mercoledì 13 gennaio 2010

Susanna, frammento 53


Del resto, quanto mi risale alla memoria basta a riempire ancora decine di pagine. E comincio con il pezzo più caldo. Finita la nostra breve vacanza magnogreca, al momento dei commossi saluti, Susanna ci lasciò il suo indirizzo bresciano e il numero di telefono. Le scrissi, ci scrisse, anche Rina entrò nella corrispondenza. Poi il solito diavolo ci mise di traverso la sua torbida coda. Prima, ispirandomi una lettera incautamente affettuosa, con chiusa ancora più allusiva di lontani sentimenti immutati (forse le parole erano queste: “Con l’ardore di un tempo”). Poi la coda del diavolo spinse il marito separato di Susanna a carpire la mia lettera dalla cassetta postale di casa, leggerla e scatenare un putiferio.
Del quale avemmo ragguagli da un allarmatissimo sfogo epistolare di Susy che aprì un nuovo capitolo nel breve romanzo delle sue confessioni a Rina. Questa lettera è ancora viva, in tutti questi anni l’ho riletta non so più quante volte, ogni volta credo di avere aggiustato e aggiunto qualche piega alla sua interpretazione. E ora ne riferirò qui, con tutto il “campo dei possibili” sgombro da remore ed incertezze “confidenziali”. Ma ecco la lettera.

Carissima Rina,
certo sarai molto stupita, quando riceverai questa mia, dopo tanto silenzio! I motivi del silenzio sono stati molteplici, e non sto qui ad elencarli. Ti dico solo il più importante: sono stata molto malata, e solo ora, se non verranno complicazioni, mi sto rimettendo. Mi danno le forze le mie bambine, che, vedo, hanno tanto bisogno di me, in quanto troppo piccole.
Questa mia lunga malattia e il piccolo caos successo mi hanno fatto vedere chiaro e mi hanno spronato a dirti tutta la verità. Non si può basare una vera amicizia sulle menzogne o i sotterfugi. E’ appunto perché la mia amicizia con te è vera e sincera, che non mi va più di mentirti, con reticenze e mezze verità. Voglio che tu sappia l’intera verità su quello che è realmente successo sette anni fa. Mi perdoni il Professore, tuo marito, se vengo meno ai patti, ma prima o poi era inevitabile, e per la mia coscienza e perché quando scrivo a una persona verso la quale nutro tanto affetto e stima, lo possa fare senza sentirmi in colpa.
Quello che ti dissi quest’estate non era vero, i fatti sono diversi. Non so spiegarmi come o quando è successo. So soltanto che a diciotto anni, e non avendo la possibilità di frequentare altri ragazzi, si fa dei propri professori gli uomini ideali. Io, il mio ideale lo avevo visto in tuo marito, e la cotta venne anche per me, come per tante altre studentesse per questo o quel professore. Non so se fu vera cotta, so solo che mi serviva per essere aiutata a scuola a fare i miei comodi. Mi sentivo sicura, protetta. Quando poi tuo marito si fece avanti facendomi capire che non gli ero indifferente, cominciai ad avere paura di essere abbandonata a scuola, e di rompere l’amicizia che intanto avevo fatto con te. Così stetti al gioco. Gioco che non fu mai pericoloso, perché una cosa è certa: tra me e il professore non è mai successo nulla. Ripeto: eravamo in prossimità degli esami ed io non mi sentivo sicura, così, per essere certa della sua protezione, continuai il mio gioco. Non dimenticare che lui era il rappresentante dell’istituto per la mia classe (e un’altra): la condizione ideale per essere tutelata.
Non credere, però, che tutto questo durasse da molti anni: fu solo nell’ultimo anno, un quattro o cinque mesi. Quando tentai di avvelenarmi, poi, lo feci non perché ero folle, ma perché ero tanto insoddisfatta della mia vita, e mi ero messa in una situazione dalla quale non sapevo più come uscire. Non volevo rompere con te l’amicizia creatasi in tutti quei mesi di assidua frequentazione, ma nello stesso tempo non volevo continuare ad alimentare una situazione che era ormai insostenibile. La mano me la dette mio fratello quando mi invitò a Taranto per un breve soggiorno ospite della sua fidanzata. Se il professore non mi avesse fatta quella proposta, forse non avrei detto niente a nessuno dei miei, ma la prova che mi aspettava al ritorno mi lasciava sconcertata, e non potevo accondiscendere. Tuo marito mi aveva proposto il matrimonio con un tuo cugino, anche lui professore. Non potevo più accettare: il sottinteso di questa proposta mi spaventava. Lui diceva che sarebbe stato contento solo di potermi vedere e frequentare, senza secondi fini. Ma come si fa a non sospettare ben altre attese? Anche ammettendo tutta la sua sincerità.
Così avevo una ragione in più per non voler tornare a casa. E questa ragione, a sua volta, accresceva il mio desiderio di una vita diversa. Diversa, innanzitutto, da quella condotta a casa mia, dove la mentalità tanto ristretta dei miei non mi permetteva nemmeno di recarmi da un’amica. E questo mi spronava a prenderli in giro. Tuo marito serviva, inconsapevolmente, anche a soddisfare questo stupido bisogno di rivalsa verso quei genitori retrogradi. Oggi darei la vita per tornare indietro e ricominciare tutto da capo, anche a costo di non mettere più il naso fuori dalla finestra.
Così raccontai la verità a mio fratello, questa verità, come la sto raccontando a te. Volle naturalmente sapere se era successo qualcosa tra me e tuo marito. Il sospetto mi offendeva, non potevo accettarlo, né potrei ancora, perché la verità è che non è mai successo niente. Tuo marito avrebbe potuto approfittare di me, tanto io stavo al gioco, ma non si è mai comportato da mascalzone. Per questo motivo ho per lui, oggi più di prima, soltanto sentimenti di riconoscenza, e non riesco a giudicarlo che bene, e ad avere altro che stima per lui.
Ecco perché non tornai più a Zefiria, e dammi atto che solo così ho evitato chissà quali inconvenienti. Era l’unica soluzione da prendere, benché tanto dolorosa perché mi esponeva al tuo giudizio negativo. Ma ho preferito essere giudicata da te un’ingrata piuttosto che una traditrice. Quando ti ho rivista, quest’estate, non puoi immaginare la gioia. Pensavo che il professore mi avesse ormai dimenticata, e magari che ce l’avesse ancora un po’ con me, cosicché gli riuscisse più facile considerarmi solo un’ex alunna e una buona amica. E ancora una volta sono caduta nell’errore. Volevo che mi pensasse solo come un sogno, un bel sogno che ha avuto il suo naturale risveglio. Non potevo certo dirgli “professore vi ho preso in giro”. Inoltre, siccome ero ancora in una situazione di avere tanto bisogno di qualcuno, quando l’ho rivisto, a Zefiria, e mi ha chiesto se i miei sentimenti verso di lui erano ancora quelli di sette anni fa, non ho saputo dirgli che un po’ l’avevo ingannato, che non avevo mai sentito niente, che mi era soltanto servito. Così ho risposto di sì, pensando ancora che mi potesse essere d’aiuto per il concorso magistrale che dovevo affrontare. Quando poi sono venuta da te, non ho voluto creare altri malintesi, e ho detto a te quello che lui mi aveva suggerito di dire.
Così cominciò la mia corrispondenza con te. C’era quel sottinteso di mezze bugie e mezze verità, però, ricordati, quello che ti scrivevo era vero: sulla nostra amicizia non ho mai mentito. Oggi però sono tanto amara e delusa che non mi importa più di niente. Tuo marito mi ha scritto una sola volta, senza che io sapessi nulla; la sua lettera è andata in mano a mio marito, anzi ti dico chiaro che se l’è presa dalla cassetta della posta, con un gesto non proprio da gentiluomo. Evidentemente mi controllava, e così è successo il patatrac...Durante l’orribile scenata, non ho saputo mentirgli. E mi sono così accorta di amarlo! Come mai tutto d’un tratto? Perché, finché non conoscevo le sue reazioni anche su questo punto, non potevo capire bene che effetto mi avesse fatto l’idea di averlo perso realmente. Siccome è un uomo che su queste cose non transige, avere scoperto, della propria moglie, sia pure separata, quello che faceva, lo ha fatto inorridire. Ho detto la verità a lui, ma non mi ha creduta: i fatti, ha detto, dimostrano il contrario, e siccome la lettera era abbastanza affettuosa, era ovvio che non mi credesse. Inoltre il professore mi invitava a scrivergli presso la scuola dove insegna e questo l’ha autorizzato a pensare chissà cosa.
Ho letto nei suoi occhi la sofferenza, e mi sono maledetta tante di quelle volte che alla fine mi sono ammalata. Non ho speranza di riavere mio marito, e questo mi addolora molto di più perché è l’unica persona al mondo che ho amato e continuo ad amare. Evidentemente c’è qualche cosa in me di malefico, che fa allontanare tutte le persone alle quali sono, in un modo o nell’altro, legata.
Certo, è vero, agisco in una maniera da far paura al più grande farabutto che sia esistito sulla terra. Così mi sono decisa, mi sono allontanata da tutti, anche dai miei. Solo in questo modo, forse, posso acquistare la sicurezza di non fare più del male. Speriamo che sia una buona madre, almeno per le mie bambine, e quando saranno grandi, se vogliono andarsene dal padre, non le tratterrò: sarà stato questo il mio destino.
Certo che tutto liscio non poteva andare. Avrei dovuto, quest’estate, dire al professore la verità ma ho pensato: che male faccio? Io me ne torno a Brescia, lui in Sicania, e chi s’è visto s’è visto! E invece no: bisogna dire sempre la verità, ed avere il coraggio delle proprie azioni. Con questo, non ti dico altro, cara Rina, apprezza solo il coraggio che ho avuto nel dirti la verità e giudicami come mi merito.
Un abbraccio
Susanna

Segue una paginetta destinata direttamente a me.

Egregio Professore,
mi dispiace, ma dovevo farlo: era una spina che faceva sanguinare il mio cuore. Ora che finalmente mi sono liberata da questo peso, posso guardare in faccia con tutta la luce della sincerità le mie bambine. Sto pagando amaramente quello che ho combinato. Ho perso un uomo meraviglioso, e questo ormai dovrà essere il solo cruccio della mia rimanente esistenza. Non voglio altri pesi. Mi comprenda e non me ne voglia.
Con stima sincera, tanti saluti
Susanna.
*
Ed ora a noi due, lettera! (come disse un celebre personaggio di romanzo alla seducente Parigi vista da lontano – e dall’alto). Sei un testo abbastanza ghiotto per tentarmi a un esame minuzioso, già lampeggiante come ermeneutica polivalente. Praticamente, una “conquista” della mini-Parigi tentatrice. L’epistola, innanzitutto, è stata trascritta quasi com’è stata scritta (trentacinque anni fa, ricordiamocelo). Nel quasi s’annidano pochi interventi correttivi su sviste e approssimazioni sintattiche di ovvia distrazione o da fretta emozionata. Per il resto, lessico fraseggiare e piccole licenze logiche sono rimaste allo stato originale (stava per scapparmi di tasto un “verginale!”).
Veniamo ai contenuti. Il “tanto silenzio” assomma a poco più di un semestre dagli incontri estivi dell’anno prima. Della malattia, non è il caso di dubitare: un temperamento vibratile, con picchi di focosità esplosiva, facilmente induce disordini neurotici e somatizzazioni varie (nel suo caso, soprattutto cardiovascolari: il più sensibile distretto anatomico, già visitato dall’insidia sette anni prima). L’“intrigante” s’accampa nella pretesa di dire “tutta la verità”, perla dell’intero documento. Intriga la “presunzione” perché l’esame rivela ancora (come nella confessione orale a Rina dell’estate scorsa) verità intrecciate a rimozioni, silenzi, deformazioni di fatti e sentimenti. A volte sospettabilmente volute e coscienti, altre, seminconsapevoli e incoerenti. Dunque, “menzogne e sotterfugi” sono tutt’altro che assenti nel “rapporto” su “quello che è realmente successo sette anni fa”. Un accento di sincerità si coglie nella insistita professione-confessione di “amicizia vera” e del “tanto affetto e stima” per Rina. Ma la non meno evocata coscienza incline ai sensi di colpa non ha impedito a Susanna di sottrarre un bel po’ di realtà da quello che era “realmente successo sette anni” avanti. Non può essere vero neppure il “quanto ti dissi quest’estate non era vero.” I fatti erano stati, sì, “diversi”, ma non quanto e come pretende l’autrice della lettera, probabilmente dimentica, a tanti mesi di distanza, di alcune fasi delle sue parziali confessioni a Rina nel corso della memorabile (per me, almeno) passeggiata intorno al giardinetto di mia cognata. La precisazione correttiva accentua, suppongo, solamente quanto Susy aveva detto, ammettendo più francamente, nella lettera, la sua cotta di studentessa diciottenne per il professore idealizzato (complice, presunta, la mancanza di frequentazione con ragazzi e coetanei). Cotta precoce, stando alla confessione: “quando poi tuo marito si fece avanti...”. Ma ecco, subito dopo l’ammissione, un maldestro tentativo di minimizzare, alleggerire, quasi cancellare la troppo esplicita dichiarazione annegandola nel dubbio, intorbidandola della componente utilitaristica: “mi serviva per essere aiutata a scuola a fare i miei comodi”. Per Susanna le due cose, essere attratta e attendersi aiuto e protezione, mescolate insieme stridono in una specie di ossimoro che la imbarazza. La sua logica femminile tende alla dicotomia netta e cerca di eliminare la sofferenza ossimorica straziando una delle due componenti: “non so se fu vera cotta”. Peggio: dal dubbio a intrusioni inquinanti: “quando poi tuo marito si fece avanti, facendomi capire che non gli ero indifferente, cominciai ad avere paura, d’essere abbandonata a scuola e di rompere l’amicizia che avevo fatto con te. Così stetti al gioco”. Come dire: mi sentii in trappola, non mi rimaneva che stare al gioco. Cioè fingere interesse attrazione e via giocando? Gioco che per fortuna “non fu mai pericoloso”. E qui risplende il capolavoro della rimozione-sottrazione, quel rigo e mezzo sottolineato: “tra me e il professore non è mai successo nulla”. Nulla, i baci profondi senza numero? Nulla, gli abbracci, le strette soffocanti, furiose di inibizioni subite e mai accettate? Nulla, i mille contatti intimi dell’“ente” immanente-assaggiante con l’“essere” trascendente blindato dentro la severità “cattiva” del Super Ego raziocinante? Nulla, nulla, il moltiplicato diffondersi del petting su tutti gli spazi immuni dal rischio verginale e code eventuali? Spazi immuni? sì, ma con ripetuti scarti verso quei tête à tête tra lucida ghianda ed elastica porticina chiusa e delusa, che sfidavano le soglie del rischio assaggiante più esposto al dramma rottura. Stasera mi rileggerò quelle pagine, a rinfocolare la riaccesa nostalgia per quel nulla così pieno di essere, per quell’essere così bramato eppur mancato, ma tanto esplorato, percorso, frugato gustato a tutte le latitudini, pieghe, segreti, fuochi. Ut supra dictum est, toto corde et toto corpore.
Cara Susanna, mai donna fu così coinvolta e partecipe negli abbracci e ghiotti contorni. Mai, con me, così reattiva e vibratile, così multipla negli orgasmi, pur non “penetrati”. Altra inesattezza cubitale: “un quattro, cinque mesi” del solo “ultimo anno”, la nostra relazione? O bella smemorata, o deliziosa bugiarda. I miei quaderni testimoniano per un timido inizio di soli sguardi già al primo anno di magistrale, mi ti danno presente lungo tutto il secondo anno, per lasciare i picchi del divenire e del mezzo dramma a tutto il terzo anno. Non bastasse, tre lettere tue sono l’inconfutabilità assoluta di quanto appena letto nella tua lacunosa missiva confusa. Le ho ritrovate, con immensa emozione, qualche mese fa. Le avevo dimenticate, ne ignoravo, chissà da quanto ormai, l’esistenza, insomma si erano cancellate del tutto dalla memoria cosciente. Il ritrovamento lo considero un evento nella mia senilità avanzante e poco consolata. Perché? – ti chiederesti se potessi sapere. E’ un perché di tutto rispetto. Anch’io ho sofferto di parziale cancellazione mnestica, e non trovavo nei rapidi appunti, così spesso cifrati, nessun segnale per essere certo del tuo, se non proprio amore, come scrivevi, almeno di un semi-amore, o simil-amore, o com’altrimenti vorrai chiamare quella tenerezza che ti suggeriva parole dolci. Finte? Potrebbero essere finte? Be’ facciamo la tara anche qui, e tentiamo un discorso “fuzzy”: finte, quanto? Sincere fino a che punto? Quanto di atteggiato e quanto di schietto, in termini matematici, di percentuale sul totale. Ma le trascriverò, appena avrò finito di postillare la lettera magistra: giudicherà il lettore del tremila e due. O del duemila e quaranta.
La lettera magna mi suggerisce ancora mediazioni, accomodamenti. Per esempio, niente, penso, impedisce di credere a un briciolo di paura d’essere abbandonata a scuola in caso di rigetto delle mie avances. Ma, del pari, tutto inclina a strappare molte penne al breve volo di esitazione: ci sto, non ci sto? Il dilemma non si presentava cupamente drastico: o tutto o niente. Non avevo fama di Barbablu più o meno “traspositivo”. Dunque, la pulzella poteva ragionare agevolmente come ha fatto: ci sto fino a che lui mantiene le confidenze dentro il confine-perimetro del bacio, della carezza, della esplorazione calcolata e mai precipitosa del corpo. Ci sto, sì: mica mi dispiace, faute de mieux (ma il francese è tutto dell’interprete). E vedremo. Nel vedremo-futuro, il gioco si fece via via più saporito: lo starci ne seguì il destino: fu ogni giorno di più convinto e pacificato. Ma c’era Rina, la sua amicizia, le sue premure: come conciliare? Non si poteva, non c’erano sotterfugi e menzogne che potessero alleviare il peso di quella contraddizione in cascata libera. Rina era sincera, il suo donarsi schietto e senza calcoli materiali. Susy lo capiva, lo sentiva, ne misurava giorno dopo giorno gli effetti pratici. E Susy non era una coscienza bacata, un’erotomane sans merci: né di istinto né di coltivata esaltazione letteraria. Lo stridore era inevitabile. E fu, esso, nella sua crudeltà, spinta rispettabile, in natura e peso, al tentativo di suicidio. Anch’esso librato nel cielo basso dell’ambiguità: voleva, non voleva farla finita, Susanna? Forse sì, ma lasciandosi aperte buone possibilità di essere fermata sulla china. Come difatti avvenne. Cioè no, non voleva. Voleva il coup de theatre, questo sì. O si affidava al Caso, grande regista di contraddittorie pièces. Non è mica facile districare i sì dai no. O santa Ambiguità!
No, non sarò io a sdoganare illusioni allotrie: amore è parola troppo grande, troppo onusta di fronzoli nobilitanti per essere usata qui. Ma qualcosa che da quella nobiltà bio-culturale è non lontano c’è stato fra noi, cara Susanna. Carissima, tutta nervi e un po’ di panna (con tanti ormoni). Quel mucchietto di spinte motivazioni modularità dell’originaria fame fisio-erotica contrastata, era reale, è stato verità sicura: verità olistica, di carne e nervi, mucose e ghiandole, anima e corpo, mente e sentimenti (e perdonami, caro diario, il trotterello).
Dopo le inutili sottrazioni alla verità olistica, carissima, ti concedi a troppe iperboli. Dici di avere scoperto in tuo marito “un uomo meraviglioso" , dici di esserti accorta che hai amato ed ami solo lui, dici che disperi di riaverlo. Troppo pantografo ad augendum, troppe gonfiature. L’uomo meraviglioso si rivelerà ben presto (e in fondo me ne dispiace per te e le tue figlie) non solo quello scarso gentiluomo che ruba lettere dirette alla moglie separata come un ladruncolo indiscreto; ma un padre rovinoso e un marito insopportabile. Ma di questo, più avanti. Se tale è stata la rivelazione seconda e definitiva dell’uomo meraviglioso, quale avrà potuto essere quella del tuo scoperto e creduto grande e unico amore per lui, perla truccata, pomo bacato di immaginari campi elisi? Un’altra rivelazione choc, una nuova, dolorosa smentita alle tue illusioni. E, sai Susy, mi viene anche il sospetto, un minimo sospetto, che in questa lettera ci sia un pezzetto almeno del suo zampino, di tuo marito, voglio dire. E’ come se tu ne avessi scritto certe parti con l’occhio al futuro, a un futuro di chiarimenti e documenti da esibire a prove dei tuoi (presunti) sentimenti verso il ritrovato (e mal supposto) tesoro perduto. E chissà se, addirittura, il gentiluomo non ti abbia “costretta” a fargli leggere la copiosa missiva-documento (a futura memoria d’uso pratico). Più ci penso e più si condensa questa fluida ipotesi. Nella quale è facile collocare un altro aspetto di questa apoteosi della sincerità presunta: la destinazione della lettera a Rina, la vittima delle tue licenze da consolare e convincere: che stia tranquilla, tu ami soltanto l’uomo meraviglioso che hai scoperto in questa sciagurata contingenza. Tu non hai amato nessun altro, la cottarella pupillare è stato un episodio chiuso e concluso, un’increspatura nel mare dei vostri rapporti. Che tu vuoi restituire a un avvenire di ritrovata e migliorata amicizia. Sì, Rina, puoi stare più che tranquilla.
Niente di scandaloso, naturalmente. Appunto: la natura è sempre una buona maestra. Iperboli, poi, cara, sono anche le tue auto-flagellazioni moralesche. Non le ripeto qui: troppo distanti dalla tua realtà. Più vicina all’implicata fisiologia la paura di portare in te stessa una sorta di maledizione, di maleficio: lo abbiamo già notato, e lo si sa fin dai tempi delle streghe al rogo. Anzi, da molto più lontano: non sempre la bellezza è una benedizione. Al contrario, non è raro che si riveli una maledizione. Parliamo specialmente di donne, si capisce. Compostamente, possiamo riconoscere che si porta in coda, quasi sempre, alti rischi. Nel quasi salviamo i casi di bellezze nascoste, cioè poco esposte ai pericoli delle bulimie maschili. Ce n’è, nei paesini sperduti tra monti e valli, nei villaggi di scarsa attrazione turistica, eccetera. Ancora, forse: a dispetto della grande espansione televisivo-turistica e promozionale. A questo proposito, mi sono sempre meravigliato che la rottura del tuo breve fidanzamento semi-ufficiale col giovane rampollo di una famiglia mafiosa non abbia generato fastidi maggiori che quei pochi disturbi da te segnalatimi nei giorni del nostro tempo. Forse la famiglia non era poi così mafiosa? Oppure i fratelli maggiori non hanno ritenuto di potere aggiungere ai loro problemi con la cosiddetta Giustizia altri pesi e nodi, difficili da sollevare e sciogliere senza alti rischi di perdere la faccia.
*
Il travicello buttato nello stagno dal tuo poco professorale marito, o ex marito, provocò agitazioni nelle acque morte dei nostri rapporti familiari. Sei stata tu stessa a informarmi degli sviluppi tra l’ex e la tua famiglia? Credo di sì, anche se l’amarcord su questo punto mi si è appannato. Ma chi avrebbe potuto darmi le notizie, se non tu, direttamente o indirettamente? Forse con una lettera, quindi direttamente. Ma non la trovo nel mazzetto in mio attuale possesso. Dovrò cercarla. Oppure, in una delle poche telefonate che intercorsero fra noi due. Mi facevi sapere, dunque, che il tuo genitore, informato, distortamente, dal tuo ex, era andato su tutte le sacrali furie paterne e minacciava sfracelli. Lo feriva che io, tradendo la sua amicizia, avessi tentato di approfittare di sua figlia, o magari fossi riuscito ad approfittarne, chi lo sa. E che sfracelli minacciava? Che sarebbe venuto nella Sicania etnea a “dirmene (o darmene?) quattro”. Ma tu, savia Susanna, riuscisti a convincerlo che io ero stato un galantuomo, che non avevo tentato di approfittare di te, che mi ero limitato ad affettuosità innocenti, lasciando nelle custodi latebre il sancta santorum e le sue vicinanze e pertinenze. E riuscisti, chissà con quali impennate di protestata innocenza e giuramenti di rincalzo, a convincere anche l’obliquo Otello tardivo. Io ci feci la figura dell’amico fedele o del fesso romantico: la stessa che mi avevi fatto indossare (provvidenzialmente) agli occhi di mia moglie. Ma l’imperativo hobbesiano, pax servanda, era onorato e soddisfatto. Non accadde nulla. Nemmeno una telefonata del genitore (tanto meno dell’ex) con educata richiesta di eventuali chiarimenti supplementari. Certe bravate riescono meglio a parole che a fatti. Cosa avrebbe potuto dirmi, il padre? E con quale tono? Con quale licenza e confidenza? Dopo le spiegazioni della figlia, poi. La quale, particolare cardinale, era, all’epoca dei fatti (e non fatti), una giovane ventenne, mica una minorenne lanuginosa. E che cosa avrebbe potuto raccontarmi e contestarmi l’Otello mal clonato? Forse che non era libera, Susy, di scambiare qualche baciozzo col sottoscritto? O perfino fare sesso, come si dice oggi, a trentacinque anni di lontananza da quei tempi di non ancora sbracata “liberazione sessuale”? Chi era lui, per pretendere purezza immacolata e integrale verginità di imene e contorno in una giovane eventualmente conosciuta da un uomo e professore all’età sua di anni venti e mesi quattro?
Incidente chiuso. Certamente, con tanto affanno per Susy, impegnata a convincere due meridionali fottuti della sua innocenza. La quale, in sostanza, veniva minacciata soltanto da una chiusa di lettera vagamente allusiva di caldi affetti passati e rinverditi dal monco e puramente amicale ritrovarsi dopo sette anni di buio totale. Nessun cenno a contatti men che casti. Forse una parola bruciava le evocazioni innocenti dei saluti finali: se non ricordo male, era la parola ardore, evocata sopra. Come avrà fatto Susy a confinare quella fiamma verbale nella chiusa intimità di un mio rinunciatario platonismo? A nascondere quel po’ po’ di touches da touche-à-tout nel mio traslato scrigno di affetti, magari ardenti, ma controllati dal super Ego accigliato e da un adamantino senso dell’amicizia e lealtà?
*
Vedo che ci prendo gusto a narrarmi queste storie vere della mia vita così largamente falsa. Frutti della vecchiaia: si finisce col vivere di ricordi. E il raccontarseli fa parte del gioco. Troppo in là con gli anni, e non poco acciaccato, per poter sperare in avventure di carne e sangue extra moenia. E allora, largo alle memorie. Che non saranno quelle dell’avventurato Giacomo Casanova. E meno che mai quelle, virtuali, del pragmaticissimo cognato Salvo: il quale, le avventure le consuma interamente nei fatti e nelle opere di bene. Anzi, nel fare, e magari strafare, mai nel narrare scrivendo. Narrare, narra, sinteticamente abborracciando, a suoni di compiaciute esplicitezze fonetiche, e le mie orecchie hanno dovuto offrirsi a versamenti continui e periodicamente molteplici. Ma, ripeto, niente scritture. Manca la vocazione (più che il tempo, che sempre si trova quando quella c’è).
E torno alla mia situazione attuale, meglio precisando: più che “troppo in là con gli anni”, sono troppo “costretto” da vicinanze parentali incombenti. “Non poco acciaccato”? Forse, ma più ancora da quelle incombenze controllato. Cosa sottintendo? Una resistenza funzionale pertinente al gioco faticoso di Eros (roba di famiglia, dono del diuccio cito-nucleare). Che certa pax concupiscentiae nell’altra componente conjugalis rende, a volte, rudemente sofferente nel digiuno. E arrendevole a soluzioni regressive variamente catalizzate.
Comprese il rimemorare rituale. Magari al chiar di luna, e in vista del mare, come garantisce la modesta magione fornita di doppia terrazza. Rimemorare significa, in buona parte, ricostruire montando frammenti, illuminando opacità, cogliendo flash improvvisi di chiarità icastiche. Per esempio, ultimamente mi si è accesa una scenetta doppiamente piccante. Eravamo, non insolitamente, soli in casa, io e Susy (Rina e il bambino? Quasi certamente in casa dei parenti-in-itinere, tranquilli sull’impeccabile normalità del fare lezione a Susy). In uno degli intervalli (o in preludio propiziante), io stavo sopra Susy a recitare solite preghiere corporali, il suo ombelico scoperto, il mio condensato orgoglio fuori di gabbia, ma al solito guinzaglio. Liberi, invece, di esibirsi nelle collaudate estrosità, gli altri servitori corporali. Ed ecco che, impensabilmente coagulato dietro la porta a vetri opacizzati da volenterose tendine, si staglia la maschia figura del bel tenente. Allarme, e convulso ricomporsi di noi due peccatori e felloni, al mio annuncio. Susy entra nello studio, io fingo di uscirne per andare ad aprire all’insolito visitatore. Ma c’è un particolare che fermenta nel buio virtualizzando complicazioni spaventose: Susy s’era levata dalla sdraio, nuda nei tesori nascosti. Dove trovare i pochi secondi per rinfilarsi la dismessa copertura (si fa per dire, con certi cribrati tessutini!)? E allora? Niente paura: era più facile immergere i sottintesi nella mia tasca destra dei pantaloni. E così, congruamemte, venne fatto dalla mia pronta mano destra ancora impregnata di secretivi odori sororali. E mica c’era caso che si potesse più che sfregarsi addosso la mano deliziata di piccanti squisitezze. Quanto del buon odore se ne poté andare dalla calda pelle digitale con quel brevissimo strusciarsi sulla camicia? Fatto sta che io dovetti porgere la mano intrisa al fratello ignaro, mentre della sorella, che veniva affacciandosi dallo studio nella prima stanza, ascoltava la domanda sul movente di quella insolita visita. Che fu dato e chiarito: Susy doveva rientrare a casa non dopo le sette (siamo ancora nel luglio famoso degli esami, e da questo arduo “convegno” pochi giorni distanti) per via di certe visite importanti che si aspettava di fare a non so quali amici o parenti o che.
Questa la spiegazione. La quale non fugò, tuttavia, un venticello di dubbi sulle vere ragioni di quell’apparizione: che si sia tratto di un controllo? Discreto, tacito, ma sostanziale. Al tenente (che aveva portato Susy con la sua bella macchina) avevo detto che Rina e il piccolo erano andati dai vicini per pochi minuti. E se per caso fossero usciti, come capitava, magari a rifornirsi dell’acqua montana? O soltanto per una passeggiata in paese, o fuori paese, per esempio sul lungomare dell’attraente Siderato? E qualcuno della famiglia, vedendo mia moglie in macchina con gli amici-parenti si sarà impensierito e avrà concepito quella discreta irruzione di pacifico controllo informativo? Ipotesi, congetture, fantasie: il contenzioso-sostanza stava serrato nel buio della tasca come un’ostia nel calice. E, a fratello congedato, in piena cordialità, un sospirone di sollievo piccato, accompagnò la trepida restituzione del sacro indumento. Il quale, intanto, nel movimentato dire e fare, aveva aggiunto qualche molecola del suo profumo specialissimo al già presente per induzione diretta di organi e tessuti.
*
L’incidente “lettera” ebbe riflessi negativi sui rapporti miei e di Rina con Susy: si allentarono i contatti epistolari fino a cessare. Ma ci sono lettere anche degli anni successivi al settennale che testimoniano il perdurare di un interesse reciproco, sia pure allentato. Intanto non ricordo se io risposi all’ultima lettera di Susy trascritta sopra. Certamente, non rispose Rina: si sentì tradita da quelle rivelazioni epistolari. Di nuovo! Ma perché, poi? Che novità sostanziali c’erano in quella lettera solo verbalmente drammatica rispetto alle confidenze fattale quell’estate, nella famosa passeggiata sui vialetti del giardino fraterno, mentre mio cognato e sua moglie stavano al balcone del largo ballatoio, con me, a guardare? E un po’ anche spettegolare (questa perfomance spetta particolarmente alla cognata) sulla nascosta verità dei miei rapporti con Susy e sull’ingenuità di mia moglie se l’avesse bevuta, la storiella dell’innocenza rinunciataria che certamente Susy le andava propinando. Non doveva esserci nulla di tanto sconvolgente: perché ci rimase tanto male, Rina, fino a non rispondere a Susy? O a risponderle tanto tempo dopo, con un certo risentimento? Ma qui i ricordi non possono contare su riscontri documentali e perciò mi fermo.

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Trascrivo ora le tre lettere perdute e ritrovate dopo trent’anni. Sono tutte indirizzate al Preg. Prof: Paolo Assaggi, Fermo posta, Realpolia (Liotria)
La prima è del 30 giugno del 196... E’ scritta su un foglio largo quasi quanto alto, con penna biro a inchiostro più marrone che nero (ritengo, per naturale processo di sbiadimento). Si era da non molti giorni concluso l’anno scolastico, il secondo, e penultimo, del triennio di mia pertinenza. Lei scrive da casa sua, in Zefiria, io ricevo nel mio paese, vicino a Realpolia, rientratovi da pochi giorni. Lei ha diciannove anni.

“Carissimo, da quando le scuole si sono chiuse non faccio altro, in ogni momento della giornata, che pensare a te. Mi sembra un secolo che non scambio una parola, non dico vederti, perché in questi ultimi giorni di giugno ti ho visto parecchie volte con la macchina fare la mia strada. Una volta ero da Speziale [una sua compagna, fra le più intime] e vedendoti passare ho sperato tanto che ti fermassi, invece sei passato come una freccia, dritto. Un’altra volta ero decisa a fermarti, ma purtroppo eri in compagnia di tua moglie, e quindi ho dovuto far finta di non vederti, per non tradirmi. Tutto questo perché ogni volta che ti vedevo il cuore cominciava a battere tanto forte da farmi sentire male. Conoscendo la sensibilità di tua moglie credo di avere agito bene.
Sono rimasta fuori Zefiria con mio fratello diversi giorni a causa di un incidente capitatoci a Roma, incidente che però mi ha permesso di visitare Roma molto bene, come desideravo da tanto tempo. A casa sono così ritornata il 23 e pochi giorni dopo tu sei partito, per cui mi sono dovuta accontentare di scriverti. Pensi a me? Io, a te, tanto. A volte sto delle ore al balcone, distesa sulla sdraio, con lo sguardo fisso nel vuoto e penso di esserti vicina e di passare giornate meravigliose. Certi momenti, poi, sono presa da una gelosia incredibile, principalmente pensando che tu sei accanto a un’altra donna, sia pure tua moglie, mentre io mi devo accontentare soltanto di fare sogni, poiché non potrò mai dedicare la mia vita a un uomo che ha degli obblighi verso un’altra. Purtroppo, al cuore non si comanda.
Per dirti quello che sento per te non basterebbero dieci, venti fogli di carta; comunque sappi che TI AMO E TI AMERO’ sempre, per tutta la vita.
Tua per sempre, Susanna

N.B. Per essere sicura che hai ricevuto questa mia, ti prego caldamente di mandarmi sia pure una cartolina con una firma di sole iniziali, oppure senza, come vuoi: io capirò, e allora potrò scriverti con molta più tranquillità. E potrò essere anche molto più esplicita.
Ciao Susy
Zefiria, 30 giugno 196…”



La seconda, stessa provenienza, data: 14 / 7/ 196…

“Carissimo, ho appena ricevuto la tua cartolina, e così ho pensato di risponderti subito, con la certezza che tu abbia ricevuto la mia prima. Sono sicura che tu l’hai ricevuta perché la cartolina portava la data da Realpolia. Però sto sempre in pensiero che la mia lettera possa capitare a qualcuno della tua famiglia, e allora apriti cielo. Speriamo che ciò non avvenga, perché altrimenti farebbero dei castelli in aria; ma del resto è una cosa logica.
Sono sempre in attesa che tu rientri a Zefiria, dove potremo prendere, come abbiamo stabilito, le nostre lezioni di matematica; delle volte basta soltanto vedere una persona per sentirsi meglio. Questo per dirti che mi sembra un secolo che ci siamo allontanati e che non vedo l’ora, il minuto, il secondo di vederti. Persino al mare vado con la segreta speranza di incontrarti. A proposito di mare, dovresti vedere come mi sono ridotta, sono tutta rossa dal sole preso senza misura: una cosa irriconoscibile. Speriamo che col tempo diventi nera perché altrimenti non potrei guardarmi in uno specchio per diversi mesi. Al mare, con tanti amici e amiche, mi diverto un po’ e non penso tanto, ma poi, quando sono sola a casa sono presa da malinconia e mi vengono certe idee tanto balorde da sembrare assurde.
Scusami se ti scrivo poco questa volta, ma ho approfittato di un momento in cui sono tutti fuori casa, e non vorrei che rientrando volessero vedere a chi scrivo. Ti pare? Comunque spero la prossima volta di parlarti più a lungo e più chiaramente, cioè a cuore più aperto. Perciò concludo mandandoti tanti baci e un forte abbraccio.
Tua Susanna”


La terza, con data 23/7/ 196…

Carissimo, purtroppo, questa è la mia ultima lettera, e francamente ne sono addolorata, ma non posso fare altrimenti, perché devo partire. Infatti, per i primi di Agosto, mio fratello vuole portarmi a Taranto, dietro insistenza della famiglia di un suo collega, presso la quale sarei loro ospite per non so quanto tempo. Perciò, come vedi, è inutile che ti scriva, poiché, quando sarò di ritorno, sarai certamente già a Zefiria. Comunque sappi che, sia con le lettere che senza, ti avrò sempre nel cuore.
Ho ricevuto la tua cartolina, dove mi scrivevi, sia pure in inglese, di non avere paura. Devi capire, a questo proposito, che io non ho paura per me, ma per te. Prendi il caso che tua moglie prenda una delle mie lettere, succederebbe chissà che cosa, ed io questo non vorrei che succedesse; perciò ti esorto a distruggerle, e non metterti nei guai per colpa di una ragazza che verrebbe giudicata in tal caso molto male. A questo ho pensato moltissimo, perciò sono arrivata al punto di scriverti tutto ciò. Io ti voglio molto bene e penso soltanto alla tua tranquillità, per cui mi vengono certi scrupoli.
Purtroppo devo dire che la vita è stata molto ingrata con me facendomi conoscere l’amore tramite un uomo sposato, dal quale non potrò avere mai niente di ciò che una ragazza desidera di più. Di questo però non do colpa a te, né tanto meno a me, perché al cuore non si comanda.
Non vedo l’ora che finisca quest’altro anno, in modo che me ne possa andare lontano da tutti e principalmente da te che sei la mia ossessione. Non pensare che io dica tutto questo perché ti voglio meno bene; anzi la lontananza ha rafforzato maggiormente il mio sentimento, per cui il detto “lontano dagli occhi lontano dal cuore” è tutto sbagliato. Ti penso sempre, giorno e notte, e questo per un verso è bello per un altro porta sofferenza. Perciò, un po’ egoisticamente, penso che questo viaggio non mi nuocerà, anzi mi farà distrarre, e io di distrazione ho proprio bisogno.
Sai cosa faccio molto spesso, tanto per dirti quanto ti penso? Leggo e rileggo, anche se so già tutto a memoria, la cartolina dietro la quale hai scritto delle cose che mi fanno sognare ad occhi aperti. Te le ricordi? Questa, che è la più breve, ad esempio: “Amor e cor gentile sono una cosa”. Poi prendo la tua fotografia (che tengo ben nascosta) e mi metto a parlare da sola, come se tu fossi presente. Non giudicarmi pazza o scema perché l’amore (devo dire purtroppo?) fa fare questo ed altro.
Non voglio aggiungere altre notizie e confessioni a questa mia ultima, anche se potrei scriverti non una ma venti pagine ancora. Perciò concludo mandandoti un forte abbraccio e un dolce bacio. Nell’attesa del tuo tanto desiderato ritorno in Calemagna.
Tua Susanna

N.B. La cartolina, l’aspetto sempre; magari con una piccola frase in inglese, tanto per farmi capire che non mi hai dimenticata nemmeno tu
Ciao amore .......”
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Quante volte avrò letto queste letterine, dal giorno della loro riscoperta? Con quali emozioni e sentimenti? La prima impressione fu di miracolo, dono degli dèi. Poi, con un certo sforzo per ridurre a più pacati livelli l’esorbitanza termica, come scherzi (stavolta benefici) del Caso. O piuttosto, dall’ibrido Caso-Passione: senza la seconda, infatti, il primo si sarebbe scomodato? É stato nel frugare indotto dalla Regina che il Re s’è mosso. Queste divinità minimali, vicarie del Grande Assente, sono, la loro parte, esigenti: ciascuna rivendica il merito per se stessa. Ma non c’è Causa senza Concause. E per dirla in termini aggiornati: non c’è cerca né ricerca senza un’orientata tensione appetitiva. Quindi, il merito primo spetta alla mia fame di lei in funzione del romanzo. Donde ricerca, cieca e mirata, senza memoria intera del nascosto. E con tremula speranza.

Ho tentato in tutti i modi di ridurre il peso significativo di queste amorose confessioni: a vedere cosa ne restasse in fondo alla spremitura. Innanzitutto, sono affidate allo scritto, e scripta manent: soltanto compiacente finzione e recita mirata? Quel soltanto non convince. Non ingrana con lo strumento scrittura: perché esporsi a futuri eventuali rinfacci? E poi: il mezzo non è senza rischi di piccole (e meno piccole) catastrofi relazionali. Lei stessa lo ricorda e paventa, nelle raccomandazioni di queste trepide paginette. Se certe espressioni e “superlativi”, o magari reticenze, farebbero sospettare l’eccesso di ostentazione, altre svigoriscono il mio sospettare inquisitoriale. Anche a non voler prendere alla lettera le professioni esplicite d’amore più o meno imperituro, che sarebbe una sciocchezza, qualcosa in quelle parole residua da ogni cernita e severo crivello. Si immetta nella lettura meno favorevole il massimo di dubbi e imbranate titubanze, ne rimane sempre quanto basta a consolare il mio amor proprio acciaccato. Vibra, insomma, in certe frasi, in alcune espressioni un polso di sincerità resistente al più corrosivo scetticismo. E me le rileggo, ancora oggi (anzi, soprattutto oggi, cioè in un presente residuale e deprivato) come si prenderebbero gocce di anfetamine. Rileggiamole ancora su queste pagine elettroniche, e commentiamole.
“Da quando le scuole si sono chiuse non faccio altro, in ogni momento della giornata, che pensare a te.” Vero? Falso? Falso e vero. In ogni momento? Impossibile. Anche come iperbole, ha un suono “fesso”. In alcuni momenti, magari in molti, e vari, sì: è verosimile. Più che verosimile: suona una nota di sincerità naïve. Alcuni va meglio del sottinteso ogni anche riferito ai giorni. Ma non è del tutto incredibile quella “giornata” espansa, nel contesto, in misura di “tutte le giornate”. Era il secondo anno di nostra conoscenza, e il primo del feeling rivelato: parco, esitante nei contatti corporali, ma acceso, in me, nella circolazione umorale degli affetti. Che ogni giorno si potesse pensare all’altro accadeva nella lontana Sicania, perché non avrebbe potuto accadere in Calamagna? Io la pensavo letteralmente ogni giorno; perché non sarebbe accaduto a lei? Erano così poche e magre le occasioni di svago in quella lontana propaggine coloniale della gloriosa Ellade godereccia! E così lontana la memoria di Sibari gaudente.
“Mi sembra un secolo che non scambio una parola”: un innocente topos dell’iperbolismo popolare, tutto qui. “Ogni volta che ti vedevo il cuore cominciava a battere tanto forte da farmi sentire male”: credibile, senz’altro. Anche per un amore non tumultuoso (com’era appunto il nostro caso, ma più, suppongo, il suo verso di me. O l’inverso? Dopotutto, lei era meno esposta a distrazioni appaganti, da quel lato.). Dolce, pure, la semplicità della frase: garanzia di sincerità? Forse (non oso scrivere quel “certamente” che “forse” dovrei). E perfino di efficacia espressiva. Controprova: non batteva a quel ritmo anche il mio, di cuore, ad ogni incontro extra moenia scholae? No, nessuna traccia di iperboli in quella verità verbale. “A volte sto delle ore seduta sulla sdraio al balcone con lo sguardo fisso nel vuoto e penso d’esserti vicina e passare delle giornate meravigliose”: arrossisco un po’ di fronte alle evocate immagini di bellezze virili del cinema e massmediali in genere (o anche locali). Ma sono, io, dico, pur sempre un significativo al di là agli occhi di una (anche bella) fanciulla alunna fra alunne in prevedibile fermento di ciarle da ragazze. Lo status compensa le (non gravissime, poi) carenze fisiche. Cose ben note. E io ti credo, fantasma lontano: mi pensavi, riaccendevi nel ricordo i nostri baci e molteplici contatti, anche se ancora esitanti sulla via degli sviluppi successivi. E mi consolo del presente. Con sensi di colpa ridotti al lumicino. Cioè, in rapido dimagrimento rispetto a quegli anni remoti e a quelli meno lontani. “Certi momenti, poi, sono presa da una gelosia incredibile pensando che tu sei accanto a un’altra donna, sia pure tua moglie, mentre io mi devo accontentare di fare soltanto sogni...” Lasciamo perdere l’incredibile, ma che cosa c’è di incredibile nella gelosia di una ragazza verso la moglie del suo professore, preso di lei, e lei di lui? Siamo nell’ordine (o disordine) normale delle cose. Cioè, nella fisiologia dell’amore e delle ragazze: delle girls in love cattedratico! Andiamo, un po’ di coraggio: mettiamo la museruola al troppo loquace masochismo etico-estetico. Almeno, di tanto in tanto. E mettiamo da parte pure i “dieci, venti fogli di carta”, che secondo Susy (oh, caro suono e nome!) le occorrerebbero per dirmi tutto quello che sentiva per me. Esagerato, anche il “Comunque sappi che ti AMO e ti AMERO’, sempre, per tutta la vita”. Ma come suona bene. Come scalda il muscolo pulsante affaticato. Perfino quanto suoni afrodisiaco debbo confessarti, quaderno delle mie sere in veglia. Un altro pugno allo stomaco mi viene dal finale “tua per sempre”. Con quanta sincerità lo scrivevi, trent’anni e cinque fa? Quanta buona fede ci mettevi in questa generosa bugia di verbi e avverbi ? Vabbè, tutto esagerato, ma non senza un nucleo, un nocciolo, un briciolo adamantino di verità, di sentimento, di sincerità effusiva. Ecco, lo abbiamo detto e scritto, quaderno digitale. E che vuol dire, a cosa allude quel N. B. nella sua chiusa “e allora potrò scriverti con molta più tranquillità e potrò essere anche molto più esplicita”? Esplicita come, Susy? Che delizie promettevi di dirmi? E l’hai poi fatto nelle due lettere successive? Era quello, solo quello che scrivevi il 14 e il 23 luglio, il sottinteso della nota? Per esempio, il 14: “delle volte basta soltanto vedere una persona per sentirsi meglio, questo per dirti che mi sembra un secolo e che non vedo l’ora, il minuto, il secondo di vederti”. Non c’è molta fantasia, nella confessione, è vero; ma suona dolce, dolcissima anch’essa, malgrado la solita iperbole (ma viva le iperboli, via!). Più intrigante, decisamente, è il segmento che contiene le idee “balorde” e (quasi) “assurde”: te ne ho chiesto mai il senso riposto, la carica sottintesa e vibrante? Il buio del trentennio nudo di supporti inghiotte l’arsa domanda senza risposta.
“Al mare, con tanti amici e amiche mi diverto un po’ e non penso tanto, ma poi, quando sono sola a casa, sono presa da certe idee tanto balorde da sembrare assurde”. Quali idee, Susannetta? Il mio cervello prende a mulinare tutte le volte che ritorna a posare gli occhi su quell’oscuro sottinteso lampeggiante. Idee balorde al limite dell’assurdo: ripeto la domanda: quali? Per esempio, chiedere di fuggire insieme? Balorda e assurda idea, in verità, dato il mio collante fermo sulla famiglia (col perno ferreo del bambino). E data la perfetta conoscenza tua del mio blocco. Non ti può appartenere, dunque, una simile idea. Spingermi a rompere il tabù dell’imene? Ancora un’idea balorda, ma meno assai della prima. Anzi, nemmeno balorda, ma troppo spinta sul piano inclinato dell’oblazione. Diciamo, eccessiva. Mi sono imposto quei limiti, e non li avrei varcati. Se non, forse, in circostanze del tutto eccezionali. Che peraltro cercai sempre di scongiurare. Ricordo quella volta che fummo sul letto par excellence, sopra il legittimo talamo, stesi in tutta la nostra lunghezza, in un sandwich di carne agognante, ed io sollevai la tua gonna, esternai il mio turgido onore tra le tue vibranti cosce e premetti, delicato, contro il tuo impedimento ciclico. Dopo, tu mi dicesti, la voce bassa e morbidamente roca: “L’avresti fatto, se non ci fosse stato...”. “Non credo” – ti risposi. Ma tu: “Sì, penso che l’avresti fatto. Embé, non me ne importa” . “No? Sei sicura?”. “In quei momenti non si sta a pensare tanto. No, non me ne sarebbe importato, anzi...”. Be’, ti credo. Però anche questo briciolo di palpitante istologia è stato un blocco per me. Una piccola Grande muraglia cinese davanti al meschino mongoluccio qui secernente. In un’altra occasione, l’incontro fra i nostri complementi anatomici fu un tantino più spinto del solito, e l’indomani tu mi dicesti che tua madre aveva trovato una macchiolina rossa sui tuoi slippini. Inequivocabile. Più del señal provenzale. Te ne aveva chiesto il senso, e tu, nell’inatteso, non avevi saputo che fare spallucce: non sapevi, un graffio, forse, un’unghia fuori campo durante le normali abluzioni igieniche...
Dimmi, Susanna: erano queste, forse, le “idee balorde”? un coboldino rimemorante, in quell’estuosa estate magnogreca insinuava, forse, durante le tue oasi rêveuses, sequenze concettuali come le seguenti: lo costringerò a sbarazzarmi di questo divieto stressante, a (magari avrai, par coeur, pronunciato il verbo più fit) sverginarmi. E se resterò incinta, tanto meglio, non potrà tirarsi indietro. Erano, potevano essere, queste le famose idee balorde? le idee “tanto balorde da sembrare assurde? Non voglio cedere alla tentazione di crederlo. Ma certamente quell’aggettivazione tonante incoraggia simili farnetichi. In questa arsura digiuna riesce così afrodisiaco questo ozio ragionante, questo inoltro ermeneutico dentro l’ambiguo delle tue frasi...Mentre lo spiritello sarcastico insinua: li chiami farnetichi? Uomo di poca fede!

Ah, Susanna, quante volte ho dovuto respingere idee balorde! Poi mi scrivi: Non vedo l’ora che finisca anche quest’altro anno in modo che me ne possa andare lontano da tutti e principalmente da te che sei la mia ossessione. Calma. Riflettiamo. Aleggia puzza di contradictio in adiecto. Chi ama veramente può desiderare la lontananza dall’amato? L’esclusione visiva dall’oggetto della propria ossessione? Direbbe, la vergine impaziente, interpellata: appunto perché sei un amore ossessivo. Dunque sofferenza. Ma io, davvero sono stato la tua ossessione? S’ha un bel dire: rimane un sentore di contraddizione fra le due condizioni, amore ossessivo e desiderio di liberazione, auspicio di lontananza. Tu lo cogli e chiarisci, consolante: “Non pensare che io dica tutto questo perché ti voglio meno bene, anzi la lontananza ha rafforzato il mio sentimento [...] ti penso sempre, giorno e notte..”. – Amore lontano, rosa che non colsi, io ti sono ancora grato di queste parole. Non voglio respingerle tutte nel sacco della spazzatura sentimentale, dell’affettazione interessata: voglio strizzarle fino all’ultima goccia di possibile finzione ed esagerazione per trovarci l’anima sincera. Quel tanto, quel poco di solida verità che non può, nemmeno a distanza di questi trent’anni e passa, essere smentita: né dalla tua ambigua lettera del settennio né da sopraggiunti interessi sentimentali tuoi. E dico che il fatto stesso che ti sia presa la briga di scriverle significa qualcosa. Ripeto: scripta manent. Anche i particolari significano: quando mi dici che rileggi la cartolina con le frasi che ti fanno “sognare ad occhi aperti”, che poi prendi la mia foto e ti “metti a parlare da sola come se io fossi presente”, il dettaglio stesso mi mostra la sua credibilità: che inventeresti a fare cose simili? E come potrei giudicarti “pazza o scema”? Non lo so, forse, che “l’amore fa fare questo ed altro”? No, carissima, il tuo non è stato mai un puro gioco interessato. Né tu hai mai creduto una cosa simile. Una simile beffa. Una cotta pupillare, certo. Ma, soltanto questo? E anche se fosse? A me bastava, a me basta anche adesso. Le lettere mi confermano tue parole orali, tue dichiarazioni vocali, rare e distanziate, ma dolci e liete come note d’arte. Un po’ Flauto magico un po’ Carmen di Bizet. E chissà quale altra letizia musicale. Un ricordo s’insinua, con l’autorità dell’interferenza spontanea, in questa remota evocazione: leggendo il Nietzsche che incorona il lieve solare danzante, insomma “mediterraneo”, Bizet contro il roboante, clamoroso, trionfale e metafisico Wagner (scrivevo un breve saggio sul Filosofo per la rivista di Rama) mi accadeva di rivedere te, ninfa magnogreca pimpante e “mediterranea” quant’altre mai. Il tuo corpo, i tuoi occhi-sole, la tua risata velare, quando si schiudeva, rara, in letizia di scampanante oblio dei nostri rischi e delle strozzate colpe. Naturalmente, escludendo le civetterie infedeli di Carmen. E l’osceno esito tragico, che pure germina in quella danzante sequenza di seducenti note.
Altro particolare significativo, nel tuo N. B. del 23 luglio: “La cartolina l’aspetto sempre, magari con una piccola frase in inglese, tanto per farmi capire che non mi hai dimenticato nemmeno tu.” Dimenticarti, io? Che idea (questa sì), balorda. Come vedi, carissima, non ho potuto. Non posso. Malgrado piccole diversioni analoghe in parziale autodifesa dal grande gelo della tua perdita. Nessuna diversione ha potuto estinguere il ricordo di te, di noi, dei nostri abbracci. Mutili, è vero, ma, a parte quella mutilazione, travolgenti. Come la tua aritmetica elementare confessava a notifica degli esiti personali. E spero soltanto che questo sgorbio di scrittura possa un giorno capitare sotto i tuoi occhi: libro edito e circolante o videoscritto privato e bocciato, non importa: purché tu possa sapere la verità, di ieri e di oggi, trentacinque anni dopo. O magari quaranta, visto che le revisioni e i tempi morti allungano quella coda di Crono che brilla come la mia stella-cometa nel cielo ripulito dagli dèi.
Last but not least: quali emozioni ti accendeva nell’anima quel tu che mi dai nelle care letterine? Che subbuglio di fisiologia ormonale scatenava questo surrogato aggressivo del contatto fisico lontano? Dare del tu al professore del corso, che parole vorrebbe il subbuglio per tradursi in linguaggio? Quante tue compagne vorrebbero questa confidenza! E tu eri la sola, l’unica privilegiata. Un prof, poi, ammirato e vezzeggiato da alunni famiglie e colleghi in buona fede (agli invidiosi, massime alla sezione “ignoranti” e incapaci, non è il caso di badare). Insomma, anche quel poter fare, nell’intimità, ciò che le altre ti avrebbero invidiato, doveva essere un sottile piacere, un euforico elisir dell’anima.
Chiudo questo monologo-dialogo col tuo saluto in fondo al N. B. Ciao amore. “Amore” sottolineato e seguito da puntini, tanti puntini. Su due righe. Chissà cosa ci ho messo al loro posto, in quei giorni di estasi postale. Questo, sì, l’ho proprio dimenticato. Gli anni e i decenni non sono pula al vento. Ma soprattutto: che cosa tu obliteravi di ghiotto e dolce dietro quei sospensivi in riga?
Non ho dimenticato, però, il cortocircuito elettrico fra occhi e meridione genitale tutte le volte che ho letto e riletto la paroletta magica. Soprattutto la prima volta, voglio dire la prima della riscoperta miracolosa. E posso soltanto immaginare lo scuotimento che agitava il mio cuore-corpo nel tempo in cui arrivavano, l’una dopo l’altra, queste confetture verbali. Trenta e più anni fa.

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