martedì 19 gennaio 2010

Susanna, Frammento 54


A confortare le mie interpretazioni mi capita fra le mani un diario del biennio successivo al grande distacco. Didia mi racconta delle dicerie che correvano sul conto mio e di Susy, ma soprattutto le confidenze che faceva Susy alla sua compagna di scuola e amica del cuore, Adele Tallario. Riproduco la pagina (del 3 dicembre, cioè di due anni e mezzo dopo). Abitavamo, dall’anno prima, a Regiumiuli, sullo Stretto, all’estrema periferia della città. Didia, iscritta al magistero di Zancle, veniva ancora a trovarci di tanto in tanto, quando si recava all’università.

Didia da noi (ha portato dolci e un pupazzo per Giampiero, che ne tripudia). Lo accompagna a scuola. Lo dice a me mia moglie al citofono. La raggiungo. Lasciato il bambino (col solito magone, ma rafforzato, dalla presenza di Didia, nella fiducia di non essere ...abbandonato), ritorniamo insieme, con la mia macchina, a casa nostra. Saliamo a piedi. Sulla scala, le do qualche bacio. “Solo sulla guancia”, fa lei, in fil di voce. Perché? – penso. Si sta un po’ insieme con Rina e la bambina (sembra che Didia voglia affezionarsi anche a lei) e poi si va al porto degli aliscafi, lei ed io, che mi assumo il dovere di portarvela in macchina. Sull’ascensore, rapidi bacetti on the lips. E lei ripete la “deviazione”: only on the cheeks, please! Faccio orecchie da mercante e spargo parole: “Ti rivedo sempre con piacere, da quella volta. Ti ricordi?” Guardando verso il suolo e annuendo di testa: “Sì”. Ancora bacetti fugaci. “Sei cambiata, Didia”. “No”. “Sì”. “Sono successe tante cose”. “Cosa?”. Siamo già in macchina, diretti al porto. Riferisce, con accento commosso, quasi a mezza voce, come parlando a se stessa, lo sguardo dritto, in avanti: “Lui mi vuole tanto bene. Mi dice che ha assoluta fiducia in me. Mi sembra male...”. Ho capito: Roberto le entra nel cuoricino smarrito. “Hai ragione, basta”. L’aliscafo non ci accoglie: troppo pieno, “esaurito”. Bisogna aspettare l’altro. Ci restano tre quarti d’ora per passeggiare e parlare. Grandi confidenze e confessioni. Dice Didia: “Vi voglio sempre bene come allora”. Obbietto: “Non mi sembra. Mi riferisco al "come” qualitativo. Lei insiste: “Sì, perché anche allora il mio affetto era diverso da quello che sento per Roberto”. “Diverso come?” –“Diverso” – “Da figlia? Sarebbe assurdo, visto che non lo sei, che io sono un estraneo, voglio dire, non sono nemmeno un consanguineo di un qualche grado.” – “Lo so, ma è diverso, e il mio affetto è intatto” –“E’ cambiato. Tu non pensavi che io potessi baciarti?” – “No, non ci pensavo. Vi vedevo troppo in alto”. Pausa di riflessione: ah ecco, troppo in alto. Penso: la solita amplificazione pupillare. Replico: “Già. Normale ‘promozione idolatrica’ nella fantasia delle ragazzine sensibili che si ‘innamorano’ del professore ammirato. Eppure, dovevi pensarlo che, restando soli, e preso dal tuo tenero, trepidante affetto, si potesse, prima o, poi... Io ero commosso dal tuo attaccamento, e, quasi a compensarlo, finii col valicare il confine del sentimento simil-paterno. Ricordi quella volta, sulla sdraio, quando mia moglie era assente?”– “Sì, ricordo bene”. E nella voce si avverte un’incrinatura di ambiguo intenerimento. Incalzo. “Be’, ho resistito, quella volta: ho vinto la tentazione di un’intimità più spinta. Ebbi come un crampo: Che sto facendo? – pensai. Fu un segnale di svolta. Non accadde più. Lei tace, sguardo basso, lieve rossore. Silente pure io, per qualche minuto: digerisco quel “troppo in alto”. Forse non bisogna scucire la beata idolatria delle fanciulle sognanti, non scendere nella carne e nei sensi. Lei insiste: “Vi voglio bene e vi stimo come allora, ne sono certa. Volete un segnale? Quando mi capita qualche difficoltà più complicata delle solite mi domando: cosa ne penserebbe Lui? Come mi consiglierebbe? Nei punti cruciali della mia poco brillante esistenza vi ritrovo sempre: come confidente, conforto, dispensatore di saggi consigli, appunto.”
Tutto credibile, niente di meno che plausibile. Salvo l’implicito in quel “troppo in alto”. Chiarirlo? Si può tentare. Partendo da un fatto (anzi, ‘fatticità’, alla tedesca heideggeriana): mica protestavi, tu, quando ti baciavo sulle labbra. Neppure per tremuli cenni della maniera più dolce, più rispettosa, più delicata. Insomma, gradivi. Allora che cosa potrebbe essere accaduto dentro la tua testolina? Qualcosa del genere: oh Dio, che succede? io non ci pensavo, non osavo immaginare e sperare questo,… O temere? Sperare-temere? Mio Dio, che intrecci imprevisti, così spiazzanti! Ma intanto succede, e come oserei respingere questo dono inatteso, questa piccola “incarnazione” della mistica “trascendenza” sognata? – Trascendenza a parte, e contorno filosofico spurio, più o meno le sensazioni provate in quei mini-approcci sensuali dovrebbero essersi aggirate in questo campo magnetico dell’emozionalità sessuale svegliata. Del resto, la sua scelta del sì al suo Roberto non era stata estranea al mio “paterno consigliare”. La presentazione che lei me ne aveva fatto mi spingeva a ben valutare il ragazzo come suo eventuale compagno di vita. Dal ricordo della valutazione, poi, estrarre l’accenno di un consiglio non è difficile. Ed eccomi presente nell’immaginario esistenziale della piccola Didia anche in missione di pronubo.

Quello che mutila, e insapora di slealtà rimpiazzante, quei miei slanci, è il copioso background non confessato, né confessabile. Questo tacere forzato, questo inevitabile silenzio su premesse spurie, che copre il disordine emotivo del mio self-control disorientato, decaduto a self-defence.
Si viene a parlare della sua classe, delle dicerie che correvano su di me e Susy. Dichiara, Didia: “Quante, mio Dio! Come ne soffrivo! Ma vi difendevo, io, sempre, non le credevo, mi rifiutavo”. E avvia un cielo fitto di conversazione “anfetaminica”. Io incoraggiante: “Lo so, ti credo. Ma che si diceva, di preciso?”
“Be’, tante cose. Non tutte belle.”
“Qualcosa so. Un po’ le ho sentite anch’io, qualcuno me le ha portate all’ orecchio esplicitamente”.
“Chi, qualche mia compagna?”.
“No: qualcuno molto più in alto, per dirla con la tua espressione.” – Mi guarda, gli occhi avidi di novità eccitanti. Rispondo a quel punto interrogativo così dolce, così innocente.
“Nientemeno che il presidente della vostra commissione di maturità.”
“Addirittura! Davvero? Ma come mai?” – E’ piccata da tanto interesse, così diffuso, e radicato nell’ambiente da raggiungere quel livello. Attende il resto. Pende dalle mie labbra. Racconto.
“Con l’aria più disinvolta del mondo, in piena seduta, dichiara, papale papale, e roteando sguardi mitemente mefistofelici sui presenti allertati: ‘Sapete cosa dicono in giro? Che quella ragazza, Susanna Castrato, è l’amante del professore Assaggi’. Pensa! Un pugno nello stomaco. Ma un pugno di fuoco, una vampa. Ci ho ricamato sopra, non senza sforzo, una risatina modesta, ma sono rimasto basito. A quel punto, dunque, erano i pettegolezzi in paese?”
La confessione stana la lepre. Conferma, Didia:
“E’ appunto questo che si diceva” – Balzo di viscere tra le mie povere ossa colpite. E il gioco avanza.
“Ah! E chi lo diceva?”.
“Tante. Quasi tutte le mie compagne”.
“Immagino. Ma tu non ci hai creduto... Nemmeno un sospetto, un dubbio, un mezzo pensiero sulle debolezze della natura umana?”.
“No. Ve l’ho detto: vi vedevo troppo in alto”.
Vedi, Paolino? Non conviene scendere dal plinto degli dèi. Oh profumato candore delle fanciulle in fiore! Cosa rispondere a tanta, malriposta, fede?
“Cara Didiuccia, non si è mai troppo in alto per certe cose”.
“Ma voi non siete uno qualunque”.
No, non sono un “Uomo qualunque”. Fin qui, nulla da eccepire. Però.
“Eppure, la tentazione c’è stata”.
Abbozza un’ombra di sorriso tra timoroso e fiducioso. E sospira un soave attestato di fiducia tout malgré:
“Lo so, la tentazione…E’ umano, ma voi…”.
“Non sono uno qualunque. Ero troppo alto! Si può scendere, però, in certe situazioni. E lei era del tipo che produce quelle situazioni. E poi era troppo vicina a me quella ragazza. Mi tentava forte, con la sola presenza. Ero più tranquillo quando Rina era in casa. Magari la chiamavo se si trovava dai vicini.”
Sorvoliamo sul facile mentire e abbellire quando necessità comanda: maiora premunt. Sto per rivelare che qui, a questo preciso punto del percorso confidenziale, scoppia una bomba. Didia si sente sciolta dai lunghi vincoli di reticenza discreta, esita ancora un poco, pensierosa, ma poi, spara:
“Si diceva addirittura che lei volesse un figlio da voi.”
“Nooo!!” – “Sì, è così.” – “E chi lo diceva?” – “Lei stessa.”– “Ancora nooo! Non ci credo, questa l’ha inventata qualcuno, anzi qualcuna: qualche compagna invidiosa.” –“Eppure è così.” – Perentoria certezza: donde, dunque? – “Ma non lo diceva a te, non c’era fra voi tanta intimità.” – “No, a me no.” – “A chi, allora, lo diceva?”– “A una sua amica molto intima. E’ lei, l’amica comune, che me lo ha detto.” – “Ma chi?” – Nuova esitazione, qualche secondo ancora di silenzio preparatorio. Poi (ormai è lanciata): “Adele.”– “Adele Tallario?” – Conferma, passa dal voi al lei e viceversa. E’agitata dall’impresa che s’è accollata: quelle rivelazioni la stancano. Ma non desiste. Non può: ormai una speciale forza di gravità spinge il torrentello.
“Sì. Lei sa quanto erano, e credo siano ancora, amiche, quelle due. Non si nascondevano nulla di quanto capitava a ciascuna di loro. Adele mi ha giurato che glielo ha detto lei, Susanna. ‘Voglio un figlio dal professore. Sono la sua amante’ – così le ha detto. Magari non sospettava che Adele fosse tanto amica mia”.
Così, papale papale! E meno male che cercava “soltanto” la mia protezione! Ah, quella lettera bugiarda! Quell’autodifesa imbrogliona e necessaria: verso i suoi, verso Rina. Protesto, intanto, con l’innocente Didia, a mezza strada fra verità e menzogna. – “Ma non era vero!” – “Lo so. Ma lei lo diceva.”
Lo sa: o beata innocenza! Continuo. – “Forse lo diceva anche a qualcun’altra compagna?”
“Chissà. Anzi, che fosse la sua amante lo ha detto senz’altro a un’altra sua amica del giro intimo. Forse a due”
“Addirittura.! Bella pubblicità per uno stimato professore di filosofia pedagogia psicologia! Ma perché mai diceva cose simili? Che ci guadagnava?”
“Non saprei, ma certo era il tipo da dirle, certe cose. E da volerle”
Sì, era il tipo. Ma io, cretino, come mai non sospettavo una cosa simile? Sì, a volte, di tanto in tanto, un sospetto vago di sue possibili confidenze a qualche compagna-amica mi stuzzicava i tempi-tregua del mio ingolfato cerebro; ma non ero mai arrivato a pensare che lei potesse spingersi fino a quel “monstrum”: un figlio da me! Chissà se ricordava queste confidenze quando scriveva la lettera “polarizzata”, tra bugie e mezze verità, dimenticanze e omissioni necessarie.
“Rivetti, Spanò, Speziale e le altre lo sapevano, ci ridevano sù. E spettegolavano.Una volta Spanò, per provocarla, le chiese cosa ci trovasse, in voi, di tanto attraente”.
“E lei, cosa rispose lei?”
“Che vi trovava affascinante”
“Bum! E su quali argomenti e qualità?”
“Non mi fate dire.”
“Dimmi, invece, e fai uno sforzo”
Arrossì, Didia, e concedette solo un paio di dettagli: gli occhi, la loro luce, la grande cultura, la bravura, eccetera. La fonte era sempre Adele.
Dunque Susy era arrivata a dire questo. A vantarsi di essere (e trema pure, mia povera mano vedova, a scriverlo) la mia amante. Ho diritto di chiedermi: si direbbero cose del genere alle amiche intime senza sentire una vera, forte attrazione per l’altro? Vera, corporale, viscerale: per quanto modesta potesse essere. E, modesta o no, certamente era amplificata dal mio ruolo, dal tronetto-cattadra “troppo alto”. Vero è che qualche, e non lungo, tempo dopo queste confidenze e vanterie Susanna cambiava la versione sul nostro rapporto. Diceva, in famiglia, che ero io a volere lei, che non volevo si sposasse, e per questo lei se n’era andata lontano da me, dalla mia famiglia. Che purtuttavia amava. Pura autodifesa: che altro? Doveva schermarsi contro gli strali dei pettegolezzi possibili, e di facile possibilità. Ovvie banalità, che ci insisto a fare?
*
Questo, dunque, diceva in giro Susy nel tempo in cui, secondo la versione di comodo data in famiglia e dintorni, lei sarebbe stata presa soltanto da una comune cottarella pupillare per il sottoscritto, accentuata dal bisogno di scolastica protezione. “Sono la sua amante!” – quante volte l’avrà detto in giro? “Sono l’amante del professore Assaggi”: a quante amiche ha recitato questa “poesia”? Volevo chiudere il capoverso con full stop su “protezione”, ma l’eros dei vecchi me lo allunga. Mi arrendo, e continuio. Come si potrebbe mettere in circolazione una tale “confessione” col semplice propellente di una modesta attrazione? No, no, i conti non tornano: bisogna ingrandire quella “modestia”. Fino a leggervi, perfino, una decisa intenzione a lasciarsi “fare” senza reticenze e sbarramenti. Come, del resto, aveva confessato a me stesso, tentandomi dal fondo-fuoco della sua “sofferenza” di demi-vierge. Ah, quel blocco crudele! Quanto deve aver mortificato la voglia di dire chiaro “e dài una buona volta, riempimi questa gola affamata che si contorce di spasimi ingiusti!”
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Il qui presente, intanto, continuava la sua esistenza sbilanciata fra divergenti attrazioni. Quella culturale conobbe, nel settennio, una produzione, non stakanovistica, no, ma di tutto rispetto sì. Fatto conto anche delle mie non esorbitanti riserve energetiche. Per tutto il periodo continuò la mia collaborazione alla Gazzetta dello Stretto e al Gazzettino dei gelsomini, dove apparvero una cinquantina di articoli di vario argomento (dalla letteratura all’epistemologia, con qualche celebrazione di ricorrenze importanti, soprattutto nascite e morti di scrittori o filosofi). Spesso lo stesso articolo entrava alla Gazzetta e al Gazzettino (di solito con una modifica, amplificante per la seconda destinazione. Non c’era ancora “il libro”, ma i saggi distribuiti fra Biosofia, la rivista di Gulizza, Empiria, la rivista trimestrale di Rama, e altri periodici minori, stavano accumulando materiale per quella destinazione. La quale, da troppo tempo agognata, avrebbe dovuto imprimere una svolta decisiva al mio futuro culturale. Gulizza mi aveva anche aperto le porte della Fiera letteraria, dove pubblicavo recensioni ben pagate (male, invece, le retribuzioni della Gazzetta, sempre tirchia e un po’ negriera). La collaborazione con la Gazzetta si chiuse, però, pochi mesi dopo la morte di Ciaccò, l’evento “personale” più triste del settennio. A segnare lo stop (da parte mia, ma in risposta alle condizioni nuove) fu il loro rifiuto di pubblicare una recensione molto severa al libro di Armando Plebe, “Filosofia della reazione”, e in sostanza al nuovo corso del filosofo deluso, scivolato in braccio alla destra estrema (o giù di lì) (con giustificazioni sofistiche e verbosi arzigogoli). Dopo quella “bocciatura” non mandai più nulla al giornale cariddiano. Né la vedova Ciaccò, la vispa Germana, si fece viva a confortarmi nella speranza di una sua eventuale protezione. Era stata assunta al posto del marito, a tutela della famiglia, cioè essenzialmente dei tre figli ancora ragazzini, ma non ne raccoglieva intera l’eredità affettiva. Laureata in Giure, ma non esperta di scritture giornalistiche, non ci mise molto a imparare il mestiere. Giusto appena il mestiere: non raggiunse mai la bravura letteraria del marito sfortunato.
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A chiusura del settennio aggiungo due eventi vicini e distanti (se non l’ho già fatto!), eppur segnati da una nota comune. Doppiamente vicini: nel rapporto temporale fra loro e col finire del settennio. Si tratta del film di Stanley Kubrick, “Arancia meccanica”, 1971, e del tragico colpo di mano del commando palestinese che rapì e poi uccise gli atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco, 1972. La violenza è la logica che accomuna i due eventi, per altri versi distanti: un fatto di sangue della sfera politica e un esempio “estetico” di sadismo personale pimentato di sensibilità musicale sui generis. L’Alex di Kubrick (il bravo Malcom Mc Dowell) congiunge la passione per Beethoven col gusto del sangue e dello stupro: non diversamente, i capi nazisti che consumarono la Shoah amavano la bella musica, suonavano Beethoven e Bach, erano capaci di tenerezza per i loro bambini e per gli uccellini. Un mistero, per la filosofia dualistica col mito dello spirito libero e superiore al corpo: un’epifania “normale” per una visione coerentemente fisiologica dell’uomo. Il “mistero” è rifugio dei teoreti timidi, e una fuga dalla cruda realtà della cellula: dalla sua natura “lasciva, crudele e carnivora” (come icasticamente scrisse il maggiore antropologo vivente, Joseph Campbell nel suo capolavoro, “Le maschere di Dio”). Ricordiamo qui che il film è ispirato a un romanzo di un autore inglese che non ha bende davanti agli occhi, Anthony Burgess. Sviscerato in mille dibattiti cultural-sociologici, il film cult di Kubrick trova, forse, un’occasione ermeneutica più congeniale e meno “topica” dei soliti lai e sospiri da talk show sulla originaria pandemia violenta nella visione biotrofica gulizzana.
Dalla quale non si esce neppure di un millimetro “zoomando” sulla criminalità mafiosa: l’anno prima del bang culturale dell’accoppiata Burgess-Kubrick c’era stata la strage palermitana di Piazzale Lazio: quasi il botto conclusivo della sinistra interminabile festa degli spari malavitosi. E mesi dopo, l’omicidio del procuratore Scaglione (a torto vulgato come evento ispiratore del “Contesto”: lo stesso Sciascia chiarì che la prima parte della “parabola” era stata già pubblicata su una rivista anticipando parecchio sull’evento criminale).
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Un altro caso di violenza minore, ma eclatante, bussa alla magica porta di Mneme e chiede ospitalità in questo suo salottino delle rimembranze dolorose. Niente di personale, neppure qui, ma una meno lontana parentela col racconto “assiale” si può leggerla in filigrana tra analogie e contrasti, di sfondo e dettagli. Si tratta dello stupro rubito da Franca Rame, proprio nell’anno ultimo del settennio. Un branco di bestie fasciste di non troppi anni consumò quel delitto di sadico diletto a turnazione individuale.
La vittima ne fece, poi, materia di una pièce ad alta tensione drammatica. L’ho potuta vedere (e cioè, godere e soffrire) in televisione quando la torbida Rai del ’78 (l’anno del Caso Moro!) mise fine a sedici anni di ignominioso ostracismo contro la coppia Fo-Rame. Perché tanta severità e così provocatorio sprezzo del pluralismo democratico? – si chiesero gli ingenui. Ma come perché! – Dario Fo e la moglie s’erano macchiati di un delitto imperdonabile: avevano ombreggiato di nuvole nere il fulgido meriggio del boom italiano. E come avevano consumato il crimine? Spudoratamente parlando di povertà e discriminazione, di ingiustizie e prevaricazioni, ma soprattutto di mafia. Già, di mafia: niente di più ovvio. Ma l’ideologia catto-capitalistica e vaticanofila aveva decretato la non esistenza della piovra. Gli omicidii a suon di lupara? Malavita comune, rivalità personale di cani sciolti. Non aveva solennemente dichiarato, sua eccellenza cardinale e arcivescovo di Palermo Ruffini, che “la mafia non esiste”? E non gli aveva fatto eco sua importanza l’onorevole Malagodi accusando Dario Fo di calunnia contro il magnifico popolo siciliano? E fu così che mamma Rai venne costretta dal canagliume politico del tempo a mettersi sotto i tacchi servili democrazia pluralismo libertà di pensiero rispetto della verità e altri fulgori assiologici. Alla faccia di proteste e pubbliche dimostrazioni contro tanta censura e così plateale iattanza. Era l’Italia del ’62: di Fo vennero respinti perfinio gli spot pubblicitari. A tanto può arrivare l’imbecillità di persone pubbliche al servizio dei mammonici potenti, specie se olezzanti di stravolta e flessibile religione. L’anno dopo veniva fulminato John Kennedy.

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