giovedì 26 marzo 2009

Susanno frammento 19


V29 gennaio, ore 22

Ore nere, come si fanno fitte le vostre processioni in lutto! Che sia ormai prossimo il traguardo dell’imbecillità completa? Non riuscire a mettere insieme due pensieri, due ricordi. Soffrire per confessare nella maniera più banale questa impotenza. Essere costretti a ritornare continuamente sulla parola scritta. Sentire lo scontento diffondersi sempre più per tutto il corpo, la paralisi bloccare ogni potere di ordine, di decorso logico: ecco la pietanza che mi viene ammannita da alcuni giorni, il calice amaro in cui si rovescia l’acqua cristallina della speranza ancora una volta delusa, dell’autofiducia di nuovo prostrata. Che cosa mi rode il cervello?
Avessi almeno la capacità della rassegnazione, l’umiltà sconfitta della rinuncia. Lo sguardo attaccato all’oggetto fisico, non mi riesce di sollevarlo verso un nucleo coerente di contenuti mentali senza uno sforzo enorme, defatigante, mortificante: per evitare stolte incongruenze, termini banali, ripetizioni da trascinamento meccanico. La memoria mi tradisce sempre più spesso. Alla facoltà di rigoroso controllo logico-costruttivo si va sostituendo, appunto, la forza inerziale dell’associazione spontanea. Donde il rischio della ripetizione coatta. Scrivendo, pensando, lascio indietro i pensieri, e mi capita di perderli ad ogni snodo, cercando di connetterli a quelli che cerco. Una specie di frantumazione psichica.
Credo stia attraversando uno dei periodi più plumbei della mia inutile esistenza. Le vecchie lacune si allargano, le antiche debolezze si accentuano. Sono più che mai esposto all’influenza mimetica di tutto ciò che mi circonda, vivo o inanimato che sia. In particolare, mi debbo continuamente guardare dalla tendenza a imitare chi mi sta vicino: nel parlare, nel gesticolare, del muovermi, nello scrivere, nella grafia. La vecchia piaga si incancrenisce. Zelig minaccia, ghignando: una meteora o l’incipit di un’insidenza radicata? Stanchezza temporanea? Involuzione senza ritorno?
Il peggio è che non trovo cause per tanta desolazione. Che cosa mi manca? Ho un lavoro, ho testé superato bene un concorso a cattedre, il mio avvenire professionale si consolida. Ho una moglie, un figlio, i genitori, una famiglia allargata in via di sistemazione. Ho un passato lavorativo rispettabile, tre classi di alunne affezionate, che mi stimano. Un’attività culturale indipendente, delle collaborazioni giornalistiche con un seguito di lettori nel mio mondo professionale (colleghi, alunne, loro parenti…). Un angolo di mondo gelosamente blindato contro tutti e tutto. E nulla mi aiuta: né moglie né figlio, né scuola né affetto di alunne, né lavoro intellettuale né conoscenze illustri conseguenti. E nemmeno il blindato. Che paradosso!
Certo, non tutto quello che ho convocato a discolpa è senza colpa. Voglio dire, non tutto fila liscio nel mio piccolo cosmo. Il ménage gradirebbe più coinvolgimento affettivo nella partner, in verità mai veramente convinta della relativa fitness (dirlo in soldoni? Ma no, non occorre. Vero quaderno? Fra noi ci intendiamo). Il campo di battaglia scolastico apprezzerebbe di più colleghi meno invidiosi e più preparati, ciascuno nella propria materia. Le alunne: sì, sono affettuose, ma non tutte allo stesso modo. Non tutte sono convinte di avere dal sottoscritto quanto meritano. Qualche caratterino sospettoso non aiuta i rapporti fra studentesse e semina zizzania fra le amiche. Il bambino dà tanta gioia quanta preoccupazione: non socializza facilmente, soffre dell’asilo come di una punizione, di un esilio. Il mio lavoro intellettuale: ombre e luci. A volte più quelle che queste, a volte il contrario. Fra le ombre, il fallimento di ogni tentativo di lavoro grosso, di lunga lena. Insomma, da libro. Voglio dire: da prodotto finito, appagante, stampato da un editore vero. Finito: che bella parola. Le promesse mancate, la stanchezza che mi ferma al di qua di tanti propositi..
Ecco: forse è qui, nel lavoro intellettuale, la piaga che più brucia. O forse è il cumulo delle varie défaillances a premere verso la scivolata depressiva.
Né so meritare quel tanto di luce che brilla in questa caligine. Incapace perfino di farne arrivare il riflesso su queste pagine. E cerco alibi nella prigione che mi soffoca. Ma quale prigione può imprigionare lo spirito che non vuole, se lo spirito non è malato? Forse la malattia è meno rintracciabile di quel che credo. Forse bisognerebbe invertire il senso dell’analisi. lo spirito è astuto.

Ma che sciocchezze vado dicendo? Sono proprio a terra, dunque. Lo spirito! Una banale, anche se inafferrabile, biochimica ballerina mi scappa di mano per schizzare verso l’irreale e l’inerziale linguistico. L’inerziale, già: ché di questo si tratta, non d’altro. Ma, ecco, nemmeno questa inerzialità cieca può ammettere uno “spirito” sveglio, cioè una mente in buona forma. Chissà se i molteplici e moderati successi non siano proprio loro a creare il disturbo: per esempio, come paura di non farcela a confermarli e migliorarli. Ecco una buona ragione di ansia proiettata sul futuro. Insomma, un maledetto imbroglio.
E domani dovrei incominciare un corso di preparazione privata per una ragazza che si presenterà agli esami di maturità classica da esterna “saltatrice” (salterebbe la seconda classe). Dovrei insegnare italiano e filosofia. Che succederà? Cosa vuol dire la domanda? Ma è chiaro: temo di “non essere all’altezza”. Di non trovarmi nello stato mentale giusto. Dovrò perdere tempo a ripassare il contenuto di tanti classici; e sarà penosa sottrazione ai miei latini otia letterari e pubblicistici. Non avevo voglia di impelagarmi in simili “scontri”, ma l’amico che me l’ha chiesto è di quelli cui è difficile negarsi. Tra l’altro (o soprattutto) è il redattore capo (e quasi unico) del settimanale cui collaboro. Come firma appetita e riverita, certo, ma chi può dirsi indispensabile in questo microcosmo della precarietà, che è un modesto settimanale locale? Perfino la firma migliore, sarei: a detta dell’estroso direttore Titta Voti.
S’intende (anzi sottintende, credo), dopo la sua. Che, in verità, è valida ben al di là di tante altre, prive della sua lunga militanza giornalistica e della sua vivacità lessicale (specialmente polemica).
E cerco aiuto nelle sigarette, che forse sono una delle cause non secondarie di questa non voluta discesa agli inferi. Probabilmente si prepara un’altra crisi tossica (“tossicosi endogena” l’appella il nominalismo inguaribile dell’umano sapere brancicante: in questo caso, sub specie hyppocratica). Sento di nuovo il cranio come oppresso da un peso interno che si sposti da destra a sinistra e viceversa. Risalirò la china?

Domanda enfatica. Come tutta la confessione esorcistica (che rileggo, trepidando). Dopo tutto non si tratta che di temporanea stanchezza, accumulo di stress. Non è forse accaduto altre volte? Non sono forse risalito? E che diamine, queste paure del cavolo! Su, alzarsi e passeggiare. Vai in riva al mare. A quest’ora, d’inverno? Da solo? Mi prenderebbero per strambo esaurito e peggio, anche in compagnia di moglie e figlio, figuriamoci in astratta solitudine da nuvole. Ma la libertà? Condizionata. Come tutto.
E dire che metà del vaniloquio teologico si fonda ciecamente sulla postulazione sballata del libero arbitrio. Ossia, di una libertà che potrebbe vincere ogni barriera di coercizione, qualsiasi contingente condizionamento organico e dispositivo genetico! Perfino i radicali liberi impazziti. Rintocchi di campane diagnostiche: fumo troppo? Un troppo, intendo, relativo alle mie capacità fisiologiche di confronto nicotinico. Dormo poco? Poco, ut supra dixi, ma anche rispetto a una medietà normale. Sì, dormo troppo poco. E la bella accoppiata mi regala le squinternate paure che ti ho confessato, quaderno dei miei sospiri e gemiti. E delle mie piccole glorie.
Mi vedo davanti la faccia spaventata di Severino Kirkegaard: credeva tanto al fantomatico libero arbitrio da cavarne realissima angoscia: com’è facile scambiare i propri condizionamenti genetici per libere possibilità disponibili. E le proprie paure catalizzate dall’ambiente (in fattispecie, soprattutto quel padre e quella tenebrosa “scheggia nella carne”, inviolato segreto pudendo) per capricci di un Despota celeste che giochi con noi, suoi robottini citolologici senza potere. Per un ansioso superlativo come il Danese la resa al Despota è una necessità vitale: contro ogni logica evidenza decenza: tutta robetta da sacrificare alla malattia mortale (la disperazione) vitanda. Ma neppure questa chute disarmata allunga la vita.

30 gennaio

Caprichos goyani sui generis nei sogni di stanotte, anzi del primissimo mattino. Rivedevo in un ospedale la cara compagna di viaggio nella sua veste e funzione di infermiera. Io visitavo uno zio di Rina, colpito da un’ernia strozzata, e stentavo a trovare la stanza del ricoverato, già reduce dall’inevitabile intervento chirurgico. Incrociando un’infermiera, le chiedo l’informazione correttiva, e a un certo fulmineo momento identifico in lei la giovane signora del viaggio, che a sua volta riconosce me. Accoglienza cordiale e vibrante di sorpresa, fiorire di prevedibili domande, un’euforia da treno ritrovato: lei qui, come mai? E lei, è il suo ospedale? Le spiegazioni, i particolari. Certo, è proprio l’ospedale dove mi aveva detto che lavora. Ma allora mi trovo a Ravenna: come mai? Ma poi mi sembra naturale che mi ci trovi. Addirittura con la famiglia. E mi accompagna nella stanza giusta: gentile, sorridente, rimemorante (giudicai). Mi ci lascia, movimentata dal suo lavoro, ma non prima ch’io le abbia chiesto e ottenuto la promessa di un breve colloquio a visita finita. Il malato era assopito. Attendevo il risveglio, quando entra Rina con Giampiero. Lieto di vedermi, il bambino, e alquanto perplesso nell’assimilare quell’ambiente insolito (non lo avevamo mai portato in un ospedale, né è permesso farlo prima dei dodici anni). Si sveglia lo zio. Ha ancora dolori. Arrivano la seconda moglie del suocero e il fratello di Rina, il bel dongiovanni. E io penso: se incontra la mia signora la blocca con le sue arti seduttorie. Non ricordo il bla bla bla di circostanza. Buio. Poi ci troviamo, io e Rina, a seguire il corridoio verso l’uscita. E Giampiero? E’ andato poco prima con lo zio. Ad un tratto, senza alcuna ragione e plausibilità, Rina mi fronteggia aggressiva: “Ti pare una bella impresa quello che hai fatto?” Io, di vago rimando, ipotizzando cose lontanissime da possibili cause di gelosia: “Che cosa avrei fatto?” “Mi riferisco alla tua avventuretta di viaggio.” Basito, replico con una domanda gonfia di sorpresa: “Quale avventura, e quale viaggio?” Lei, vieppiù accigliata: “Non fare l’indiano, lo sai bene”. E via, per chissà quanti minuti (il solito tempo onirico snobba-orologi), lei accusando, io negando. Fino a che sbotta: “Ma se l’ho sentita raccontare, l’avventura, qua dentro, dalla protagonista!” “Raccontare, da chi? e a chi?” Incalza, stentoreo e spudorato, l’impossibile montato dall’oniron burlone .“A delle colleghe sorridenti e incuriosite, piccate!” “Farnetichi, Rinuccia bella. Chissà a chi si riferiva la narratrice imprudente, o magari millantatrice.” “Ma se ha fatto il tuo nome, ha sciorinato dettagli inequivocabili: il tuo viaggio di concorso, la notte, la pioggia, le troppe sigarette, e via dicendo”. Stacco, buio. Ripresa. Rina è diventata Susanna. Anche lei
con la grinta protesa della gelosia aggressiva, anche lei informata, ma dalla sorella, da una sorella che con Ravenna non ha nulla a che vedere, nella realtà, ma che sarebbe collega nello stesso ospedale della mia paramante di una notte vestita. Ci impazzisco. Ma che cos’è, una congiura degli Oscuri? “Non è vero niente, Susy, è pura invenzione.” Ho un bel protestare, anche lei ripete il mio nome come pronunciato dalla sorella che lo ha appreso dalla co-protagonista ciarlona. Susy mi sbatte in faccia che non mi crede più, che l’avventura ferroviaria stride penosamente (lei ha usato altre parole che mi sfuggono.. Il senso, però, è quello) con le continue presunte prove di passione che le ammannisco. Tanto meno con le poetiche dichiarazioni che commentano i nostri abbracci. Difesa impossibile, la mia, anzi, del mio avatar ferroviario, e segnali di panico incombente. Che sfocia in uno dei miei risvegli sudati e tachicardici. Nonché conditi di sonorità semiverbali.
Interpretazione provvisoria e minimale. La mia coscienza etica è così vulnerabile? Non s’è emancipata da simili quisquilie? Induzione quasi obbligata: vuol dire che non sono quisquilie. Né posso negare un certo imbarazzo anche da sveglio e con neopallio acceso e ben ragionante. Mi difendo, male, ripetendomi che in fondo sono peccati veniali. Che sono molto comuni. E, infine, che esiste, per dirla con l’amato Camus, “una fatalità delle nature” (repetita iuvant?) cui non ci si sottrae. Mi sforzo di accettarmi come sono, imperfetto e vulnerabile alla seduzione femminile. A lucidare meglio il pupazzo esorcistico, mi capita di ripetermi il mezzo alibi o l’equivoca attenuante: ho bisogno di conferme, non sono un bell’uomo irresistibile come il cognato e mio fratello, ogni consenso dell’altra parte mi costa sforzi e fatica. E via elucubrando. Ma sì, nessuno è perfetto. Mi fermo qui, senza citare i grandi nomi della letteratura maculati dallo stesso vizio.
*
Sul foglio bianco di un libro omaggio per recensione ho scritto una similpagina di questo diario. Mi capita di spargere per i “luoghi” delle mie deambulazioni letterarie le tracce del vissuto quotidiano. Naturalmente, se i suoi contenuti meritano queste pietre miliari dell’itinerarium mentis in mentulam. Quelli di oggi, sì, senz’altro. Anzi sono da albo signanda lapillo. Anche questa pagina bianca maculata di grafite conosce, così, il destino del “dire nascosto”, del mostrare celando. Ma qui la maschera non gioca tanto sulla profanazione-deformazione del linguaggio metafisico, quanto sulla traslitterazione ingenua: caratteri del greco antico per scrivere parole chiare (anche se non proprio, o non troppo, esplicite) dell’italiano corrente. Potrei trasferirle in questo quaderno, ma con quali caratteri? Quelli del greco antico? Con quale costrutto? Sarebbero richiamo di sospetti all’occhio interessato che gli capitasse sopra teleguidato dal solito dio burlone, sua divinità il Caso: che cosa mi nasconde mio marito? Ricondotti all’italiano, non è possibile: troppo esplicite. Troppo. Riconvertirle nel gergo ironico-metafisico? Al momento, non ne ho voglia. Forse è un senso di saturazione, è bene distrarsene. Ma che pena, certe rinunce! Gridano vendetta dalle viscere del silenzio straziato. Battono alle porte della Concessione a chiedere disperatamente di poter dire la gioia del molteplice scambio. Ma le porte restano chiuse, stasera. E amen.
Ego, voluptate perfusus e condannato al cauto silēre, penso, tuttavia, che potrei cantarla ut res per somnium acta. Ma è tardi, vedremo poi.

31 gennaio, ore 19,30

Ma sì: in questo vortice di nebbie al veleno svolgi, o Desiderio, le spire della sua speranza esperta di provate chances; canta le glorie della Mneme recente e della remota; reca su questi lini rigati il profumo dei floreali minuti che rotolarono lenti e colmi nell’imbuto del crepuscolo deserto. Che svolsero umili incanti in trine di respiri affannati, dentro la coppa dell’ora che ruota. A così breve distanza cronica dal rimemorante presente…
Ah, tuffare l’anima irritata in quel roseto nero e trarne ambrosia di umida vertigine, dove stordire l’impertinente coscienza e annegare la disperazione delle notti infami. Incubi dei miei sonni sconvolti, spine della mia invitta nevrosi attorcigliata al muscolo stanco che appena resiste a pompare la sua durata in forse; acciaio di rimorsi che insinuate aghi di sevizie nel mio superego astenico, affondate in cospetto al mondo che oscilla sopra la voragine nucleare, a dispetto di tutti gli dèi e degli aerei che cozzano contro il Monte Bianco, affondate, dico, nell’onda delirante della mia impazienza, e fate sprizzare i bagliori dell’assoluto dall’attrito relativo dei corpi che soffrono l’importuna distinzione separante. E sia bando alla sobrietà verbale.

Alfa e omega del mio spasimo elisio, benedizione al tuo cuore pazzo. E grazie siano rese al tuo cuerpo risvegliato. Anche se in parte deluso. Là in fondo, nell’umida porta tenebricosa profonda egemone risolutiva: là, in quell’abisso di umido delirio non siamo ancora entrati.. Né vi entreremo, a meno di un collasso della vigilanza propiziato dalla tua impazienza. Vorrei dire quasi metafisica, arretrando, per un momento, verso l’adolescenza ingenua e promozionale. Tu che dall’impotenza coatta e dall’impazienza frenata hai tratto l’orgoglio invidiato di un cupio dissolvi convertito in chimico scacco di conati “falliti” ed eccitazioni mutile, possiedi pure la rocca rosicata del mio “spirito”. Ermetismo? E mimetismo (acciaccato).
Volentieri carte e sterpi delle mie ambizioni umiliate faranno combustibile alla fiamma vieppiù divorante di questa fame che ha il tuo nome. E lacrime e bestemmie si versino pure a tentare di spegnere ciò che ogni respiro di memoria, ogni alito di attesa alimenta inarrestabilmente. Che posso fare? Spegnere la fiamma non so. Avvenga quel che può: più della morte prematura e di un inglorioso dolersi non potrà sortire questa buona febbre disinceppata.

Parole, lo so. Si fa presto a dire “che m’importa”, “avvenga quel che può”, e simili vocalizzi pseudo-eroici: maledirei mille volte l’inevitato evitabile; e, non conciliato, piegherei le malferme gambe. Onde para-sismiche di brutale biochimica mi attraversano il corpo all’orrendo pensiero di una chute di clamore sociale. Oportet ut scandala eveniant? Ma quando mai!
Because I love may little son, my only child, e perdere non vorrei neppure my wife; e questa tiepida bambagia che si chiama casa focolare letto coniugale caldo di confortevole corpo, ancora generoso di labili delizie e ricordi non discari. Né questo regolare moto quasi quotidiano e questa abitudine remunerata, né quel fiato di attenzioni femminili e quell’invisibile nube di calore affettivo che, tutti insieme, fanno il mio lavoro e la mia ibrida sorte.
E se la fama, la notorietà grande, mi rimane ostile, vada a cercare altrove fronti, e corna, da incoronare. Piango, forse, perché non sono alto il metro e ottanta che vorrei, né forte quanto il buon Carnera della mia infanzia ammirata? O bello come Gregory Peck e seducente come Clark Gable, e le altre stars della mia adolescenza sognante? Quali argomenti migliori saettano la mia scarsa energia psichica, la mia bucherellata memoria, la mia intelligenza reticente? Al diavolo, una buona volta, libri e cultura, erudizione e poesia, arte e letteratura, scienza e pensiero. E notti insonni consumate sulle sudate carte: morirò presto, morirei più presto. La prospettiva non mi alletta. Vade retro!
Lo so, lo so: finirà comunque, è già finita: nella assiderata coscienza di questa successione scontata, di questa infinita ingiustizia senz’appelli, vent’anni e trenta, venti giorni o minuti fanno poca differenza. Nessuna al cospetto dell’Assoluto, cioè del Nulla. L’Assoluto, ovvero il Nulla  scriveva già Mallarmé, l’ermetico del rigore lucido. Aveva ragione. Anche a infilarlo nel corpo della parola? Ironicamente, sì. Infilarlo: ma quali parole ti scappano, penna rossa! Un po’ di self control, andiamo. Magari dillo in inglese: to insert.

Ma che, perciò? Si vive con la coscienza (più o meno artica)? Si mangia con la lucidità del mezzogiorno polare? Si scopa con l’idea della morte, eretta a membro voglioso, forse? Maledetto il mondo e Ciò che l’ha fatto. Chi mi toglierà questa brama di vita che chiamo paura? Come spegnerei, gagliarda Ragione, questa arsura, questo fuocherello penetrante che la reclama giorno e notte?
No, non ho fretta di andarmene. Subirei come un’enorme ingiustizia uno sgancio prematuro. Ho troppa curiosità di vedere come va a finire il Contesto. E abbastanza interesse filosofico a raccogliere altre prove della inesauribile infamia umana. Lo spettacolo, l’ho sperimentato, spesso mi fa soffrire, mi appare insopportabile, supera ogni più bieca immaginazione? Tutto vero. Ma l’attrazione bivalente fa premio sulla repulsione revulsiva. E’ una sfida. Voglio vedere che altro sapranno escogitare, i miei simili, in fatto di torture e massacri, menzogne e trappole consolatorie. E quali altre miserelle risorse di buona volontà cozzeranno contro il ferrigno Eccesso non scalabile, a sottrargli solo bricole di salvezza.

Voce dal sen fuggita…Non sono del tutto mie queste parole baldanzose. Se potessi barattare il mio resto di esistenza con la fine di ogni violenza credo che lo farei senza troppe difficoltà. Dopotutto, vi salverei mio figlio. E con lui milioni di innocenti assoluti, cioè di bambini, contenitori vuoti di malizia umana. Anche quando ne appaiono precocemente colmi. Farneticazioni? E allora piantamola qui.

3 febbraio, ore 19, 24

Ho riletto le pagine precedenti. Vedo che non manca quel vento di sovreccitazione che caratterizza, da decenni, saltuariamente, le mie “esternazioni interne”. Sarebbe facile rilevare, anche, qualche contraddizione in termini, per così dire. Se la pagina del 29 gennaio fila abbastanza liscia, la sua pretesa di essere nel vortice della crisi in atto è infondata: la sua sola realtà fisica dice che si è un po’ più in là, che la crisi, bene o male, è già alle spalle, fuori da quelle righe e frasi scorrevoli e calzanti. E’ inevitabile: ci illudiamo di parlare del puntuale presente in corsa, ma in realtà parliamo sempre del passato. Sarà un passato lontano, sarà un passato di minuti o secondi, non possiamo che guardare a ciò che è (stato). Dire il presente che scorre verrebbe a significare parlare di ciò che ancora non è, non s’è fatto. Certo si tratta, magari, di tempi piccoli. Tanto da dare l’impressione di scorrere col tempo, di pareggiarne i contenuti in fieri. Ma i tempi di sfasamento ci sono sempre. Ora, per esempio, ho ancora l’impressione di parlare (scrivere) di ciò che non è, ma si viene facendo. Un attimo di riflessione mi convince che cerco le parole adatte a dire ciò che ho già in mente, già pensato. E sia pure in modo vago, non ben contornato di chiari perimetri concettuali. Una cosa resta comunque valida: è altrettanto vero che, scrivendone o parlandone, l’idea-contenuto si definisce, si determina, si chiarisce e matura.
*
Ma lasciamo la teoresi ad altri tempi e spazi. E qui concediamo un cenno alla mia allieva privata. E’ una ragazzotta dalle forme prosperose, ma anche di mente non torpida. Afferra con una certa facilità, specie le notizie di letteratura italiana. Legge con piacere i poeti e mostra una spiccata sensibilità ritmica. Meno alacre sul terreno filosofico. Altro neo: soffre di una tendenza sprecona a imparare i riassunti anche delle opere minori dei grandi autori. Ingenuità da scolaretta che ha perso il contatto con la scuola superiore (interrotta alla seconda liceo). Ma ce la farà. Si chiama Carlotta: mai nome fu più indicato, meglio coerente con la realtà corporale retrostante.
Le difficoltà di Carlotta stanno altrove. Me le ha rivelate, in camera charitatis, l’amico redattore che me l’ha inflitta. La ragazza ha delle strane crisi, che la medicina e la psicologia hanno interpretato come spiccato bisogno di sfogo sessuale. Il fisico del soggetto ha tutti i crismi per legittimare questa “lettura”. Lo hanno detto anche alla madre: la ragazza ha bisogno di sposarsi presto. Il più presto possibile. O le sue crisi si faranno più frequenti e drammatiche. Figurarsi l’imbarazzo della povera donna. O forse no, non c’è imbarazzo, e sono io, nella mia residuale e tenacissima educazione catto-sessuofobica, a immaginare difficoltà materne per simili casi? La madre, magari, sarà abbastanza intuitiva e realista da sottrarre a bacchettonesche intrusioni morali questioni del genere. Del resto, in questa parte della Megan Ellas a specchio dello Jonio, i problemi della sessualità sono vissuti con naturalezza pagana. E le donne,
in particolare, non indulgono (salve minimali eccezioni) a insipide rinunce o estenuanti rinvii. I tuoi fratelli, quaderno, ne sanno qualcosa.


5 febbraio

Susanna ha saputo della nuova allieva privata e fa la gelosa. Scherza, ma si indovina, nel tono faceto, una vena di autentica preoccupazione: teme che il suo prof si dedichi più alla nuova e trascuri la “vecchia”? Lei, intanto, dovrebbe studiare di più. Ma è contro la sua natura (la sua follicolina). Al contrario, la sua compagna di classe, Gabriella (detta Lella) lavora convinta, e raccoglie meritati frutti di generale consenso docente (insomma, buoni voti e sorrisi di approvazione).
Stanotte l’ho sognata. Susy, non Lella. Un sogno affannato. In parte ripetitivo di un precedente, già “relazionato” su queste pagine. Si era ad una specie di déjeuner sur l’herbe, fra tante ragazze e pochi professori; le ragazze erano per lo più della sua classe, e talune di altre ma dello stesso istituto. Una gita scolastica, probabilmente: che altro avrebbe potuto riunirci, in tanti e con tanta mescolanza, in aperta campagna? C’era anche un laghetto nelle vicinanze. E chissà come, sulla sponda di questo ci siamo venuti a trovare senza andarci. Guardinghi, nei nostri gesti e misurati nelle parole, lei sgranocchiando un panino al salame, a un tratto scatta con un inatteso quasi-grido: “Ah! a proposito: te la sei spassata in treno, nel tuo viaggio verso la capitale!” – Di nuovo? Sbalordito, replico, incredulo su quel suo ostentato sapere. “Chi te l’ha detto, l’angelo?” “Vorresti dire che non è vero?” “Certo che no!
Avevo ben altro cui badare: viaggiavo per affrontare un difficile concorso a cattedre, non per spassarmela.” “A me l’hanno detto, e chi me l’ha detto non mente!” – Ero sicuro di non aver parlato con nessuno dell’avventuretta ferroviaria: non poteva trattarsi che di una invenzione birichina della pazzerella. E invece lei insisteva sulla presunta confidenza del misterioso informatore. Nella solita logica bizzarra del sogno immaginai perfino che l’ignoto viaggiatore dormiente, che ad un certo momento si allontanò, discreto, dallo scompartimento, potesse incarnare quell’improbabile ruolo di pettegolo rompiscatole! Forse fingeva di dormire, forse la conosce, potrebbe anche essere un parente di Susy. Forse... In mezzo a questa girandola di forse mi svegliai, agitato, il polso (ut semper, in simili fattispecie) tachicardico, e mi ci volle qualche minuto a riprendere contatto con la realtà. E’ mancato poco che chiamassi Susy mia moglie, che beatamente dormiva al mio legittimo fianco.

Il sogno, come il precedente, mi ha lasciato una specie di inquietudine. E ne è germogliata la ripresa di un piccolo, ma concitato, esame di coscienza. Chi sono io, che non solo non riesco nella fedeltà coniugale, ma fallisco anche in quella extra? Sono un’anomalia? Un mostro? Un immaturo? Una vittima della neotenia imbizzarrita? Un Peter Pan filosofante? Risposta. Balle. Soltanto un mezzo farfallino con qualche prurito di problematica morale. Più difficile inserire in questo quadretto la non meno autentica vocazione culturale, la scelta professionale, la stima che (invidie e renitenze probabili a parte) mi circonda nel duplice ambiente, scolastico e paesano (anzi, bipaesano). Ma dove si anniderebbe la mostruosità?
Che bella occasione per spararmi una citazione latina: Homo sum, nihil humani a me alienum puto. Nemmeno i giochetti rosati del divo d’Annunzio esplicitati nelle conversazioni epistolari con l’amante convinta…
Non comprendi l’allusione, pigro lettore del tremila? Arrangiati, vai a cercare nell’epistolario dannunziano la saporia semantica traslativa di quel sostantivo nascosto dentro l’aggettivo floreale.

martedì 17 marzo 2009

Susanna frammento 18


25 gennaio, ore 23-24
Continuiamo a parlarci, diario: oggi mi sarà meno facile esserti sincero, ma poiché debbo comunque farlo, mi trasferisco, al momento, sul tuo brogliaccio vicario che ritengo meglio protetto dalle casuali incursioni della mia mezza arancia. Rifugiato fra la folla di insospettabili libri in perfetta mimesi, solo uno scherzo pretesco di sua divinità il Caso potrebbe farlo finire sotto gli occhi sbagliati. Che cosa cela e dilaziona tutta questa manfrina? Lo saprai fra poco. E apprenderai che quel tratto di cronaca spicciola e poco eroica appartiene al genere di informazioni da celare assolutamente a un ben definito giro di intimissimi.
E, se fosse possibile, anche a se stessi.

Sette giorni dopo aver seppellito lo zio ero in viaggio per Roma: il quindici dovevo presentarmi alla commissione del concorso a cattedre per sorteggiare l’argomento della (finta) lezione. Gli ultimi giorni di relativa serenità in seno alla famiglia avevo studiato con lena un po’ affannata (e anche disturbata dalle improvvise visioni del dramma recente). La sera precedente la partenza, ho cercato aiuto in un blando sedativo per garantirmi poche ore di sonno.
Sul treno, cercai nella 1a classe l’estrema condizione per un ultimo sforzo di attenzione operosa verso la prova incalzante. A Taormina un viaggiatore nuovo distrusse la mia beata solitudine. Studiai ugualmente fino a Santa Eufemia. Qui la volontà degli dèi decise la mia sconfitta.
Tentai, sì, un’ardua continuità di sforzi attenzionali sopra un’ostica materia, ma una ritmica prevalenza di attività, o passività, visiva ne comprometteva saltuariamente ogni efficacia. La nuova polarità non era di quelle che ammettono scampo. Se ne riempiva lo scompartimento, e le sue vibrazioni attraversavano la durezza scostante delle proposizioni hegeliane della famigerata (e troppo onorata) Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: ne venivano scompigliate le già difficili convergenze verso l’alveo stanco della comprensione attiva. Il mio corpo stesso era stato già sollecitato ad interventi preliminari di servizi cattivanti: il vetro del finestrino era duro da alzare e abbassare; non abbassato, faceva ostacolo a maritali necessità di effusioni da commiato. Le mie braccia poco erculee pur bastarono a tanto. Il sedile di fronte era in parte ingombro del bagaglio del “signore” accanto a me. E la nuova presenza ne vedeva impedita la propria comodità: la mia vigile iniziativa fu sufficiente solidarietà al sollievo impedito.
Ci fu poi un piccolo premio a tanta solerzia: gradito, tempestivo, dolcemente euforizzante. Insomma, una Muratti con filtro. E la sigaretta dal filtro cinereo fece gradevole sintonia, tra le mie studiose dita, all’avidità fumante del nuovo coagulo biologico dell’Idea fattasi Natura. Magnifico coagulo, e tanto magnetico al cospetto della mia irritabilità nervosa: né alta né bassa, di polpa sodamente ben distribuita, di viso simpatico (e potrei dire anche bello), con occhi chiari e luminosi, chioma biondo-rossiccia; sveglia, vivace, l’aria intelligente, gradevole la voce di timbro velare. E il solo difetto, in quel precario contesto, di fumare tanto. Che altro, per subire la sirena?
Le precedenti immagini di morte intrecciarono una nuova danza (tutt’altro che macabra): tra le alternanze discoste del testo hegeliano e dell'esame imminente c’era, ora, in crescendo, la nuova emissione vibratoria. Assorbente, questa, al punto da cavare dall’Idea funerea forza motrice al proprio prevalere. Che fare? L’Idea predilige i corpi al punto da assorbire le immagini del ricordo nelle irradiazioni di questi. Non ripete lo stesso Hegel l’antica verità del Verbo incarnato? Nel secondo dei tre momenti fenomenizzanti l’essenza metafisica del mondo si fa mediazione di concretezza carnale tra Idea pura e Spirito..
Io resistevo: s’era tanto infiltrata la paura nelle mie molecole nervose – sarei sopravvissuto a un insuccesso al concorso? – che a lungo mi contese all’incalzante violenza della nuova insidia. Così, per qualche ora, raggi visivi e raggi intellettivi fecero inquieto intreccio nell’aria calda del compartimento dai sedili rossi, in una versione umiliata della lotta con l’Angelo.
A mezzanotte, però, la stanchezza mentale mi fu ultima e più convincente galeotta: riposi Hegel nel suo astuccio e avviai il metodo socratico, in chiave di aggiornamento e direzione eterodossa. L’obbiettivo rispose. Altre sigarette mi offrirono spunto ad interventi non muti sulle aperture del compartimento: si soffocava, e cambiare l’aria interna diventava igienica necessità quasi vitale. Proposi la luce blu per un tentativo di sonno. Il mio vicino dormì, dormì anche l’altro ospite, aggiuntosi in successiva fermata al taorminese. A me furono richiesti calcoli e progettazioni dal Fato giocherellone che muoveva l’insieme.
Era l’una notturna del nuovo giorno quando la biondo-rossiccia incarnazione fenomenica dell’Idea fuori di sé (e momentaneamente, fumando come un piccolo Efesto, fuori dal compartimento) si scosse e si rimise a sedere. Il metodo socratico riprese le sue avances preparatorie. I gabinetti di decenza ci sono, sui treni, anche per tracciare intervalli di silenzio al metodo socratico. E persino per suggerire audacie un po’ matte che, per fortuna, qualche viaggiatore insonne si incarica, mole ostinata a mezzo il corridoio, di scoraggiare sul nascere. Né si può stare a leggere, “studiosamente”, seduti sul ligneo seggiolino retrattile che si trova in fondo alla vettura, di fronte alle toilettes. Questo lo capiva anche l’Idea dall’appendice respiratoria pronunciata e aggressiva. Dunque non fu senza giustificazioni che il mio corpo tornò a preferire il calduccio accogliente del compartimento al freddo scostante del corridoio e del suo sedile di duro legno solitario. La piccola anàbasi dal fondo della vettura al molto centrale compartimento avveniva pochi minuti dopo la rentrée polarizzante. La cui titolare, suppongo, risuonava del mio diapason, polarizzata anch’essa. Ma con quale disposizione intenzioni mezze intenzioni? Era tutto da scoprire, e l’impresa cominciava solo ora, dietro preliminari anòdini. Esitanti, dapprima, e in saltellante casualità esplorativa, poi vieppiù compatti e sequenzialmente decisi.
Il metodo socratico funziona bene anche alla fioca luce blu di un compartimento di prima classe. Né si lascia disturbare dallo sferragliare del treno, che è diverso, si sa, da un frinire di cicale nell’afa attica carezzata dall’ombra di un faggio e dalla frescura dell’Ilisso. L’ospite al mio fianco dormiva sodo, dunque nessun disturbo da quella parte. Almeno finché durasse la sordina. La conversazione si infittì, e mi apprese molte cose dell’Idea-fuori-di-sé, dalla “g” tendente a “z” per contagio ambientale. Lei è a Ravenna, lui a Cosenza; lei lavora all’ospedale, lui ha una “scuola guida”. Si vedono ogni quindici giorni: lui va su, lei lo accompagna giù. Sposi da un anno, si sono conosciuti così e così. Lei è di Palermo, lui calabrese. Il padre di lei è sottufficiale dei carabinieri, così lei ha visto tanta parte d’Italia. Si scrivono ogni giorno, lui anche due volte al giorno: tutti espressi, e telegrammi. Cui si
aggiungono le telefonate.
Si amano? Certamente. E ciascuno a suo modo. Egli è meridionale: controlla, diamine. Le Poste italiane vorrebbero molti utenti come lui. Studia di riunirsi per tempo alla separata metà. Niente figli, naturalmente: come si farebbe in tale situazione? Ma quella fitta comunicazione quotidiana! Ogni eccesso puzza di malattia: qui più che amore come paritaria reciprocità appetitiva si mostra morbosa gelosia del maschio meridionale tipicamente radicato nell’idea del possesso totale. Le smancerie dello scriversi e sentirsi più volte al giorno sono forme di pressione vigilante. Si amano, certo: sono sposini. Certo, sì: ma fino a quale vetta-limite-esclusività? Bisognava insistere, fare onore all’impegno cognitivo. Sapere, a quel punto, era questione di vita o di …botte.

Fuori piove, il treno scivola veloce sulle rotaie bagnate. Saranno le due, le due e mezza della notte. Notte elettrica, non può essere altrimenti.. Un’indifferenza assoluta non avrebbe alimentato così folto conversare, non è vero, lettore fantasma? No? Perché no? Sarei il solito meridionale “malpensante”: una giovane signora non può mostrarsi, dunque, civilmente gentile e conversevole, senza nascondere prurigini segrete? In un’occasione come un viaggio in treno, lungo e, diversamente, noioso? E mica col primo arrivato, anzi: con un giovane professore che va ad affrontare il drago di un concorso a cattedre, e si lascia distrarre dalla sua passione forzatamente dominante per fare un po’ di compagnia, di svagata conversazione con una giovane bella signora forzatamente separata dal marito, lontano ma innamoratissimo. E vigilante.
Già, appunto: lontano, un po’ troppo innamorato, more geometrico, un po’ asfissiante, forse. Ma insomma, niente di abissale: qua si lavora per qualche scampolo di conversione tattile della conversazione normale, cioè soltanto verbale e aeriforme. Le sigarette si susseguono a ritmo sostenuto: dio quanto fuma. La prego, perfino, di frenarsi, ché le fa male. Né è agevole aprire finestre e porte, per cambiare aria: si rischia di svegliare i dormienti. Ma, davvero, signora, perché fuma tanto? Le rovina la salute. – Soprattutto, non giova alla mia, gentile compagna, e candidata resistente a una modesta avventura di viaggio. Mi intossica, e io ho bisogno di conservare, o recuperare, stabilità e lucidità mentale. Dice che di solito non fuma tanto, che stanotte sta esagerando. E perché mai? Colpa di Hegel? – “Lei sa, signora, che la nicotina abbassa anche la libido?” – A quest’azzardo audace (al limite dell’insolenza? E sia) lei oppone che no, non lo sapeva. Pensiero non esternato: lo fa apposta? Per sventare il rischio della tentazione (mia, sua)? E tuttavia, perché dovrebbe saperlo per forza? Non è così istruita.
Sì, lo so: dovrei studiare. Ma, poi, come farei, con tanta grazia vicina, così vicina, a un palmo dal mio naso? E anche meno dagli impazienti polpastrelli già formicolanti di pruriti cinetici! Il piccolo Socrate d’occasione si fa pressante, stringe la presa. Siamo, in breve, alle dichiarazioni esplicite (mie). “Risponde” egregiamente. “Questo signore accanto a me: possibile che non abbia alcun bisogno? E quell’altro nel corridoio, accidenti! Avevo concepito un’idea pazza, lui me l’ha spezzata.” “Ah, è per questo che stava fuori dunque?” “Già. Per questo. Cosa avrei conseguito? Dica” – Dice: “Una sberla, forse” “Un vero dono, da quelle mani!” Banale? Sia pure (al quadrato). Andiamo (e ripetiamo), mica sto parlando a una scaltrita intellettuale! Riprendo: “Ah, questo macigno immobile. Senza alcun bisogno della normale fisiologia espulsiva! Certo, se ci lasciasse soli tenterei la… sorte.” “Ma quale sorte, che
va a pensare, scherza?” Questo dice, la maliarda notturna. Ma in tono leggero, con un’allumacatura di sorriso deliziato. “No, non scherzo. Non potrei resistere. Voglio i suoi promessi o presunti schiaffi.” “Ma è pazzo? Che sciocchezze. Allora è meglio che quel signore sia di sasso.” – Recita la civile indignazione e finta sorpresa. Nel medesimo tono ludicamente piccato. Rincalzo: “Fosse, poi, di sasso. Mi sa che sente. E mente. Potrebbe anche vedere. Forse lo abbiamo svegliato. Poco fa, però, dormiva, di sicuro.”
Fitto, insomma, lo scambio verbale. E tutto dentro un sussurro continuo: un lene ruscello di casta seduzione. Strana sua domanda-commento, dietro l’espresso sospetto sul viaggiatore finto-dormiente: “Lei è così impressionabile, dunque?” – Rimugino. Perché me l’ha fatta? La domanda, dico. Non dovrei preoccuparmi di un eventuale testimone indiscreto, forse perfino impiccione? Rispondo, finto tonto: “Sì, lo sono, ad onta della mia filosofia.” – Poi mi illumino: Ma no, non si riferiva al viaggiatore accanto a me, al mio timore su di lui. Che sciocco, avrei dovuto capirlo. O, più che sciocco, appannato: dal fumo nicotinico, dalle scorie azotate del modesto metabolismo, dal sonno perso, che moltiplica i “radicali liberi” (beati loro). La risposta, però, andava bene lo stesso. E semmai potevo allungarla, e magari infiorarla un po’. “Nel mio composto psico-fisico, vede, lo spirito non è riuscito a sganciarsi dal corpo, ad emanciparsene, come si dice. Molti, troppi, dichiarano di dominare il corpo con lo spirito: io sono di quelli che restano esclusi da tanta grazia. In me, il corpo domina e comanda lo spirito. Ovvero, se vogliamo offrire un inchino al padre Dante, io sono fra “i peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento” Conosce Dante? Certamente, “ma poco meglio di quel poco che insegnano al liceo Scientifico.” “Non mi prenda troppo sul serio: sto scherzando. Il famoso dominio o autocontrollo spirituale è solo un esito fisiologico: di paure calcoli ostacoli avvertiti come insuperabili e resistenze interne varie. Che, stanotte, in me non ci sono affatto. O non abbastanza da neutralizzare il suo effetto su di me. Per una sorta di pudica modestia non ho detto fascino. Ma la sostanza è quella. A voler continuare con la modestia, potrei precisare così: questione di pelle”– Lei, piccata: “Che vuol dire?” “Ribadisco quello che ho già detto: mi fa sangue, come si dice da noi.” “Anche da noi” “Certo, visto che il da noi ci è regionalmente comune. E va bene così: ci capiamo meglio”.
Sappiamo ormai abbastanza l’uno dell’altra: alle sue confidenze autobiografiche, naturalmente, ho fatto seguire le mie. Io sono un professore di filosofia, sono sposato, ho un figlio, vado a sostenere la prova orale di un concorso a cattedre, eccetera. Se mia moglie è bella? Che importanza può avere, qui, per noi, stanotte, su un treno che unisce e separa? Ma sì, dicono tutti che è bella. Io che dico? Mi associo, che altro potrei fare? E’ così evidente. “Cosa?” – mi chiede? Ma la sua bellezza. Se ho qualche contestazione da farle? Perché me lo chiede? Per le mie avances? Suvvia!
Io sposato, lei sposina; una bella moglie, un “normale” marito innamorato. Sembrano barriere che si accumulano tra noi; ma questa luce, la quasi solitudine, questo silenzio soffiato dai nostri sussurri, questa notte rigata di pioggia su un treno che taglia il tempo... – “Sì, è questa luce. Anche questa luce. Perché, veramente, è da che l’ho vista entrare che mi “impressiona”: arriva qui, si toglie cappotto e maglietta, mi resta a braccia nude, accavalla le gambe… Addio Hegel. – Come dice? Certo, dovrei avere più self control: chi lo nega? In altri tempi sarei stato espulso dalla Repubblica dei filosofi. Ma lei, signora, non è sensibile a questa luce? Non dica bugie. Non vale nemmeno pensare che io possa riuscirle tanto sgradevole: ci si vede così poco! Resta un uomo, un corpo di sesso opposto, vicinissimo al suo, quasi al buio, su un treno che ci unisce per separarci, che ci accosta per qualche ora e ci allontanerà per sempre.
Tutto, qui dentro, invita, smorza gli scrupoli, offre una parentesi che si chiuderà senza propaggini, senza seguito né complicazioni. Come? No, non è credibile. Troppo saggia, mi vuole umiliare, prendersi lei la parte del filosofo che domina il corpo, che imbavaglia i sensi. E mortifica, magari, la semplice curiosità frenata. Mi sta dicendo, con i suoi dubbi, che è anormale! Prego, prego, resti calma: lo dicevo giusto per provocarla. Lo so, lo so: non c’è nulla di più offensivo per una donna, niente di più irritante. Me ne scuso (trovami una donna che accetti di essere giudicata frigida).
Riprendo l’assedio. “Lo sa che cosa mi viene di pensare? Che lei non ignorasse affatto gli effetti libido-depressivi della nicotina, e che stia fumando troppo per abbassare la mia libido e tenere calma la sua.” – Ho troppa fantasia, dice? Può darsi. Ma soprattutto ho buona vista. – Carina la storiella della sua amica che per togliersi di torno un corteggiatore gli dice che è frigida. Sono già le tre? – Ecco, mostri pure le gambe e pretenda che io stia calmo. Ma no, non si copra, è inutile: me le sono già disegnate, anzi scolpite, nel ginepraio dei miei neuroni come le tensioni della sua gonna suggeriscono. – Questo signore inamovibile! – Si muove? Diavolo, è vero. Si appresta ad uscire. Stento a crederci. E’ uscito. E ha chiuso così bene. Un benefattore consapevole, caso raro. Pensiero inespresso: che coglione sarei a non gradire la cortesia? A non tentare la sorte, l’umida sorte ridesta. E non solo di pioggia esterna, umida.
“Ma che fa? Stia fermo!” “Fermo? Che pretese!” “Stia fermo, le dico.” Ma è il come lo dice che non mi frena, anzi. “Scherza? Sono ore che mi carica, quel signore se ne va, e lei pretende che io stia fermo. Su, sia buona…” “Ma stia fermo, stia ferm…, fer… Oh! E’ impazzito? E’ pazzo, pazzo…” Quante parole, mon Dieu! E quanto stridenti con timbro tono intensità sussurrata della calda voce. Per così poco? Per una gragnola di baci sparsi, come fresca pioggia contro prurito d’afa, sull’intero scoperto superiore, viso, collo, luna di petto… – “Non abbia tanti scrupoli, si lasci andare, non chiedo molto, solo qualche bacio, carezza, abbraccio. Questa parentesi si chiuderà, domani non ricorderà neppure il mio volto. Non siamo nella realtà: ecco, pensi così, pensi che questo improvvisato boudoir mobile che sfreccia nella notte sia un taglio di sospensione nell’ordine normale delle cose, nella corrività banale del tempo quotidiano e dei suoi troppo noti e prevedibili spazi. Domani riprenderà la sua vita e questo incontro sarà stato un sogno: faccia che sia piacevole. Io sono un fantasma, uno spettro di provvisoria carne che le prime luci dell’alba dissolveranno: si può peccare con un fantasma? Non si irrigidisca, allenti un poco, solo un poco, i suoi freni severi. Basterà che mi creda, che, nel mio caso, l’appetito non vien mangiando.”
Questi scontati sofismi da manuale non filarono, si capisce, in un discorso continuo. Si inserivano, a caso, tra una presa e l’altra del delizioso “scontro”. A contrastare, anche, sovrastando, le sonorità strozzate di lei, le mezze parole, le interiezioni esclamazioni e congiunzioni che la contorta cinematica delle mie braccia le strappava. E forse non furono senza verificati effetti, se l’intreccio delle… linee di forza fece sempre meno estranei i nostri corpi. Ah, la sua resistenza declinante, le sue minacce sempre meno convinte, i suoi freni sempre più larghi e stanchi. E le sue forme generose, di solida e ben distribuita fibra-muscolo, vieppiù, e rapsodicamente, scoperte, meno protette, più toccate premute esplorate con mani pazienti, con dita furtive e benedicenti, con bocca tanto più insinuante quanto meno vigore scopriva nella dapprima forte (ma non scostante) opposizione (una specie di noblesse oblige ben recitato davanti allo spettro maritale).

Il terzo ospite tornò. Quanto tempo ci aveva regalato? Mezz’ora, un’ora, forse. Unica misura di quel lembo di Crono fu la stanchezza, che verso le cinque del mattino mi consegnò a Morfeo. L’avventura era finita, conclusa per grato esaurimento delle forze e per manifesta impossibilità di residua solitudine. Un’avventura volgare? Non direi. Quella resistenza mi aveva sottratto l’ultimo approdo, ma era stata anche deliziosa condizione alla qualità delicata della chance. Né devi fraintendere, quaderno: l’ultimo approdo è sempre un problema di tatto, dita, calda mano esploratrice. Mai pensato (l’ho già detto?) a congiungimenti integrali (forse l’aveva pensato-temuto lei, e perciò tentò di evitare l’incipit). Mai pensato, no: evito di pesare l’impossibile. Semmai, a una certa reciprocità manuale. Che non c’è stata, dunque. Cioè, non nelle misure auspicate, solo in Blick di fugacissimi assaggi, di umide soglie appena toccate,
fra tricotici impicci resistenziali. E di turgori non proprio afferrati, più tangenzialmente sfiorati che possessivamente premuti. E tuttavia, la messe appagava, e come!
*
Alle sette l’ospite generosa mi svegliò: eravamo già alla stazione Termini. Lei era quasi pronta per scendere, io dovevo ancora indossare giacca e cappotto, mettere in ordine il bagaglio. Ero stordito, appannato. Mi salutò con un neutro “buongiorno” e fece per andarsene. L’“offesa” bastò a ridarmi lucidità, la fermai, presa per un braccio: “Si saluta così?” – Sorrise, e mi diede la mano. Che strinsi forte, sussurrandole parole dolci. Sopra vi spolverai pula di zucchero: scuse delicate e ipocritelle su eventuali mie eccedenze.
Scomparve. Sceso dal treno mezzo addormentato, non riuscii a vederla tra la folla. Era buio, pioveva. Stentai a raggiungere la parte centrale della stazione. Mi infastidiva il pur non pesantissimo bagaglio. Raggiunsi l’ufficio informazioni e chiesi del prossimo treno per Ravenna. Lo raggiunsi, lo percorsi da cima a fondo: lei era nella prima vettura. Mi accolse con lieta sorpresa. Non riuscivo a digerire quel distacco brusco, quel saluto frettoloso. Glielo confessai. Lei apprezzò: segno, in quell’anima pulsante, di delicatezza e femminilità. Segno, anche, di un certo internarsi del feeling sotto lo spessore dermico. In entrambi, sono autorizzato a dirmi, considerata l’accoglienza tenera. Poche parole ancora, intense, quasi contatti di pelle, pressioni di muscoli su muscoli. Quale intensità fisica possono raggiungere le parole, in certe condizioni. Sentivo già il prossimo vuoto. Due baci sulle guance, per un ulteriore tassello del prossimo ricordare: la pressione delle sue labbra sulla mia fresca pelle, umida di piovosità diffusa.
Ma ben altro mi aspettava: maiora premunt, mi dissi. Ci scambiammo gli indirizzi e promesse di cartoline illustrate.

domenica 8 marzo 2009

Susanna frammento 17


Quaderno due

15 gennaio, ore 18, 30

Ordunque è tempo di bilanci. Questo quindicinale vortice di sconcia chimica deponga i suoi precipitati mnestici sul registro rigato di questo supporto friabile. Il primo capitolo si chiama zio Silvio.
L’Inevitabile è tornato. Puntuale come un agente del fisco, si è ripresen-tato all’esazione crudele delle scadenze. Si sperava una dilazione, abbiamo avuto un’anticipazione. Un altro piedistallo è crollato e l’idolo è in pezzi. Cumuli di ammirazione infantile, catalizzati dall’affetto fraterno, profumavano la nostra anima di nipoti, pur uomini ormai, e non inclini all’idolatria, e tuttavia tanto onesti quanto bastava a riconoscere meriti innegabili. E perciò a rispettare anche sconfitte in gran parte a noi oscure. Quegli echi di una lontana infanzia sognante, così bisognosa di miti, aiutano, certo, a concedere eventuali sconti al tribunale del presente devastato. Tribunale a volte severo, persino presso lo stesso fratello dell’idolo infranto e nostro genitore: artefice primo della pedagogia adorante di noi figli, eppure, nei tempi recenti del riflusso mortificato, reso quasi immemore verso una lunga carriera di soccorsi in tempi duri, siglata “zio Silvio”.
Già. Lo zio Silvio, lo “zio d’Africa”, pilastro della casa in quei tempi di crudele indigenza e sconforto, pane alla fame incalzante di una “famiglia numerosa” in lunghi anni di quasi totale inerzia forzata del capofamiglia disoccupato e malato. Lo zio “ricco”, lo zio abile, intelligente, istruito; lo zio serio, compito, coraggioso: il fratello riuscito di mio padre, il miglior prodotto della schiatta. L’uomo, addirittura, che avrebbe potuto essere Mussolini o Krusciov (sic), sol che condizioni propizie non gli fossero mancate: tale, l’infatuazione del nostro genitore, afflitto da carente dinamismo pragmatico, verso il fratello maggiore, tanto diverso da lui, tanto più guarnito di muscoli e artigli nell’arena-giungla del mondo ostile. Cioè, del mondo civile.
Infatuazione durata intatta per tutto il tempo della remota assenza dello zio, quindici anni, a scandire i quali, con regolarità mensile quasi perfetta, erano state le lettere scambiate fra i due fratelli. Lettere somiglianti, espresse da una uguale attitudine alla scrittura nei due germani, ma più scorrevoli e corrette quelle del capitano. E papà ce le additava, a noi fratelli soprattutto, come modelli: per quella scorrevolezza priva di impacci, la concretezza del discorso, la maniera spiccia e diretta di investire gli argomenti e dire i pensieri. Il tutto, dentro una correttezza sintattica impeccabile, e con una proprietà lessicale degna di un buon insegnante d’italiano. Mandava anche i famosi aiuti, più concreti di ogni concretezza colloquiale. E così era diventato, negli anni teneri, il piccolo dio lontano, che mandava riverberi di foto ammaliatrici e vitale sostanza di denari sonanti, appena velati in assegni e vaglia. Ah, le mani tremanti
del genitore nel prendere quella preziosa carta!
Dopo anni di sogni e vaghe attese, era sceso fino a noi, il piccolo dio. Finalmente: dall’Eritrea bruciata, quella sorta di realtà virtuale appena agganciata al mondo materiale da quei contatti troppo mediati (lettere denaro e rare fotografie), diventava corpo e voce, presenza fisica di autorità e prestigio. Dapprima, davanti ai miei sedici anni ansiosamente inesperti, in quel dopoguerra di povertà avida e patita. Poi, accanto ai miei ventitré assennati, pronti di comprensione solidarietà e consiglio, al cospetto dell’intera tribù, stretta allo sdegno moralesco per il legame non regolare dello zio: una donna separata dal marito e con tanto di figlio da mantenere agli studi. Un brutto colpo, per i parenti più vicini. Papà lo voleva sposato regolarmente, con “un buon partito”, che certamente non gli sarebbe mancato fra le nostre conoscenze. E mamma annuiva al marito: troppo divergente, la situazione del libero convivere, per la mentalità popolare dei miei genitori. Nella mamma, poi, confermata da tenaci connettivi religiosi di antica tessitura. E si pensò, arditamente, di premere sullo zio, quasi cinquantenne, in un convergere di attacchi mirati e variamente calibrati, tra delicatezze e perorazioni, con uno schieramento largo di affini e intimi, perché rompesse quel legame e accedesse a una sistemazione ortodossa.
Era venuto solo, in quel 1955, lasciando a Genova la compagna, proprio per sondare il terreno degli umori parentali. E fu un sondaggio doloroso: lo sbarramento compatto di ostilità, condensato al suo massimo nella frenetica sorella unica, nubile e gelosa, di pronta lingua e impaziente di “accasarsi”, convinse lo zio che non era il caso di far venire la sua Eleonora. Fu, forse, questo rifiuto, l’inizio della sua rovina..
Ritornando in Africa, lo zio lasciava a Genova la sua compagna, che sarebbe stata raggiunta dal figlio poco tempo dopo. Nella città ligure, Nora (così si abbreviava quel nome detestato dal parentame) doveva curare gli affari comuni, dello zio e di lei: avevano in progetto di comprare casa e aprire un bel locale, un bartabacchi, in buona posizione commerciale. E qui aveva avuto inizio l’emorragia di denari: la donna chiedeva e lui mandava. Non bastavano mai. Al suo rientro definitivo dall’Eritrea, nel ’59, lo zio di acciaio si trovò davanti a un’altra situazione difficile: la zia Vanna, la bionda sorella gelosa e impaziente, convolata, in sua assenza, a regolari ma improvvide nozze con un artigiano fi-nanziariamente incasinato, era assediata da creditori sempre più incalzanti e minacciosi. Banche, enti pubblici (l’Enel, il Comune, la Regione…), privati in legittima diffidenza, o stuzzicati da possibili occasioni di vantaggi mercantili, avanzavano ormai senza remore verso l’esito di espropri forzosi e preliminare dichiarazione di fallimento. Sotto minaccia, poderi, terreni, la stessa casa paterna del nuovo zio, Nando, bravo ebanista e mobiliere, ma pessimo amministratore. Tanto quanto il fratello socio, Liborio, anche lui buon lavoratore, ma cattivo uti-lizzatore del proprio tempo. Entrambi, poi, troppo fidenti verso operai non oppressi da esorbitanza di zelo. E così, tra sprechi di tempo dei titolari, dolce far poco di lavoranti, ritardi nelle consegne, disinvolta ignoranza di scadenze, la barca bucata della piccola azienda aveva cominciato a fare acqua di naufragio.
Breve. A chi doveva rivolgersi la zia in ambasce? Ci potevano essere dubbi? Al benefattore di sempre, al fratello-provvidenza che l’aveva mantenuta da lontano, al fratello-padre che le aveva fatto la dote, che certamente non l’avrebbe abbandonata. E così zio Silvio aveva comprato, per una diecina di milioni, un fabbricato incompleto, eretto dai fratelli Scalaroni nella campagna di Albano con l’idea di farne un nuovo laboratorio di falegnameria. Il contante rivitalizzò per un po’ di tempo la nuova famiglia, già pingue di tre figlie. Furono pagati i debiti più urgenti, si ottenne tempo per gli altri, si tornò a vivere con più speranza. O meno disperazione.
Ma lo zio Silvio si trovò presto a constatare vuoti imprevisti nei conti. La doppia suzione aveva quasi essiccato la mammella dei risparmi. Lo zio chiese rendiconti e ottenne vaghe parole. A Genova la situazione precipitò. Liti, rinfacci, malumori annerirono le sue giornate liguri, in un crescendo che ebbe il suo culmine nelle parole infami del figliastro, una sorgente dalla quale non si aspettava che gratitudine e affetto. In una delle discussioni intorno al modo migliore di uscire da una situazione non più gestibile, il giovanotto esplose in faccia allo zio impreparato un brusco “Ora hai rotto le scatole”. Peggio di una sventagliata di mitra alle spalle. Gli crollò addosso quel piccolo mondo di affetti garantito, cresciutogli negli anni granitico e puro. Fino a quel brutto momento, il capitano aveva potuto contare sull’atteggiamento solidale del figliastro: era stato sempre comprensivo, mediatore di pace. Cos’era accaduto perché venisse fuori un occasionale mister Hyde da quel mite dottor Jackill sempre rispettoso? Come se l’era lavorato la madre, dietro le spalle del compagno assente, certo ormai condannato alla liquidazione? Anche a quell’uomo esperto del mondo era toccato, dunque, quel destino fra i meno sopportabili: subire, impotente, gli effetti della maldicenza mirata, il logorio sottile del complotto dietro le spalle.
Lo zio tornò da Genova malato. Non con sintomi eclatanti, ma certo doveva avere manifestato le prime avvisaglie del male. E forse qui è la chiave della grande crisi. La donna avrà pensato: questo mi si ammala, a me toccherebbe curarlo, vederlo invecchiare, aggravarsi, morire? Se lo godano i parenti: questi bacchettoni fottuti non mi hanno voluta allora, quando lui era sano e pieno di risorse; ora se lo piangano. E l’aveva “licenziato”. Non bruscamente, è ovvio (molte controindicazioni frenavano l’eventuale durezza), ma in un non lunghissimo snocciolarsi di giorni sempre meno teneri e comprensivi, sempre più litigiosi e aspri. Fino a che il poveretto fu costretto a prendere atto della nuova realtà. Non senza qualche scatto aggressivo da parte sua, beninteso: non era tipo da rinunciare alla dignità dell’autodifesa. Soltanto, non riesco a immaginare scenate di sua invenzione: era troppo signore per farlo. Supposizioni, congetture, si capisce. Magari infiltrate dai forti residui dell’originaria idolatria, ma vigilate, anche, dagli elementi di conoscenza emersi nella quotidiana frequentazione. Insomma, non credo che si restasse troppo lontani dal vero a formularle.
*
Tremenda realtà, questa rottura, se la memoria me la proietta sullo sfon-do delle prime confidenze legittimanti. Lunghe radici, sicuramente non marcescibili (almeno fino a un eventuale Alzheimer) hanno affondato nella polpa del mio cervello plasticamente disponibile quelle rivelazioni così congruenti con il ben saldo regime della promozione mitica. Vi era incluso, e ne segnava il centro come fulgido sole, nientemeno che l’eroismo: c’è cosa più esaltante per un adolescente di fantasia accesa e di indole generosa? Ecco, dunque, il fatto: al tempo della guerriglia Mau Mau, durante un viaggio d’affari che lo aveva portato in territorio keniota, lo zio era rimasto bloccato, nel bel mezzo della notte, da un guasto alla macchina in zona aperta alle scorrerie di quei mozzateste sbrigativi. Con lui c’era lei, l’amica, e aveva la possibilità di mettersi in salvo subito, tornando ad Asmara con non so più che amici o servitori. Ma lei rifiutò, non volle lasciarlo solo nel pericolo. E romanticamente resistette alle cavalleresche insistenze di lui. Egli non voleva abbandonare la macchina, nuova e costosa, e aveva deciso di aspettare l’alba sul posto, e poter chiedere, per telefono, l’intervento di un meccanico. Che lei si mettesse in salvo da sola, dunque. Ma lei: “Neanche a parlarne: il posto della donna è accanto al suo uomo”. Ma c’era pericolo? Appunto: ragion di più. Una vera eroina.
Incantato da quella manifestazione di amore coraggioso, lo zio cavalleresco le si legò di più. Se non se ne innamorò addirittura quella notte, trasformando una relazione a tempo e poco impegnativa in quel ménage totalizzante che lo avrebbe perduto. Ancora supposizioni, però.. I fatti: lei diventava la moglie inseparabile, il figlio suo e del marito abbandonato s’elevava negli affetti del nuovo compagno quasi a livello di figlio carnale. E gli costava bei soldoni, mantenuto nel migliore collegio di Kartum. Moglie di fatto, e figlio di adozione fattuale, senza crismi di cerimonie e ufficialità burocratica. Che importanza potevano avere in quella società coloniale, così libera, così lontana dal perbenismo colloso della Metropoli, prima littoria e poi democristiana? E per un uomo di mente aperta, alieno da conformismi inerziali e scemi di sostanza? Insomma, vita di famiglia e di affetti solidi. Fino a quel rifiuto cretino da parte di fratelli sorella cognata e vecchi zii di mente anchilosata. Fino a quel rifiuto, dico, perché lo intravedo come causa profonda e remota dei drammatici sviluppi successivi; ma questo non vuol dire che i rapporti fra zio e Nora si siano guastati subito, in quello stesso periodo. Comunque, si guastarono qualche anno dopo, nel bel mezzo di quei cambiamenti drastici: di continente nazione città casa attività.
Non c’è stata mai una versione esplicita di questo cursus (lo zio parlava poco, e di pudore ne aveva molto), ma certi accenni, allusioni dal sen fuggite, il suo rapido aggravarsi in pochi anni, danno credibilità alla presente ricostruzione congetturale. Risuona ancora negli anfratti più lontani della memoria qualche frase dell’idolo deluso, dell’eroe disapprovato, qualche blanda protesta: “Che pregiudizi, però. Potrei capire la gelosia eccessiva della sorella interessata, ma l’ostilità dei miei fratelli, tuo padre e il minore dei tre, Marcello, che motivazio-ne può vantare? Che gliene importa, a loro, della mia vita privata? Sono fatti miei, no?” E come no, carissimo zio: hai ragione da vendere, ma lo vedi come sono. Tentavo di “spiegarglili”, come erano, come, in parte, ancora sono, i suoi e miei parenti stretti: “Mentalità angusta, pregiudizi, lo hai detto. E forse qualche cosa di più corposo: paura di perdere dei privilegi, dei vantaggi”. “Ma questo, non direi: una moglie legittima avrebbe meno diritti? Un figlio carnale impegnerebbe meno le mie risorse economiche?” “E’ vero, non di meno. E’ uno strano intreccio di ragioni, forse non del tutto chiaro nemmeno agli interessati. Non dubiterei della buona fede sul dissenso, diciamo coniugale: una moglie legittima l’accetterebbero come soluzione onorevole, prenderebbero atto della situazione, non avrebbero di che lagnarsi. E mio padre, che ti ha sempre ammirato, ci vedrebbe un coerente coronamento della tua avventura di uomo, di successfull business man, di persona seria e signorile.. Una convivente la vedono come una predatrice capace di chissà quali ingordi misfatti. Né solo a tuo, ma anche a loro, a nostro danno”.
Se penso che, alla lunga, hanno avuto ragione! Hanno visto giusto loro, papà, mamma, la zia Vanna, gli zii anziani. Anche se, forse, questo vedere, secondo la presente ipotizzazione, è stato, in buona parte, un produrre e provocare. Uno di questi vecchi zii, fratello maggiore del nonno paterno, un colonnello di fanteria in pensione residente a Zancle, commentò la notizia in termini spicci, militareschi: “Un’amante la si paga, non la si trasforma in moglie. Regali, quanti ne vuoi, la convivenza, lo stesso tetto, mai”. Era lo stile dell’ufficiale promosso sul campo, titolare di una carriera militare per meriti bellici: rude, sbrigativo, ignaro di mezze misure, di pazienti “distinguo” e delicate sfumature. Così s’è fissato nell’icona memoriale questo zio Turi lontano, fratello più anziano di nonno Paolo. L’ho incontrato tre volte soltanto. Macho e “breve” fin dal taglio corto dei capelli radi e bianchi; poche e ponderate le
parole, raramente superflue e rituali, sovente tagliate nella pietra lavica. Già, la pietra lavica, così soverchiante nelle nostre contrade colonizzate dal Mongibello signore, mi si associa, nel ricordo, a quello strano ramo laterale della frondosa ascendenza. Anche lui piutto-sto mitizzato, con la sua brillante carriera militare. E, appunto, la sua dura e spiccia virilità. Ne risento, a volte, la voce: forte, baritonale, maschia. Insomma, un secondo paradigma per figli e nipoti. Un po’ meno per i pronipoti, così distanti dalla sua quotidianità logistica e pragmatica; ma pur sempre incisivo.
Ricordo ben resistente, anche questo: si era, a cornice ambientale di que-sta folgorazione, in casa del figlio maggiore, Marco, un bell’uomo di spiriti irrequieti e conseguenti appetiti. Ero appena sbocciato all’adolescenza quando cominciai a sentire, in discorsi fra cugini e in famiglia, della sua fama di sprecadonne. La povera moglie, si diceva, era una mite sua vittima incapace di difesa: gliele faceva quasi sotto gli occhi. E pensare che era sua e nostra cugina: Marco era figlio di zio Turi, appunto, la moglie, Licia, figlia di una sorella sua, e dunque di nonno Paolo. In questa infornata di cugineria e zieria tribale si era parlato tanto della situazione sentimentale dello zio africano, e credo che l’unico a non condannarlo fosse proprio Marco: lui sì che se n’intendeva. Però, siamo onesti, mai, questo Marco rubizzo, si complicò la vita con strappi dirompenti nel tessuto sacro della famiglia: amanti, quante gliene capitavano (ma erano poi così tante? Laggiù, nella Sicania lavica, basta averne un paio, e magari una sola, che faccia scalpore, per balzare subito al tante); tuttavia, di compromettere la famiglia nemmeno a parlarne. Le “porcherie”, insomma, restavano confinate fuori casa. Un fuori che poteva includere alberghi di città vicine o senz’altro dimore delle compiacenti complici del peccatore-tempesta. Altre “virtù”, invece restavano, e brillavano, dentro: per esempio, un sanguigno debole per l’euforico Bacco. Epperò, questo vizioso era un buon lavoratore, e la clientela della sua officina di elettrauto non aveva da invidiare clienti alla concorrenza. E non solo per la sua bella posizione nel centro di Realpolia. E’ vero: nessuno è perfetto.
Poi, quaderno, mi dirai dove sta di casa la perfezione.
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Rileggendo questa pagina, mi tentano code e codicilli. Una delle code possibili mi rammenta che l’anno appena trascorso è stato, oltre la solita normale cornucopia di sciagure, anche la guantiera di eventi culturali di pacifico godimento: il centenario dantesco, già accennato in queste pagine, anniversari di altre nascite e morti illustri (di cui per ora si tace), mostre e premi letterari di routine; e così via. Del così via il tema zio Silvio mi richiama il film di Marco Bellocchio, I pugni in tasca. Questa (se non erro) opera prima, venuta su tra mille difficoltà pratiche e alcuni decisivi interventi di pronto soccorso, ha fatto discutere molto e diviso la critica. Soprattutto, ha innervosito il Castello kafkiano del Pci, punto nel suo fianco ecclesiale. Il pungiglione? La dissacrazione della famiglia e del familismo amorale. Il film forse non è un capolavoro assoluto, ma certo spruzza via molta cipria di filisteismo dal faccino composto del perbenismo piccolo borghese e sacrestiale. Omicidi a parte, il delitto consumato, a decorso lento, contro zio Silvio è un esempio dell’intossicazione da moralina familistica.
L’altra coda, mi ricanta il divin Poeta e il canto quinto del carnale Inferno: Intesi che a così fatto tormento / enno dannati i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento. E via con la bufera infernal che mai non resta, le icone delle famose peccatrici della storia e del mito, la breve tragedia dei due amanti: Amor che al cor gentil ratto s’apprende/ prese costui della bella persona / che mi fu tolta e il modo ancor m’offende./ Amor che a nullo amato amar perdona / mi prese del costui piacer si forte / che come vedi ancor non m’abbandona. E seguito, che imparerò a memoria. Anzi, reimparerò, avendolo memorizzato, insieme a diversi altri canti, ai miei diciassette anni liceali.
Problema. Condanna, Dante, i due amanti, o la severità del Regime teo-logico (per non dire dell’ipocrisia sessuale di preti e assimilati)? Mentre che l’uno spirto questo disse /l’altro piangeva, sicché di pietate /io venni meno come se morisse/ e caddi come corpo morto cade: sono, queste, parole di condanna senza tremori e timori o non, piuttosto, di pietà umana al limite dell’eresia? A quando l’arruolamento dell’Alighieri fra i Fedeli d’amore, senza se e senza ma? Ma forse già l’hanno fatto.
Per chiudere la pagina: c’entra, questo ricordo sospetto (fino ai versi trascritti) con la situazione metafisica che mi lega? Per più fiate li occhi ci sospinse /questa lettura e scolorocci il viso / ma solo un punto fu quel che ci vinse:/ quando leggemmo il desiato riso / esser baciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso/ la bocca mi baciò tutto tremante. / Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. / Quel giorno più non vi leggemmo avanti. E fermiamoci qui: l’ultimo verso è troppo controverso, e la sua lettura tragica ci increspa di brividi.

16 gennaio
L’evento continua a dettare questo diario. Spolverato dalle minuzie quo-tidiane, il “racconto dello zio” s’impone con assoluta autorità su ogni altro frullatore tematico, anche non secondario. Il quale, se il caso, concede in ogni modo un rinvio della propria trattazione. E so che l’innominata ci perdonerà.
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Al rientro definitivo di zio Silvio in Sicania e in seno alla famiglia avevo ventisette anni: era cambiato qualcosa nella valutazione dell’uomo da quando ne avevo solo sedici? O magari ventitre? Non credo di essermi mai soffermato a considerare la cosa attentamente, a farne domanda esplicita e problema; ma oggi, tempo di bilanci, e di tristissimi bilanci, l’indugio s’impone. E la domanda merita risposta, una meditata risposta impietosa. Al punto che quanto rimane da un repulisti severo sia a prova di bomba: cioè delle peggiori riserve o pettegolezzi e tangenziali calunnie.
Sedici anni sono ancora età di incanti. Non del tutto, certo: lo spirito critico ha cominciato a rosicchiare tanta fabulazione; ma non abbastanza da espellere il bisogno dell’eccezionale, il culto degli eroi, che è uno snodo obbligato di quella fisiologia mentale (ma finisce mai completamente, per certe nature, questo bisogno catartico, questa fisiologia adolescenziale?). E avevo già i miei, di “eroi”: divi del cinema, figure storiche, politici eminenti avevano preso il posto dei forzutissimi dell’infanzia, Carnera, fra i massimi, e due o tre personaggi locali, che avevano dato prove controllate di mirabile forza muscolare e coraggio agonale. Ma erano (con l’eccezione dei locali, accessibili a sguardi e incontri) realtà virtuali, esseri un po’ astratti, lontani, nel tempo o nello spazio. Piccola correzione: volendo stare sul pignolo, anche ai vicini toccava un po’ di aliena virtualità. Certo, si potevano incontrare, ma restavano
comunque fuori della fruizione intima, estranei, stranieri: come tutte le eccezioni eroiche. Lo zio, in-vece, era reale, reale al quadrato, per così dire: introduceva l’eroe, il mito, que-sta specie d’inattingibile trascendenza, nella casa, fra noi persone comuni, nell’aura discretamente livellatrice della famiglia. Non era più un’icona figurale, astratta, ma un uomo vero, nella sua viva corporalità. Un eroe in famiglia! C’era di che farsi crescere legittimo orgoglio. E cavarne “forza contrattuale” verso l’esterno, verso quegli altri che, al di là delle eventuali buone intenzioni, sono sempre, in varia misura, infidi e temibili.
In quel primo soggiorno, e periodo di contatti quotidiani, certo il mito si umanizzava. Contatti quotidiani, dicevo: infatti, lo zio abitava con noi, nella casa paterna, nostra residenza definitiva da quando io avevo fra i tre e i quattro anni. Avevamo abitato la “casa grande” insieme ai nonni paterni e alla zia Vanna: la mia famigliola a pianterreno, il resto al primo piano. Poi la nonna era morta. Un colpo apoplettico, si disse, e il bambino quattrenne che ero nitidamente ricorda ancora, dopo vent’anni, quella nonna corpulenta e imperiosetta, seduta sul lettone dei miei genitori, spalle al testale, immobile e con la bava alla bocca. In attesa del medico che, quando arrivò, non ebbe che da costatarne la morte.. Lo zio, ricordo, non poté venire per la tristissima circostanza: si trovava già in Eritrea da un paio di anni, e quando quel colpo apoplettico si portò via la madre, e-gli era impegnato, da ufficiale, nella imperiale Guerra Etiopica, giunta in quel mese alla svolta decisiva (troppi decenni dopo soltanto avrei saputo a quali prezzi di sangue e di barbarie “romana”). Morta la nonna, restavano con noi la zia, più âgée di me appena cinque anni, e il nonno. A periodi discontinui, abitava la casa anche zio Marcello, il minore dei tre fratelli, penultimo dei quattro figli. Il quale se la faceva un po’ fuori (a Milano, Genova, Torino) un po’ da noi, con attività discontinue e varie: commercio, lavoro in fabbrica, e chissà che altro. E’ il meno assestato dei tre fratelli, con un diploma magistrale mancato per una disavventura all’ultimo anno del corso. Oggi ha quarantasei anni, e rimane in oscillante instabilità cronica. Benché sposato e con due figli (già richiamati in questo diario).
Si umanizzava, dicevo, lo zio major. Lo vedevo pranzare con noi, parlare con la famiglia, interessarsi anche di piccole cose della normale quotidianità. Co naturale semplicità, come se vi si fosse trovato in mezzo da sempre, senza discontinuità. Si usciva insieme, non di rado. In quell’autunno dei miei sedici anni, primo della neonata Repubblica italiana fondata sul lavoro, era in casa anche zio Marcello: disoccupato e libero come un uccello, reduce, pure, da un avventuroso ricovero ospedaliero milanese gravido di conseguenze, si godeva una, non si sa quanto meritata, vacanza a spese del fratello maggiore. A volte noi tre si trascorreva la serata in casa di una cugina paterna, una bella donna dagli occhi chiari, fra l’ambra e il verde, e di corpo formoso (ma zio Marcello, bello di Casa e fortunato tombeur de femmes, obiettava sul “sedere un po’ piatto”). Molto legata ai cugini, figli di una sorella del padre (la testé evocata nonna
Carmela), la cugina Barbara era fraternamente ospitale, con pieno consenso del buon marito, che l’adorava con la dedizione di un cagnone fedele. Aveva delle amiche, abitanti in un paio di stanze dello stesso palazzetto, e frequentavano la sua accogliente ca-setta: tre sorelle, di cui la mediana e la minore belle e di forme ghiotte, la mag-giore, meno favorita nel corpo, non la riscattava nemmeno il volto, magro e ossuto. Le tre fanciulle erano fresche orfane di madre, e il padre, calzolaio, stentava a mantenerle. Vestivano in regime di lutto stretto: nero totale, dalla camicetta alle calze, giusta l’inflessibile usanza di quella nicchia etnica.
Che si faceva, in quelle sere? Si parlava, si consumava qualche dolcetto, si beveva un liquorino o un bicchierino del buon rosolio fatto in casa dall’ospite, si faceva qualche “salto” di liscio: tango, valzer, tarantella, forse anche fox trot, ma prevalevano i lenti. Dei frenetici balli introdotti dall’occupazione (pardon, liberazione) americana, manco a parlarne. Alcune sere fummo a cena, gli zii e io; e un paio di volte furono presenti le tre grazie in nero. Ecco, per lo zio mito, un’occasione di umanizzazione piuttosto stimolante, ma anche insidiosa. Si era venuta a creare una situazione intricata: allo zio Marcello piaceva la sorella me-diana, bella e di armonica polpa (che però era seriamente fidanzata), mentre di lui si invaghiva la maggiore, che non reggeva il confronto con la maliarda. A me piaceva tanto la minore, che stava sui quattordici-quindici anni e non aveva molto da invidiare alla sorella intermedia (sui ventiquattro anni).
Zio Silvio, umaniz-zato in cibi bevande e balli, apprezzava tanta grazia, ma si controllava, ligio al dovere da fratello maggiore e da persona di peso.
Nella casa avita noi tre dormivamo nella stessa ampia stanza del primo piano, per l’occasione fornita di tre lettini, così si scambiava qualche parola di commento su persone e fatti del giorno, prima di scivolare nel sonno dei giusti. Una sera mi accadde di sentire un ping-pong di frasi fra i due fratelli. Io ero già sotto le coperte nel mio lettino, loro si spogliavano per ficcarsi ciascuno nel proprio. Marcello aveva detto qualcosa sulle tre sorelle e sulla perfetta simmetria numerica dei due terzetti. Non avevo sentito chiara l’allusione a me, ma a ricostruirla mi aiutò la risposta, a mezza voce, di zio Silvio: “Eh, io ho qua-rant’anni!”. Il tono lasciava trasparire un sottinteso traducibile più o meno in questi termini: non pensare di indurmi a fare cose che la mia età e serietà non consente. Insomma, zio Marcello avrà detto che ce n’era una per ciascuno di noi, e lo zio “vecchio” (42 anni appena, in quell’anno della nascente
Repubblica) lo frenò. Umanizzazione va bene, ma non oltre certa soglia. E questo mi fece piacere: mostrava che il mito poteva perdere un po’ di smalto, ma non decadere in banalità degradanti. Meno mitico, più umano, ma nel complesso poco diminuito e ben saldo in trono.
*
Situazione difficile, la mia, allora. Con lo zio si era avuta una corrispondenza abbastanza nutrita, dietro incoraggiamento di mio padre. Ora si trattava di conversare sullo stesso livello. Di cultura, di stile, di logica e rigore discorsivo. Ci andò di mezzo anche la filosofia. Povero zio, doveva essere una bella prova di pazienza sopportarmi. Ma lui ne aveva. Una sera, chissà come, venne in ballo Sant’Agostino. Alla discussione (si era a tavola, alla fine di una cena casalinga) partecipavamo tutti i maschi della casa: insomma, io e i tre fratelli. Io demolivo gli argomenti “africani” sulla grazia, la predestinazione, la verità, l’interiorità teologale e altre ingegnosità del loquace sofista “pantografato” dai filosofanti credenti, responsabile di un millennio e mezzo di perentorie favolette spirituali-stiche. Lo zio s’inseriva, chiedeva, capiva, non sfigurava, insomma. A sfigurare ero piuttosto io, non per carenza di informazione
(quella che avevo reggeva bene l’occasione), ma per eccesso di entusiasmo: ero troppo eccitato, euforico, a momenti, tutto calato nell’impresa di contestare l’altissimo ingegno, idolo di mezzo mondo, cattolico e protestante. La teoria che più mi dava fastidio già allora era quella del male come non essere: un lascito platonico che già adolescente giudicavo un sadico oltraggio alla sofferenza degli innocenti. Lo zio doveva avere la sensazione di trovarsi in un mondo strambo e insospettato: all’istituto nautico non si studiano certe astrazioni e complicazioni.

La parte che segue, sullo zio Silvio, è un’integrazione a una ripresa tardiva del racconto interrotto venticinque anni fa. La scrivo direttamente al Pc, sfidando vuoti di memoria e piccole confusioni tra il prima e il poi.

Ero già fidanzato, e avviato al destino coniugale che mi possiede, quando capitan Silvio si innestò stabilmente nella famiglia. Volentieri egli veniva a trovarmi in casa della fidanzata, la quale lo accoglieva sempre, insieme ai suoi genitori, con calore e ammirazione. Spesso usciva con noi. Ma questo accadeva più regolarmente dopo che io ebbi la “mia” casa di novello sposo (in realtà, la casa era la donazione dotale della sposa), e ancora di più quando il bambino, venuto nove mesi e mezzo dopo le nozze (vedi fortuna di un’impollinazione precoce), era in grado di uscire con noi in macchina. C’è un vuoto di memorie in questo lasso di tempo. Non riesco a ricostruire tutti gli spostamenti dello zio tra la nostra città e Genova. Credo che il rientro definitivo cada a ridosso dei primissimi anni Sessanta. No, nemmeno questo è esatto: un particolare mi ferma: zio Silvio non era presente al mio matrimonio. Cioè non era fra gli invitati. Come dire che non era fra noi, laggiù in Sicania, che si trovava o a Genova, o addirittura in Eritrea. In ogni caso, impossibilitato a venire: talmente inconcepibile sarebbe una sua mancanza al “nostro” matrimonio concomitante con la sua presenza in casa; o nella stessa Genova, ma privo di impedimenti insuperabili. Era forse a Genova, però malato? Al momento non sono in grado di dirlo. Zio Marcello, invece, c’era. Ed era tutto il suo regalo di nozze. Lo aveva chiarito semplicemente, il suo dilemma finanziario del tempo: o ti mando il regalo, ma non vengo; o vengo, ma senza regalo. Scelta obbligata, per noi sposini: sarebbe stato il più bel regalo la sua venuta, la sua presenza alla cerimonia, al ricevimento. Venisse, dunque, senza imbarazzi, convertendo in biglietto ferroviario il denaro destinato all’eventuale regalo convenzionale. E così sia.
Sapevo le sue difficoltà, né potevo concedermi il minimo dubbio sulla sua generosità: tanto chiara ne era stata la dimostrazione durante un mio sog-giorno milanese, ospite suo, subito dopo la maturità scientifica. Né solo in quell’occasione. E’ il ricordo più limpido che me ne rimane: quel cacafoco, quel torrente vulcanico di eloquenza tribunizia, e di ciarle, non aveva il male sociale più diffuso, la taccagneria, la parsimoniosità sparagnina. Come dire, il negativo più revulsivo che mi riesca di immaginare nella fisiologia antropica.
Vuoti, dunque, tra le memorie (a volte così vivide e particolareggiate!) che coinvolgono zio Silvio. Ma non è assente né oscuro il ricordo del mutato clima domestico, a cominciare da un certo momento. Lo zio era una quercia già sfiancata dal fulmine, un quasi vecchio avviato a senescenza affrettata, non lo garantiva più la vigorosa salute dei primi incontri, anzi lo tradivano segnali allarmanti di decadenza fisica. Non era più il parente ricco, largo di doni. Non era più l’alter ego autorevole del padre, complementare vendicatore delle sue défaillances. Non era più l’immagine vivente del successo, della “riuscita”, del lottatore invincibile. Era stato vinto, e appariva vinto, gravemente provato. Non per inclinazione alle lagne o mancanza di contegno: era pur sempre la persona dignitosa e capace di gravitas romana, all’occorrenza. Era ancora un uomo rispettabile. Ma per chi? Dignità, rispettabilità, onore sono qualità quant’altre mai “relazionali”: è il rapporto con l’altro che ne modula sostanza e intensità. Se l’altro ha, a sua volta, le qualità necessarie all’apprezzamento, le virtù della persona, anche se colpita dalla sventura, rifulgono (e possono rifulgere anche di più, in apparente paradosso). Viceversa, l’ex idolo ed eroe diventa soltanto un ex: idolo infranto, eroe a pezzi. Solo un vinto. Che può diventare pesante da accettare se le sue esigenze ricadono sulle nostre spalle.
Qui nostre significa, in primis, della cognata sua e madre mia, ma, in se-conda postazione, anche delle mie sorelle e sue nubili nipoti. Indi, il clima via via meno sereno, man mano che la salute dello zio declinava e le esigenze corporali crescevano. Quando la maledetta cirrosi regalava emorragie, lavare certi panni non era corvée leggera. Ma mentre mamma si limitava a qualche mugugno in sordina, lontano dal cognato sventurato, le sorelle, specialmente la piccola e più impaziente, non sempre controllavano il volume vocale della protesta, in assenza del vociferato. E con visibile stento si mascherava in fiori di sorrisi credibili l’accigliato malumore. Né si trattava solo di bucato, ma bisognava servire un po’ in tutte le faccende che riguardano il lavoro femminile: pulizie nella sua stanza e nel suo bagno, e rifare e rinnovare in lenzuola e quant’altro letto tappeti cuscini tende. Un ricordo punge, sopra gli altri, la carne ammaccata di Mneme.
E’ un ricordo indiretto, riferitomi dal fratello minore, protagonista del fatto. Lui, il fratellino, ormai cresciuto fino ai ventitré anni, era stato un po’ brusco in certe repliche ed osservazioni rivolte allo zio in difesa della mamma (forse anche delle sorelle); probabilmente aveva aggrottato le sopracciglia come gli accade sovente (a compenso reattivo dell’innata timidezza). Fatto sta che lo zio si schiuse in un grave e toccante interrogativo: era di peso? non lo si sopportava più? Se era così, egli era pronto a togliere il disturbo. Così parlò l’icona scheggiata.
Troppi segnali, da qualche tempo, tradivano insofferenza nelle persone di casa. E non è che fossero solo le donne nubili, anche la mamma, e quel che è peggio, anche il fratello a lui più vicino, nostro padre, mostrava saltuarii segni di incipiente intolleranza, usciva in pretese strane sulle abitudini da seguire in casa, si atteggiava a pater familias “universale”, lui che ai tempi dell’ammirazione incondizionata, raramente, e con estremo garbo, poteva contraddirne convinzioni e abitudini. Insomma una serie di segnali unidirezionali: il caro zio era sempre meno caro, e si capiva che a taluno, in casa, ferito nella memoria e nel sentimento della gratitudine, appariva perfino ingombrante. Se ora anche il rispettoso nipote non riusciva a nascondere l’impazienza forse era tempo di un chiarimento. Parole strazianti, quelle dello zio smitizzato: mio fratello ne fu sconvolto, lo abbracciò d’impulso, con un nodo alla gola, si scusò per le parole
involontariamente asprigne, e ridimensionò il malumore degli altri. Ai quali consigliò poi moderazione e rispetto, quel rispetto che lo zio, per pesante che fosse diventato il fardello dei suoi malanni, continuava a meritare. E non solo per il suo passato di generoso benefattore, ma certamente soprattutto per quello: chi, come, perché si sarebbe potuto dimenticare di quella lunga, puntuale assistenza generale, appena velata dal pretesto della sorella nubile che formalmente egli, l’eroe lontano, prendeva a suo carico?
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Ora è morto, lo zio africano, lo zio eroe. Malato di ricordi, consumato dal diabete e dalla cirrosi, secondo scienza e diagnostica prossima. Ma assassinato da nemici occulti e molteplici, vicini e lontani, secondo una diversa diagnostica, meno incollata ai sacri testi dell’arte ippocratica. Ucciso da pugnalatori sottili, che lavoravano da tempo nei microspazi del suo corpo robusto: la vita rischiosa in un clima ostile, la guerra, la prigionia in campi inglesi, la fuga dal “lager” (riuscirò, un giorno o l’altro, a dedicare un po’ del mio tempo incalzato a questa parte della biografia?). Poi le delusioni, l’ingratitudine umana, l’umiliazione di dover tornare a lavorare, già anziano e potenzialmente in grado di reggersi su una congrua rendita. Minato, eroso e ucciso da troppi agenti patogeni, dei quali quelli immediatamente fisici erano soltanto il convergente affioramento finale. Ma anche, sarebbe sciocco nasconderlo, una parte dei suoi
“vizi” giovanili: aveva fumato molto, e bevuto con virile misura i suoi cognac e whisky. Per troppi anni. “Debolezze”, se vogliamo, ma da uomo; vizi, sia pure, ma da masculu: quasi obbligati, nel suo mondo sociale. E senza quasi: uno status symbol della virilità operosa e socialmente “frenetica”. Del resto, non lo ricordo, nonché ubriaco, nemmeno brillo. Qualche volta, appena euforico, ma nel perimetro del mai perso self-control.
Un altro frammento di memoria sta affiorando, rivelatore: riguarda la sua presenza fra noi a metà degli anni Cinquanta. Ecco lo zio che riferisce di un chek up con rassicurata fierezza: né l’alcol né il fumo avevano lasciato traccia, se non men che modesta, nel suo corpo ancora saldo. Il fumo eccessivo? Lievissime, ovvie incrostazioni bronchiali: niente di allarmante. Ne rivedo il sorriso sobriamente ironico di uomo saldamente in sella. Pas de problème. E invece il Nemico, da talpa scaltra, scavava già in quell’assetto tanto robusto alla vista quanto insidiato dentro da sottili perfidie della microchimica ostile.
Come gli elefanti, che aveva conosciuto nei turistici safari africani (mai sparato a nobili bestie protette), era venuto a morire nella tana antica: la casa della sua infanzia remota, della sua adolescenza, degli studi, dei sacrifici per vivere e conseguire quella formazione. Era venuto già malato, ma di malattia non ancora dichiarata, era vissuto nel peggioramento continuo, ora frenato ora accelerato. Del quale, forse, non aveva capito del tutto la prognosi infausta, l’inevitabilità esiziale del capolinea. L’ultima accelerazione mi ha trovato in casa, lontano dal mio posto e città di lavoro: la casa paterna, e della mia infanzia fanciullezza giovinezza da scapolo.
*
Il romanzo dello zio africano mi ha preso talmente da non lasciarmi tempo energie e spazio per le piccole cronache della mia vita professionale nella movimentata comunità scolastica al femminile. Quando vorrò o potrò riprendere il filo della memoria troverò parecchie interruzioni: sarà un compito difficile rinsaldarne i capi senza smarrirne pezzi. Ma il romanzo ne vale la pena. Neanche sto segnando più le “uscite” dei miei articoli sui giornali e sulle riviste già note alle presenti pagine. E neppure le lettere illustri che qua e là continuo a ricevere. Maiora premunt?

18 gennaio

Riprendo il vecchio quaderno, e trascrivo, ma, ancora una volta, con incidenze correttive (e un certo imbarazzo in Crono).

Lo zio dell’Africa è morto, dunque. Un’altra porta che si chiude, ancora un mondo che scompare. Ecco: un’età della vita. Conclusione atroce. Forse que-ste due righe, o dieci, sarebbero bastate a dire l’orrore. Ma il bisogno di parlare è un’urgenza fisiologica d’autodifesa. Devo parlare, rievocare, confessare. Ancora a lungo.
La malattia lo costrinse al ricovero ospedaliero per tre volte. L’estate dell’anno dantesco la trascorse, buona parte, in ospedale: fu l’arco penoso della prima degenza, un calvario di ascite, svuotamenti, fleboclisi, emorragie. Un temporaneo miglioramento lo restituì alla famiglia per il resto dell’anno. Lo rividi il giorno dei morti. E fu difficile fargli coraggio. Disorientato dal pensiero del suo abituale pudore, non fui certo se fingesse o davvero non afferrasse tutta la gravità del suo male. Forse il suo atteggiamento combinava le due cose: vedeva, ma sperava. Malgrado tutto. L’evidenza, certo, gli s’imponeva, saltuariamente; ma bastava un effimero arretramento del morbo perché la sua virile fibra sconvolta indulgesse a qualche tentazione illusoria. O semplicemente umana: “Il corpo indietreggia davanti all’annientamento”: questa frase di Albert Camus mi risuona spesso dentro, praticamente tutte le volte che incontro malati
terrorizzati che s’aggrappano a qualsiasi simulacro di soccorso, scientifico o superstizioso. E moribondi che sono convinti (o piuttosto tentano di convincersi) che guariranno. Il corpo che “indietreggia” è capace di qualunque illusione: perché lo zio avrebbe dovuto fare eccezione? Ero venuto apposta dal “continente” per rivederlo e stare un po’ insieme. Parlò, ma poco, della sua iattura; e, appunto, si mostrò fiducioso in un prossimo ritorno della salute, solo temporaneamente sequestrata dalla sfortuna. Salute comunque, anche se diminuita, non più sorretta dalle forze di un tempo. Faceva perfino progetti di lavoro. Aveva ottenuto da un lontano amico di gioventù la direzione di una azienda di trasporti su ruote, e la cesura “per gravi motivi” gli si presentava come episodica, e di non lunga lena. Forse avrebbe ripreso il suo posto fra un paio di mesi. Sì, niente è più facile che illudersi. Anche per i migliori fra gli uomini
lucidi. Homines sumus, non dèi.
In realtà, non avrebbe dovuto lavorare, affaticarsi. Come non avrebbe dovuto più bere alcolici, neppure vino, né, ovviamente, fumare. Col fumo ce l’aveva fatta: Zeno capovolto, la sua “ultima sigaretta” era stata davvero l’ultima. Così, dall’oggi al domani, aveva smesso di fumare. Gli avevo consigliato di procedere per gradi, temendo gli imprevedibili e i previsti effetti dell’astinenza, soprattutto i primi. No, aveva detto: o tutto o niente, un taglio netto. “Non ne verrei fuori con la delicatezza. Soffrirò? Ho visto di peggio”. Già: guerra, prigionia, incidente automobilistico grave (con visibile cicatrice facciale tra guancia e mento), perfino un autoferimento precauzionale in seguito al morso di un topo (il timore della peste, in certe condizioni ambientali, non sembri esagerato). E poi, buon’ultime, le pugnalate furtive della toscanaccia in-gorda, già “caro Orsetto” epistolare (come lei, “cara Orsetta”!).
Certo, un po’ di sofferenza l’ebbe, ma la sopportò meglio con l’aiuto del-la paura mortale: il divieto del medico era stato talmente perentorio. Andò diver-samente col vino e col lavoro. Accettò un piccolo compromesso per il vino: ne bevve di meno, “temperato” con acqua, e solo a tavola, ai pasti principali. Era ininfluente, quella misura, sul decorso inarrestabile, ma forse frenabile, del ma-le, o lo aiutava, lo accelerava? Chi diceva di sì, chi di no. Anche fra medici di diversa “scuola” (o soltanto sensibilità personale). Lui comunque non intendeva rinunciare al suo unico conforto superstite. Quanto al lavoro, forse la misura a-dottata era più nociva del vino. Ma come frenare un uomo naturaliter attivo, e-ducato all’operosità eticamente convinta, rispettoso del valore lavoro fino all’intransigenza? E continuò a lavorare, contro ogni avvertimento e consiglio. Come aveva sempre fatto, fin da ragazzino, insieme a mio padre:
vicini di età (appena un anno e quattro mesi più vecchio lo zio), accudivano il gregge paterno già al settimo e sesto anno. Altri tempi. Sì, nonno Paolo era capraio. E godeva di un terreno in affitto, ereditato dal padre. Terreno argilloso, fertile di copioso grano, ulivi da olio, fichi, e pascoli. Con qualche altra pianta meno preziosa.
Così, la “misura” del lavoro, quella del vino, e qualche altro analoga-mente misurato strappo all’apparato proibitivo della semi-scienza medica, con-vergevano verso l’esito in ogni modo segnato. L’avranno accelerato? Probabil-mente. Di quanto? La scienza medica non lo sa dire. Come non ha saputo e potuto pronunciare parole di salvezza. Rappresentata da mezze figure di provincialini fatalisti, in ogni caso, l’onorevole scienza di Ippocrate (in prevalenza di cultori estranei allo spirito del Fondatore) si limitava a darci i suoi bollettini della sconfitta: patetiche prospettive di risoluzione più o meno imminente. Il più delle volte, campate in aria: a sentire l’onorevole scienza, lo zio doveva essere morto già un anno fa.

L’ascite l’aveva gonfiato in proporzioni indecenti. Era in ospedale da quindici giorni quando lo rividi, dopo l’incontro del 2 novembre. Ed era, appun-to, gonfio di edemi sparsi, anzi, si può dire, di un solo edema diffuso per tutto il corpo oltraggiato. Il ventre, un otre osceno, da Sileno lubrico; i testicoli avevano raggiunto dimensioni mostruose. E tuttavia egli parlava: discuteva di lavoro col socio, dava suggerimenti e dettava disposizioni. Nessun dubbio: in quei momen-ti drammatici, egli sperava ancora di uscire sulle proprie gambe da quell’orribile covo di corpi umiliati, alcuni marcescenti, che chiamano ospedale. Quale strana ironia nel sadismo ottuso di madre natura, di sorella malattia: appanna la lucidità dei più forti, come se si divertisse a umiliarne lo specifico umano, il troppo cele-brato blasone della consapevolezza, dell’autocoscienza vigilante.
Si alzò da solo fino al limite del quasi impossibile, da solo fece, continuò a fare, con serrato pudore, le pulizie personali. Mi si riferiva di questo con am-mirazione: parenti e infermieri. Io, purtroppo, e mio fratello, eravamo lontani, oltre il mare, incatenati dal lavoro. La degenza se la videro i miei, e particolar-mente mio padre. Soprattutto penoso fronteggiare i dolenti rientri del malato in casa. La vecchia, ma rinnovata, “grande casa” dei nonni, completa di stalla (or-mai spopolata ) e orto ferace, ricca di memorie liete e tristi. Ma per le vacanze di Natale siamo stati al paese, noi germani, e abbiamo potuto seguire lo zio, parlare con lui, confortarlo del nostro affetto: più espansivo quello di mio fratello, più composto e parco di menzogne il mio.
Negli ultimi giorni del dramma fu con noi zio Marcello. Semper idem: ciarlone, focoso, perentorio nelle sue sortite. E dunque, a volte non sopportabile da parte di chi deve sopportare già il peso immane di una malattia spietata. E al-lora noi nipoti gli ricordavamo quel che lui tendeva a rimuovere: le condizioni dello zio malato. Non sono mancati nemmeno i casi di intervento diretto dell’interessato. Che si calmasse, il rematoso, che abbassasse tono timbro volu-me della infaticabile voce a parlantina mitragliante: il malato era stanco, il mala-to voleva riposare, la notte dormiva così poco. Quello si placava per un po’, ma non tardava a ricominciare. E noi a ri-allontanarlo da quel letto, da quella corsia, tentando di coinvolgerlo in altre chiacchiere e ricordi personali e di schiatta.
Ad un certo punto non poté più, lo zio Silvio, curare da solo l’igiene per-sonale. Esigentissimo, quasi maniaco della pulizia, si vide consegnato al dispet-toso dovere e al barcollante affetto degli altri per il doloroso soddisfacimento dei bisogni più imbarazzanti. Umiliato, anche nel delirio tentava di scendere da solo dal letto. Più d’una volta, mio fratello Marco e lo zio Marcello, che lo ve-gliavano in ospedale, dovettero accorrere, nella notte, a fermarlo. Nel delirio riaffioravano brandelli sconnessi del passato remoto, e si intrecciavano a ricordi vicini, a sensazioni attuali: simil-discorsi tragicamente comici e strazianti.
Mi cercava. Nel disordine cupo dell’incoscienza sconnessa, o della semi-coscienza baluginante, la mia immagine lo inseguiva, lo accompagnava, ma con sdoppiamenti e snaturamenti indecifrabili. Una volta mi chiese se io fossi venu-to: “E’ venuto Paolo, è venuto?” Quella sua voce fioca, la pronuncia stentata, le parole smozzicate: lui che parlava con maschia voce limpida, e pronunciava con dizione perfetta, e non sprecava parole nei suoi discorsi sempre misurati, sempre funzionali alla comunicazione essenziale. Davvero non ha limiti il sadismo di madre natura matrigna. Altre volte mi chiamava col nome di mio padre, e chie-deva ancora di me. Ripeteva la domanda a intervalli, spesso a occhi chiusi, quasi sempre in stato di semicoscienza: “Carlo, è venuto Paolo?” Lo chiedeva a tutti, al fratello Marcello, a mio padre, a mio fratello, alle sorelle, a me stesso.
Andavamo d’accordo ai bei tempi della salute: un certo pudore ci acco-munava. E una delicatezza nel mio affetto che lo confortava. Lo capivano anche gli altri, tutti, maschi e femmine, vicini e meno vicini: quella insistenza, quella sorta di coazione a ripetere legata al mio nome, alla mia presenza fisica e virtua-le era la prova della mia incidenza nel suo assetto emozionale e mentale. Nel venir meno delle nostre normalità funzionali, la mente si rifugia nelle nicchie delle certezze consolanti. E forse le rastremate condizioni vitali cercano in quel-le nicche un inconfessato soccorso magico, un potere ignoto di contrasto vincen-te col Mostro. Non fosse, magari, che per una dilazione all’inevitabile.
Un’ernia oscena, poderosa, inverosimile si protendeva dall’ombelico. Aveva avuto un’emorragia sottocutanea nella regione centro-addominale e una fascia nerastra lo cingeva sinistramente. Una notte gli si aprirono i testicoli: la pelle, troppo tesa, non resse alla pressione crescente. Ne zampillarono sangue e plasma, a lungo, fino al pavimento, addosso a zio Marcello che lo assisteva, quella notte, insieme a mio fratello. Pareva proprio che non fosse previsto alcun limite all’orrore nel consiglio segreto dell’abisso molecolare favoleggiato in dio destino natura sorte. L’immancabile bestemmia dell’involontario bersaglio stri-dette come un tocco aggiuntivo di tragica ironia sul dramma. “Lo zio Marcello è sempre lui”, aveva riferito mio fratello, la mattina dopo. Ma senza tono di con-danna. Troppo divergenti da ogni sopportabile normalità erano le circostanze per sprecare giudizi. Marco non era facile alla bestemmia, ma quella notte aveva sentito una sorta di liberatrice necessità nel “tuono” irato di quel “porcoddio” schizzato al cielo. Anzi, al soffitto della truce stanza: emblema di ben altri schermi fra “l’invocazione umana e il silenzio irragionevole dell’Universo” (Ca-mus)
Le iniezioni (ormai inutili “stazioni” di una ritualità meccanica) sul cor-po martoriato gli lasciavano macchie di sangue pesto, e lo facevano sanguinare per ore. Aveva i tessuti fradici. Negli ultimi due giorni gli si era consumata l’epidermide sulla spalla sinistra e sulla gamba destra: due larghe piaghe trasu-davano plasma incessantemente. Poiché aveva perso ogni controllo, orinava nel letto e poi bruciava in mezzo all’orina di fuoco e al plasma trasudato, nell’attesa di una mano pietosa (non sempre pronta) che lo asciugasse. Si agitava conti-nuamente e chiedeva di essere pulito. Aveva fame e sete. Fino a qualche minuto dalla fine, mangiò una fettina di pera e bevve acqua.
Il penultimo giorno ritornai a visitarlo con mia moglie. A un certo mo-mento prese il lenzuolo con entrambe le mani, se lo portò alla bocca e prese a masticarlo. Gli occhi chiusi, ormai incapace di aprirli. Voltandolo per mutarlo di lenzuola, il liquido che lo riempiva gorgogliava sinistramente..
*
Insomma, eccoci di nuovo, e in grande stile, alle situazioni-limite, alle grandi occasioni dei bilanci draconiani sulla realtà universa e la sua malconcepi-ta fetta biologica, in particolare; occasioni sprecate dal 999/ 1000 (ma il rapporto è una concessione all’ottimismo scemo) dei cervelluti bipedi. I quali sono (ma che mi ripeto a fare? Ovvero: perché non dovrei, dinanzi a quei pennuti senza penne?), sono, dico, tanto corrivi a gridare al miracolo se guariscono da un fo-runcolo, quanto a sventolare Mistero, Giudizio divino insondabile e perfino sa-cralità della sofferenza di fronte a vergogne come lo scempio di un uomo degno, o lo strazio di mille bambini, colpevoli soltanto di immacolata innocenza. Sini-stro privilegio poco meno che esclusivo, questo della sacralità del dolore, della più sciagurata categoria verbifica, i teologi. E vogliono essere trattati bene, i si-gnori della superstizione antropomorfica. Con i guanti gialli, anzi di velluto in-censato, perché “ognuno ha diritto alle proprie idee”, “siamo liberi di pensarla come ci pare”, “la libertà di coscienza è un valore assoluto”; e simili propositi verbali di fratellanza evangelica, sempre sgonfiata nei fatti contro lo scoglio del pensare diverso. E perfino, in tanti, con conseguente nostalgia della sua elimina-zione dal nostro orizzonte di forzata convivenza. Ah, i bei roghi della santissima Inquisizione! Le sue squisite stanze della tortura prodigata in nome dell’amore.
*

19 gennaio

Questo dramma mi ha colto nel peggiore momento: giorno 11 dovevo presentarmi all’esame orale del concorso a cattedre, perciò non sono potuto ri-manere accanto allo zio morente quanto avrei voluto: un maiora premunt triste-mente duro, che non ammetteva deroghe. Era in gioco il mio avvenire: di pro-fessore, di marito, di padre: come superare certa soglia di rischio imbranante al momento del confronto col Minosse esaminatore senza un assiduo impegno?
Ripassavo storia la sera del giorno 6, alle ore 9, quando mio fratello e zio Marcello vennero a darci la notizia. L’aspettavo da un momento all’altro, anzi l’anticipavo con l’affetto e il desiderio, come la fine di una sporca tortura; ma quando la ebbi qualcosa mi saltò alla gola. Era rabbia, pena, senso di irrimedia-bile impotenza, di infinita frustrazione verso un’alterità perversamente incon-trollabile. Sgorgarono lacrime. Fluide, inarrestabili, composite come il sentire ingorgato, eppure quasi confortevoli.
Lo rividi già vestito. Mi dissero poi con quanta fatica e quante difficoltà fossero riusciti i tre uomini della famiglia presenti, con l’aiuto degli infermieri, a fare entrare quel corpo sformato, debordante, profanato dal prevalere incontra-stato della quantità bruta e brutta, in abiti nati per altre dimensioni. Quante fa-sciature preliminari dovettero precedere la vestizione vera e propria, ad evitare tracimazioni drammatiche.
Aveva la solita espressione dei morti che hanno sofferto troppo: quasi sorridente. Era l’espressione che vidi sul volto dello zio Saverio, morto della stessa malattia nel luglio del ’59, a soli 46 anni; l’espressione che era sul viso di mia suocera, morta qualche mese prima, il 19 marzo di quello stesso anno (festa di san Giuseppe), dopo lunga malattia mal diagnosticata e malissimo curata. Quasi la stessa che mi aveva sorpreso, forse per la prima volta, nel lontano 1952, sul viso terreo del mio vicino di casa, amico e compagno di giochi, Alfio Rabiti, ucciso, anche lui, dalla turpe ascite. Ma con dettagli più drammatici, più raccapriccianti, starei per dire più metafisicamente osceni: aveva vermi nelle piaghe. Avete letto giusto, marziani del tremila: vermi, vermicelli bianchi e ser-peggianti, nella carne morta, rossa di non arrestabile tracimare del sangue; vermi, da vivo, dentro i crateri della decomposizione. Il plasma gli era stato
prosciugato più volte con applicazione di sanguisughe. Ma si riformava, fin troppo presto, e i morsi delle minute vampire non guarivano: e così germi vivi della morte modulare invadevano quelle piaghe, presto necrotizzanti. Vita beffarda nella carne defunta di un vivo che precipita verso la fine dentro la valanga dell’Inevitabile assoluto. Verso la pace, si può anche dire: ma a qual prezzo, ma con quanta disciplina di sofferenza, ora paziente, ora urlante. Negli ultimi giorni gli urli arrivavano lontano, si ascoltavano fin dentro le nostre case, in tutte le stanze del vicinato, variamente partecipe del dramma. E non si cancellerà certo mai dalla mia pure scotomizzata memoria quel gesto disperato, quella risposta virile di un ragazzo all’ennesima menata dei soliti presenzianti, vicini beghine e pretonzoli senz’anima, al milionesimo consiglio pio di affidarsi al Signore, impetrare la Madonna, e chissà che altro sudiciume logico involontario:
Alfio che strappa il crocifisso dalla parete sopra la sua testa e lo scaglia lontano da sé, dal suo corpo seviziato, e quello sbatte contro una sedia e rimbalza a terra, sul pavimento della stanza. Quella prima stanza della modesta casetta terrana aperta sulla strada provinciale, già a quel tempo ricca di traffico motorizzato. Con un fiotto delle residue forze, il martire ha scolpito il gesto per eccellenza. Cioè, l’unico degno in quella bolgia d’inferno reale, oscenamente spacciata per prova del buondio, pedagogia severa, magari, ma da affrontare e superare senza protesta, senza rivolta. Invece la rivolta c’era stata: chiara, netta, energica. Una risposta di verità, gettata in faccia a quei propalatori di menzogne in stridente contrasto di fuoco con la verità della sua carne diabolicamente torturata. Menzogne nate, bensì, per consolare e aiutare la sopportazione rassegnata dei sofferenti, ma evidentemente non più buona a tanta bisogna quando l’eccesso, questo sì blasfemo, supera la soglia dell’estrema sopportazione. Alfio Rabiti aveva ventidue anni.
Aveva fatto appena in tempo a sposarsi e generare un bambinello nato orfano.. Come avrebbe postillato il caso l’autore dell’Homme révolté?
Divagazioni, sempre divagazioni. Non riesco ad evitare la seducente in-sidia della libera associazione. Ma lo sono, poi? Sono divagazioni, davvero sol-tanto divagazioni? Sia come sia, con l’immagine (ricostruita in questa trascri-zione su scarni dati presenti nel quaderno) di quel giovane tradito dalla vita, ri-torno al nostro lutto e al suo indotto. Ma non senza aver precisato, sempre diva-gando a margine, che non era la cirrosi la sua malattia, ma uno scompenso car-diaco, forse dono di una miocardite o endocardite, provocata da reumatismi tra-scurati.
*
Zio Silvio ha lasciato un milione in contanti, collocato in banca con li-bretto personale, e il fabbricato incompiuto di Albano. La scoperta di quel libret-to bancario ha dato occasione a uno spettacolo poco edificante. Gli eredi diretti, chi più chi meno acceso di normale interesse, hanno tentato di convincere l’agonizzante a trasformare in “libretto al portatore” quel libretto personale. Lo zio respingeva quegli assalti: tra una macchia e l’altra di buio mentale, il povero malato balbettò le sue ragioni: “Voi me li consumate, e poi io che cosa man-gio?” Ragioni piuttosto appannate, come si vede, ma pur sempre innestate sul ceppo di una sospettosità plausibile: l’istinto di autodifesa, evidentemente fun-zionante, sia pure in un residuale baluginio, faceva sentire la sua flebile voce. Anche in condizioni di estreme difficoltà fisiologiche la vita insiste in queste vane resistenze.
Zio Marcello fu più esplicito del cognato: questi aveva tentato di ma-scherare la molla segreta della richiesta, parlando, senza convincere il destinata-rio, di necessità cliniche del malato, di spese necessarie per curarlo meglio; Marcello, invece, con la sua souplesse da camilliano convinto, sparò in faccia al fratello sconquassato che, in caso di morte, sarebbe stato un peccato perdere quei soldi. O anche perderne solo una parte: a vantaggio di chi, poi? Dello Stato: cioè di un vampiro più estraneo che amico dei poveri e dei sofferenti. Dopo aveva aggiunto, a tardiva autocorrezione – quasi certamente imbeccato da qualche cenno di mio padre – che i soldi servivano per lui, per il malato. Cioè, aveva rie-cheggiato zio Geppino, il marito di zia Vanna (che fremeva, anch’essa, ma ave-va avuto il pudore e l’occasione di tacere sull’argomento, di non intervenire nel-la perorazione). Il malato fece le corna. E poco dopo autorizzò mio padre a pre-levare una parte del denaro per le necessità segnalate; ma non si lasciò convince-re a cambiare la tipologia del libretto. Evidentemente, l’esperienza lo aveva segnato: mai più fidarsi ciecamente di amici e parenti, mai più darglisi in pasto. Altra manifestazione di resistenza vitale allo sfacelo, pur così avanzato: come se la vita residua si concentrasse in un’estrema acropoli di riducibile ma ancor te-nace ostinazione.
Una vecchia procura generale rilasciata dallo zio a mio padre salvò la tranquillità degli eredi. Quel lampo di memoria su quella vecchia carta dimenti-cata in un cassetto spianò quei visi contratti in un contenuto, ma luminoso sorri-so. Una procura generale senza limiti di tempo: e fu come un profumo di altri diluvi. Un profumo di gardenia a contrastare il letamaio presente. Nel suo muto linguaggio di carta quasi ingiallita, con la rigida sintassi del modulario burocra-tico, la procura parla di una fiducia assoluta, di un’intesa senz’ombra di sospetti, aliena da calcoli meschini e “spirito borghese”. Com’era stato possibile intacca-re quest’idillio? Ah, fragilità delle umane virtù.


20 gennaio

Dopo i funerali, mio fratello partì per Roma, dove, da professore di ma-tematica, era atteso per gli scrutini del primo quadrimestre. Zio Marcello prese il treno per Milano l’indomani. Lo accompagnai in macchina alla stazione della rumorosa, congesta Liotria, “Milano del Sud”, per fargli prendere il direttissimo.
Di ritorno, solo, percorrendo strade che avevo fatto tante volte insieme a zio Silvio, mi venivano lacrime agli occhi. E quel pianto di dolore aveva una sua stravolta dolcezza. Contro l’ingiustizia feroce del mondo, quel rannicchiarsi fra i vinti più dolenti, fra i peggio marcati dalla sconfitta universale, scioglieva nel cuore una sensazione di forza, di consolante speranza e autodifesa non vana.
A casa mi aspettava mio padre: si andava insieme al cimitero per la se-poltura. Ultima fase del rito. In attesa del nostro turno (altri “clienti” ci precede-vano), papà rievocò un poco della sua vita col fratello: dagli anni della fanciul-lezza agli ultimi tempi. Parole, tutto sommato, convenzionali, nella parte elogia-tiva. Ma non senza un’aliquota di sincera pietà, di vero dolore. Soprattutto, però, una disinibita sincerità critica, ambiguamente resistente alla pulizia catartica che si suole attribuire alla “santa” potenza educativa della morte.
Si coglievano, alla luce crepuscolare di questo epilogo, le differenze di mentalità, di carattere, di educazione dei due fratelli. Suo ammiratore incondi-zionato per le qualità positive (intelligenza, facilità all’apprensione del nuovo, ottima scrittura, vocazione e rispetto per il lavoro, generosità), papà rimprovera-va allo zio i già segnalati “vizi”: il fumo, il bicchierino, l’inclinazione edonistica generale. E il gusto delle donne in particolare. Quest’ultimo “vizio”, soprattutto, mio padre considerava incongruente con la serietà, la dignità, l’onorabilità pro-fessionale. E quant’altro. Quant’altro, voglio dire, a suo parere, costituisce la consistenza e quadratura di un uomo di peso. Insomma, sembrava non ricono-scergli il diritto al godimento. Gli rinfacciava, anche, una certa disposizione a farsi servire: cosa normale in Africa, fra dipendenti e servi di colore, non in fa-miglia. Non, soprattutto, in una famiglia
ospite, dove le donne sono nostra mo-glie e le nostre figlie. E qui papà esagerava. Lo zio non pretendeva, ma chiede-va, gentilmente. Credeva di poterlo fare, ricordando, senza mai rinfacciarlo, quanto aveva dato a questa famiglia. La quale (e sembrò a volte che papà lo di-menticasse) senza l’aiuto dello “zio africano” non sarebbe riuscita a sostenersi serbando la famosa dignità sociale cui il pater familias teneva sino al fanatismo.
Ci furono momenti, durante la disoccupazione prolungata di mio padre, che si dovette lavorare un po’ tutti, ciascuno a suo modo: ma rimanendo in casa, in piena indipendenza, senza umiliazioni. Io facevo lezioni private dalla mattina alla sera (in estate, cominciavo perfino alle sei del fresco mattino in cortile); le sorelle ricamavano e cucivano per conto terzi. Mettendo insieme i modesti gua-dagni del nostro lavoro e gli aiuti, sia pure più leggeri, dello zio, che ufficial-mente (come ho detto) manteneva la sorella nubile, si riusciva a vivere decoro-samente. E provvedere, anche, al corredo delle ragazze. Non aveva diritto, que-sto benefattore, di aspettarsi affetto rispetto provvidenze quotidiane da tutti i componenti della famiglia? Probabilmente, durante le fasi involutive della ma-lattia, qualche lino sporco dovette suggerire a papà l’attesa di una più vigile di-screzione nel malato: specialmente verso le figlie. Che del resto potevano sof-frirne solo l’occasionale vista, perché, quando a toccarli, erano ben protette dalla madre, da nostra madre, la quale riserbava a sé le incombenze più sgradevoli. E sempre, in ogni occasione, risparmiava, come poteva, noi figli.
Miserie della carne, così sensibile, così vulnerabile, così fragilmente mu-tevole: in basso e in alto, dal calcagno alla nobile testa. La quale nobile, in real-tà, serve le diverse “livellature” del corpo e dei suoi variegati e monocordi appe-titi. Così in generale. Così della specie intera. Ma con, pur minimali, eccezioni empatiche.
*
Rivedo la sequenza: noi due, io e il babbo, bene incappottati, sotto i ci-pressi, movimenti di gente e di bare, le nostre parole sulla vita e la morte, il mi-stero del “dopo”, contro fredde nuvole cupamente grigie e qualche pigolio di uccelli. Noi due, gli ultimi avanzi della “festa”, soli, fra simili alieni, più o meno dolenti, come abbandonati in un deserto invisibile. Sensazioni momentanee, pe-raltro: urgenze incombenti non concedevano spazio a lungaggini meditative.
“La vera vita comincia dopo la morte”. Questa frase mi risuonava nel cuore in lutto: l’aveva pronunciata, con semplicità perentoria, un mio collega. Ieri, alla stazione di questo paese magnogreco, al mio rientro dalla Sicania triste. Non senza avere ridondato: “io credo nell’immortalità dell’anima”. “Io no” – avevo sovrapposto a un mezzo sorriso d’indulgente bonomia. Mio padre era sta-to più serio, quel giorno, sotto i cipressi: “Davanti a questo grande mistero” – diceva, mentre la mia filosofia si ritirava in discreto buon ordine – “hanno ra-gione quelli che pensano a un’altra vita, e non si può dare torto a quelli che ve-dono la fine di tutto nella bara”. Ha, lui, di queste sortite para-filosofiche. A vol-te penso che avrebbe potuto riuscire un buon insegnante di questa disciplina. Chissà, forse vede in me il riscatto della sia non ardita rinuncia precoce.
*
Quando zio Silvio era ancora vivo, alla mia dolente osservazione révol-tée sul disfacimento inarrestabile del suo corpo, zio Marcello aveva risposto che solo lo spirito poteva resistere a tanta rovina. Al fratello minore di mio padre, che aveva studiato filosofia al magistrale, risposi, allora, che lo spirito finiva col corpo. Aggiunsi che se una certezza avevo, era questa. E’ vero, ancora vero. An-zi, più che mai lucidamente e incontestabilmente vero.
Ma che me ne faccio di tanta verità e certezza? Ghiaccio nel gelo dell’inverno? Beati i poveri di spirito…
Mi aveva guardato un po’ perplesso, zio Marcello, ascoltando la mia a-sciutta professione di non-fede. Non se l’aspettava? Eppure, non mi pare di aver fatto tanto per nascondere le mie “idee”. Si aspettava qualcosa di più complica-to? Lo spirito: che cosa intendeva, lui, con quella logora parola sputtanata da millenni di riflessione onesta? Pur riportato in trono dalle armate anglo-americane, pur gonfiato dai ricostituenti politico-affaristici e democristiano-vaticani, lo spirito-fenice restava un miserabile prodotto dell’umana debolezza davanti alla morte. Quello “griffato” dalla scienza, sapeva di corpo, di fisiologia: era solamente un aspetto complesso della complicatissima, ma altrettanto natura-le e terragna, fisiologia animale a livello antropico. Accidentatissmo livello.

Chiudo la pagina con un degno maestro di lucidità: Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra /al comun fato, e che con franca lingua, / nulla al ver detraendo, / confessa il mal che ci fu dato in sorte, / e il basso stato e frale; / quella che grande e forte / mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire / fraterne ancor più gravi / d’ogni altro danno, accresce / alle miserie sue, l’uomo incolpando / del suo dolor, ma dà la colpa a quella / che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna. / (Leopardi, La ginestra, vv. 111-125).