giovedì 28 gennaio 2010

Susanna, Frammento 55


Un mastello di quel genere (e livello) di crimini ci costringe a un passo indietro, verso le sopra ricordate Olimpiadi di Monaco di Baviera, anno 1972, dieci dopo l’appena onorato ‘62: un contesto d’eccellenza per la chiusura del “capitolo” in corsa. Un commando palestinese del nuovo gruppo “Settembre nero” (nato in risposta all’eccidio giordano) sequestrò undici atleti israeliani, proponendo lo scambio d’uso in queste occasioni: voi liberate i nostri uomini (un centinaio), noi rilasciamo i vostri. Era il 5 settembre. Durante l’attesa di una risposta, un maldestro assalto delle “teste di cuoio” tedesche fece precipitare gli eventi: gli undici sequestrati vennero uccisi. Quel sangue alimentò la pianta di una vendetta biblica, degna di richiamare certe rappresaglie tedesche del periodo 1943-45. Un paio di giorni dopo l’insopportabile “smacco”, le autorità di Tel Aviv (ispiratrici esigenti di quel fatale tentativo volpesco) affidarono al Mossad l’organizzazione della spropositata controrisposta. Con larga disponibilità di mezzi finanziari, gli uomini del servizio segreto (forse più efficiente e spregiudicato dell’Occidente, se non dell’intero globo politico evoluto) raccolsero informazioni negli ambienti più vari dell’Europa sugli uomini del commando palestinese, sui loro mandanti e collaboratori coperti, sulle aree polarizzate più o meno coinvolte. In lunghi mesi di ricerca e di azione, riuscirono a ucciderli tutti, uno dietro l’altro, con pazienza e intelligenza, violando spudoratamente frontiere e convenzioni internazionali. Anzi, ne uccisero più di quanti fossero realmente e anche latamente responsabili. Né si può accertare se questo surplus di giustizia al piombo veloce sia stato accidentale effetto e coda involontaria della difficile impresa selettiva o, piuttosto, alone di nonchalance per la realtà umana della Resistenza palestinese (e relativo contesto civile). Ma, se un minimo dubbio può ancora resistere sulla estensione della vendetta del Mossad a innocenti civili, nessun’ombra può velare l’evidenza terroristica dei connessi bombardamenti sui campi profughi palestinesi. Iniziativa inescusabile, da zelanti figli dello spietato Jahvé, e del suo massimo delegato in terra, lo sterminatore Mosé. Bombardare un campo profughi vuol dire consumare una strage di civili innocenti, dai vecchi ai bambini: si parlò di oltre duecento vittime. Una modesta replica, insomma, delle gesta del “popolo eletto” ispirato da quel dio, più e più volte “mandante” indiscutibile di stragismo indiscriminato (leggere per credere. Ma senza il filtro vaticano, che perfino il “dio degli eserciti” cantato nei “Salmi” traduce con il candeggiato “Dio dell’Universo”). Specialmente durante la “liberazione” (cioè, l’abusiva conquista sterminatrice) della “Terra promessa” (vale a dire, di territori da secoli appartenenti a diversi popoli, e mai prima abitati da ebrei). La Resistenza palestinese, naturalmente, veniva, da questa esorbitanza assassina, rafforzata nella determinazione militare con nuovi assetti organizzati e tentazioni estremiste, preludio ai fasti capovolti di Hamas, Hesbollah e ai futuri exploits kamikaze.
Ancora un dettaglio. Vertice motore di questo capolavoro dagli effetti micidiali nella storia del Medio Oriente fu il primo ministro Golda Meir. Già: la virago che la stralunata Oriana Fallaci, reduce da un’intervista al miele, aveva ornato degli epiteti più stravaganti: tenera, dolce, molto femminile, materna. E non ricordo più che altro delicatume. Quant’è vero che l’ingorda storia degli umani mescola spesso tragedia e farsa. E che l’entusiasmo acceca, quando supera certe soglie.
Naturalmente, la Fallaci soffiava quei paradossi complimentosi in sottintesa polemica con i responsabili dell’aggettivazione “viragogica” che correva sulla Meir. E non sospettava (è da credere) che quella sua Invenzione dolciastra potesse nascondere il fin troppo virile progetto di una simile strage: non solo, come appena ricordato, paziente, plurale fino all’inclusione di sicuri innocenti, ma anche esposta a informazioni tanto prezzolate quanto oscillanti nell’attendibilità identificatrice di quei resistenti frettolosi. Insomma, un capolavoro di rappresaglia tristemente dissonante col vanto di gemmato modello democratico, che i capi ebrei e tutto l’Occidente vezzeggiatore (e di cattiva coscienza storica) sbandierano ai quattro venti (da parte europea, e tedesca in particolare, in sottinteso titolo di espiazione e remunerazione versus l’orrore della Shoah).
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Quanto a mescolanze, l’ingorda Storia è anche buongustaia, e mette insieme (fino al sadismo sincretistico) sofferenza e diletto, tormenti e piacere, sangue e sesso: l’anno di Monaco fu lo stesso dell’ “Ultimo tango a Parigi”, di Bernardo Bertolucci, con un insospettabile Marlon Brando al burro lubrificante, e una volenterosa Maria Schneider tuttofare. E anche l’anno dell’astro sorgente Edwige Fenech, icona adoratissima della filmografia nuda (premessa dolce all’hard incombente). Il film del lancio ha un titolo pacchianamente prolisso ed esplicito, “Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda”. Ma si era già nel colmo della stagione dell’eros liberato: il ’68 aveva sfornato “Grazie zia”, filmetto che buca il tabù dell’incesto (con Lisa Gastoni e Lou Castel: ragazzo paralizzato lui, zia consolatrice, di mano e altro bene non usurabile, lei); e il ’69 (nomen omen) “scopre” l’orgasmo femminile con “Brucia, ragazzo brucia”. Culmini veri e differenti della rivoluzione sessuale: il ’76 produce “Cattivi pensieri” di Ugo Tognazzi, regista e interprete, con scene di nudo integrale per lui e lei, la collaudata Edwige Fenech. Ma la cima insuperata (salvo che nel tintobrassismo scatenato, cioè nel porno dichiarato, del genere “Così fan tutte”, con l’allora ruspante Claudia Koll, ora tutta preghiere e incensi) dell’hard italico d’autore si chiama “Novecento”, appartiene al Bertolucci, è diviso in due parti ben distinte, ed è esplicito (di organi anatomici al vento e di loro usi e funzioni) fino a far rosso d’imbarazzo il sottoscritto, che si trovò, ignorando l’eccesso in attesa, a vederlo con ragazze della seconda liceo, lui seduto fra due bellezze diciassettenni. Unico conforto, la compagnia dell’amico e collega di scienze Beppe Grasso, non meno imbarazzato. Eravamo caduti in una trappola tesa da quelle smaliziate informatissime figlie ...del tempo: l’invito a vedere insieme il film era venuto, infatti, da loro. Che si saranno fatte maliziose risate, a condimento di piccati commenti. Ah, gli anni Settanta! Quando le ragazze ne sapevano più dei professori. I quali si imbarazzano, certo, ma pure...
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Mini curiosità: un noto politico con la passione cinefila definì “Ubalda” “un presepe minimalista”, esaltato “dalla sofferta interpretazione di Pippo Franco” (nientemeno) e da una Fenech “intensa, personaggio alla Truffaut” (caspita). Quando si dice che la passione stravede (in questo caso, forse, la passione “dal basso”) (Marco Cicala, “I sogni erotici degli italiani? Sono ancora fermi a Edwige, la coscia lunga”, “Il venerdì di Repubblica”, 10 ottobre 2008. Vedi l’ampio servizio a più voci ispirato da un nuovo presunto film scandalo del geniale Woody Allen, “Vicky Cristina Barcelona”, con Penélope Cruz e Scarlett Johansson. E fioccano libri di onesta indagine, tipo “Il porno di massa. Percorsi dell’hard contemporaneo” dello storico Pietro Adamo [nota del curatore dei Diari di Paolo Assaggi].
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A proposito delle beffarde mescolanze della Storia, il sessofago 1969 fu anche l’anno dello sbarco sulla luna (lo so, si dovrebbe dire “conquista”, non “sbarco”: ma quel pomposo termine puzza di maiuscolarismo metafisico). Cioè, l’anno conclusivo della lunga preparazione del progetto: con la serie degli “Apollo” numerati che si avvicinano, passo dietro passo, alla grande meta. Nel gennaio del ’67 si svolgono prove decisive per la messa a punto della navicella; nel novembre dello stesso anno Apollo Otto, in tre giorni di volo, ruota intorno al satellite, ne guarda la faccia nascosta (a noi terrestri), che gli astronauti trovano più “rugosa” della visibile, dallle vicinanze lunari godono la visione del “pianeta azzurro”, cioè la nostra Terra, che la distanza colora di immeritata innocenza. Con un ritorno non proprio liscio, ma, alla fine pienamente successful nell’atterraggio. Seguono polemiche sul “lem”: c’è chi non lo ritiene sicuro, chi lo difende e chi consiglia prudenza e pazienza: lo si studi meglio, lo si renda più sicuro, e via proponendo. Nel marzo del ’69 Apollo Nove svolge quella che doveva essere l’ultima prova prima del volo con atterraggio, ma ce ne sarà un’altra. Piero Angela segue queste avventure e ci informa da par suo. Apollo Dieci, minacciato dalla pioggia, trova presto il sole e parte per la prova generale prima del viaggio-atterraggio (maggio del ’69). Dal solito Cape Kennedy abbranca il cielo con la sua sbalorditiva massa di scienza e tecnologia e sale, prima lento, poi via via accelerando, e pare disinteressato al satellite, mentre esegue gli ordini dei suoi padroni cervelluti (ma poco saggi). Assommerà 800 mila chilometri di orbitazione selenica. Ammaraggio come da programmazione. Nel luglio dello stesso ’69 una drammatica notizia semina perplessità sull’impresa, o almeno sui tempi previsti: un razzo russo, quello che porta l’ennesimo Sputnik, esplode. Alla NASA c’è chi suggerisce una pausa di riflessione: dopo la “conquista dello spazio” da parte dell’antagonista URSS, col volo di Gagarin, nel lontano 1961, l’America in gara sente riacutizzarsi il bruciore dello choc subito in quell’anno. Ma alla fine prevale il senso della sfida Apollo Undici parte (luglio ’69). Dentro lo spazio gravitazionale selenico si dispiega la delicata trama del progetto: gli astronauti si dividono i compiti. Collins resta a bordo del modulo di controllo, in orbita dentro il Lem Eagle Aldrin e Armstrong. Quando accendono il motore per l’allunaggio qualcosa non va. L’allarme si dilata fino alla base operativa. Il centro di controllo sembra sballare. Si rischia grosso. Le pulsazioni di Aldrin superano i 150 battiti al minuto. Momenti di tensione allo spasimo, ipotesi di annullamento della missione a Houston, la velocità di avvicinamento non è quella giusta, il computer-pilota sforna dati divergenti da quelli del radar, alla fine un gesto di coraggio estremo: lasciare il pilota automatico alle sue bizze e manovrare a mano, poi il computer ritorna normale, l’ “allunaggio” riesce, e così, pur con qualche altra complicazione, il ritorno sulla terra, l’ammaraggio, eccetera. A noi poveri indigenti della gravitazione terrestre bastano le immagini con i saltelli degli astronauti ingolfati nella desolazione lunare.
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Se non ricordo male, l’anno finale del settennio fu anche quello di tre famosi film, giudicati capolavori da critica e spettatori sensibili, e certamente degni di memoria storica: alludiamo al felliniano “Amarcord” (con quello stralunato Ciccio Ingrassia che sbraita dall’albero per avere una donna); a “Caos” e “Todo modo”, dei fratelli Taviani. Dalla nostalgia fantasticante di “Amarcord”, servita con riprese e quadri di gustoso impatto emotivo, al variegato mondo novellistico di Pirandello, non meno seduttivo; e dal Caos poetico all’impegno demistificatore e “profetico” di uno Sciascia disincantato, deluso dalla politica dei compromessi e della corruzione. Tre tappe magistrali della filmografia italiana.

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