di qualcuno, quando l’ho rivisto, a Zefiria, e mi ha chiesto se i miei sentimenti verso di lui erano ancora quelli di sette anni fa, non ho saputo dirgli che un po’ l’avevo ingannato, che non avevo mai sentito niente, che mi era soltanto servito. Così ho risposto di sì, pensando ancora che mi potesse essere d’aiuto per il concorso magistrale che dovevo affrontare. Quando poi sono venuta da te, non ho voluto creare altri malintesi, e ho detto a te quello che lui mi aveva suggerito di dire.
Così cominciò la mia corrispondenza con te. C’era quel sottinteso di mezze bugie e mezze verità, però, ricordati, quello che ti scrivevo era vero: sulla nostra amicizia non ho mai mentito. Oggi però sono tanto amara e delusa che non mi importa più di niente. Tuo marito mi ha scritto una sola volta, senza che io sapessi nulla; la sua lettera è andata in mano a mio marito, anzi ti dico chiaro che se l’è presa dalla cassetta della posta, con un gesto non proprio da gentiluomo. Evidentemente mi controllava, e così è successo il patatrac...Durante l’orribile scenata, non ho saputo mentirgli. E mi sono così accorta di amarlo! Come mai tutto d’un tratto? Perché, finché non conoscevo le sue reazioni anche su questo punto, non potevo capire bene che effetto mi avesse fatto l’idea di averlo perso realmente. Siccome è un uomo che su queste cose non transige, avere scoperto, della propria moglie, sia pure separata, quello che faceva, lo ha fatto inorridire. Ho detto la verità a lui, ma non mi ha creduta: i fatti, ha detto, dimostrano il contrario, e siccome la lettera era abbastanza affettuosa, era ovvio che non mi credesse. Inoltre il professore mi invitava a scrivergli presso la scuola dove insegna e questo l’ha autorizzato a pensare chissà cosa.
Ho letto nei suoi occhi la sofferenza, e mi sono maledetta tante di quelle volte che alla fine mi sono ammalata. Non ho speranza di riavere mio marito, e questo mi addolora molto di più perché è l’unica persona al mondo che ho amato e continuo ad amare. Evidentemente c’è qualche cosa in me di malefico, che fa allontanare tutte le persone alle quali sono, in un modo o nell’altro, legata.
Certo, è vero, agisco in una maniera da far paura al più grande farabutto che sia esistito sulla terra. Così mi sono decisa, mi sono allontanata da tutti, anche dai miei. Solo in questo modo, forse, posso acquistare la sicurezza di non fare più del male. Speriamo che sia una buona madre, almeno per le mie bambine, e quando saranno grandi, se vogliono andarsene dal padre, non le tratterrò: sarà stato questo il mio destino.
Certo che tutto liscio non poteva andare. Avrei dovuto, quest’estate, dire al professore la verità ma ho pensato: che male faccio? Io me ne torno a Brescia, lui in Sicania, e chi s’è visto s’è visto! E invece no: bisogna dire sempre la verità, ed avere il coraggio delle proprie azioni. Con questo, non ti dico altro, cara Rina, apprezza solo il coraggio che ho avuto nel dirti la verità e giudicami come mi merito.
Un abbraccio
Susanna

Segue una paginetta destinata direttamente a me.

Egregio Professore,
mi dispiace, ma dovevo farlo: era una spina che faceva sanguinare il mio cuore. Ora che finalmente mi sono liberata da questo peso, posso guardare in faccia con tutta la luce della sincerità le mie bambine. Sto pagando amaramente quello che ho combinato. Ho perso un uomo meraviglioso, e questo ormai dovrà essere il solo cruccio della mia rimanente esistenza. Non voglio altri pesi. Mi comprenda e non me ne voglia.
Con stima sincera, tanti saluti
Susanna.
*
Ed ora a noi due, lettera! (come disse un celebre personaggio di romanzo alla seducente Parigi vista da lontano – e dall’alto). Sei un testo abbastanza ghiotto per tentarmi a un esame minuzioso, già lampeggiante come ermeneutica polivalente. Praticamente, una “conquista” della mini-Parigi tentatrice. L’epistola, innanzitutto, è stata trascritta quasi com’è stata scritta (trentacinque anni fa, ricordiamocelo). Nel quasi s’annidano pochi interventi correttivi su sviste e approssimazioni sintattiche di ovvia distrazione o da fretta emozionata. Per il resto, lessico fraseggiare e piccole licenze logiche sono rimaste allo stato originale (stava per scapparmi di tasto un “verginale!”).
Veniamo ai contenuti. Il “tanto silenzio” assomma a poco più di un semestre dagli incontri estivi dell’anno prima. Della malattia, non è il caso di dubitare: un temperamento vibratile, con picchi di focosità esplosiva, facilmente induce disordini neurotici e somatizzazioni varie (nel suo caso, soprattutto cardiovascolari: il più sensibile distretto anatomico, già visitato dall’insidia sette anni prima). L’“intrigante” s’accampa nella pretesa di dire “tutta la verità”, perla dell’intero documento. Intriga la “presunzione” perché l’esame rivela ancora (come nella confessione orale a Rina dell’estate scorsa) verità intrecciate a rimozioni, silenzi, deformazioni di fatti e sentimenti. A volte sospettabilmente volute e coscienti, altre, seminconsapevoli e incoerenti. Dunque, “menzogne e sotterfugi” sono tutt’altro che assenti nel “rapporto” su “quello che è realmente successo sette anni fa”. Un accento di sincerità si coglie nella insistita professione-confessione di “amicizia vera” e del “tanto affetto e stima” per Rina. Ma la non meno evocata coscienza incline ai sensi di colpa non ha impedito a Susanna di sottrarre un bel po’ di realtà da quello che era “realmente successo sette anni” avanti. Non può essere vero neppure il “quanto ti dissi quest’estate non era vero.” I fatti erano stati, sì, “diversi”, ma non quanto e come pretende l’autrice della lettera, probabilmente dimentica, a tanti mesi di distanza, di alcune fasi delle sue parziali confessioni a Rina nel corso della memorabile (per me, almeno) passeggiata intorno al giardinetto di mia cognata. La precisazione correttiva accentua, suppongo, solamente quanto Susy aveva detto, ammettendo più francamente, nella lettera, la sua cotta di studentessa diciottenne per il professore idealizzato (complice, presunta, la mancanza di frequentazione con ragazzi e coetanei). Cotta precoce, stando alla confessione: “quando poi tuo marito si fece avanti...”. Ma ecco, subito dopo l’ammissione, un maldestro tentativo di minimizzare, alleggerire, quasi cancellare la troppo esplicita dichiarazione annegandola nel dubbio, intorbidandola della componente utilitaristica: “mi serviva per essere aiutata a scuola a fare i miei comodi”. Per Susanna le due cose, essere attratta e attendersi aiuto e protezione, mescolate insieme stridono in una specie di ossimoro che la imbarazza. La sua logica femminile tende alla dicotomia netta e cerca di eliminare la sofferenza ossimorica straziando una delle due componenti: “non so se fu vera cotta”. Peggio: dal dubbio a intrusioni inquinanti: “quando poi tuo marito si fece avanti, facendomi capire che non gli ero indifferente, cominciai ad avere paura, d’essere abbandonata a scuola e di rompere l’amicizia che avevo fatto con te. Così stetti al gioco”. Come dire: mi sentii in trappola, non mi rimaneva che stare al gioco. Cioè fingere interesse attrazione e via giocando? Gioco che per fortuna “non fu mai pericoloso”. E qui risplende il capolavoro della rimozione-sottrazione, quel rigo e mezzo sottolineato: “tra me e il professore non è mai successo nulla”. Nulla, i baci profondi senza numero? Nulla, gli abbracci, le strette soffocanti, furiose di inibizioni subite e mai accettate? Nulla, i mille contatti intimi dell’“ente” immanente-assaggiante con l’“essere” trascendente blindato dentro la severità “cattiva” del Super Ego raziocinante? Nulla, nulla, il moltiplicato diffondersi del petting su tutti gli spazi immuni dal rischio verginale e code eventuali? Spazi immuni? sì, ma con ripetuti scarti verso quei tête à tête tra lucida ghianda ed elastica porticina chiusa e delusa, che sfidavano le soglie del rischio assaggiante più esposto al dramma rottura. Stasera mi rileggerò quelle pagine, a rinfocolare la riaccesa nostalgia per quel nulla così pieno di essere, per quell’essere così bramato eppur mancato, ma tanto esplorato, percorso, frugato gustato a tutte le latitudini, pieghe, segreti, fuochi. Ut supra dictum est, toto corde et toto corpore.
Cara Susanna, mai donna fu così coinvolta e partecipe negli abbracci e ghiotti contorni. Mai, con me, così reattiva e vibratile, così multipla negli orgasmi, pur non “penetrati”. Altra inesattezza cubitale: “un quattro, cinque mesi” del solo “ultimo anno”, la nostra relazione? O bella smemorata, o deliziosa bugiarda. I miei quaderni testimoniano per un timido inizio di soli sguardi già al primo anno di magistrale, mi ti danno presente lungo tutto il secondo anno, per lasciare i picchi del divenire e del mezzo dramma a tutto il terzo anno. Non bastasse, tre lettere tue sono l’inconfutabilità assoluta di quanto appena letto nella tua lacunosa missiva confusa. Le ho ritrovate, con immensa emozione, qualche mese fa. Le avevo dimenticate, ne ignoravo, chissà da quanto ormai, l’esistenza, insomma si erano cancellate del tutto dalla memoria cosciente. Il ritrovamento lo considero un evento nella mia senilità avanzante e poco consolata. Perché? – ti chiederesti se potessi sapere. E’ un perché di tutto rispetto. Anch’io ho sofferto di parziale cancellazione mnestica, e non trovavo nei rapidi appunti, così spesso cifrati, nessun segnale per essere certo del tuo, se non proprio amore, come scrivevi, almeno di un semi-amore, o simil-amore, o com’altrimenti vorrai chiamare quella tenerezza che ti suggeriva parole dolci. Finte? Potrebbero essere finte? Be’ facciamo la tara anche qui, e tentiamo un discorso “fuzzy”: finte, quanto? Sincere fino a che punto? Quanto di atteggiato e quanto di schietto, in termini matematici, di percentuale sul totale. Ma le trascriverò, appena avrò finito di postillare la lettera magistra: giudicherà il lettore del tremila e due. O del duemila e quaranta.
La lettera magna mi suggerisce ancora mediazioni, accomodamenti. Per esempio, niente, penso, impedisce di credere a un briciolo di paura d’essere abbandonata a scuola in caso di rigetto delle mie avances. Ma, del pari, tutto inclina a strappare molte penne al breve volo di esitazione: ci sto, non ci sto? Il dilemma non si presentava cupamente drastico: o tutto o niente. Non avevo fama di Barbablu più o meno “traspositivo”. Dunque, la pulzella poteva ragionare agevolmente come ha fatto: ci sto fino a che lui mantiene le confidenze dentro il confine-perimetro del bacio, della carezza, della esplorazione calcolata e mai precipitosa del corpo. Ci sto, sì: mica mi dispiace, faute de mieux (ma il francese è tutto dell’interprete). E vedremo. Nel vedremo-futuro, il gioco si fece via via più saporito: lo starci ne seguì il destino: fu ogni giorno di più convinto e pacificato. Ma c’era Rina, la sua amicizia, le sue premure: come conciliare? Non si poteva, non c’erano sotterfugi e menzogne che potessero alleviare il peso di quella contraddizione in cascata libera. Rina era sincera, il suo donarsi schietto e senza calcoli materiali. Susy lo capiva, lo sentiva, ne misurava giorno dopo giorno gli effetti pratici. E Susy non era una coscienza bacata, un’erotomane sans merci: né di istinto né di coltivata esaltazione letteraria. Lo stridore era inevitabile. E fu, esso, nella sua crudeltà, spinta rispettabile, in natura e peso, al tentativo di suicidio. Anch’esso librato nel cielo basso dell’ambiguità: voleva, non voleva farla finita, Susanna? Forse sì, ma lasciandosi aperte buone possibilità di essere fermata sulla china. Come difatti avvenne. Cioè no, non voleva. Voleva il coup de theatre, questo sì. O si affidava al Caso, grande regista di contraddittorie pièces. Non è mica facile districare i sì dai no. O santa Ambiguità!
No, non sarò io a sdoganare illusioni allotrie: amore è parola troppo grande, troppo onusta di fronzoli nobilitanti per essere usata qui. Ma qualcosa che da quella nobiltà bio-culturale è non lontano c’è stato fra noi, cara Susanna. Carissima, tutta nervi e un po’ di panna (con tanti ormoni). Quel mucchietto di spinte motivazioni modularità dell’originaria fame fisio-erotica contrastata, era reale, è stato verità sicura: verità olistica, di carne e nervi, mucose e ghiandole, anima e corpo, mente e sentimenti (e perdonami, caro diario, il trotterello).
Dopo le inutili sottrazioni alla verità olistica, carissima, ti concedi a troppe iperboli. Dici di avere scoperto in tuo marito “un uomo meraviglioso" , dici di esserti accorta che hai amato ed ami solo lui, dici che disperi di riaverlo. Troppo pantografo ad augendum, troppe gonfiature. L’uomo meraviglioso si rivelerà ben presto (e in fondo me ne dispiace per te e le tue figlie) non solo quello scarso gentiluomo che ruba lettere dirette alla moglie separata come un ladruncolo indiscreto; ma un padre rovinoso e un marito insopportabile. Ma di questo, più avanti. Se tale è stata la rivelazione seconda e definitiva dell’uomo meraviglioso, quale avrà potuto essere quella del tuo scoperto e creduto grande e unico amore per lui, perla truccata, pomo bacato di immaginari campi elisi? Un’altra rivelazione choc, una nuova, dolorosa smentita alle tue illusioni. E, sai Susy, mi viene anche il sospetto, un minimo sospetto, che in questa lettera ci sia un pezzetto almeno del suo zampino, di tuo marito, voglio dire. E’ come se tu ne avessi scritto certe parti con l’occhio al futuro, a un futuro di chiarimenti e documenti da esibire a prove dei tuoi (presunti) sentimenti verso il ritrovato (e mal supposto) tesoro perduto. E chissà se, addirittura, il gentiluomo non ti abbia “costretta” a fargli leggere la copiosa missiva-documento (a futura memoria d’uso pratico). Più ci penso e più si condensa questa fluida ipotesi. Nella quale è facile collocare un altro aspetto di questa apoteosi della sincerità presunta: la destinazione della lettera a Rina, la vittima delle tue licenze da consolare e convincere: che stia tranquilla, tu ami soltanto l’uomo meraviglioso che hai scoperto in questa sciagurata contingenza. Tu non hai amato nessun altro, la cottarella pupillare è stato un episodio chiuso e concluso, un’increspatura nel mare dei vostri rapporti. Che tu vuoi restituire a un avvenire di ritrovata e migliorata amicizia. Sì, Rina, puoi stare più che tranquilla.
Niente di scandaloso, naturalmente. Appunto: la natura è sempre una buona maestra. Iperboli, poi, cara, sono anche le tue auto-flagellazioni moralesche. Non le ripeto qui: troppo distanti dalla tua realtà. Più vicina all’implicata fisiologia la paura di portare in te stessa una sorta di maledizione, di maleficio: lo abbiamo già notato, e lo si sa fin dai tempi delle streghe al rogo. Anzi, da molto più lontano: non sempre la bellezza è una benedizione. Al contrario, non è raro che si riveli una maledizione. Parliamo specialmente di donne, si capisce. Compostamente, possiamo riconoscere che si porta in coda, quasi sempre, alti rischi. Nel quasi salviamo i casi di bellezze nascoste, cioè poco esposte ai pericoli delle bulimie maschili. Ce n’è, nei paesini sperduti tra monti e valli, nei villaggi di scarsa attrazione turistica, eccetera. Ancora, forse: a dispetto della grande espansione televisivo-turistica e promozionale. A questo proposito, mi sono sempre meravigliato che la rottura del tuo breve fidanzamento semi-ufficiale col giovane rampollo di una famiglia mafiosa non abbia generato fastidi maggiori che quei pochi disturbi da te segnalatimi nei giorni del nostro tempo. Forse la famiglia non era poi così mafiosa? Oppure i fratelli maggiori non hanno ritenuto di potere aggiungere ai loro problemi con la cosiddetta Giustizia altri pesi e nodi, difficili da sollevare e sciogliere senza alti rischi di perdere la faccia.
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Il travicello buttato nello stagno dal tuo poco professorale marito, o ex marito, provocò agitazioni nelle acque morte dei nostri rapporti familiari. Sei stata tu stessa a informarmi degli sviluppi tra l’ex e la tua famiglia? Credo di sì, anche se l’amarcord su questo punto mi si è appannato. Ma chi avrebbe potuto darmi le notizie, se non tu, direttamente o indirettamente? Forse con una lettera, quindi direttamente. Ma non la trovo nel mazzetto in mio attuale possesso. Dovrò cercarla. Oppure, in una delle poche telefonate che intercorsero fra noi due. Mi facevi sapere, dunque, che il tuo genitore, informato, distortamente, dal tuo ex, era andato su tutte le sacrali furie paterne e minacciava sfracelli. Lo feriva che io, tradendo la sua amicizia, avessi tentato di approfittare di sua figlia, o magari fossi riuscito ad approfittarne, chi lo sa. E che sfracelli minacciava? Che sarebbe venuto nella Sicania etnea a “dirmene (o darmene?) quattro”. Ma tu, savia Susanna, riuscisti a convincerlo che io ero stato un galantuomo, che non avevo tentato di approfittare di te, che mi ero limitato ad affettuosità innocenti, lasciando nelle custodi latebre il sancta santorum e le sue vicinanze e pertinenze. E riuscisti, chissà con quali impennate di protestata innocenza e giuramenti di rincalzo, a convincere anche l’obliquo Otello tardivo. Io ci feci la figura dell’amico fedele o del fesso romantico: la stessa che mi avevi fatto indossare (provvidenzialmente) agli occhi di mia moglie. Ma l’imperativo hobbesiano, pax servanda, era onorato e soddisfatto. Non accadde nulla. Nemmeno una telefonata del genitore (tanto meno dell’ex) con educata richiesta di eventuali chiarimenti supplementari. Certe bravate riescono meglio a parole che a fatti. Cosa avrebbe potuto dirmi, il padre? E con quale tono? Con quale licenza e confidenza? Dopo le spiegazioni della figlia, poi. La quale, particolare cardinale, era, all’epoca dei fatti (e non fatti), una giovane ventenne, mica una minorenne lanuginosa. E che cosa avrebbe potuto raccontarmi e contestarmi l’Otello mal clonato? Forse che non era libera, Susy, di scambiare qualche baciozzo col sottoscritto? O perfino fare sesso, come si dice oggi, a trentacinque anni di lontananza da quei tempi di non ancora sbracata “liberazione sessuale”? Chi era lui, per pretendere purezza immacolata e integrale verginità di imene e contorno in una giovane eventualmente conosciuta da un uomo e professore all’età sua di anni venti e mesi quattro?
Incidente chiuso. Certamente, con tanto affanno per Susy, impegnata a convincere due meridionali fottuti della sua innocenza. La quale, in sostanza, veniva minacciata soltanto da una chiusa di lettera vagamente allusiva di caldi affetti passati e rinverditi dal monco e puramente amicale ritrovarsi dopo sette anni di buio totale. Nessun cenno a contatti men che casti. Forse una parola bruciava le evocazioni innocenti dei saluti finali: se non ricordo male, era la parola ardore, evocata sopra. Come avrà fatto Susy a confinare quella fiamma verbale nella chiusa intimità di un mio rinunciatario platonismo? A nascondere quel po’ po’ di touches da touche-à-tout nel mio traslato scrigno di affetti, magari ardenti, ma controllati dal super Ego accigliato e da un adamantino senso dell’amicizia e lealtà?
*
Vedo che ci prendo gusto a narrarmi queste storie vere della mia vita così largamente falsa. Frutti della vecchiaia: si finisce col vivere di ricordi. E il raccontarseli fa parte del gioco. Troppo in là con gli anni, e non poco acciaccato, per poter sperare in avventure di carne e sangue extra moenia. E allora, largo alle memorie. Che non saranno quelle dell’avventurato Giacomo Casanova. E meno che mai quelle, virtuali, del pragmaticissimo cognato Salvo: il quale, le avventure le consuma interamente nei fatti e nelle opere di bene. Anzi, nel fare, e magari strafare, mai nel narrare scrivendo. Narrare, narra, sinteticamente abborracciando, a suoni di compiaciute esplicitezze fonetiche, e le mie orecchie hanno dovuto offrirsi a versamenti continui e periodicamente molteplici. Ma, ripeto, niente scritture. Manca la vocazione (più che il tempo, che sempre si trova quando quella c’è).
E torno alla mia situazione attuale, meglio precisando: più che “troppo in là con gli anni”, sono troppo “costretto” da vicinanze parentali incombenti. “Non poco acciaccato”? Forse, ma più ancora da quelle incombenze controllato. Cosa sottintendo? Una resistenza funzionale pertinente al gioco faticoso di Eros (roba di famiglia, dono del diuccio cito-nucleare). Che certa pax concupiscentiae nell’altra componente conjugalis rende, a volte, rudemente sofferente nel digiuno. E arrendevole a soluzioni regressive variamente catalizzate.
Comprese il rimemorare rituale. Magari al chiar di luna, e in vista del mare, come garantisce la modesta magione fornita di doppia terrazza. Rimemorare significa, in buona parte, ricostruire montando frammenti, illuminando opacità, cogliendo flash improvvisi di chiarità icastiche. Per esempio, ultimamente mi si è accesa una scenetta doppiamente piccante. Eravamo, non insolitamente, soli in casa, io e Susy (Rina e il bambino? Quasi certamente in casa dei parenti-in-itinere, tranquilli sull’impeccabile normalità del fare lezione a Susy). In uno degli intervalli (o in preludio propiziante), io stavo sopra Susy a recitare solite preghiere corporali, il suo ombelico scoperto, il mio condensato orgoglio fuori di gabbia, ma al solito guinzaglio. Liberi, invece, di esibirsi nelle collaudate estrosità, gli altri servitori corporali. Ed ecco che, impensabilmente coagulato dietro la porta a vetri opacizzati da volenterose tendine, si staglia la maschia figura del bel tenente. Allarme, e convulso ricomporsi di noi due peccatori e felloni, al mio annuncio. Susy entra nello studio, io fingo di uscirne per andare ad aprire all’insolito visitatore. Ma c’è un particolare che fermenta nel buio virtualizzando complicazioni spaventose: Susy s’era levata dalla sdraio, nuda nei tesori nascosti. Dove trovare i pochi secondi per rinfilarsi la dismessa copertura (si fa per dire, con certi cribrati tessutini!)? E allora? Niente paura: era più facile immergere i sottintesi nella mia tasca destra dei pantaloni. E così, congruamemte, venne fatto dalla mia pronta mano destra ancora impregnata di secretivi odori sororali. E mica c’era caso che si potesse più che sfregarsi addosso la mano deliziata di piccanti squisitezze. Quanto del buon odore se ne poté andare dalla calda pelle digitale con quel brevissimo strusciarsi sulla camicia? Fatto sta che io dovetti porgere la mano intrisa al fratello ignaro, mentre della sorella, che veniva affacciandosi dallo studio nella prima stanza, ascoltava la domanda sul movente di quella insolita visita. Che fu dato e chiarito: Susy doveva rientrare a casa non dopo le sette (siamo ancora nel luglio famoso degli esami, e da questo arduo “convegno” pochi giorni distanti) per via di certe visite importanti che si aspettava di fare a non so quali amici o parenti o che.
Questa la spiegazione. La quale non fugò, tuttavia, un venticello di dubbi sulle vere ragioni di quell’apparizione: che si sia tratto di un controllo? Discreto, tacito, ma sostanziale. Al tenente (che aveva portato Susy con la sua bella macchina) avevo detto che Rina e il piccolo erano andati dai vicini per pochi minuti. E se per caso fossero usciti, come capitava, magari a rifornirsi dell’acqua montana? O soltanto per una passeggiata in paese, o fuori paese, per esempio sul lungomare dell’attraente Siderato? E qualcuno della famiglia, vedendo mia moglie in macchina con gli amici-parenti si sarà impensierito e avrà concepito quella discreta irruzione di pacifico controllo informativo? Ipotesi, congetture, fantasie: il contenzioso-sostanza stava serrato nel buio della tasca come un’ostia nel calice. E, a fratello congedato, in piena cordialità, un sospirone di sollievo piccato, accompagnò la trepida restituzione del sacro indumento. Il quale, intanto, nel movimentato dire e fare, aveva aggiunto qualche molecola del suo profumo specialissimo al già presente per induzione diretta di organi e tessuti.
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L’incidente “lettera” ebbe riflessi negativi sui rapporti miei e di Rina con Susy: si allentarono i contatti epistolari fino a cessare. Ma ci sono lettere anche degli anni successivi al settennale che testimoniano il perdurare di un interesse reciproco, sia pure allentato. Intanto non ricordo se io risposi all’ultima lettera di Susy trascritta sopra. Certamente, non rispose Rina: si sentì tradita da quelle rivelazioni epistolari. Di nuovo! Ma perché, poi? Che novità sostanziali c’erano in quella lettera solo verbalmente drammatica rispetto alle confidenze fattale quell’estate, nella famosa passeggiata sui vialetti del giardino fraterno, mentre mio cognato e sua moglie stavano al balcone del largo ballatoio, con me, a guardare? E un po’ anche spettegolare (questa perfomance spetta particolarmente alla cognata) sulla nascosta verità dei miei rapporti con Susy e sull’ingenuità di mia moglie se l’avesse bevuta, la storiella dell’innocenza rinunciataria che certamente Susy le andava propinando. Non doveva esserci nulla di tanto sconvolgente: perché ci rimase tanto male, Rina, fino a non rispondere a Susy? O a risponderle tanto tempo dopo, con un certo risentimento? Ma qui i ricordi non possono contare su riscontri documentali e perciò mi fermo.

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Trascrivo ora le tre lettere perdute e ritrovate dopo trent’anni. Sono tutte indirizzate al Preg. Prof: Paolo Assaggi, Fermo posta, Realpolia (Liotria)
La prima è del 30 giugno del 196... E’ scritta su un foglio largo quasi quanto alto, con penna biro a inchiostro più marrone che nero (ritengo, per naturale processo di sbiadimento). Si era da non molti giorni concluso l’anno scolastico, il secondo, e penultimo, del triennio di mia pertinenza. Lei scrive da casa sua, in Zefiria, io ricevo nel mio paese, vicino a Realpolia, rientratovi da pochi giorni. Lei ha diciannove anni.

“Carissimo, da quando le scuole si sono chiuse non faccio altro, in ogni momento della giornata, che pensare a te. Mi sembra un secolo che non scambio una parola, non dico vederti, perché in questi ultimi giorni di giugno ti ho visto parecchie volte con la macchina fare la mia strada. Una volta ero da Speziale [una sua compagna, fra le più intime] e vedendoti passare ho sperato tanto che ti fermassi, invece sei passato come una freccia, dritto. Un’altra volta ero decisa a fermarti, ma purtroppo eri in compagnia di tua moglie, e quindi ho dovuto far finta di non vederti, per non tradirmi. Tutto questo perché ogni volta che ti vedevo il cuore cominciava a battere tanto forte da farmi sentire male. Conoscendo la sensibilità di tua moglie credo di avere agito bene.
Sono rimasta fuori Zefiria con mio fratello diversi giorni a causa di un incidente capitatoci a Roma, incidente che però mi ha permesso di visitare Roma molto bene, come desideravo da tanto tempo. A casa sono così ritornata il 23 e pochi giorni dopo tu sei partito, per cui mi sono dovuta accontentare di scriverti. Pensi a me? Io, a te, tanto. A volte sto delle ore al balcone, distesa sulla sdraio, con lo sguardo fisso nel vuoto e penso di esserti vicina e di passare giornate meravigliose. Certi momenti, poi, sono presa da una gelosia incredibile, principalmente pensando che tu sei accanto a un’altra donna, sia pure tua moglie, mentre io mi devo accontentare soltanto di fare sogni, poiché non potrò mai dedicare la mia vita a un uomo che ha degli obblighi verso un’altra. Purtroppo, al cuore non si comanda.
Per dirti quello che sento per te non basterebbero dieci, venti fogli di carta; comunque sappi che TI AMO E TI AMERO’ sempre, per tutta la vita.
Tua per sempre, Susanna

N.B. Per essere sicura che hai ricevuto questa mia, ti prego caldamente di mandarmi sia pure una cartolina con una firma di sole iniziali, oppure senza, come vuoi: io capirò, e allora potrò scriverti con molta più tranquillità. E potrò essere anche molto più esplicita.
Ciao Susy
Zefiria, 30 giugno 196…”



La seconda, stessa provenienza, data: 14 / 7/ 196…

“Carissimo, ho appena ricevuto la tua cartolina, e così ho pensato di risponderti subito, con la certezza che tu abbia ricevuto la mia prima. Sono sicura che tu l’hai ricevuta perché la cartolina portava la data da Realpolia. Però sto sempre in pensiero che la mia lettera possa capitare a qualcuno della tua famiglia, e allora apriti cielo. Speriamo che ciò non avvenga, perché altrimenti farebbero dei castelli in aria; ma del resto è una cosa logica.
Sono sempre in attesa che tu rientri a Zefiria, dove potremo prendere, come abbiamo stabilito, le nostre lezioni di matematica; delle volte basta soltanto vedere una persona per sentirsi meglio. Questo per dirti che mi sembra un secolo che ci siamo allontanati e che non vedo l’ora, il minuto, il secondo di vederti. Persino al mare vado con la segreta speranza di incontrarti. A proposito di mare, dovresti vedere come mi sono ridotta, sono tutta rossa dal sole preso senza misura: una cosa irriconoscibile. Speriamo che col tempo diventi nera perché altrimenti non potrei guardarmi in uno specchio per diversi mesi. Al mare, con tanti amici e amiche, mi diverto un po’ e non penso tanto, ma poi, quando sono sola a casa sono presa da malinconia e mi vengono certe idee tanto balorde da sembrare assurde.
Scusami se ti scrivo poco questa volta, ma ho approfittato di un momento in cui sono tutti fuori casa, e non vorrei che rientrando volessero vedere a chi scrivo. Ti pare? Comunque spero la prossima volta di parlarti più a lungo e più chiaramente, cioè a cuore più aperto. Perciò concludo mandandoti tanti baci e un forte abbraccio.
Tua Susanna”


La terza, con data 23/7/ 196…

Carissimo, purtroppo, questa è la mia ultima lettera, e francamente ne sono addolorata, ma non posso fare altrimenti, perché devo partire. Infatti, per i primi di Agosto, mio fratello vuole portarmi a Taranto, dietro insistenza della famiglia di un suo collega, presso la quale sarei loro ospite per non so quanto tempo. Perciò, come vedi, è inutile che ti scriva, poiché, quando sarò di ritorno, sarai certamente già a Zefiria. Comunque sappi che, sia con le lettere che senza, ti avrò sempre nel cuore.
Ho ricevuto la tua cartolina, dove mi scrivevi, sia pure in inglese, di non avere paura. Devi capire, a questo proposito, che io non ho paura per me, ma per te. Prendi il caso che tua moglie prenda una delle mie lettere, succederebbe chissà che cosa, ed io questo non vorrei che succedesse; perciò ti esorto a distruggerle, e non metterti nei guai per colpa di una ragazza che verrebbe giudicata in tal caso molto male. A questo ho pensato moltissimo, perciò sono arrivata al punto di scriverti tutto ciò. Io ti voglio molto bene e penso soltanto alla tua tranquillità, per cui mi vengono certi scrupoli.
Purtroppo devo dire che la vita è stata molto ingrata con me facendomi conoscere l’amore tramite un uomo sposato, dal quale non potrò avere mai niente di ciò che una ragazza desidera di più. Di questo però non do colpa a te, né tanto meno a me, perché al cuore non si comanda.
Non vedo l’ora che finisca quest’altro anno, in modo che me ne possa andare lontano da tutti e principalmente da te che sei la mia ossessione. Non pensare che io dica tutto questo perché ti voglio meno bene; anzi la lontananza ha rafforzato maggiormente il mio sentimento, per cui il detto “lontano dagli occhi lontano dal cuore” è tutto sbagliato. Ti penso sempre, giorno e notte, e questo per un verso è bello per un altro porta sofferenza. Perciò, un po’ egoisticamente, penso che questo viaggio non mi nuocerà, anzi mi farà distrarre, e io di distrazione ho proprio bisogno.
Sai cosa faccio molto spesso, tanto per dirti quanto ti penso? Leggo e rileggo, anche se so già tutto a memoria, la cartolina dietro la quale hai scritto delle cose che mi fanno sognare ad occhi aperti. Te le ricordi? Questa, che è la più breve, ad esempio: “Amor e cor gentile sono una cosa”. Poi prendo la tua fotografia (che tengo ben nascosta) e mi metto a parlare da sola, come se tu fossi presente. Non giudicarmi pazza o scema perché l’amore (devo dire purtroppo?) fa fare questo ed altro.
Non voglio aggiungere altre notizie e confessioni a questa mia ultima, anche se potrei scriverti non una ma venti pagine ancora. Perciò concludo mandandoti un forte abbraccio e un dolce bacio. Nell’attesa del tuo tanto desiderato ritorno in Calemagna.
Tua Susanna

N.B. La cartolina, l’aspetto sempre; magari con una piccola frase in inglese, tanto per farmi capire che non mi hai dimenticata nemmeno tu
Ciao amore .......”
*
Quante volte avrò letto queste letterine, dal giorno della loro riscoperta? Con quali emozioni e sentimenti? La prima impressione fu di miracolo, dono degli dèi. Poi, con un certo sforzo per ridurre a più pacati livelli l’esorbitanza termica, come scherzi (stavolta benefici) del Caso. O piuttosto, dall’ibrido Caso-Passione: senza la seconda, infatti, il primo si sarebbe scomodato? É stato nel frugare indotto dalla Regina che il Re s’è mosso. Queste divinità minimali, vicarie del Grande Assente, sono, la loro parte, esigenti: ciascuna rivendica il merito per se stessa. Ma non c’è Causa senza Concause. E per dirla in termini aggiornati: non c’è cerca né ricerca senza un’orientata tensione appetitiva. Quindi, il merito primo spetta alla mia fame di lei in funzione del romanzo. Donde ricerca, cieca e mirata, senza memoria intera del nascosto. E con tremula speranza.

Ho tentato in tutti i modi di ridurre il peso significativo di queste amorose confessioni: a vedere cosa ne restasse in fondo alla spremitura. Innanzitutto, sono affidate allo scritto, e scripta manent: soltanto compiacente finzione e recita mirata? Quel soltanto non convince. Non ingrana con lo strumento scrittura: perché esporsi a futuri eventuali rinfacci? E poi: il mezzo non è senza rischi di piccole (e meno piccole) catastrofi relazionali. Lei stessa lo ricorda e paventa, nelle raccomandazioni di queste trepide paginette. Se certe espressioni e “superlativi”, o magari reticenze, farebbero sospettare l’eccesso di ostentazione, altre svigoriscono il mio sospettare inquisitoriale. Anche a non voler prendere alla lettera le professioni esplicite d’amore più o meno imperituro, che sarebbe una sciocchezza, qualcosa in quelle parole residua da ogni cernita e severo crivello. Si immetta nella lettura meno favorevole il massimo di dubbi e imbranate titubanze, ne rimane sempre quanto basta a consolare il mio amor proprio acciaccato. Vibra, insomma, in certe frasi, in alcune espressioni un polso di sincerità resistente al più corrosivo scetticismo. E me le rileggo, ancora oggi (anzi, soprattutto oggi, cioè in un presente residuale e deprivato) come si prenderebbero gocce di anfetamine. Rileggiamole ancora su queste pagine elettroniche, e commentiamole.
“Da quando le scuole si sono chiuse non faccio altro, in ogni momento della giornata, che pensare a te.” Vero? Falso? Falso e vero. In ogni momento? Impossibile. Anche come iperbole, ha un suono “fesso”. In alcuni momenti, magari in molti, e vari, sì: è verosimile. Più che verosimile: suona una nota di sincerità naïve. Alcuni va meglio del sottinteso ogni anche riferito ai giorni. Ma non è del tutto incredibile quella “giornata” espansa, nel contesto, in misura di “tutte le giornate”. Era il secondo anno di nostra conoscenza, e il primo del feeling rivelato: parco, esitante nei contatti corporali, ma acceso, in me, nella circolazione umorale degli affetti. Che ogni giorno si potesse pensare all’altro accadeva nella lontana Sicania, perché non avrebbe potuto accadere in Calamagna? Io la pensavo letteralmente ogni giorno; perché non sarebbe accaduto a lei? Erano così poche e magre le occasioni di svago in quella lontana propaggine coloniale della gloriosa Ellade godereccia! E così lontana la memoria di Sibari gaudente.
“Mi sembra un secolo che non scambio una parola”: un innocente topos dell’iperbolismo popolare, tutto qui. “Ogni volta che ti vedevo il cuore cominciava a battere tanto forte da farmi sentire male”: credibile, senz’altro. Anche per un amore non tumultuoso (com’era appunto il nostro caso, ma più, suppongo, il suo verso di me. O l’inverso? Dopotutto, lei era meno esposta a distrazioni appaganti, da quel lato.). Dolce, pure, la semplicità della frase: garanzia di sincerità? Forse (non oso scrivere quel “certamente” che “forse” dovrei). E perfino di efficacia espressiva. Controprova: non batteva a quel ritmo anche il mio, di cuore, ad ogni incontro extra moenia scholae? No, nessuna traccia di iperboli in quella verità verbale. “A volte sto delle ore seduta sulla sdraio al balcone con lo sguardo fisso nel vuoto e penso d’esserti vicina e passare delle giornate meravigliose”: arrossisco un po’ di fronte alle evocate immagini di bellezze virili del cinema e massmediali in genere (o anche locali). Ma sono, io, dico, pur sempre un significativo al di là agli occhi di una (anche bella) fanciulla alunna fra alunne in prevedibile fermento di ciarle da ragazze. Lo status compensa le (non gravissime, poi) carenze fisiche. Cose ben note. E io ti credo, fantasma lontano: mi pensavi, riaccendevi nel ricordo i nostri baci e molteplici contatti, anche se ancora esitanti sulla via degli sviluppi successivi. E mi consolo del presente. Con sensi di colpa ridotti al lumicino. Cioè, in rapido dimagrimento rispetto a quegli anni remoti e a quelli meno lontani. “Certi momenti, poi, sono presa da una gelosia incredibile pensando che tu sei accanto a un’altra donna, sia pure tua moglie, mentre io mi devo accontentare di fare soltanto sogni...” Lasciamo perdere l’incredibile, ma che cosa c’è di incredibile nella gelosia di una ragazza verso la moglie del suo professore, preso di lei, e lei di lui? Siamo nell’ordine (o disordine) normale delle cose. Cioè, nella fisiologia dell’amore e delle ragazze: delle girls in love cattedratico! Andiamo, un po’ di coraggio: mettiamo la museruola al troppo loquace masochismo etico-estetico. Almeno, di tanto in tanto. E mettiamo da parte pure i “dieci, venti fogli di carta”, che secondo Susy (oh, caro suono e nome!) le occorrerebbero per dirmi tutto quello che sentiva per me. Esagerato, anche il “Comunque sappi che ti AMO e ti AMERO’, sempre, per tutta la vita”. Ma come suona bene. Come scalda il muscolo pulsante affaticato. Perfino quanto suoni afrodisiaco debbo confessarti, quaderno delle mie sere in veglia. Un altro pugno allo stomaco mi viene dal finale “tua per sempre”. Con quanta sincerità lo scrivevi, trent’anni e cinque fa? Quanta buona fede ci mettevi in questa generosa bugia di verbi e avverbi ? Vabbè, tutto esagerato, ma non senza un nucleo, un nocciolo, un briciolo adamantino di verità, di sentimento, di sincerità effusiva. Ecco, lo abbiamo detto e scritto, quaderno digitale. E che vuol dire, a cosa allude quel N. B. nella sua chiusa “e allora potrò scriverti con molta più tranquillità e potrò essere anche molto più esplicita”? Esplicita come, Susy? Che delizie promettevi di dirmi? E l’hai poi fatto nelle due lettere successive? Era quello, solo quello che scrivevi il 14 e il 23 luglio, il sottinteso della nota? Per esempio, il 14: “delle volte basta soltanto vedere una persona per sentirsi meglio, questo per dirti che mi sembra un secolo e che non vedo l’ora, il minuto, il secondo di vederti”. Non c’è molta fantasia, nella confessione, è vero; ma suona dolce, dolcissima anch’essa, malgrado la solita iperbole (ma viva le iperboli, via!). Più intrigante, decisamente, è il segmento che contiene le idee “balorde” e (quasi) “assurde”: te ne ho chiesto mai il senso riposto, la carica sottintesa e vibrante? Il buio del trentennio nudo di supporti inghiotte l’arsa domanda senza risposta.
“Al mare, con tanti amici e amiche mi diverto un po’ e non penso tanto, ma poi, quando sono sola a casa, sono presa da certe idee tanto balorde da sembrare assurde”. Quali idee, Susannetta? Il mio cervello prende a mulinare tutte le volte che ritorna a posare gli occhi su quell’oscuro sottinteso lampeggiante. Idee balorde al limite dell’assurdo: ripeto la domanda: quali? Per esempio, chiedere di fuggire insieme? Balorda e assurda idea, in verità, dato il mio collante fermo sulla famiglia (col perno ferreo del bambino). E data la perfetta conoscenza tua del mio blocco. Non ti può appartenere, dunque, una simile idea. Spingermi a rompere il tabù dell’imene? Ancora un’idea balorda, ma meno assai della prima. Anzi, nemmeno balorda, ma troppo spinta sul piano inclinato dell’oblazione. Diciamo, eccessiva. Mi sono imposto quei limiti, e non li avrei varcati. Se non, forse, in circostanze del tutto eccezionali. Che peraltro cercai sempre di scongiurare. Ricordo quella volta che fummo sul letto par excellence, sopra il legittimo talamo, stesi in tutta la nostra lunghezza, in un sandwich di carne agognante, ed io sollevai la tua gonna, esternai il mio turgido onore tra le tue vibranti cosce e premetti, delicato, contro il tuo impedimento ciclico. Dopo, tu mi dicesti, la voce bassa e morbidamente roca: “L’avresti fatto, se non ci fosse stato...”. “Non credo” – ti risposi. Ma tu: “Sì, penso che l’avresti fatto. Embé, non me ne importa” . “No? Sei sicura?”. “In quei momenti non si sta a pensare tanto. No, non me ne sarebbe importato, anzi...”. Be’, ti credo. Però anche questo briciolo di palpitante istologia è stato un blocco per me. Una piccola Grande muraglia cinese davanti al meschino mongoluccio qui secernente. In un’altra occasione, l’incontro fra i nostri complementi anatomici fu un tantino più spinto del solito, e l’indomani tu mi dicesti che tua madre aveva trovato una macchiolina rossa sui tuoi slippini. Inequivocabile. Più del señal provenzale. Te ne aveva chiesto il senso, e tu, nell’inatteso, non avevi saputo che fare spallucce: non sapevi, un graffio, forse, un’unghia fuori campo durante le normali abluzioni igieniche...
Dimmi, Susanna: erano queste, forse, le “idee balorde”? un coboldino rimemorante, in quell’estuosa estate magnogreca insinuava, forse, durante le tue oasi rêveuses, sequenze concettuali come le seguenti: lo costringerò a sbarazzarmi di questo divieto stressante, a (magari avrai, par coeur, pronunciato il verbo più fit) sverginarmi. E se resterò incinta, tanto meglio, non potrà tirarsi indietro. Erano, potevano essere, queste le famose idee balorde? le idee “tanto balorde da sembrare assurde? Non voglio cedere alla tentazione di crederlo. Ma certamente quell’aggettivazione tonante incoraggia simili farnetichi. In questa arsura digiuna riesce così afrodisiaco questo ozio ragionante, questo inoltro ermeneutico dentro l’ambiguo delle tue frasi...Mentre lo spiritello sarcastico insinua: li chiami farnetichi? Uomo di poca fede!

Ah, Susanna, quante volte ho dovuto respingere idee balorde! Poi mi scrivi: Non vedo l’ora che finisca anche quest’altro anno in modo che me ne possa andare lontano da tutti e principalmente da te che sei la mia ossessione. Calma. Riflettiamo. Aleggia puzza di contradictio in adiecto. Chi ama veramente può desiderare la lontananza dall’amato? L’esclusione visiva dall’oggetto della propria ossessione? Direbbe, la vergine impaziente, interpellata: appunto perché sei un amore ossessivo. Dunque sofferenza. Ma io, davvero sono stato la tua ossessione? S’ha un bel dire: rimane un sentore di contraddizione fra le due condizioni, amore ossessivo e desiderio di liberazione, auspicio di lontananza. Tu lo cogli e chiarisci, consolante: “Non pensare che io dica tutto questo perché ti voglio meno bene, anzi la lontananza ha rafforzato il mio sentimento [...] ti penso sempre, giorno e notte..”. – Amore lontano, rosa che non colsi, io ti sono ancora grato di queste parole. Non voglio respingerle tutte nel sacco della spazzatura sentimentale, dell’affettazione interessata: voglio strizzarle fino all’ultima goccia di possibile finzione ed esagerazione per trovarci l’anima sincera. Quel tanto, quel poco di solida verità che non può, nemmeno a distanza di questi trent’anni e passa, essere smentita: né dalla tua ambigua lettera del settennio né da sopraggiunti interessi sentimentali tuoi. E dico che il fatto stesso che ti sia presa la briga di scriverle significa qualcosa. Ripeto: scripta manent. Anche i particolari significano: quando mi dici che rileggi la cartolina con le frasi che ti fanno “sognare ad occhi aperti”, che poi prendi la mia foto e ti “metti a parlare da sola come se io fossi presente”, il dettaglio stesso mi mostra la sua credibilità: che inventeresti a fare cose simili? E come potrei giudicarti “pazza o scema”? Non lo so, forse, che “l’amore fa fare questo ed altro”? No, carissima, il tuo non è stato mai un puro gioco interessato. Né tu hai mai creduto una cosa simile. Una simile beffa. Una cotta pupillare, certo. Ma, soltanto questo? E anche se fosse? A me bastava, a me basta anche adesso. Le lettere mi confermano tue parole orali, tue dichiarazioni vocali, rare e distanziate, ma dolci e liete come note d’arte. Un po’ Flauto magico un po’ Carmen di Bizet. E chissà quale altra letizia musicale. Un ricordo s’insinua, con l’autorità dell’interferenza spontanea, in questa remota evocazione: leggendo il Nietzsche che incorona il lieve solare danzante, insomma “mediterraneo”, Bizet contro il roboante, clamoroso, trionfale e metafisico Wagner (scrivevo un breve saggio sul Filosofo per la rivista di Rama) mi accadeva di rivedere te, ninfa magnogreca pimpante e “mediterranea” quant’altre mai. Il tuo corpo, i tuoi occhi-sole, la tua risata velare, quando si schiudeva, rara, in letizia di scampanante oblio dei nostri rischi e delle strozzate colpe. Naturalmente, escludendo le civetterie infedeli di Carmen. E l’osceno esito tragico, che pure germina in quella danzante sequenza di seducenti note.
Altro particolare significativo, nel tuo N. B. del 23 luglio: “La cartolina l’aspetto sempre, magari con una piccola frase in inglese, tanto per farmi capire che non mi hai dimenticato nemmeno tu.” Dimenticarti, io? Che idea (questa sì), balorda. Come vedi, carissima, non ho potuto. Non posso. Malgrado piccole diversioni analoghe in parziale autodifesa dal grande gelo della tua perdita. Nessuna diversione ha potuto estinguere il ricordo di te, di noi, dei nostri abbracci. Mutili, è vero, ma, a parte quella mutilazione, travolgenti. Come la tua aritmetica elementare confessava a notifica degli esiti personali. E spero soltanto che questo sgorbio di scrittura possa un giorno capitare sotto i tuoi occhi: libro edito e circolante o videoscritto privato e bocciato, non importa: purché tu possa sapere la verità, di ieri e di oggi, trentacinque anni dopo. O magari quaranta, visto che le revisioni e i tempi morti allungano quella coda di Crono che brilla come la mia stella-cometa nel cielo ripulito dagli dèi.
Last but not least: quali emozioni ti accendeva nell’anima quel tu che mi dai nelle care letterine? Che subbuglio di fisiologia ormonale scatenava questo surrogato aggressivo del contatto fisico lontano? Dare del tu al professore del corso, che parole vorrebbe il subbuglio per tradursi in linguaggio? Quante tue compagne vorrebbero questa confidenza! E tu eri la sola, l’unica privilegiata. Un prof, poi, ammirato e vezzeggiato da alunni famiglie e colleghi in buona fede (agli invidiosi, massime alla sezione “ignoranti” e incapaci, non è il caso di badare). Insomma, anche quel poter fare, nell’intimità, ciò che le altre ti avrebbero invidiato, doveva essere un sottile piacere, un euforico elisir dell’anima.
Chiudo questo monologo-dialogo col tuo saluto in fondo al N. B. Ciao amore. “Amore” sottolineato e seguito da puntini, tanti puntini. Su due righe. Chissà cosa ci ho messo al loro posto, in quei giorni di estasi postale. Questo, sì, l’ho proprio dimenticato. Gli anni e i decenni non sono pula al vento. Ma soprattutto: che cosa tu obliteravi di ghiotto e dolce dietro quei sospensivi in riga?
Non ho dimenticato, però, il cortocircuito elettrico fra occhi e meridione genitale tutte le volte che ho letto e riletto la paroletta magica. Soprattutto la prima volta, voglio dire la prima della riscoperta miracolosa. E posso soltanto immaginare lo scuotimento che agitava il mio cuore-corpo nel tempo in cui arrivavano, l’una dopo l’altra, queste confetture verbali. Trenta e più anni fa.

domenica 10 gennaio 2010

Susanna, frammento 52


Tornando all’Onnipresente-assente (rannicchiata fra tutte queste sibilanti), confesso che nell’agenda-diario del settimo anno gli unici riferimenti al prodigioso evento riguardano il lungo “preambolo” del primo incontro, i suoi precedenti. Sono brevissime frasi in inglese, segno del timore (ancora vigente!) di una sorveglianza coniugale suscettibile di complicazioni vitandae. Il primo cenno chiude, sotto un triplice asterisco al centro della doppia distanza verticale delle righe, la pagina diaristica del 13 agosto. Curiosa coincidenza e concomitanza, gli appunti registrano e commentano la lettura completata del fortunato libro di Luigi De Marchi, “Sociologia del sesso”. Era il cinquantanovesimo volume dell’anno, cioè del programma di letture annuali, che prevedeva un pieno di 100 libri, media di pagine e composizione 200, corpo 12. Stranezze, su cui qui sorvoliamo. Ed ecco il cenno-frase inglese (un inglese piuttosto disinvolto): “Oggi, 13 agosto, tarda sera. The great news: Saiana in Zef. Notice-glamour: she is separate from her husband. Shall I see her? The fine news from my brother in law... Seven years full of her, many dreams with her, the big Absent, always shining in my cloudy sky, and now... Is that real?” Tutto qui. Poi, sei giorni dopo, domenica 19 agosto, il diario registra un viaggio in Calamagna di una bella fetta della nostra tribù: oltre la mia famiglia, quattro persone, il suocero e la 2a moglie, i miei genitori, la sorella Valeria con marito e i due figli, la sorella Mara con marito e due figlie, il fratello del marito e la moglie. Il grosso della comitiva va a dormire in albergo (pagato da mio cognato), la mia famiglia e i nostri genitori in casa degli sposi. L’occasione di tanto movimento è il battesimo della primogenita. Il diario del 20 “riassume” in una veloce paginetta dell’Agenda, che riproduco come preludio al primo incontro con la Rediviva:


Letizia Marina,
20. 08, ore 23,30

“Mattina. Vecchie conoscenze ritrovate con emozione durante una solitaria passeggiata sulle strade, prima, e poi sul lungomare del paese. Non li vedevo da anni (quanti?). Brevi rimpatriate e promesse di rivederci: colleghi, amici, ex alunni. Ma soprattutto ritrovo i luoghi dell’incanto passato. Angoli di strade, vie marine, spiagge. Ognuna col suo richiamo di volti, donne, piccoli eventi. E bellezze intrinseche. Parlo soprattutto di Siderato, il paese del mio soggiorno più lungo, da scapolo e da “sposino”, da professore e padre. La via Isonzo, dove abitavo da scapolo e poi con famiglia. Il piccolo Giampiero scorrazzante sulla spiaggia e nella villetta vicina all’abitazione. Oggi, però, c’è un filtro che allontana tutti i suoi precedenti e concorrenti. Seven years of dreams, and now the reality, near and touchable... Ebbrezze taciturne e clamanti nel deserto interno della memoria eccitata. Mare, spiagge immense ebbre di sole, distese interminabili di sabbia grigio rosa popolate di corpi femminili seminudi, o quasi del tutto nudi, abbandonati al vino termico di Apollo-Dioniso. Ancora Camus, con la sua religione del corpo e il suo pathos della physis. E lei, il filtro magico che tutto colora e scalda. When shall I see her?
Né mancano ampi tratti di spiaggia solitari, tra un paese e l’altro. Il mare placato e trasparente. E sabbia, ghiaia, ciottoli: lembi di natura immuni dalla peste cementizia. Quanto resisteranno?
Il dritto e il rovescio: nei pressi, una casa sventrata dal tritolo, nera di fumo pregresso, abbandonata. Un attentato-messaggio contro un ex malavitoso che voleva lasciare l’Onorata par excellence. Intorno, questa profusione di luce, l’arida spiaggia brillante di ciottoli, la stenta vegetazione “africana”, i cactus, le agavi superbe coi loro scapi protesi al cielo, i bassi cespugli, e sabbia... Il filtro sfolgora di scalpitante memoria refrattaria ad ogni controllo critico.”

La pagina del 21 agosto, segnata in testa dal nome del paese che ci ospita, rivela in poche righe affrettate un incontro balneare con la Ritrovata. Righe mimetiche, allusive, come le altre, ma calde di sospetto ardore:
“Il sole magnogreco che scotta, dentro e fuori. Occhi narici orecchie e sensi interni, tutti sull’attenti, mobilitati nella grande ricerca, tesi e protèsi a ritrovare, nel caos del buio memoriale lampeggiante, ore lontane, odori e umori perduti e franti; visioni sfocate che mordono la lontananza. E sospiri, e sapori, quasi dimenticati. Ora risvegliati a congiungere un presente di fiaba a un passato compresso da proustianizzare nel ribollire delle emozioni sopite. Lei, la stella polare delle sognanti notti calamagnesi, Saiana, for seven years obliterata, di nuovo presenza, realtà, cinetica carnale nella calda opulenza balneare dell’estate in bikini, l’estuosa estate delle spiagge senza fine. Ah, come la realtà s’insinua, a volte, nella virtualità elusiva dell’onirkingdom!”

E basta, non c’è altro. Altre note non trovo, nell’agenda desnuda, per tutti i giorni inutilmente segnati, sopra la linea superiore delle pagine, dal nome del paese, scritto, in sgorbi, tra quello del mese, agosto, e il nome e numero del calendario su ogni pagina. E l’immancabile nome dei santi. Non mi resta che ricostruire a memoria scotomizzata.

La “combinazione” si fece e l’incontro incredibile ci fu. E fu plurimo. Il primo contatto interessò un quartetto due a due: due le donne, da una parte Susanna e la sorella Tina (cresciuta di sette anni, e cresciuta bene); dall’altra il sottoscritto, col suo corpo sempre al risparmio, ma meno di allora (e ora avvolto in una bolla di emozioni quasi tachicardiche); e il grande mediatore, il cognato Salvo, più che mai fusto e fascinoso. Anche Susanna era debitamente emozionata e onestamente tachicardica. Strette di mano, imbarazzi, sorrisi stirati. Finché non fu chiaro a entrambi, Susy e me, che l’incontro era libero da risentimenti e le piaghe erano risanate e il desiderio di rivederci forte da tutte e due le parti.
Anche brulicante di curiosità molteplici. Il gioco delle domande cominciò subito, dall’ovvio sulla salute alle vicende personali e sentimentali. Sulla mia nuova realtà professionale e familiare Susy era stata informata, sommariamente, dal cognato: stavo in Sicania, avevo aggiunto una bambina al maschietto, nata un anno e mezzo dopo il nostro ultimo contatto magnogreco, avevo avuto qualche difficoltà di salute. Lei era più ricca di novità: sapevo delle due bambine dal cognato, e non ignoravo la separazione dal marito professore di lettere supergeloso (notizie fornite da lei a Salvo, e da lui passate a me). Ma volli che fosse lei, con la sua voce un po’ roca (fumava tanto) a raccontarmi le sue peripezie. Che non erano poche né lievi. I contrasti col marito erano cominciati presto, la sua mammopatia era insopportabile per Susy, la sua permalosità verso gli ammiratori di lei soffocante, le liti facevano male alle bambine. E via deplorando. Mi dissi dispiaciuto per questo fallimento coniugale, ma anche sicuro che la ferita si sarebbe cicatrizzata con un supplemento di buona volontà da parte di lei e un minore assillo pugliese da parte di lui (hai detto niente!).
Già in quel primo incontro riuscimmo a rimanere “soli” abbastanza a lungo (soli per modo di dire, cioè staccati dagli altri due, ma sempre in pubblico). L’intraprendente cognato trascinò via la sorella al bar più elegante del corso principale insistendo perché almeno una delle due sorelle accettasse di prendere qualcosa (Susy aveva garbatamente rifiutato per motivi di salute, disse). E così ci sentimmo più liberi di masticare ricordi strettamente personali. Il gigantesco “perché” scodellatole dalla mia impazienza dentro il ricordo ancora bruciante del suo abbandono ebbe una calibrata risposta: l’avevo messa in una situazione lacerante, con la mia proposta di darle per marito il cugino (professore anche lui, un vero destino) di mia moglie. Ammesso che le fosse piaciuto (e io, conoscendo lei e lui, ne dubito molto), che cosa mi ripromettevo da quella parentela? Poteva, lei, accettare di tradire il marito, di sposare addirittura un uomo con l’intenzione e il programma di tradirlo con me? Protestai: “Ma io ti dicevo che mi sarei messo da parte, che mi sarebbe bastato averti vicina, non perdere i contatti con te.” Sorrise appena più marcatamente della Gioconda, ma con un lampo originale negli occhi: “Sono cose che si dicono. Ti concedo anche la buona fede (e devo fare un bello sforzo). Ma non ci credo. Non credo che avresti resistito a lungo alla tentazione di avermi. E di avermi, per la prima volta, nel pieno che ti sei vietato (e te ne sono stata riconoscente, almeno nei primi tempi del matrimonio) quando avresti potuto approfittare dei miei momenti di ...” Riempìti, in imo corde, quei puntini di reticenza, replicai, deciso: “Donna di poca fede: se mi frenai allora, con sofferenza, perché non ne sarei stato capace dopo?” La risposta fu pepata (e del tutto meritata): “Non facciamo gli ingenui. Allora, ti sei proibito quello che per il nostro ambiente e la nostra morale sarebbe stato un crimine, o poco meno (secondo tuo giudicare severo, o soltanto onesto). Rompere un...” – “Imene?” – esplicitai, riempiendo quei puntini (ma forse lei avrebbe usato una metafora). “Sì, è vero. Ma quella barriera proteggeva il tuo avvenire, la pace delle nostre famiglie, l’avvenire di mio figlio…” “E quant’altro, va bene. Ma dopo, nessuno sbarramento, solo un velo di correttezza parentale avrebbe ostacolato le vie del... Signore.” – Una battuta felice. “Sei diventata più arguta. Il Signore di cui parli, certo mi avrebbe tentato più del Diavolo nel deserto con l’Altro. Ma io insisto sull’onestà delle mie intenzioni.” “E chi ne dubita? E’ di te, e di me, che dubitavo. E dubito: troppo fuoco, in entrambi. Troppo inclini a subire il Signore!” “Ma io rispetto la parentela, ti giuro, per me è sacra”. E via ipotizzando. Nel caotico guazzabuglio di sensi sentimenti e pentimenti.
*
Postille d’obbligo. Anche se ripetitive, in parte. Sto rievocando o costruendo? Nell’Agenda-diario non c’è un solo appunto, un minimo spunto per la narrazione sopra espansa: sarebbe la memoria, questo serbatoio bucherellato, a rifornire di materia grezza la pulita ri-costruzione? Dubitiamone. Forse sto confondendo e mescolando sogno e realtà. Le stesse frasi attribuite a Susanna e a me, non hanno supporti scritti, né sospetti mnestici inespressi. Falsi, allora, tutti i fatti e le parole, i ricordi, così verdi, registrati sopra? Non del tutto. Anzi, no senz’altro, nella sostanza. Al narratore spetta la drammatizzazione narrativa, ma, nel sunto e nell’assunto, la verità c’è: che sia stata detta e confessata in dispiegato discorrere o soltanto allusa e accennata in più sobrio dire e ciacolare , che importa?
Quanto agli appunti assenti, ripeto, non mi capàcito: potrei magari averli scritti in fogli a parte, e nascosti in posti che non ricordo più. E’ capitato altre volte, magari per faccende simili, insomma d’amore. A cominciare da quando, scapolo e pimpante, avevo il pudore di nascondere le mie confidenze diaristiche ai genitori. Anzi, sostanzialmente a mio padre: l’unico che si piccasse di leggere (qualunque cosa fosse in disponibile attesa casalinga, o in distratta esposizione a rischio: giornali, libri, lettere, appunti personali...). Niente male per un calzolaio.

Aveva avuto due parti cesarei, Susanna. I medici l’avevano ammonita contro un eventuale terzo (inevitabile, in caso di nuova gravidanza). E aveva subito anche un intervento alla tiroide, per certe cisti da asportare senza perdere tempo. Mi mostrò l’appena visibile collarino della cicatrice, sulla quale si spostava una collanina d’oro bianco con il nervosismo dei suoi moti sempre scattanti. – “Non sei cambiata poi tanto.” – “Ma sì che lo sono, e non poco. Ho assaggiato la vita adulta, e ne ho già trangugiato i primi calici amari.” “Dicevo dei tuoi movimenti a scatti, della tua parlantina vibrata, delle tue intuibili insofferenze...” “Ah, in questo sì: certi connotati non si cambiano. Non eri tu che ci insegnavi l’immutabilità dei cromosomi e l’inappellabilità (dicevi così, no?) del Dittatore interno, cioè del Dna?” Ero io. Io, il docente e l’amico. Sempre disponibile a onorare sua maestà genomica. E non avevo ancora sperimentato tutta la potenza di quel dittatore dai diktat perentori. Così spesso crudeli.
Non ho ancora parlato della bellezza di Susy. Dire che era intatta, forse, è esagerato. Ma è pura verità confessare la mia piacevole sorpresa nel costatarne il quasi. Così lieve, così rispettoso dei cari tratti, delle “divine” proporzioni. Era sempre lei, la bellissima: di fronte naso occhi zigomi guance labbra mento corpo sempre snello, sempre da ragazza, sempre colmo e sodo nelle eminenze giuste (dove, i segni delle gravidanze?).

*
Pausa narrativa. Frugando nell’Agenda-diario del settimo anno leggo un cenno grassottello a Susanna sulla pagina del 23 luglio (cioè, del mese precedente quello qui appena rievocato). Naturalmente, abitavo, ormai da quattro anni rientrato, nella sicanica Akiskene. Lo trascrivo di seguito.

“Continua il caldo micidiale: bisogna stare a casa a torso nudo. La sera è particolarmente gradevole oziare al fresco nel modesto cortile. A volte leggo, più o meno a lungo, sdraiato sopra la sdraio rossa che conobbe altri pesi e... più gloriose imprese (oh, l’estate del 196...!) rievocate in questi giorni di canicola attraverso quaderni-diario di quegli anni e mesi. E centralmente di quell’estate ricolma, che scintilla ancora di fuoco vivo nelle oniriche fantasie e nostalgie. Ah, Saiana [così chiamavo nel diario la Susy dei ricorrenti ricordi e sogni] ninfa lontana, che desti soffio d’anima alla sfiduciata pochezza di questo ossario poco in carne (oggi rimpolpato fino a una petulante epetta, distrattamente osteggiata dal signor neopallio). Ah, Saiana, che l’anno scorso chiedesti di me, mi cercasti sotto il caldo cielo azzurro di Zefiria. Per quale curiosità legittima e puntuta? Che faccia faresti, rivedendomi? Come sei tu, fuori e dentro? Il tuo viso, sarà ancora bellissimo? E come calerebbero gli anni e i figli tra noi?”
*
I calici amari di Susy non erano stati soltanto i due parti taglia-ventre, la pulizia della tiroide, un po’ di “nevrosi cardiaca” e altri disturbi organici. C’era di peggio: c’era, ripetiamo, la separazione dal marito. Ossia il lungo calvario di liti e contrasti che aveva portato alla rottura. Inevitabile, secondo lei, a difesa della salute delle bambine, che avevano cominciato a tremare alla vista del padre, il cui ritorno a casa s’era trasformato in incubo per entrambe. E la maggiore, Sonia, era avviata a un’incipiente anoressia mentale. Quindi, decisione drastica e distacco. Il padre vedeva le bambine poche ore al mese, e loro non trillavano di gioia ad ogni approssimarsi dell’incontro disposto dal giudice.
A illuminare il carattere del professore geloso, Susy raccontò qualche episodio gustoso. Eccone uno. Erano ospiti della madre di lui, nella paterna casa di campagna. La signora, gentilmente, mise a disposizione della coppia la sua camera, con tanto di ovvio letto matrimoniale. Il figlio vibratamente respinse l’offerta e, alla moglie interdetta, spiegò: “Non voglio contaminare il letto di mia madre. Per me è sacro.” Lei, naturalmente, reagì comme il faut. “Contaminare? E chi sono io, per contaminare? Sono forse la tua sgualdrina da spasso? Che mi hai trovato sulla strada?” E via di questo passo, con botte e risposte sul sacro e il profano, l’immacolata concezione e la pura e semplice moglie legale. Fino alla partenza dalla casa ospitale, imposta da un’infuriata Susanna, con tante scuse alla suocera e tanto disappunto della stessa, impotente contro un figlio così maldestramente repleto di contorta pietas filiale. Le bambine non erano ancora venute al mondo. O forse c’era soltanto Sonia, non ricordo bene, da poco arrivata in questa vallis lacrimarum.
Intanto bisognava fissare l’appuntamento per l’incontro con mia moglie. Noi eravamo (l’ho già detto?) ospiti di suo fratello: e lui stesso concordò il giorno con Susy, e anche l’ora. Dopo avere telefonato alla sorella (suppongo). Io tremavo al pensiero di quell’incontro: sapevo che Rina non sarebbe stata accomodante come me. Che cosa succederà? – mi chiedevo, con poche illusioni sul difficile irenismo della Severina moglie detta Rina. Come reagirà la Risentita?
Lo seppi presto. Per cominciare, l’Amica Offesa fece fare anticamera a una vieppiù emozionata Susy, prendendosi tutto il tempo giusto e di più per “farsi presentabile” (come se fosse credibile una simile scusa, per un incontro programmato al cronometro!). E nel frattempo, siccome Rina aveva risparmiato alla scalpitante curiosità della cognata sulla rara bellezza in arrivo ogni superflua sofferenza, Susy aveva avuto modo di farne la non meno attesa conoscenza. Non solo: quando la cognata si assentò dall’ampio ballatoio nel suo appartamento (certamente per “incoraggiare” Rina a presentarsi) e il marito rimase con noi, quella mattocchia senza freni scaricò addosso al cognato allibito tutta la sua delusa sorpresa per così poco vistoso acquisto.
“Tutto qui? Per un fusto come voi? Mi aspettavo una vatussa...!”
“Che c’entra. Ma è carina, no?” – Il poveraccio si scoprì disarmato. Magari non s’aspettava tanta sfacciataggine. Aveva dimenticato il temperamento di Susy. La quale, a sua volta, pareva aver buttato in un rigenerante dimenticatoio tutti i guai del settennio ed essere tornata quella ragazza spontanea reattiva e linguacciuta che aveva movimentato la mia vita professionale al magistrale di Zefiria. Ebbe forse remore, quella Tascia potenziata, quella Bersagliera calzata, nel rispondere con una scintillante smorfia della splendida bocca e un dondolio della bella testa alla patetica domanda del cognato? Quel dondolio di testa, quel serpeggiare di labbra assistiti dal lampeggiare degli occhi d’ambra dicevano chiaro: Carina? sì e no, così così, mica da farci una festa. E roba simile. Povero cognato sciupafemmine, ridotto ad essere commiserato da una bella donna come marito che ha scelto male (una bella donna che benissimo sarebbe stata al suo fianco da scultura greca!). E che mal nascondeva il suo imbarazzo crescente fin quasi al rossore. E dàgli con la vatussa. Credo che la cognata abbia sentito. Avevamo scoperto presto, noi parenti stretti, che tra i non pochi doni del cielo cromosomico la cognata mignon aveva anche il vizio di stare ad origliare, di sorprendere, variamente nascosta, conversazioni che potessero riguardare lei (o anche no, ma di pura curiosità). Fatto sta che non ci fu mai gran simpatia fra Susy e Luisa. Che, pour cause, tentò di trovare difetti perfino nella perfetta struttura dentaria di Susy: una bestemmia estetica, da carenze visive gravi. E perciò, in parte, e malanimo a parte, scusabile.
Giurerei, tra l’altro, su un pensierino segreto di Susy, cui non era stato certo discaro il “composto” Salvo Catania: bello di volto, occhi verdi di lungo taglio e luce intelligente, fossetta al mento (lo so, mi ripeto, ma continuo), corporatura atletica: alto sopra il metro e ottanta, torso ben sagomato e culturista da palestra domestica. Aggiungi: ex campione invitto nel “braccio di ferro”, per tutta l’adolescenza-giovinezza, con una ripresa dopo la laurea e durante il servizio militare da ufficiale di complemento. Nessun commilitone lo batté mai, e solo un altro ufficiale gli teneva testa con pareggi sfibranti per entrambi. Che pensieri aveva ispirato a Susy, quando, per rari accidenti, la incontrava in casa mia per le famose lezioni? Probabilmente, del genere: fosse stato lui, anziché il modesto assemblaggio osteo-muscolare sottoscritto, il suo professore in love!
Arrivò finalmente la tanto attesa Rina. E fu come avevo temuto. Allo slancio oblivioso e cancellante di Susy, che le era corsa incontro a braccia aperte, rispose un secco e distante “come stai?” a braccio teso. Una scenetta drammatica esplose improvvisa su quella ribalta tranchant. Susy scappò all’estremo angolo del ballatoio e si sciolse in un silenzioso pianto; la cognata la raggiunse a consolarla, Rina se ne stette dov’era, a ciglio asciutto, decisa a infierire e chiarire. Aveva aspettato sette lunghi anni per questa occasione. Insomma, la Severina dal nomen omen (vanamente accorciato in Rina) non si smentiva neanche in questa occasione magna: quell’ingrata meritava una lezione e lei, severa in Giustizia, gliela dava. Ecco tutto. Mentre le mie viscere soffrivano contratte.
Luisa, improbabile angelo consolatore, fece del suo meglio per spiegare le ragioni di Rina: aveva sofferto tanto, poverina, per quel suo distacco, s’era vista tradita (e, Cristo, se lo era); lei glielo aveva raccontato, che aveva trattato Susy come una sorella, e Susy l’aveva ingannata promettendo di tornare e rinviando sempre. Fino a che era giunta la sua “partecipazione” matrimoniale. Susy capiva, ma lei avrebbe spiegato, avrebbe convinto Rina che era stato meglio per tutti quel distacco crudele. Anche Susy aveva atteso sette anni l’occasione di quel chiarimento, ma lei, Rina, non gliene dava modo, ora, reagendo così freddamente.
E io, il motore ultra-colpevole di tanto dramma, che facevo, io, quando si svolgevano questi fatti e disfatti? Tra ricordo e integrazione di fantasia, posso racimolare, certo, un gruzzoletto di frammenti buoni per una visione globale corretta, ma non per un inventario di dettagli rifiniti. Per mesi ho cercato l’Agenda-diario di quell’anno, convinto che fosse ricca di racconti e particolari. Ma quando l’ho ritrovata, nascosta nel vano dietro il cassetto che la conteneva, dov’era scivolata, la gioia del ritrovamento è scoppiata come una bolla di sapone iridata: l’ho già detto e ripetuto, quelle pagine vanamente agognate offrono soltanto cenni cifrati e mezze frasi in inglese o tedesco. Né gli ipotizzati resoconti alternativi sono mai venuti alla luce. Forse un pigro gioco di rinvii ha fatto mancare lo sviluppo narrativo di quell’evento così incisivo nella mia poco brillante biografia. E ancora un forse: non è escluso che nei rinvii, verosimilmente appesi alla speranza di un tempo libero maggiore, abbiano giocato i miei impegni di testa, non lievi nell’estensione tra scuola e “libera” attività cultural-pubblicistica. Come che sia andata, oggi mi tocca ricostruire alla bell’e meglio. Ci sono, però, le lettere scambiateci dopo la sua prima e seconda partenza da Zefiria, e sono un buon surrogato e un valido soccorso al servizo della verità sostanziale. Offrono, infatti, prezioso materiale, spesso drammatico, del seguito.
*
Intanto riportiamoci su quel ballatoio dove si svolgeva il piccolo dramma dell’incontro tra le due amiche “sette anni dopo“. Mi accostai anche io a Susy, confinata in quell’angolo curvo che completava il ballatoio, in auto-esclusione punitiva. E sciorinai parole: sì, aveva sofferto tanto Rina, bisognava capirla. Se tu hai una buona spiegazione per il tuo comportamento, capirà, vedrai. Dalle tempo. Piangeva, Susy. E quelle lacrime mi erano quasi care: non erano segno di sensibilità? Non erano, anche, la mia piccola, veniale vendetta di quelle che non versai per virile pudore ma ingoiai, per mesi, giorno dopo giorno? Non ero stato un rinunciatario, io, in quel settennio, e la terapia del chiodo scaccia chiodo non mi era stata estranea; ma ora, di fronte alla Susy ritrovata, sia pure in chiave di casta amicizia (ma chi poteva sapere, poi?) avrei asciugato quel viso in lacrime bevendole come divino liquore. Né questo vuol dire che mi sfuggisse, in quel pianto, l’ira di Susy per la mortificazione che subiva. Una componente indubitabile, quell’irritazione. Feci, comunque, doverosa spola tra quei due poli carichi di tensione. Insieme alla cognata. E al cognato, anche lui movimentato in quella sceneggiata reale. Sopra quel palcoscenico ricco di memorie.
Dopo un ragionevole intervallo di interventi e tentativi, infine, la pace avvenne. La pace o la tregua. Fatto sta: le due “sorelle separate” (da quel numero sette, così carico di rimandi storici, filosofici, antropologici, poi!), assistite dai presenti, si avvicinarono, si baciarono. E poi si allontanarono insieme, scesero in giardino, a parlare liberamente, passeggiando. Io guardavo da quell’ampia balconata-ballatoio del primo piano. Che si stavano dicendo? Anzi: che cosa stava dicendo e rivelando, Susy, a Rina dei nostri rapporti? L’ansia mi agitava. L’intera verità era esclusa, non c’erano dubbi su questo, ma i frammenti della parziale quali erano, quali sarebbero stati? L’interrogativo pungeva sotto il diaframma. Non era possibile che Susy si lasciasse sfuggire una parola di troppo? Un cenno sfocato verso l’impegno di evitare il peggio, di salvare un rapporto ritrovato dopo lunga quaresima di multiple lontananze? Dubbi, timori, esitazioni inframezzavano i futili discorsi che si consumavano sopra, fra noi tre (io e i miei cognati), ridotti a testimoni e mediatori ormai usati, non più attivi, che stavamo ad attendere l’esito di quelle privatissime confidenze. Un po’ seduti, un po’ affacciati da quella balconata, seguivamo, senza udire le distinte parole, le due amiche che passeggiavano, sciolte, nei primi minuti, poi tenendosi sotto braccio, sui viali del giardinetto sottostante. I volti di Susy e Rina mutavano espressioni e colori, ma non sembravano avviati a cambiamenti drammatici. La “cosa” andava chiarendosi pacatamente, la sintassi emozionale di Susy scorreva dentro argini coerenti con il fine: salvare la ritrovata amicizia, ancora fragile, a costo di rimozioni e omissioni, di mezze verità e sincere esternazioni di sofferenza al risveglio di quei lontani trascorsi. Così parevano indicare i segnali dello svolgimento in corso. Ma non potrei dire che mi garantissero una cinetica viscerale atarassica: il “senso del possibile”, implicito nel temperamento e sviluppato dalle frequentazioni filosofiche, stava sempre lì, a suonare, di tanto in tanto, note di allarme (pencolando, nei fatti personali invasivi, tra Kierkegaard e Abbagnano, più sul primo che verso il secondo).
A proposito: chi, delle due personcine pacificate, aveva preso l’iniziativa di infilare il braccio sotto quello dell’altra? Conoscendo Rina, e Susy, non mi sono permessi dubbi: era stata Susy.
*
Prendemmo a frequentarci. Ma non ricordo molto di quegli incontri: tre o quattro si sono fissati meglio, non potrei garantirne, però, una cronologia sicura. Nel vago, si affollano memorie di spiaggia. In quello stesso nostro soggiorno magnogreco, sempre ospiti dei cognati, più volte concordammo incontri di famiglia sulla grande spiaggia dorata di Zefiria, a rendere memorabile quell’estate di fuoco. Susy e i suoi raggiungevano il mare a piedi, noi con la Giulia di Salvo, dal paese vicino. Il noi significa io, Rina, il fratello con la moglie, i miei bambini (Giampiero, ormai undicenne, e la nuova arrivata, Manuela, di cinque anni e mezzo). Susanna portava con sé le sue piccole: Sonia, sui quattro anni e mezzo, e Claudia, un anno e mezzo; la sorella minore di Susy, Tina, badava alla più piccola delle nipoti, quando Susy faceva il bagno. Tina, ormai ventunenne, s’era fatta ancora più bella e desiderabile, in quei sette anni di “assenza”. Ma non aveva la perfezione plastica della sorella maggiore. Di Susy, voglio dire. La quale toccava quell’anno l’età che aveva Rina in quel fervido tempo di amicizia fitta: il fatidico numero sette si infilava tra loro in duplice modalità: come differenza di età e come cuneo di Crono fra l’arrivederci fallito e questo ritrovarsi alquanto mosso. Un cuneo nero di black out assoluto, cresciuto in eventi ignoti, generava una curiosità ascendente, da entrambe le sponde del lungo ponte.
*
In uno di questi incontri era presente mio padre. Quando lo presentai a Susy, quella revenante di una sbarazzina lo mise in difficoltà con poco sobri complimenti per la sua bella presenza. Papà, poco esperto di rapporti sociali con giovani donne, e, più in generale, con donne extra moenia, fu piuttosto imbarazzato nel ringraziare, nel minimizzare, che la signora esagerava per generosità, e via protestando. Ma lei, la birbantella, confermava, insisteva, prospettava nuovi incontri col simpatico signore baffuto. Magari in un suo eventuale viaggio nella Sicania bella. Sotto sotto, io, pur compiaciuto per i riconoscimenti di una realtà innegabile e così prossima, ci sentivo una sorta di provocazione verso di me: manifestamente, io non ero così gradevole, in viso et in corpore, come il laudato genitore. Che era più alto, almeno sette-otto centimetri, più robusto, di molto (ossa larghe, polsi grandi e mani ancora più grandi e forti, da battere un Gianni Morandi), più regolare di viso, anche se con naso non meno “presente” del mio (però, più stabile e meno dilatabile in pinnuti sorrisi e risate). Era come se mi dicesse: tuo padre è più appetibile di te, gran cervello in corpo economico. Gran cervello, poi, o cervello ingombro di troppo varie nozioni e culturale disordine? Ma questo, lei, non poteva saperlo. Ero, netto, un pozzo di scienza e sapienza (magari non proprio innocente).
Da un canto. Dall’altro sentivo un lento brivido di solidarietà filiale che sfumava in pacato diletto: come se la prevalenza fisica di papà riverberasse un po’sulla mia inferiorità coprendola, mascherandola, riscattandola. Stranezze dell’ambivalenza affettiva filiale.
Insomma, si trascorsero ore serene in quell’estate “del settimo anno”. Susy narrava i suoi guai di salute, piuttosto insistenti, e la sua esperienza matrimoniale, alquanto agitata. Fino alla già detta rottura legale col marito, ancora in corso (anche se, augurabilmente, per lei e figlie, di non impossibile ricomposizione futura, forse non lontana). Ci parlava delle bambine, delle loro difficoltà di crescita in una casa e famiglia così poco “normale”; dei due parti cesarei e dell’improponibilità di altre gestazioni, pena un eventuale terzo cesareo (che sarebbe stato ad alto rischio). Ci toccava con le sue sofferenze, e faceva ripetere a Rina un suo vecchio topos della saggezza popolare più amara (già ricordato in queste pagine): “bella e sfortunata”. Così, e, non ma: quasi a saldare fatalmente bellezza e sventura. Né sapevamo ancora quanto quel distillato della lucidità naïve fosse applicabile al caso.
A spreco di capoverso: quale grado di sincerità riconoscere al mio augurio che la frattura matrimoniale di Susy potesse sanarsi? Dovrò cercare un dispositivo di misurazione attendibile. Che al momento mi sfugge.
Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère!
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Ma che cosa s’erano dette, Susy e Rina, in quel loro fitto, lungo conversare sui mini-viali fioriti del suggestivo giardinetto e nell’avanzante coucher de soleil? Lungo e fitto, non solo, anche con tutte le apparenze di una progressione appassionta. Quanto aveva rivelato, la prudente Susanna, e quanto aveva taciuto? Rina parlava poco e, nel succedaneo relazionare, lasciava assetate le mie domande. Al massimo, mi provocava con frasi monche e severe, tipo: mi ha solo fatto capire quanto sei stato sleale verso di me. Mi ha confessato che eri importuno verso di lei. Mi ha detto che era dispiaciuta per il tuo sbandamento sentimentale, e che ti sopportava perché le eri utile a scuola. E simili stilettate. Intuivo che quei grani di verità contenuti nelle risposte sadichette di Rina non erano tutta la verità raccontata da Susy; ma si capiva che le sottrazioni erano state copiose e largamente previdenti. Finalmente, un pomeriggio che io potei recarmi a Zefiria solo con la bambina, riuscii a sentire dalla bocca di Susy il quanto e il come delle sue confessioni. Lei aveva rivelato la mia cotta e la sua sensibilità verso i miei sentimenti; non aveva nascosto la sofferenza che le procurava la sua posizione nei rapporti con Rina; ma soprattutto aveva insistito, con giuramenti e ammirazione per me, che io non avevo tentato “mai gesti sconvenienti”, che mi ero appagato di baci e furtive carezze, insomma, che ero stato “un signore”, e non il solito volgare “tentatore autorevole” o seduttore da strapazzo. Azzo!
Già quanto ho appena riassunto sarebbe bastato a giustificare la fuga fraterno-apuliese di Susanna; ma lei disse di più. Lei aggiunse un argomento, a suo giudizio, perentorio, rivelò il mio progetto di farle sposare un cugino di Rina. Con quale obbiettivo? Io avevo detto: solo per il piacere di averla vicina, introducendola nella famiglia: nessun pensiero segreto, nessuna maliziosa speranza. Ma chi poteva dire mai? A questo punto, lei, Susanna, s’era spaventata. E aveva, tra tentennamenti ed esitazioni, deciso quell’amara interruzione di contatti. Certo, si poteva obbiettare che il problema, pure imbarazzante, si sarebbe potuto affrontare diversamente, senza fratture e rotture. Ma lei avrebbe alzato a sua difesa la temperatura della materia, in quei giorni di sette anni prima: troppo scottante, per poterla anche solo sfiorare senza imprevedibili effetti collaterali. Le sarebbe sembrato un tradimento nei miei confronti. Anche questo era affiorato nella conversazione di quel pomeriggio tra loro due: Rina non le aveva risparmiato l’obbiezione possibile, e Susy aveva dovuto ammettere la sua “viltà”, e chiedere scusa, comprensione, perdono. Ormai in aura proto-irenica, Rina aveva accettato quelle spiegazioni e giustificazioni (magari con non piena convinzione) e chiuso la faccenda. Anche perché, ne sono certo, sperava in chissà quali altri, e meno vaghi, magari più piccanti, particolari sugli effettivi rapporti e contatti fra Susy e me. Dunque, il suo era, forse, piuttosto un problematico armistizio che un trattato di pace. Le vie del Signore, si sa, sono infinite. E si sapeva pure, da quelle parti, che il marito non era tipo da casti bacetti soltanto. Una cosa, certamente, Rina escludeva dall’ampio campionario dei contatti possibili tra i due modesti peccatori: il rapporto completo. Su quel punto giuramenti di Susy e discrezione mia convergevano perfettamente a saldo di verità provata.
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Nei poco frequenti casi in cui, per qualche minuto, rimanevamo soli, o almeno vicini e distanziati dagli altri, tra Susy e me scorrevano parole più intime. In una di queste occasioni volle lusingarmi confessandomi che io ero rimasto sempre dentro di lei, che le mie parole le risuonavano nella memoria nei momenti più incisivi della sua vita, che spesso trovava in esse consigli e conforto. La prova magna di questa situazione affettiva, secondo lei, era la sua scelta matrimoniale: era un caso che avesse sposato un professore? Di materie umanistiche, poi. No, non era un caso. Qualcosa di quell’esperienza aveva lavorato a favore di questa scelta. Voleva che lo credessi, senza storcimenti di bocca ed esitazioni scettiche. E sia. Anche se, visto il risultato, c’era poco da congratularsi. Con lei e con la sua memoria affettiva.
Non so se nella stessa, o in altra occasione (né sono sicuro che questa sia stata la prima), Susanna mi rinfacciò la mia Manuela come anti-prova del mio amore presunto e preteso sempre fiammeggiante. Io, sprovveduto, avevo obbiettato che non poteva pretendere la sospensione sine die dei miei rapporti coniugali con Rina. Lei, sfumando un sorriso saputello, aveva replicato che non questo ella pretendeva (come avrebbe potuto?), ma la rinuncia a una nuova creatura. Chiariva, la dotta: un figlio, e massime una figlia (nel mio caso), è un legame troppo forte fra due persone. Troppo, cioè abbastanza per poter credere che in una delle due, insomma in me, non ci sia stato più tanto amore verso l’altra. Troppo, detto altrimenti, per credere che la persona-moglie fosse stata realmente e largamente soppiantata da una persona-terza, sia pure intrusa.
Per me, col mio scarso bagaglio cognitivo specifico, queste erano soltanto cervellotiche complicazioni di sensibilità uterine. Ma riflettendoci, nei giorni successivi, mi pareva sempre più di capire che qualcosa di “logico” ci fosse in quelle sottigliezze. Un figlio si fa in due, e si dovrebbe farlo solo quando entrambi si sia fortemente motivati. Cioè, affettivamente legati quanto basta a un impegno così pesante. Non lo eravamo, forse, io e Rina? Susanna ne trovava la prova, appunto, in Manuela. E lei? cos’era stata, o cos’era ancora lei, Susy, per me? Lei era l’extra eccellente  e qui il pensiero torna mio  il frutto proibito che assommava qualità rare e plurali: estetiche, erotiche, sensuali, auto–promozionali. Altrettanti meriti per un’approssimativa traduzione reale dei miei lontani pruriti di velleitario esteta decadente. Ne ero stato lusingato, confortato contro i miei cedimenti, preso fino al tormento, e quella presa tornava a stringere, ora, dopo quei sette anni; ma non escludeva Rina, né, tanto meno, la bambina, il mio nuovo grande amore. Di padre, avanti a tutto, ma anche di amante deluso, bisognoso di consolazione. Sapeva, Susy, quanto mi avesse aiutato, la piccola, nei lunghi anni della sua cancellazione totale dal (mio) “mondo dei corpi”? Nell’interminabile sequela di mesi e giorni e notti, della sua soltanto fantasmatica insidenza, così frequentemente onirica? Che colpa mi rinfacciava dunque? Ma lei scuoteva la testa, mezzo convinta e mezzo incredula; comprensiva verso le mie esigenze di auto-difesa, per la smania del mio corpo deprivato bruscamente, ma tenace nella rivendicazione di quella scoperta: il mio grande amore per lei non era stato così grande da escludere quel nuovo, vischioso, anzi tenacissimo legame tra me e Rina. Una limitazione intrinseca ne limava la piena compattezza, e la bambina ne costituiva la prova provata.
Ma, in fondo, lei sapeva di questo limite “strutturale”: le avevo forse mai proposto fughe e sconvolgimenti familiari? Avevo mai approfittato della sua debolezza di ragazza tentata? Mai. E non era, tutto questo calvario di rinunce e riduzioni, l’identità “ragionevole” del mio amore per lei? O dobbiamo usare altro sostantivo? Amore, attrazione, trasporto, passione: chiamalo come vuoi, la sua misura è nella sofferenza profonda che il suo abbandono mi aveva procurato sette anni avanti e per uno strascico lungo di mesi e mesi. Plumbei giorni, quelli, raccolti in un bouquet penitenziale. Non era stato facile svezzarmi di lei, dei nostri contatti quasi quotidiani. E forse non mi sono svezzato mai del tutto. Ma che forse, certamente che no. Infine, si fanno troppe chiacchiere da psicologi in talk show: dove sta scritto che non si possa amare due persone insieme? Massime se le due attrazioni si distinguono abbastanza. Nel mio caso, l’affetto-attrazione per Rina era il mare in bonaccia che di tanto in tanto s’increspa per fisiologico levarsi del vento; la fame sensuale per Susy, una febbre che di tanto in tanto si riposava per fisiologico recupero di forze. Nemmeno ho potuto scrivere calava! (Ma quella parola, “febbre”, così abusata!).
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Un’altra occasione di misurare la – come dire? – diffidenza, di Susanna verso la piccola Manuela si ebbe un pomeriggio (ah, come vorrei poter ricordare quale, di quale giorno e mese, l’anno essendo certamente il settimo dalla sua eclissi) nel quale ci incontrammo io, Susy e la mia bambina. Susanna era seduta davanti all’ingresso dell’ormai unico cinema conservato in gestione dallo zio paterno. Sola, senza le sue figliuole, lasciate con la madre (forse aspettando proprio loro). La piccola non mi dette neppure il tempo di finire una frase di circostanza rivolta a Susy: cominciò a tirarmi via, come se stringesse lei, nella sua manina-tenaglia, la mia mano, che in realtà copriva e imprigionava la sua. Resistevo, tentando, con dolci paroline e rassicuranti sorrisi, di farle accettare “a tempo” quella presenza femminile estranea e conturbante. Niente da fare, insistette con la ferma determinazione di un’adulta consapevole, guardando lontano da quella donna, che vanamente tentava di farsi accettare, chiamandola per nome, sorridendole, rivolgendole parole invitanti e promesse di doni. Niente, non c’era verso. La piccola continuava a non guardare Susy, e maturava visibilmente una tentazione di pianto come estrema risorsa di autodifesa pronta a scattare. Dovetti arrendermi dopo pochi minuti per evitarle incongrue sofferenze. E Susy non seppe fare di meglio che accusarmi di viziarla, di farne una piccola prepotente. Aveva cinque anni e mezzo, Manuela. O poco più.
Cioè, Susanna, poco riflessiva e molto impulsiva, si accollò il torto di mostrarsi non tanto sensibile alla mia passione per la nuova padroncina. La quale era manifestamente gelosa dell’estranea, chissà, oscuramente (ma dico bene?) percepita come un pericolo per il suo feeling esclusivo col padre. O meglio: con babbo e mamma. Forse una mia espressione le aveva accentuato lo spontaneo moto di femminile gelosia precoce. Manuela era la bambina nota nella parentela per la sua stranissima gelosia verso le donne, anche solo dipinte. Tutte le volte che appariva sullo schermo la bella faccia di Maria Grazia Pichetti, Manuela si metteva fra me e il televisore, e copriva il video. La rivedo, così piccola, le braccine tese e il busto addossato al tubo catodico, fissa in quella posizione fino a che non scompariva la “presentatrice occhi belli”. Dev’essere proprio vero che le bambine non hanno bisogno di aspettare gli ormoni della pubertà per avvertire emozioni squisitamente femminili. E infatti, non era gelosa dei maschi che capitassero vicino a me. Con Susanna la spinta di ripulsa dovette essere più forte. E precisamente tutta la sua piccola forza, che pareva moltiplicarsi nello sforzo, lei mise nell’impegno di allontanarmi dalla pericolosa concorrente. Così dovetti mostrarmi arrendevole verso la mini-despota davanti allo sguardo più temibile del mio piccolo mondo evasivo. Decisamente, la mia reginetta non poteva riuscire simpatica a Susy. Troppo viziata, troppo capricciosa. A suo non imparziale dire e insinuare. O troppo “prova” della capacità di sopravvivenza del sottoscritto mutilato della splendida Susy? Fu veramente strana questa scintilla di antipatia scoppiata, e diventata ferma corrente, tra una bambina di cinque anni e mezzo e una giovane signora ventisettenne, gelose l’una dell’altra.

Preda contesa fra due sensibilità sbilanciate, il mio povero io confuso non poteva intaccare con l’avversione dell’una l’attrazione per l’altra: continuava a volere bene a entrambe, ma col naturale penchant in favore della figlia. A Susanna perdonavo, con uno sforzo catalizzato dalla gioia del ritrovarsi, la sua troppo modesta inclinazione per Manuela; alla bambina moltiplicavo la tenerezza in ragione diretta della sua gelosa possessività esclusiva. Ma da quel pomeriggio evitai di farla incontrare con la temuta concorrente fuori dai nostri gruppi familiari.
La gioia appena rievocata, intanto, faceva il suo lavoro dentro il turbinio dei miei sensibilissimi neuroni. Ero di nuovo acceso di Susy, pieno di fermenti possibilistici, con nulla di preciso in corso di progettazione, ma con tanta agitazione vagamente ipotizzante. Avevo usato varie brevi occasioni di far sapere alla attuale signora Capretti e mamma di due graziose bambine che lei, per me, era tornata la vergine non “funesta”, no, ma pur sempre “rapinosa” di sette anni avanti. Anzi, che lei non era mai del tutto scomparsa dai miei ricordi emozionali più caldi, che era stata e continuava ad essere una presenza costantemente viva o reviviscente. Nonché una specie di paradigma e metro di giudizio per ogni altra bellezza femminile (e pupillare, in specie). Eccetera. Lei invitava alla saggezza della rinuncia e alla lealtà della ritrovata amicizia plurale: volevo che tradisse ancora Rina? Avevo sempre voglia di rispondere con un grosso sì gridato e risonante tutte le (poche) volte che ascoltavo l’ammiccante domandina da una Susy ambiguamente ironica e stuzzichevole.
Quante furono le opportunità di scambiarci poche parole intime di confidenze e domande? Non lo saprò più mai. E ancora non mi persuade la mancanza di un dettagliato diario. Stancamente vado ripetendomi: che si sia perduto? Che io l’abbia scritto fuori dai soliti fogli di quaderno, sostituiti, l’anno dopo la sua partenza, da agende scolastiche (omaggio di librai in cerca di adozioni dei “loro” testi di storia e filosofia), e non ricordi più di averlo fatto; e quei fogli siano andati smarriti, perduti, magari rubati, chissà come dove quando da chi? Non è impossibile: forse, per mia imprudenza di tutore involto in molti e divaricati impegni, mi sono stati sottratti e distrutti da qualche mano interessata? Ma non ho ragione di credere che Rina (fosse stata lei, la più indiziabile) mi avrebbe nascosto un’impresa simile. E poi: è plausibile che la mia memoria, bucherellata quanto si voglia, lo sia al punto da lasciarsi sfuggire così capitale documento? Non voglio crederlo: in fondo, mentre stendo, saltuariamente, queste note memoriali impegnate in faticose ricostruzioni di eventi troppo lontani, non ho smesso di sperare in un, forse improbabile ma non impossibile, ritrovamento di carte perdute. Magari in chissà quale mimetizzato cassetto di apparente insignificanza.