domenica 10 gennaio 2010

Susanna, frammento 52


Tornando all’Onnipresente-assente (rannicchiata fra tutte queste sibilanti), confesso che nell’agenda-diario del settimo anno gli unici riferimenti al prodigioso evento riguardano il lungo “preambolo” del primo incontro, i suoi precedenti. Sono brevissime frasi in inglese, segno del timore (ancora vigente!) di una sorveglianza coniugale suscettibile di complicazioni vitandae. Il primo cenno chiude, sotto un triplice asterisco al centro della doppia distanza verticale delle righe, la pagina diaristica del 13 agosto. Curiosa coincidenza e concomitanza, gli appunti registrano e commentano la lettura completata del fortunato libro di Luigi De Marchi, “Sociologia del sesso”. Era il cinquantanovesimo volume dell’anno, cioè del programma di letture annuali, che prevedeva un pieno di 100 libri, media di pagine e composizione 200, corpo 12. Stranezze, su cui qui sorvoliamo. Ed ecco il cenno-frase inglese (un inglese piuttosto disinvolto): “Oggi, 13 agosto, tarda sera. The great news: Saiana in Zef. Notice-glamour: she is separate from her husband. Shall I see her? The fine news from my brother in law... Seven years full of her, many dreams with her, the big Absent, always shining in my cloudy sky, and now... Is that real?” Tutto qui. Poi, sei giorni dopo, domenica 19 agosto, il diario registra un viaggio in Calamagna di una bella fetta della nostra tribù: oltre la mia famiglia, quattro persone, il suocero e la 2a moglie, i miei genitori, la sorella Valeria con marito e i due figli, la sorella Mara con marito e due figlie, il fratello del marito e la moglie. Il grosso della comitiva va a dormire in albergo (pagato da mio cognato), la mia famiglia e i nostri genitori in casa degli sposi. L’occasione di tanto movimento è il battesimo della primogenita. Il diario del 20 “riassume” in una veloce paginetta dell’Agenda, che riproduco come preludio al primo incontro con la Rediviva:


Letizia Marina,
20. 08, ore 23,30

“Mattina. Vecchie conoscenze ritrovate con emozione durante una solitaria passeggiata sulle strade, prima, e poi sul lungomare del paese. Non li vedevo da anni (quanti?). Brevi rimpatriate e promesse di rivederci: colleghi, amici, ex alunni. Ma soprattutto ritrovo i luoghi dell’incanto passato. Angoli di strade, vie marine, spiagge. Ognuna col suo richiamo di volti, donne, piccoli eventi. E bellezze intrinseche. Parlo soprattutto di Siderato, il paese del mio soggiorno più lungo, da scapolo e da “sposino”, da professore e padre. La via Isonzo, dove abitavo da scapolo e poi con famiglia. Il piccolo Giampiero scorrazzante sulla spiaggia e nella villetta vicina all’abitazione. Oggi, però, c’è un filtro che allontana tutti i suoi precedenti e concorrenti. Seven years of dreams, and now the reality, near and touchable... Ebbrezze taciturne e clamanti nel deserto interno della memoria eccitata. Mare, spiagge immense ebbre di sole, distese interminabili di sabbia grigio rosa popolate di corpi femminili seminudi, o quasi del tutto nudi, abbandonati al vino termico di Apollo-Dioniso. Ancora Camus, con la sua religione del corpo e il suo pathos della physis. E lei, il filtro magico che tutto colora e scalda. When shall I see her?
Né mancano ampi tratti di spiaggia solitari, tra un paese e l’altro. Il mare placato e trasparente. E sabbia, ghiaia, ciottoli: lembi di natura immuni dalla peste cementizia. Quanto resisteranno?
Il dritto e il rovescio: nei pressi, una casa sventrata dal tritolo, nera di fumo pregresso, abbandonata. Un attentato-messaggio contro un ex malavitoso che voleva lasciare l’Onorata par excellence. Intorno, questa profusione di luce, l’arida spiaggia brillante di ciottoli, la stenta vegetazione “africana”, i cactus, le agavi superbe coi loro scapi protesi al cielo, i bassi cespugli, e sabbia... Il filtro sfolgora di scalpitante memoria refrattaria ad ogni controllo critico.”

La pagina del 21 agosto, segnata in testa dal nome del paese che ci ospita, rivela in poche righe affrettate un incontro balneare con la Ritrovata. Righe mimetiche, allusive, come le altre, ma calde di sospetto ardore:
“Il sole magnogreco che scotta, dentro e fuori. Occhi narici orecchie e sensi interni, tutti sull’attenti, mobilitati nella grande ricerca, tesi e protèsi a ritrovare, nel caos del buio memoriale lampeggiante, ore lontane, odori e umori perduti e franti; visioni sfocate che mordono la lontananza. E sospiri, e sapori, quasi dimenticati. Ora risvegliati a congiungere un presente di fiaba a un passato compresso da proustianizzare nel ribollire delle emozioni sopite. Lei, la stella polare delle sognanti notti calamagnesi, Saiana, for seven years obliterata, di nuovo presenza, realtà, cinetica carnale nella calda opulenza balneare dell’estate in bikini, l’estuosa estate delle spiagge senza fine. Ah, come la realtà s’insinua, a volte, nella virtualità elusiva dell’onirkingdom!”

E basta, non c’è altro. Altre note non trovo, nell’agenda desnuda, per tutti i giorni inutilmente segnati, sopra la linea superiore delle pagine, dal nome del paese, scritto, in sgorbi, tra quello del mese, agosto, e il nome e numero del calendario su ogni pagina. E l’immancabile nome dei santi. Non mi resta che ricostruire a memoria scotomizzata.

La “combinazione” si fece e l’incontro incredibile ci fu. E fu plurimo. Il primo contatto interessò un quartetto due a due: due le donne, da una parte Susanna e la sorella Tina (cresciuta di sette anni, e cresciuta bene); dall’altra il sottoscritto, col suo corpo sempre al risparmio, ma meno di allora (e ora avvolto in una bolla di emozioni quasi tachicardiche); e il grande mediatore, il cognato Salvo, più che mai fusto e fascinoso. Anche Susanna era debitamente emozionata e onestamente tachicardica. Strette di mano, imbarazzi, sorrisi stirati. Finché non fu chiaro a entrambi, Susy e me, che l’incontro era libero da risentimenti e le piaghe erano risanate e il desiderio di rivederci forte da tutte e due le parti.
Anche brulicante di curiosità molteplici. Il gioco delle domande cominciò subito, dall’ovvio sulla salute alle vicende personali e sentimentali. Sulla mia nuova realtà professionale e familiare Susy era stata informata, sommariamente, dal cognato: stavo in Sicania, avevo aggiunto una bambina al maschietto, nata un anno e mezzo dopo il nostro ultimo contatto magnogreco, avevo avuto qualche difficoltà di salute. Lei era più ricca di novità: sapevo delle due bambine dal cognato, e non ignoravo la separazione dal marito professore di lettere supergeloso (notizie fornite da lei a Salvo, e da lui passate a me). Ma volli che fosse lei, con la sua voce un po’ roca (fumava tanto) a raccontarmi le sue peripezie. Che non erano poche né lievi. I contrasti col marito erano cominciati presto, la sua mammopatia era insopportabile per Susy, la sua permalosità verso gli ammiratori di lei soffocante, le liti facevano male alle bambine. E via deplorando. Mi dissi dispiaciuto per questo fallimento coniugale, ma anche sicuro che la ferita si sarebbe cicatrizzata con un supplemento di buona volontà da parte di lei e un minore assillo pugliese da parte di lui (hai detto niente!).
Già in quel primo incontro riuscimmo a rimanere “soli” abbastanza a lungo (soli per modo di dire, cioè staccati dagli altri due, ma sempre in pubblico). L’intraprendente cognato trascinò via la sorella al bar più elegante del corso principale insistendo perché almeno una delle due sorelle accettasse di prendere qualcosa (Susy aveva garbatamente rifiutato per motivi di salute, disse). E così ci sentimmo più liberi di masticare ricordi strettamente personali. Il gigantesco “perché” scodellatole dalla mia impazienza dentro il ricordo ancora bruciante del suo abbandono ebbe una calibrata risposta: l’avevo messa in una situazione lacerante, con la mia proposta di darle per marito il cugino (professore anche lui, un vero destino) di mia moglie. Ammesso che le fosse piaciuto (e io, conoscendo lei e lui, ne dubito molto), che cosa mi ripromettevo da quella parentela? Poteva, lei, accettare di tradire il marito, di sposare addirittura un uomo con l’intenzione e il programma di tradirlo con me? Protestai: “Ma io ti dicevo che mi sarei messo da parte, che mi sarebbe bastato averti vicina, non perdere i contatti con te.” Sorrise appena più marcatamente della Gioconda, ma con un lampo originale negli occhi: “Sono cose che si dicono. Ti concedo anche la buona fede (e devo fare un bello sforzo). Ma non ci credo. Non credo che avresti resistito a lungo alla tentazione di avermi. E di avermi, per la prima volta, nel pieno che ti sei vietato (e te ne sono stata riconoscente, almeno nei primi tempi del matrimonio) quando avresti potuto approfittare dei miei momenti di ...” Riempìti, in imo corde, quei puntini di reticenza, replicai, deciso: “Donna di poca fede: se mi frenai allora, con sofferenza, perché non ne sarei stato capace dopo?” La risposta fu pepata (e del tutto meritata): “Non facciamo gli ingenui. Allora, ti sei proibito quello che per il nostro ambiente e la nostra morale sarebbe stato un crimine, o poco meno (secondo tuo giudicare severo, o soltanto onesto). Rompere un...” – “Imene?” – esplicitai, riempiendo quei puntini (ma forse lei avrebbe usato una metafora). “Sì, è vero. Ma quella barriera proteggeva il tuo avvenire, la pace delle nostre famiglie, l’avvenire di mio figlio…” “E quant’altro, va bene. Ma dopo, nessuno sbarramento, solo un velo di correttezza parentale avrebbe ostacolato le vie del... Signore.” – Una battuta felice. “Sei diventata più arguta. Il Signore di cui parli, certo mi avrebbe tentato più del Diavolo nel deserto con l’Altro. Ma io insisto sull’onestà delle mie intenzioni.” “E chi ne dubita? E’ di te, e di me, che dubitavo. E dubito: troppo fuoco, in entrambi. Troppo inclini a subire il Signore!” “Ma io rispetto la parentela, ti giuro, per me è sacra”. E via ipotizzando. Nel caotico guazzabuglio di sensi sentimenti e pentimenti.
*
Postille d’obbligo. Anche se ripetitive, in parte. Sto rievocando o costruendo? Nell’Agenda-diario non c’è un solo appunto, un minimo spunto per la narrazione sopra espansa: sarebbe la memoria, questo serbatoio bucherellato, a rifornire di materia grezza la pulita ri-costruzione? Dubitiamone. Forse sto confondendo e mescolando sogno e realtà. Le stesse frasi attribuite a Susanna e a me, non hanno supporti scritti, né sospetti mnestici inespressi. Falsi, allora, tutti i fatti e le parole, i ricordi, così verdi, registrati sopra? Non del tutto. Anzi, no senz’altro, nella sostanza. Al narratore spetta la drammatizzazione narrativa, ma, nel sunto e nell’assunto, la verità c’è: che sia stata detta e confessata in dispiegato discorrere o soltanto allusa e accennata in più sobrio dire e ciacolare , che importa?
Quanto agli appunti assenti, ripeto, non mi capàcito: potrei magari averli scritti in fogli a parte, e nascosti in posti che non ricordo più. E’ capitato altre volte, magari per faccende simili, insomma d’amore. A cominciare da quando, scapolo e pimpante, avevo il pudore di nascondere le mie confidenze diaristiche ai genitori. Anzi, sostanzialmente a mio padre: l’unico che si piccasse di leggere (qualunque cosa fosse in disponibile attesa casalinga, o in distratta esposizione a rischio: giornali, libri, lettere, appunti personali...). Niente male per un calzolaio.

Aveva avuto due parti cesarei, Susanna. I medici l’avevano ammonita contro un eventuale terzo (inevitabile, in caso di nuova gravidanza). E aveva subito anche un intervento alla tiroide, per certe cisti da asportare senza perdere tempo. Mi mostrò l’appena visibile collarino della cicatrice, sulla quale si spostava una collanina d’oro bianco con il nervosismo dei suoi moti sempre scattanti. – “Non sei cambiata poi tanto.” – “Ma sì che lo sono, e non poco. Ho assaggiato la vita adulta, e ne ho già trangugiato i primi calici amari.” “Dicevo dei tuoi movimenti a scatti, della tua parlantina vibrata, delle tue intuibili insofferenze...” “Ah, in questo sì: certi connotati non si cambiano. Non eri tu che ci insegnavi l’immutabilità dei cromosomi e l’inappellabilità (dicevi così, no?) del Dittatore interno, cioè del Dna?” Ero io. Io, il docente e l’amico. Sempre disponibile a onorare sua maestà genomica. E non avevo ancora sperimentato tutta la potenza di quel dittatore dai diktat perentori. Così spesso crudeli.
Non ho ancora parlato della bellezza di Susy. Dire che era intatta, forse, è esagerato. Ma è pura verità confessare la mia piacevole sorpresa nel costatarne il quasi. Così lieve, così rispettoso dei cari tratti, delle “divine” proporzioni. Era sempre lei, la bellissima: di fronte naso occhi zigomi guance labbra mento corpo sempre snello, sempre da ragazza, sempre colmo e sodo nelle eminenze giuste (dove, i segni delle gravidanze?).

*
Pausa narrativa. Frugando nell’Agenda-diario del settimo anno leggo un cenno grassottello a Susanna sulla pagina del 23 luglio (cioè, del mese precedente quello qui appena rievocato). Naturalmente, abitavo, ormai da quattro anni rientrato, nella sicanica Akiskene. Lo trascrivo di seguito.

“Continua il caldo micidiale: bisogna stare a casa a torso nudo. La sera è particolarmente gradevole oziare al fresco nel modesto cortile. A volte leggo, più o meno a lungo, sdraiato sopra la sdraio rossa che conobbe altri pesi e... più gloriose imprese (oh, l’estate del 196...!) rievocate in questi giorni di canicola attraverso quaderni-diario di quegli anni e mesi. E centralmente di quell’estate ricolma, che scintilla ancora di fuoco vivo nelle oniriche fantasie e nostalgie. Ah, Saiana [così chiamavo nel diario la Susy dei ricorrenti ricordi e sogni] ninfa lontana, che desti soffio d’anima alla sfiduciata pochezza di questo ossario poco in carne (oggi rimpolpato fino a una petulante epetta, distrattamente osteggiata dal signor neopallio). Ah, Saiana, che l’anno scorso chiedesti di me, mi cercasti sotto il caldo cielo azzurro di Zefiria. Per quale curiosità legittima e puntuta? Che faccia faresti, rivedendomi? Come sei tu, fuori e dentro? Il tuo viso, sarà ancora bellissimo? E come calerebbero gli anni e i figli tra noi?”
*
I calici amari di Susy non erano stati soltanto i due parti taglia-ventre, la pulizia della tiroide, un po’ di “nevrosi cardiaca” e altri disturbi organici. C’era di peggio: c’era, ripetiamo, la separazione dal marito. Ossia il lungo calvario di liti e contrasti che aveva portato alla rottura. Inevitabile, secondo lei, a difesa della salute delle bambine, che avevano cominciato a tremare alla vista del padre, il cui ritorno a casa s’era trasformato in incubo per entrambe. E la maggiore, Sonia, era avviata a un’incipiente anoressia mentale. Quindi, decisione drastica e distacco. Il padre vedeva le bambine poche ore al mese, e loro non trillavano di gioia ad ogni approssimarsi dell’incontro disposto dal giudice.
A illuminare il carattere del professore geloso, Susy raccontò qualche episodio gustoso. Eccone uno. Erano ospiti della madre di lui, nella paterna casa di campagna. La signora, gentilmente, mise a disposizione della coppia la sua camera, con tanto di ovvio letto matrimoniale. Il figlio vibratamente respinse l’offerta e, alla moglie interdetta, spiegò: “Non voglio contaminare il letto di mia madre. Per me è sacro.” Lei, naturalmente, reagì comme il faut. “Contaminare? E chi sono io, per contaminare? Sono forse la tua sgualdrina da spasso? Che mi hai trovato sulla strada?” E via di questo passo, con botte e risposte sul sacro e il profano, l’immacolata concezione e la pura e semplice moglie legale. Fino alla partenza dalla casa ospitale, imposta da un’infuriata Susanna, con tante scuse alla suocera e tanto disappunto della stessa, impotente contro un figlio così maldestramente repleto di contorta pietas filiale. Le bambine non erano ancora venute al mondo. O forse c’era soltanto Sonia, non ricordo bene, da poco arrivata in questa vallis lacrimarum.
Intanto bisognava fissare l’appuntamento per l’incontro con mia moglie. Noi eravamo (l’ho già detto?) ospiti di suo fratello: e lui stesso concordò il giorno con Susy, e anche l’ora. Dopo avere telefonato alla sorella (suppongo). Io tremavo al pensiero di quell’incontro: sapevo che Rina non sarebbe stata accomodante come me. Che cosa succederà? – mi chiedevo, con poche illusioni sul difficile irenismo della Severina moglie detta Rina. Come reagirà la Risentita?
Lo seppi presto. Per cominciare, l’Amica Offesa fece fare anticamera a una vieppiù emozionata Susy, prendendosi tutto il tempo giusto e di più per “farsi presentabile” (come se fosse credibile una simile scusa, per un incontro programmato al cronometro!). E nel frattempo, siccome Rina aveva risparmiato alla scalpitante curiosità della cognata sulla rara bellezza in arrivo ogni superflua sofferenza, Susy aveva avuto modo di farne la non meno attesa conoscenza. Non solo: quando la cognata si assentò dall’ampio ballatoio nel suo appartamento (certamente per “incoraggiare” Rina a presentarsi) e il marito rimase con noi, quella mattocchia senza freni scaricò addosso al cognato allibito tutta la sua delusa sorpresa per così poco vistoso acquisto.
“Tutto qui? Per un fusto come voi? Mi aspettavo una vatussa...!”
“Che c’entra. Ma è carina, no?” – Il poveraccio si scoprì disarmato. Magari non s’aspettava tanta sfacciataggine. Aveva dimenticato il temperamento di Susy. La quale, a sua volta, pareva aver buttato in un rigenerante dimenticatoio tutti i guai del settennio ed essere tornata quella ragazza spontanea reattiva e linguacciuta che aveva movimentato la mia vita professionale al magistrale di Zefiria. Ebbe forse remore, quella Tascia potenziata, quella Bersagliera calzata, nel rispondere con una scintillante smorfia della splendida bocca e un dondolio della bella testa alla patetica domanda del cognato? Quel dondolio di testa, quel serpeggiare di labbra assistiti dal lampeggiare degli occhi d’ambra dicevano chiaro: Carina? sì e no, così così, mica da farci una festa. E roba simile. Povero cognato sciupafemmine, ridotto ad essere commiserato da una bella donna come marito che ha scelto male (una bella donna che benissimo sarebbe stata al suo fianco da scultura greca!). E che mal nascondeva il suo imbarazzo crescente fin quasi al rossore. E dàgli con la vatussa. Credo che la cognata abbia sentito. Avevamo scoperto presto, noi parenti stretti, che tra i non pochi doni del cielo cromosomico la cognata mignon aveva anche il vizio di stare ad origliare, di sorprendere, variamente nascosta, conversazioni che potessero riguardare lei (o anche no, ma di pura curiosità). Fatto sta che non ci fu mai gran simpatia fra Susy e Luisa. Che, pour cause, tentò di trovare difetti perfino nella perfetta struttura dentaria di Susy: una bestemmia estetica, da carenze visive gravi. E perciò, in parte, e malanimo a parte, scusabile.
Giurerei, tra l’altro, su un pensierino segreto di Susy, cui non era stato certo discaro il “composto” Salvo Catania: bello di volto, occhi verdi di lungo taglio e luce intelligente, fossetta al mento (lo so, mi ripeto, ma continuo), corporatura atletica: alto sopra il metro e ottanta, torso ben sagomato e culturista da palestra domestica. Aggiungi: ex campione invitto nel “braccio di ferro”, per tutta l’adolescenza-giovinezza, con una ripresa dopo la laurea e durante il servizio militare da ufficiale di complemento. Nessun commilitone lo batté mai, e solo un altro ufficiale gli teneva testa con pareggi sfibranti per entrambi. Che pensieri aveva ispirato a Susy, quando, per rari accidenti, la incontrava in casa mia per le famose lezioni? Probabilmente, del genere: fosse stato lui, anziché il modesto assemblaggio osteo-muscolare sottoscritto, il suo professore in love!
Arrivò finalmente la tanto attesa Rina. E fu come avevo temuto. Allo slancio oblivioso e cancellante di Susy, che le era corsa incontro a braccia aperte, rispose un secco e distante “come stai?” a braccio teso. Una scenetta drammatica esplose improvvisa su quella ribalta tranchant. Susy scappò all’estremo angolo del ballatoio e si sciolse in un silenzioso pianto; la cognata la raggiunse a consolarla, Rina se ne stette dov’era, a ciglio asciutto, decisa a infierire e chiarire. Aveva aspettato sette lunghi anni per questa occasione. Insomma, la Severina dal nomen omen (vanamente accorciato in Rina) non si smentiva neanche in questa occasione magna: quell’ingrata meritava una lezione e lei, severa in Giustizia, gliela dava. Ecco tutto. Mentre le mie viscere soffrivano contratte.
Luisa, improbabile angelo consolatore, fece del suo meglio per spiegare le ragioni di Rina: aveva sofferto tanto, poverina, per quel suo distacco, s’era vista tradita (e, Cristo, se lo era); lei glielo aveva raccontato, che aveva trattato Susy come una sorella, e Susy l’aveva ingannata promettendo di tornare e rinviando sempre. Fino a che era giunta la sua “partecipazione” matrimoniale. Susy capiva, ma lei avrebbe spiegato, avrebbe convinto Rina che era stato meglio per tutti quel distacco crudele. Anche Susy aveva atteso sette anni l’occasione di quel chiarimento, ma lei, Rina, non gliene dava modo, ora, reagendo così freddamente.
E io, il motore ultra-colpevole di tanto dramma, che facevo, io, quando si svolgevano questi fatti e disfatti? Tra ricordo e integrazione di fantasia, posso racimolare, certo, un gruzzoletto di frammenti buoni per una visione globale corretta, ma non per un inventario di dettagli rifiniti. Per mesi ho cercato l’Agenda-diario di quell’anno, convinto che fosse ricca di racconti e particolari. Ma quando l’ho ritrovata, nascosta nel vano dietro il cassetto che la conteneva, dov’era scivolata, la gioia del ritrovamento è scoppiata come una bolla di sapone iridata: l’ho già detto e ripetuto, quelle pagine vanamente agognate offrono soltanto cenni cifrati e mezze frasi in inglese o tedesco. Né gli ipotizzati resoconti alternativi sono mai venuti alla luce. Forse un pigro gioco di rinvii ha fatto mancare lo sviluppo narrativo di quell’evento così incisivo nella mia poco brillante biografia. E ancora un forse: non è escluso che nei rinvii, verosimilmente appesi alla speranza di un tempo libero maggiore, abbiano giocato i miei impegni di testa, non lievi nell’estensione tra scuola e “libera” attività cultural-pubblicistica. Come che sia andata, oggi mi tocca ricostruire alla bell’e meglio. Ci sono, però, le lettere scambiateci dopo la sua prima e seconda partenza da Zefiria, e sono un buon surrogato e un valido soccorso al servizo della verità sostanziale. Offrono, infatti, prezioso materiale, spesso drammatico, del seguito.
*
Intanto riportiamoci su quel ballatoio dove si svolgeva il piccolo dramma dell’incontro tra le due amiche “sette anni dopo“. Mi accostai anche io a Susy, confinata in quell’angolo curvo che completava il ballatoio, in auto-esclusione punitiva. E sciorinai parole: sì, aveva sofferto tanto Rina, bisognava capirla. Se tu hai una buona spiegazione per il tuo comportamento, capirà, vedrai. Dalle tempo. Piangeva, Susy. E quelle lacrime mi erano quasi care: non erano segno di sensibilità? Non erano, anche, la mia piccola, veniale vendetta di quelle che non versai per virile pudore ma ingoiai, per mesi, giorno dopo giorno? Non ero stato un rinunciatario, io, in quel settennio, e la terapia del chiodo scaccia chiodo non mi era stata estranea; ma ora, di fronte alla Susy ritrovata, sia pure in chiave di casta amicizia (ma chi poteva sapere, poi?) avrei asciugato quel viso in lacrime bevendole come divino liquore. Né questo vuol dire che mi sfuggisse, in quel pianto, l’ira di Susy per la mortificazione che subiva. Una componente indubitabile, quell’irritazione. Feci, comunque, doverosa spola tra quei due poli carichi di tensione. Insieme alla cognata. E al cognato, anche lui movimentato in quella sceneggiata reale. Sopra quel palcoscenico ricco di memorie.
Dopo un ragionevole intervallo di interventi e tentativi, infine, la pace avvenne. La pace o la tregua. Fatto sta: le due “sorelle separate” (da quel numero sette, così carico di rimandi storici, filosofici, antropologici, poi!), assistite dai presenti, si avvicinarono, si baciarono. E poi si allontanarono insieme, scesero in giardino, a parlare liberamente, passeggiando. Io guardavo da quell’ampia balconata-ballatoio del primo piano. Che si stavano dicendo? Anzi: che cosa stava dicendo e rivelando, Susy, a Rina dei nostri rapporti? L’ansia mi agitava. L’intera verità era esclusa, non c’erano dubbi su questo, ma i frammenti della parziale quali erano, quali sarebbero stati? L’interrogativo pungeva sotto il diaframma. Non era possibile che Susy si lasciasse sfuggire una parola di troppo? Un cenno sfocato verso l’impegno di evitare il peggio, di salvare un rapporto ritrovato dopo lunga quaresima di multiple lontananze? Dubbi, timori, esitazioni inframezzavano i futili discorsi che si consumavano sopra, fra noi tre (io e i miei cognati), ridotti a testimoni e mediatori ormai usati, non più attivi, che stavamo ad attendere l’esito di quelle privatissime confidenze. Un po’ seduti, un po’ affacciati da quella balconata, seguivamo, senza udire le distinte parole, le due amiche che passeggiavano, sciolte, nei primi minuti, poi tenendosi sotto braccio, sui viali del giardinetto sottostante. I volti di Susy e Rina mutavano espressioni e colori, ma non sembravano avviati a cambiamenti drammatici. La “cosa” andava chiarendosi pacatamente, la sintassi emozionale di Susy scorreva dentro argini coerenti con il fine: salvare la ritrovata amicizia, ancora fragile, a costo di rimozioni e omissioni, di mezze verità e sincere esternazioni di sofferenza al risveglio di quei lontani trascorsi. Così parevano indicare i segnali dello svolgimento in corso. Ma non potrei dire che mi garantissero una cinetica viscerale atarassica: il “senso del possibile”, implicito nel temperamento e sviluppato dalle frequentazioni filosofiche, stava sempre lì, a suonare, di tanto in tanto, note di allarme (pencolando, nei fatti personali invasivi, tra Kierkegaard e Abbagnano, più sul primo che verso il secondo).
A proposito: chi, delle due personcine pacificate, aveva preso l’iniziativa di infilare il braccio sotto quello dell’altra? Conoscendo Rina, e Susy, non mi sono permessi dubbi: era stata Susy.
*
Prendemmo a frequentarci. Ma non ricordo molto di quegli incontri: tre o quattro si sono fissati meglio, non potrei garantirne, però, una cronologia sicura. Nel vago, si affollano memorie di spiaggia. In quello stesso nostro soggiorno magnogreco, sempre ospiti dei cognati, più volte concordammo incontri di famiglia sulla grande spiaggia dorata di Zefiria, a rendere memorabile quell’estate di fuoco. Susy e i suoi raggiungevano il mare a piedi, noi con la Giulia di Salvo, dal paese vicino. Il noi significa io, Rina, il fratello con la moglie, i miei bambini (Giampiero, ormai undicenne, e la nuova arrivata, Manuela, di cinque anni e mezzo). Susanna portava con sé le sue piccole: Sonia, sui quattro anni e mezzo, e Claudia, un anno e mezzo; la sorella minore di Susy, Tina, badava alla più piccola delle nipoti, quando Susy faceva il bagno. Tina, ormai ventunenne, s’era fatta ancora più bella e desiderabile, in quei sette anni di “assenza”. Ma non aveva la perfezione plastica della sorella maggiore. Di Susy, voglio dire. La quale toccava quell’anno l’età che aveva Rina in quel fervido tempo di amicizia fitta: il fatidico numero sette si infilava tra loro in duplice modalità: come differenza di età e come cuneo di Crono fra l’arrivederci fallito e questo ritrovarsi alquanto mosso. Un cuneo nero di black out assoluto, cresciuto in eventi ignoti, generava una curiosità ascendente, da entrambe le sponde del lungo ponte.
*
In uno di questi incontri era presente mio padre. Quando lo presentai a Susy, quella revenante di una sbarazzina lo mise in difficoltà con poco sobri complimenti per la sua bella presenza. Papà, poco esperto di rapporti sociali con giovani donne, e, più in generale, con donne extra moenia, fu piuttosto imbarazzato nel ringraziare, nel minimizzare, che la signora esagerava per generosità, e via protestando. Ma lei, la birbantella, confermava, insisteva, prospettava nuovi incontri col simpatico signore baffuto. Magari in un suo eventuale viaggio nella Sicania bella. Sotto sotto, io, pur compiaciuto per i riconoscimenti di una realtà innegabile e così prossima, ci sentivo una sorta di provocazione verso di me: manifestamente, io non ero così gradevole, in viso et in corpore, come il laudato genitore. Che era più alto, almeno sette-otto centimetri, più robusto, di molto (ossa larghe, polsi grandi e mani ancora più grandi e forti, da battere un Gianni Morandi), più regolare di viso, anche se con naso non meno “presente” del mio (però, più stabile e meno dilatabile in pinnuti sorrisi e risate). Era come se mi dicesse: tuo padre è più appetibile di te, gran cervello in corpo economico. Gran cervello, poi, o cervello ingombro di troppo varie nozioni e culturale disordine? Ma questo, lei, non poteva saperlo. Ero, netto, un pozzo di scienza e sapienza (magari non proprio innocente).
Da un canto. Dall’altro sentivo un lento brivido di solidarietà filiale che sfumava in pacato diletto: come se la prevalenza fisica di papà riverberasse un po’sulla mia inferiorità coprendola, mascherandola, riscattandola. Stranezze dell’ambivalenza affettiva filiale.
Insomma, si trascorsero ore serene in quell’estate “del settimo anno”. Susy narrava i suoi guai di salute, piuttosto insistenti, e la sua esperienza matrimoniale, alquanto agitata. Fino alla già detta rottura legale col marito, ancora in corso (anche se, augurabilmente, per lei e figlie, di non impossibile ricomposizione futura, forse non lontana). Ci parlava delle bambine, delle loro difficoltà di crescita in una casa e famiglia così poco “normale”; dei due parti cesarei e dell’improponibilità di altre gestazioni, pena un eventuale terzo cesareo (che sarebbe stato ad alto rischio). Ci toccava con le sue sofferenze, e faceva ripetere a Rina un suo vecchio topos della saggezza popolare più amara (già ricordato in queste pagine): “bella e sfortunata”. Così, e, non ma: quasi a saldare fatalmente bellezza e sventura. Né sapevamo ancora quanto quel distillato della lucidità naïve fosse applicabile al caso.
A spreco di capoverso: quale grado di sincerità riconoscere al mio augurio che la frattura matrimoniale di Susy potesse sanarsi? Dovrò cercare un dispositivo di misurazione attendibile. Che al momento mi sfugge.
Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère!
*
Ma che cosa s’erano dette, Susy e Rina, in quel loro fitto, lungo conversare sui mini-viali fioriti del suggestivo giardinetto e nell’avanzante coucher de soleil? Lungo e fitto, non solo, anche con tutte le apparenze di una progressione appassionta. Quanto aveva rivelato, la prudente Susanna, e quanto aveva taciuto? Rina parlava poco e, nel succedaneo relazionare, lasciava assetate le mie domande. Al massimo, mi provocava con frasi monche e severe, tipo: mi ha solo fatto capire quanto sei stato sleale verso di me. Mi ha confessato che eri importuno verso di lei. Mi ha detto che era dispiaciuta per il tuo sbandamento sentimentale, e che ti sopportava perché le eri utile a scuola. E simili stilettate. Intuivo che quei grani di verità contenuti nelle risposte sadichette di Rina non erano tutta la verità raccontata da Susy; ma si capiva che le sottrazioni erano state copiose e largamente previdenti. Finalmente, un pomeriggio che io potei recarmi a Zefiria solo con la bambina, riuscii a sentire dalla bocca di Susy il quanto e il come delle sue confessioni. Lei aveva rivelato la mia cotta e la sua sensibilità verso i miei sentimenti; non aveva nascosto la sofferenza che le procurava la sua posizione nei rapporti con Rina; ma soprattutto aveva insistito, con giuramenti e ammirazione per me, che io non avevo tentato “mai gesti sconvenienti”, che mi ero appagato di baci e furtive carezze, insomma, che ero stato “un signore”, e non il solito volgare “tentatore autorevole” o seduttore da strapazzo. Azzo!
Già quanto ho appena riassunto sarebbe bastato a giustificare la fuga fraterno-apuliese di Susanna; ma lei disse di più. Lei aggiunse un argomento, a suo giudizio, perentorio, rivelò il mio progetto di farle sposare un cugino di Rina. Con quale obbiettivo? Io avevo detto: solo per il piacere di averla vicina, introducendola nella famiglia: nessun pensiero segreto, nessuna maliziosa speranza. Ma chi poteva dire mai? A questo punto, lei, Susanna, s’era spaventata. E aveva, tra tentennamenti ed esitazioni, deciso quell’amara interruzione di contatti. Certo, si poteva obbiettare che il problema, pure imbarazzante, si sarebbe potuto affrontare diversamente, senza fratture e rotture. Ma lei avrebbe alzato a sua difesa la temperatura della materia, in quei giorni di sette anni prima: troppo scottante, per poterla anche solo sfiorare senza imprevedibili effetti collaterali. Le sarebbe sembrato un tradimento nei miei confronti. Anche questo era affiorato nella conversazione di quel pomeriggio tra loro due: Rina non le aveva risparmiato l’obbiezione possibile, e Susy aveva dovuto ammettere la sua “viltà”, e chiedere scusa, comprensione, perdono. Ormai in aura proto-irenica, Rina aveva accettato quelle spiegazioni e giustificazioni (magari con non piena convinzione) e chiuso la faccenda. Anche perché, ne sono certo, sperava in chissà quali altri, e meno vaghi, magari più piccanti, particolari sugli effettivi rapporti e contatti fra Susy e me. Dunque, il suo era, forse, piuttosto un problematico armistizio che un trattato di pace. Le vie del Signore, si sa, sono infinite. E si sapeva pure, da quelle parti, che il marito non era tipo da casti bacetti soltanto. Una cosa, certamente, Rina escludeva dall’ampio campionario dei contatti possibili tra i due modesti peccatori: il rapporto completo. Su quel punto giuramenti di Susy e discrezione mia convergevano perfettamente a saldo di verità provata.
*
Nei poco frequenti casi in cui, per qualche minuto, rimanevamo soli, o almeno vicini e distanziati dagli altri, tra Susy e me scorrevano parole più intime. In una di queste occasioni volle lusingarmi confessandomi che io ero rimasto sempre dentro di lei, che le mie parole le risuonavano nella memoria nei momenti più incisivi della sua vita, che spesso trovava in esse consigli e conforto. La prova magna di questa situazione affettiva, secondo lei, era la sua scelta matrimoniale: era un caso che avesse sposato un professore? Di materie umanistiche, poi. No, non era un caso. Qualcosa di quell’esperienza aveva lavorato a favore di questa scelta. Voleva che lo credessi, senza storcimenti di bocca ed esitazioni scettiche. E sia. Anche se, visto il risultato, c’era poco da congratularsi. Con lei e con la sua memoria affettiva.
Non so se nella stessa, o in altra occasione (né sono sicuro che questa sia stata la prima), Susanna mi rinfacciò la mia Manuela come anti-prova del mio amore presunto e preteso sempre fiammeggiante. Io, sprovveduto, avevo obbiettato che non poteva pretendere la sospensione sine die dei miei rapporti coniugali con Rina. Lei, sfumando un sorriso saputello, aveva replicato che non questo ella pretendeva (come avrebbe potuto?), ma la rinuncia a una nuova creatura. Chiariva, la dotta: un figlio, e massime una figlia (nel mio caso), è un legame troppo forte fra due persone. Troppo, cioè abbastanza per poter credere che in una delle due, insomma in me, non ci sia stato più tanto amore verso l’altra. Troppo, detto altrimenti, per credere che la persona-moglie fosse stata realmente e largamente soppiantata da una persona-terza, sia pure intrusa.
Per me, col mio scarso bagaglio cognitivo specifico, queste erano soltanto cervellotiche complicazioni di sensibilità uterine. Ma riflettendoci, nei giorni successivi, mi pareva sempre più di capire che qualcosa di “logico” ci fosse in quelle sottigliezze. Un figlio si fa in due, e si dovrebbe farlo solo quando entrambi si sia fortemente motivati. Cioè, affettivamente legati quanto basta a un impegno così pesante. Non lo eravamo, forse, io e Rina? Susanna ne trovava la prova, appunto, in Manuela. E lei? cos’era stata, o cos’era ancora lei, Susy, per me? Lei era l’extra eccellente  e qui il pensiero torna mio  il frutto proibito che assommava qualità rare e plurali: estetiche, erotiche, sensuali, auto–promozionali. Altrettanti meriti per un’approssimativa traduzione reale dei miei lontani pruriti di velleitario esteta decadente. Ne ero stato lusingato, confortato contro i miei cedimenti, preso fino al tormento, e quella presa tornava a stringere, ora, dopo quei sette anni; ma non escludeva Rina, né, tanto meno, la bambina, il mio nuovo grande amore. Di padre, avanti a tutto, ma anche di amante deluso, bisognoso di consolazione. Sapeva, Susy, quanto mi avesse aiutato, la piccola, nei lunghi anni della sua cancellazione totale dal (mio) “mondo dei corpi”? Nell’interminabile sequela di mesi e giorni e notti, della sua soltanto fantasmatica insidenza, così frequentemente onirica? Che colpa mi rinfacciava dunque? Ma lei scuoteva la testa, mezzo convinta e mezzo incredula; comprensiva verso le mie esigenze di auto-difesa, per la smania del mio corpo deprivato bruscamente, ma tenace nella rivendicazione di quella scoperta: il mio grande amore per lei non era stato così grande da escludere quel nuovo, vischioso, anzi tenacissimo legame tra me e Rina. Una limitazione intrinseca ne limava la piena compattezza, e la bambina ne costituiva la prova provata.
Ma, in fondo, lei sapeva di questo limite “strutturale”: le avevo forse mai proposto fughe e sconvolgimenti familiari? Avevo mai approfittato della sua debolezza di ragazza tentata? Mai. E non era, tutto questo calvario di rinunce e riduzioni, l’identità “ragionevole” del mio amore per lei? O dobbiamo usare altro sostantivo? Amore, attrazione, trasporto, passione: chiamalo come vuoi, la sua misura è nella sofferenza profonda che il suo abbandono mi aveva procurato sette anni avanti e per uno strascico lungo di mesi e mesi. Plumbei giorni, quelli, raccolti in un bouquet penitenziale. Non era stato facile svezzarmi di lei, dei nostri contatti quasi quotidiani. E forse non mi sono svezzato mai del tutto. Ma che forse, certamente che no. Infine, si fanno troppe chiacchiere da psicologi in talk show: dove sta scritto che non si possa amare due persone insieme? Massime se le due attrazioni si distinguono abbastanza. Nel mio caso, l’affetto-attrazione per Rina era il mare in bonaccia che di tanto in tanto s’increspa per fisiologico levarsi del vento; la fame sensuale per Susy, una febbre che di tanto in tanto si riposava per fisiologico recupero di forze. Nemmeno ho potuto scrivere calava! (Ma quella parola, “febbre”, così abusata!).
*
Un’altra occasione di misurare la – come dire? – diffidenza, di Susanna verso la piccola Manuela si ebbe un pomeriggio (ah, come vorrei poter ricordare quale, di quale giorno e mese, l’anno essendo certamente il settimo dalla sua eclissi) nel quale ci incontrammo io, Susy e la mia bambina. Susanna era seduta davanti all’ingresso dell’ormai unico cinema conservato in gestione dallo zio paterno. Sola, senza le sue figliuole, lasciate con la madre (forse aspettando proprio loro). La piccola non mi dette neppure il tempo di finire una frase di circostanza rivolta a Susy: cominciò a tirarmi via, come se stringesse lei, nella sua manina-tenaglia, la mia mano, che in realtà copriva e imprigionava la sua. Resistevo, tentando, con dolci paroline e rassicuranti sorrisi, di farle accettare “a tempo” quella presenza femminile estranea e conturbante. Niente da fare, insistette con la ferma determinazione di un’adulta consapevole, guardando lontano da quella donna, che vanamente tentava di farsi accettare, chiamandola per nome, sorridendole, rivolgendole parole invitanti e promesse di doni. Niente, non c’era verso. La piccola continuava a non guardare Susy, e maturava visibilmente una tentazione di pianto come estrema risorsa di autodifesa pronta a scattare. Dovetti arrendermi dopo pochi minuti per evitarle incongrue sofferenze. E Susy non seppe fare di meglio che accusarmi di viziarla, di farne una piccola prepotente. Aveva cinque anni e mezzo, Manuela. O poco più.
Cioè, Susanna, poco riflessiva e molto impulsiva, si accollò il torto di mostrarsi non tanto sensibile alla mia passione per la nuova padroncina. La quale era manifestamente gelosa dell’estranea, chissà, oscuramente (ma dico bene?) percepita come un pericolo per il suo feeling esclusivo col padre. O meglio: con babbo e mamma. Forse una mia espressione le aveva accentuato lo spontaneo moto di femminile gelosia precoce. Manuela era la bambina nota nella parentela per la sua stranissima gelosia verso le donne, anche solo dipinte. Tutte le volte che appariva sullo schermo la bella faccia di Maria Grazia Pichetti, Manuela si metteva fra me e il televisore, e copriva il video. La rivedo, così piccola, le braccine tese e il busto addossato al tubo catodico, fissa in quella posizione fino a che non scompariva la “presentatrice occhi belli”. Dev’essere proprio vero che le bambine non hanno bisogno di aspettare gli ormoni della pubertà per avvertire emozioni squisitamente femminili. E infatti, non era gelosa dei maschi che capitassero vicino a me. Con Susanna la spinta di ripulsa dovette essere più forte. E precisamente tutta la sua piccola forza, che pareva moltiplicarsi nello sforzo, lei mise nell’impegno di allontanarmi dalla pericolosa concorrente. Così dovetti mostrarmi arrendevole verso la mini-despota davanti allo sguardo più temibile del mio piccolo mondo evasivo. Decisamente, la mia reginetta non poteva riuscire simpatica a Susy. Troppo viziata, troppo capricciosa. A suo non imparziale dire e insinuare. O troppo “prova” della capacità di sopravvivenza del sottoscritto mutilato della splendida Susy? Fu veramente strana questa scintilla di antipatia scoppiata, e diventata ferma corrente, tra una bambina di cinque anni e mezzo e una giovane signora ventisettenne, gelose l’una dell’altra.

Preda contesa fra due sensibilità sbilanciate, il mio povero io confuso non poteva intaccare con l’avversione dell’una l’attrazione per l’altra: continuava a volere bene a entrambe, ma col naturale penchant in favore della figlia. A Susanna perdonavo, con uno sforzo catalizzato dalla gioia del ritrovarsi, la sua troppo modesta inclinazione per Manuela; alla bambina moltiplicavo la tenerezza in ragione diretta della sua gelosa possessività esclusiva. Ma da quel pomeriggio evitai di farla incontrare con la temuta concorrente fuori dai nostri gruppi familiari.
La gioia appena rievocata, intanto, faceva il suo lavoro dentro il turbinio dei miei sensibilissimi neuroni. Ero di nuovo acceso di Susy, pieno di fermenti possibilistici, con nulla di preciso in corso di progettazione, ma con tanta agitazione vagamente ipotizzante. Avevo usato varie brevi occasioni di far sapere alla attuale signora Capretti e mamma di due graziose bambine che lei, per me, era tornata la vergine non “funesta”, no, ma pur sempre “rapinosa” di sette anni avanti. Anzi, che lei non era mai del tutto scomparsa dai miei ricordi emozionali più caldi, che era stata e continuava ad essere una presenza costantemente viva o reviviscente. Nonché una specie di paradigma e metro di giudizio per ogni altra bellezza femminile (e pupillare, in specie). Eccetera. Lei invitava alla saggezza della rinuncia e alla lealtà della ritrovata amicizia plurale: volevo che tradisse ancora Rina? Avevo sempre voglia di rispondere con un grosso sì gridato e risonante tutte le (poche) volte che ascoltavo l’ammiccante domandina da una Susy ambiguamente ironica e stuzzichevole.
Quante furono le opportunità di scambiarci poche parole intime di confidenze e domande? Non lo saprò più mai. E ancora non mi persuade la mancanza di un dettagliato diario. Stancamente vado ripetendomi: che si sia perduto? Che io l’abbia scritto fuori dai soliti fogli di quaderno, sostituiti, l’anno dopo la sua partenza, da agende scolastiche (omaggio di librai in cerca di adozioni dei “loro” testi di storia e filosofia), e non ricordi più di averlo fatto; e quei fogli siano andati smarriti, perduti, magari rubati, chissà come dove quando da chi? Non è impossibile: forse, per mia imprudenza di tutore involto in molti e divaricati impegni, mi sono stati sottratti e distrutti da qualche mano interessata? Ma non ho ragione di credere che Rina (fosse stata lei, la più indiziabile) mi avrebbe nascosto un’impresa simile. E poi: è plausibile che la mia memoria, bucherellata quanto si voglia, lo sia al punto da lasciarsi sfuggire così capitale documento? Non voglio crederlo: in fondo, mentre stendo, saltuariamente, queste note memoriali impegnate in faticose ricostruzioni di eventi troppo lontani, non ho smesso di sperare in un, forse improbabile ma non impossibile, ritrovamento di carte perdute. Magari in chissà quale mimetizzato cassetto di apparente insignificanza.

Nessun commento: