mercoledì 24 novembre 2010

STATO INFETTO E DEMOCRAZIE BACATE

Che la storia d’Italia sia piena di misteri è, da tempo, un luogo comune onorato da ogni ricerca storica degna del nome. Che ognuno di questi misteri sia un covone di crimini è ovvia constatazione della ricerca e della pubblica opinione attenta ai fasti e nefasti del mondo. Dello stesso grado di veridicità è l’induzione di una presenza attiva dello Stato (nel senso di certi uomini di qualche sua struttura) in alcune delle trame criminali sfociate nel delitto. Né è meno ovvio che la ricerca della verità non sia gradita da gran parte delle classi dirigenti: uomini di governo, responsabili delle istituzioni strutturali, figure degli apparati di sicurezza socio-politica, servizi segreti e complementi vari dell’autodifesa statale. Ma neanche eminenze della vita economico-finanziaria gradiscono l’“accanimento” nella ricerca della verità, venendo a spalleggiare, così, gli avversari politici delle verità pudende, e tutti gli altri che, in argomento, hanno la proverbiale coda di paglia.
I misteri d’Italia hanno radici e proliferazioni lunghe e frondose: inevitabile, dunque, che se ne restringa l’ambito di riferimento. Per esempio, cominciando dall’immediato dopoguerra della seconda ecatombe infernale. Tra gli anni ’44-47 una serie di omicidi misteriosi eliminarono una folta quantità di sindacalisti e militanti dei partiti socialista e comunista. Il culmine plurale di questa vera e propria strategia del terrore si ebbe nel tragico 1° maggio del 1947 con la strage di Portella della ginestra: uomini, donne e bambini attratti in quella spianata da pacifici comizi celebrativi della ritrovata festa del lavoro vennero falciati da raffiche di mitra provenienti dalle colline circostanti. Ebbene, non esiste ancora oggi una versione ufficialmente acquisita e riconosciuta di quei crimini. Ricerche di studiosi indipendenti hanno raccolto elementi bastevoli a formulare una versione convincente di quei tragici fatti: in quegli anni torbidi d’incertezze politiche un imperativo dominava le apprensioni degli Stati Uniti: impedire che il risveglio socio-politico delle forze popolari portasse l’Italia, e quindi la sua grossa porzione insulare, la Sicilia, nell’area del comunismo sovietico. Indi, terrore e stragi a gogò. Il tutto, ovviamente, in nome della “bella, immortal, benefica fede” democratica. E vaticana. Basti un solo titolo tra i non molti che hanno fatto luce su quelle infamie: Giuseppe Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della ginestra, Tascabili Bompiani, 2005. La vasta documentazione di prima mano, in gran parte nuova, e la congeniale Introduzione di Nicola Tranfaglia (dal titolo incisivamente allusivo: Anatomia di una strage con molti colpevoli), garantiscono ulteriormente la sostanziale autorevolezza della meritoria fatica.
Naturalmente, anche la vicenda del Bandito Giuliano rientra in questa logica criminalmente realpolitica. Se ne sta riparlando in questi giorni, e i media assolvono festosamente il loro compito. E’ venuta fuori perfino l’ipotesi di riesumare i resti del bandito-fantoccio per controllarne l’identità: sì, si dubita anche della “autenticità” del cadavere. E i familiari sono in fermento. Giuliano fu un facile strumento nelle mani delle stesse forze eversive, italiane e straniere, che lavoravano con le stragi terroristiche: residuati fascisti, di Salò e della diaspora post-Salò, tutti protetti da certi ufficiali americani impegnati (con discrezione, si capisce, ma una discrezione piena di buchi) nell’impresa storica di arginare, respingere prevenire il dilagare della “peste comunista”. E, con Giuliano, il cugino Pisciotta, al quale si attribuì il tradimento omicida del bandito, che consentì alle forze dell’ordine di sorprendere e uccidere in uno scontro il “terrore di Montelepre”: insomma, una bella storia, ma tutta inventata. Tranne i morti ammazzati: con proditorio attacco militare, come Giuliano (o il suo “pupo” sostitutivo), o col silente caffè al cianuro (come Pisciotta).
Il torbidume al sangue innocente dei fatti appena richiamati, si ritrova anche negli eventi più freschi (ma pur sempre “maggiorenni”, se hanno raggiunto i 18 anni!), come le stragi di Capaci e Via D’Amelio, cioè (sia detto per i giovani poco informati) l’eliminazione dei giudici antimafia Giovanni Falcone (23. 05.’92) e Paolo Borsellino (19. 07. ’92), con inclusi gli uomini delle scorte (e la moglie di Falcone). Nessuna verità piena e solare, nei due casi. Né, tantomeno, sugli attentati, anch’essi stragisti, di Firenze, coda dell’estate ’92 e seguito targato 1993, più quelli, contemporanei, ma, casualmente incruenti, di Roma e Milano.
Anche per questi crimini, indizi, rivelazioni di pentiti (Spatuzza e altri), testimonianze orali e documentali di Massimo Ciancimino stanno svelando verità pudende sugli accordi Stato-Mafia e conseguenti complicità di alti ufficiali dei carabinieri e di agenti segreti con Cosa nostra. Massimo è figlio di don Vito Ciancimino, famigerato sindaco mafioso di Palermo eroe nero della sua cementificazione selvaggia (il cosiddetto “sacco di Palermo”), amico e complice “strutturato” dei capimafia, prima dei Bontate e soci, poi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Il rampollo Ciancimino era messo al corrente dei movimenti paterni dal genitore in persona, e perciò possiede documenti probanti (il famoso “papello”, tra l’altro), ha mostrato di non aspettarsi vantaggi dalle sue rivelazioni, eppure la professionale cautela dei giudici (Ingroia in testa) nel valutare le rivelazioni di Massimo e dei pentiti viene amplificata e storpiata dal coro arcoriano, compatto nel lanciare calunniose offese ai collaboratori di giustizia. E, implicitamente, taciti “consigli” agli inquirenti. I pentiti e Massimo sono tutti bugiardi, c’è dietro di loro un comitato mafioso con un preciso piano diffamatorio puntato contro la cristallina lealtà di galantuomini onestamente inseriti nelle istituzioni democratiche. Se si chiede quali sarebbero questi specchiati campioni di coerenza morale e squisitezza democratica saltano fuori, prima i nomi del senatore Dell’Utri, del colonnello (oggi generale) Mori, dell’ex ministro (ed ex vice presidente del Csm) Mancino, più quelli di alcune figure minori di recente acquisizione nel gota delle eccellenze. E perfino il riverito nome dello “stalliere” Vittorio Mangano, “guardiano” delle innocenti stalle di Arcore definito dal senatore “un vero eroe”. Come si presentano questi signori alla pubblica opinione e alla solerzia inquisitrice dei magistrati? Dell’Utri è stato già condannato due volte (primo grado e appello) come mafioso, Mori ha negato e nega ogni responsabilità criminale, Mancino si dice altrettanto pulito e ignaro di trattative Stato-mafia. E così via per altre figure di minore spicco. Ma dietro questi nomi sta qualcuno e qualcosa di ben più grosso e sconvolgente: stanno l’immacolato testimone di ogni verità onestà capacità manageriale e politica, insomma il Cavaliere par excellence, don Silvio Berlusconi. Uomo della provvidenza, anche lui come il Duce, ma più e meglio di quello, finito male, secondo i suoi lecchini; nonché manager incomparabile, generoso elargitore di premi ai volenterosi (complici coscienti e ignari adoratori), premier–coraggio dalle mille risorse, e via intronando (per tacere delle escort, delle feste più o meno drogate, delle minorenni ispiratrici di “protezioni” costose). Ma dire Berlusconi significa illuminare la nascita, non solo di un vasto impero economico imprenditoriale, ma addirittura della cosiddetta Seconda Repubblica, con i suoi luccichii e le sue ombre. In sintesi, la tesi circolante fra pentiti e magistrati pur cautelosi, intellettuali non inquadrati nei reparti certosini, osservatori sensibili che fanno “due più due dà quattro”, studiosi che incollano al giusto posto i vari tasselli del puzzle, è questa: lo Stato ha trattato con i capi mafia Riina e Provenzano, ne ha accettato le condizioni offerte per la cessazione delle stragi, Dell’Utri, mediatore delle trattative, ha svuotato nelle casse del Cavaliere una barca di soldi, così da finanziargli la “discesa in campo” e il relativo successo politico. Dal quale nasce la Seconda Repubblica e le sue implicazioni malamente rinnovatrici che abbiamo potuto ammirare negli ultimi tre lustri. Tutto questo è venuto ufficialmente fuori nella motivazione della sentenza d’appello contro il Senatore, uscita in questi giorni. E subito commentata dai media, “rigettata” dagli amici, respinta dal Bersaglio. Il quale si sta sbracciando a negare le evidenze registrate in quel documento concedendo interviste a destra e a manca. La sintesi del suo “pensiero” è in questo giudizio che dovrebbe mostrare la “illogicità” della sentenza: “La sentenza è illogica” perché la sospettata alleanza fra Dell’Utri e i capi mafia non sarebbe stata sfruttata a pieno dal terzo polo dell’intreccio, cioè Berlusconi. Illazione che non sfiorò neppure i giudici quando scrissero questa “motivazione”: Dell’Utri “ha svolto, ricorrendo all’amico Gaetano Cinà e alle sue “autorevoli” conoscenze e parentele, un’attività di mediazione quale canale di collegamento tra l’associazione mafiosa, in persona del suo più influente esponente dell’epoca, Stefano Bontate, e Silvio Berlusconi, così apportando un consapevole rilevante contributo al rafforzamento del sodalizio criminoso al quale ha procurato una cospicua fonte di guadagno illecito rappresentata da una delle più affermate realtà imprenditoriali di quel periodo, divenuta nel volgere di pochi anni un vero e proprio impero finanziario ed economico”. Finita l’epoca dei Bontate, Teresi eccetera, tocca ai nuovi boss presentarsi all’incasso presso l’imprenditore fortunato. Ancora la motivazione giudiziaria con altre piccanti rivelazioni: “fin dalla metà degli anni Ottanta, Riina, oltre al preminente interesse economico di carattere estorsivo, intendeva agganciare l’imprenditore Silvio Berlusconi per giungere fino all’onorevole Bettino Craxi, uno degli uomini politici italiani più influenti e rappresentativi del tempo, essendo a tutti nota l’amicizia che legava i due” (riportiamo dal Corsera del 20 novembre). Per Dell’Utri questa valanga di accuse, puntuali e circostanziate, sono soltanto fantasie di menti malate, meglio connotabili con linguaggio spiccio e sprezzante: “Le debbo ripetere [dice all’intervistatore] che sono ‘minchiate’? Dobbiamo sentire echeggiare sempre le stesse infamie? Ci rendiamo conto che stiamo parlando di cose vecchie di trentasei anni? Uno come fa a difendersi da accuse ricostruite dopo una vita?”
Dei molti commenti dei berlusconiani alla sentenza (7 anni di carcere), il più dei quali prevedibilmente cretini per eccesso di cecità obbligata, non vale la pena di parlare. Salvo, forse, per il “dolore” di Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, che sospira questa dichiarazione proiettata su un destino storico aere perennius: “E’ una sentenza ingiusta che ci addolora, speriamo che la Cassazione sia più coraggiosa”. Sperare non è proibito. Al più, può essere spudorato. Ed entrare in una consuetudine ferrigna in quel di Arcore. E poi, chissà?, si vocifera che in Cassazione siedano anche frammassoni: saranno impermeabili alle insinuazioni amicali? (si staranno chiedendo in quel di arcorlandia.
Fra i commenti delle opposizioni (prevedibili al dettaglio), ricordiamo soltanto l’appello di Di Pietro: “Adesso che anche le sentenze parlano di rapporti ravvicinati fra mafia a premier, speriamo che si trovino 316 parlamentari che lo sfiducino”. Ahimè, non sentiamo salire altro che un sospiro scettico dal fondo delle nostre cumulate delusioni storiche: “campa cavallo!”
Quanto all’olocausto che ha tolto di mezzo due ostacoli tosti al successo del progetto, cioè Falcone e Borsellino, molti indizi già da tempo indicano nei Servizi segreti cosiddetti deviati i pupari zannuti della soluzione tragica. Eccone qualcuno. Falcone non spargeva ai quattro venti giorno ora percorso dei suoi spostamenti, e negli ultimi tempi li cambiava all’ultimo momento. Come fecero, i suoi assassini, a conoscerli? Stessa domanda, ed altre, per Borsellino, con la risposta che sembra collocarsi nel castello di monte Pellegrino, da cui si poteva controllare parte di via D’Amelio e relativa piazzetta. Di più: l’esplosivo usato per imbottirne la Cinquecento esplosa era in dotazione soltanto alle forze militari. Infine, il mistero della borsa scomparsa con dentro la famosa agenda rossa, rifugio degli appunti sensibili del giudice. Quell’agenda, vista in mano a un militare nel momento della perquisizione della macchina sventrata, sventola, in riproduzione e metafora, ad ogni annuale manifestazione pro veritate, che vede in campo il fratello di Paolo, la sorella e altri familiari, nonché le persone sensibili alla giustizia e al rispetto della vita umana.
Indizi, ricostruzioni problematiche, sospetti, e quant’altro converge con la comoda cautela del Giure (troppo onorato nei fatti procedurali, ma tradito nella sostanza reale che gronda sangue innocente), non permettono, ancora oggi, di sigillare con la parola risolutiva vicende criminali sconvolgenti per la storia umana del nostro Paese. Di tanto in tanto qualche voce si alza a chiedere verità, i giornali se ne occupano (recentemente è stato Veltroni a chiederla, a voce alta) ma presto la voce si spegne e la risposta non arriva. E c’è da temere che non arriverà mai: troppi nomi di peso vi sono implicati, troppe relazioni pubbliche e istituzionali vi sono coinvolte. E forse (magari senza forse) molte conseguenze pesanti ne scapperebbero fuori. Non è del tutto escludibile che vi siano coinvolte perfino potenze straniere. Come nel caso Moro, sacrificato cinicamente ad una torma di menzogne gestite dall’esterno, con in mezzo un oceano continentale e un fiume casalingo, ma che separa due Stati. Si tirò in ballo, come alibi, l’inviolabilità dello Stato, lo stesso Bene sacro che si era tradito decine di volte. Questo mitico Stato non poteva trattare con dei terroristi! E dunque si fa luce sulla posizione vaticana rutilante nelle dichiarazioni di un alto prelato: “E’ meglio che muoia un uomo solo piuttosto che crolli lo Stato”. Era la risposta saettata in faccia a tre presuli che si offrivano come ostaggi alle Br per salvare Moro, ed erano già entrati in contatto con quei terroristi tragicamente illusi. Ingenuamente, chiedevano il permesso ufficiale al loro gesto generoso. Ma quel grande capo suonò il no perentorio che troncava ogni discussione. E spiega anche perché papa Paolo VI fu costretto a chiedere la liberazione del prigioniero “senza condizioni”: cioè nella sola maniera inaccettabile per quei sognatori che inseguivano il riconoscimento di “forza politica” dallo sputtanatissimo Stato italiano. Risuonano ancora le dolenti parole del Prigioniero: “Anche il papa ha fatto pochino”.

Pasquale Licciardello


venerdì 12 novembre 2010

THE ONLY FLAG DEL CAVALIERE

Il libro di Bruno Vespa fa bella mostra di sé in uno degli scaffali del reparto libri e cartoleria di un supermercato: Nel segno del Cavaliere. Ne emana un interrogativo: quale sarà questo segno per Vespa? La presentazione web assegna all’autore il merito di “un’angolazione tanto paradossale quanto inedita” nel rivisitare “la storia italiana degli ultimi diciassette anni”. La meraviglia consisterebbe nell’aver seguito “da vicino il percorso privato e pubblico di Berlusconi, con le sue luci e le sue ombre” come l’unico modo per capire “perché quest’uomo – dato per politicamente finito ogni volta che ha perso le elezioni – è sempre riuscito a risorgere, condizionando la politica italiana anche negli otto anni trascorsi all’opposizione”. Il segno ipotizzato da Vespa dentro quel perché non lo illumina abbastanza. E non solo per le ombre troppo pallide. Berlusconi è un Proteo, un “animale” sfuggente per le classificazioni sbrigative: i suoi tanti aspetti rendono impervio il cammino verso una semplificazione dogmatica. Magnate, politico, barzellettiere, Epicuri de grege porcum (a dirla con Orazio), sciupafemmine, maniaco delle minorenni, imbroglione..: sono tutti lati del suo poliedro psicofisico, ma nessuno appare decisamente prevalente fino a poterlo caratterizzare in toto. Non solo: ciascuno degli epiteti tende a ramificarsi. Diciamo magnate? Certo, lo è, ma in estensione plurale: magnate dell’edilizia (“Milano 2”, “Milano 3”...), magnate delle televisioni (non solo le sue 3 reti, anche pezzi di altre), dell’editoria cartacea e telematica, delle librerie, della pubblicità, delle agenzie di produzione programmi, e via ramificando. Politico? Come no. Ma di quel genere particolare che ha (avuto) pochi e minori precedenti rispetto all’ibridata versatilità berlusconiana. Ed è anche una cosa ovvia: un tipo che ama le donne e la bella vita e le facezie e si porta dentro queste qualità anche nel mestiere più difficile, appunto la politica, non è certo un unicum, (basta pensare ai fratelli Kannedy), ma non sono folla. Certo l’Europa non ha mai avuto un premier simile al nostro. Che dico! neanche lontanamente comparabile.
Eppure ci dev’essere, nel suo dna, un gene che sovrasti tutti gli altri. Leggendo quel geniale e ponderoso thriller di un autore proteiforme (ma ben diversamente dal Cavaliere) qual è Giorgio Faletti, dall’eccitante titolo Io sono Dio ci imbattiamo in un motto evidenziato: The only flag. Si tratta del motto che i pirati stampano sul loro vessillo, e significa, letteralmente, “La sola bandiera”, nel senso che sarebbe l’unica eccellente, il migliore emblema (della virilità, della forza, eccetera). Ed ecco che mi si accende la lampadina che nei fumetti indica “idea”, botta di mente: potremmo indicare una only flat berlusconiana? L’associazione fisiologica implicita non concede titubanze: non solo possiamo, ma tocchiamo il massimo consentito nella caratterizzazione del personaggio. Non è una specie di pirata? non si sente come il migliore degli uomini estroversi e versatili (affari, politica, galanteria...)? Ecco, dunque, una chiave abbastanza incisiva e duttile per interpretare la complessità “silvestre”. Don Silvio è quel mucchio di “cose” che è in quanto in ciascuna stampa il marchio di fabbrica della vocazione piratesca.
Genetisti di valore, non afflitti, cioè, da tare idealistiche e residui spiritualistici, ripetono che il nostro destino è scritto nelle triplette biochimiche delle doppie eliche cromosomiche. Non che vi siano inscritte le vicende “esterne”o determinate le scelte professionali, ma il modo di reagire e di agire in qualunque scelta, e una certa restrizione nelle scelte, sì. In questo senso Berlusconi è un pirata. Del resto, è tutta la sua vita pubblica che lo prova: abbiamo scritto della sua insofferenza verso le regole, dunque verso leggi e regolamenti, restrizioni e costituzioni e relativi custodi (magistratura, eminenze costituzionali, assemblee e corpi politici o religiosi, ecc.). La prima prova della fisiologia piratesca è la storica amicizia con Dell’Utri, uomo-mistero, ma con due chiare condanne per mafia, primo grado e appello. Potrebbe risultare innocente dopo l’atteso transito in Cassazione? E sta bene, ma intanto il senatore lascia tracce che possono orientare nel senso peggiore: per esempio, l’elogio al finto (e defunto) stalliere di Arcore, Mangano, da lui definito “un eroe”, mentre era da tempo schedato come mafioso. Don Silvio rispose con entusiasmo all’invito dellutresco di darsi alla politica. E nacque la c.d. Seconda Repubblica, copertura finanziaria più che generosa, terreno sgombrato da molesti ostacoli umani: tale è la versione, alquanto plausibile, di alcuni pentiti e di Massimo Ciancimino.
Le ultime vicende nella biografia del premier, come ogni suo gesto anteriore, sono improntate alla tecnica del pirata: arraffare e sparare fendenti di menzogne, imbrogli, finte e controfinte, depistaggi, invenzioni funzionali al proprio interesse, telefonate fatte e negate, o “travisate”. Vediamolo alle prese con lo scandalo scoppiato dall’arresto per furto dell’affascinante marocchina Ruby: l’intervento del premier vitellone è subito caratterizzato dalle bufale: la parentela con Mubarak affibbiata alla minorenne ragazzotta, l’ennesima delle sue “protette” (ce ne saranno altre, per ora nascoste?). La vicenda, tuttora in pieno svolgimento, ha dato la stura a rivelazioni e amplificazioni su nuovi soggetti del gentil sesso implicati, che coinvolgono amici, “domestici” politici e televisivi, ministri. La prima cosa che salta agli occhi è la diffusione della menzogna “ambientale”, anzi il mentire progressivo, una ciliegina tira l’altra. Mubarak zio, l’affido alla sua “dipendente”, Nicole Minetti (una delle “gallinelle” messe in lista dal supergallo), la balla delle “case di accoglienza” senza posto per la ragazza. E via tacendo. Ma la più bella balla, la madre delle altre, è quella del suo buoncuore che lo porta ad aiutare chiunque gli si rivolga per bisogno. E non perché di aiutare non sia capace, anzi: la balla nasce quando la generosità pelosa viene drappeggiata da altruismo disinteressato. Nel caso, a botte di 5000 euro per volta. Più regali in oggetti costosi. Come i cerchi di un sasso nello stagno, l’affaire dilaga e coinvolge sempre più persone: altre donne, escort in vena di pubbliche rivelazioni, smentite di ministri coinvolti, di giornalisti gratificati dal Paperon pagante, come Emilio Fede, primatista del lecchismo certosino, o il nano Brunetta, già aspirante moralizzatore e castiga-sfaticati. Tutti negano, ovvio: nessuno ammette di avere toccato escort e minorenni al di là di una innocente stretta di mano o di casti bacetti su innocenti guance e casta fronte.
E’ il caso di aggiungere che gli uomini del suo entourage di bugie e barzellette ne sparano non meno, e non certo meno esilaranti delle originali certosine? Prendiamo il cardinalizio Bondi, che, replicando al solito recital parolaio di Galli della Loggia (Il coraggio della verità, Corsera 1°. nov.), che parlava di verità al Pirata come a un uomo normale, prevede-minaccia il caos in un eventuale vuoto arcoriano. E bolla il Corriere come afflitto dalla fissa del delenda Cartago, posto che la Cartagine metaforica sia il governo in atto e il partito che vi sta appollaiato sopra. Il bravuomo esamina la situazione italiana, constata l’insignificanza della sinistra e l’impotenza di ogni altra bottega politica, e predica: “Berlusconi altro non è che la vittima del male profondo che attanaglia questo Paese, quel male che, dalla politica alla cultura, dall’informazione alla giustizia, mortifica e si oppone ad ogni serio progetto di rinnovamento”. In coda a questo acuto da pulpito veggente il cardinaloide gorgheggia l’elegia del dolore personale per tanto sfacelo: “Vivo con angoscia questi giorni, non solo per l’ennesima campagna scandalistica e giudiziaria contro un uomo da sedici anni sotto un attacco disumano e senza precedenti in una democrazia occidentale, ma anche per le conseguenze che ne potrebbero derivare.” Al languore elegiaco Bondi oppone, seguitando, un piglio savonaroliano incollato alla previsione di quelle “conseguenze” e comicamente ottimista sul valore assoluto del suo Côté politique: “Sono convinto infatti che solo il Pdl di Berlusconi e la Lega di Bossi possono guidare oggi l’Italia attraverso i marosi dell’attuale crisi e garantire una politica di modernizzazione. E so per certo che non vi è un’alternativa a questa politica e a questo governo. L’unica alternativa è il caos e il ritorno alla palude della vecchia politica, che porterebbe rapidamente l’Italia verso il baratro e la rinuncia definitiva al cambiamento”.
Abbiamo appena letto uno sproloquio farcito di rinsecchite parolette rimodellate in neologismi magici: vecchia politica, cambiamento, rinnovamento, e via suonando. Sono tre lustri che le ripetono, non tanto il Pirata quanto i suoi ministri e faccendieri. Che sono, la loro parte, ingenui e fideistici, ma non quanto testimonia il candore abbaziale del Bondi: forse l’unico a soffrire del presente andazzo, e anche se non ha la forza di vedere, prima, e poi di rinfacciare al suo patron la realtà e consigliarlo per il meglio (o il meno peggio) possiede almeno l’attenuante del candore da Novellino. Cosa che non si può dire di un Cicchitto, un Lupi, un Buonaiuti, e via elencando, con un occhio di riguardo alle ministre e altre figure femminili del seguito, non meno del Bondi penetrabili dagli slogans di battaglia e dalle sonorità “metafisiche” del soprastante modello: cambiamento, rinnovamento, riforme, e simili, senza contenuti caratterizzanti, stonano come distrofie neuronali. Risultati: sacralizzazione della parola e caos semantico. Il cambiamento può svolgersi nei due sensi opposti: positivo e negativo. E quello che abbiamo visto gattonare finora è del secondo tipo. Ma i berluscones non amano i dilemmi e vedono un solo colore: l’azzurro del successo. Che. se non è ancora completo, è per colpa della satanica sinistra e dei suoi complici, evangelicamente ignari di quel che che fanno.
Non c’è traccia di candore, invece, nel ghigno osceno di Ghedini-zombi quando spara questa meraviglia di puttanata: “Continua un’incredibile strumentalizzazione di una banale telefonata quando i fatti sono ormai ampiamente chiariti. Di una vicenda assolutamente priva di ogni connotazione negativa si sta tentando di creare un caso mediatico e, per alcuni, addirittura giudiziario”. Ghedini teme che il Pirata possa ricevere il trattamento riservato a Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti, “l’igienista dentale” del premier ed ex ballerina Tv, eletta, per volere di Silvio, alle regionali lombarde (lista di Formigoni il politico di Dio, indi uomo di tutte le castità ), indagati per favoreggiamento della prostituzione e abuso di minori. Perciò s’illude che, abbaiando, qualcuno del “complotto” si spaventi: “Sarebbe davvero gravissimo, anche se contro il presidente Berlusconi ormai si è assistito nel corso degli anni alle più assurde fantasie, che qualcuno potesse costruire artificiosamente ipotesi di reato così come suggerito da certa stampa, su un comportamento che non può che essere valutato come caratterizzato da contenuti assolutamente positivi”. Tirando il respiro, dopo questo tour de force addosso a quella congesta prosetta prolissamente notarile e di sgradevole sonorità, cosa si può immaginare di più cretino in una simile sortita adulatorio-difensiva? Inchieste ancora in corso, convergenze di confessioni plurali ed esibizioni di figure in ballo, e questo signor-ciarla pompato dai milioni del padrone fa il galletto minacciante. E se questa spocchia rallegrava cronisti al fronte e lettori piccati di ieri, 2 novembre, gli stessi, oggi 3, godono del previsto rilancio del Rinaldo in campo: infatti, i giornali odierni recano la notizia che assolve Berlusconi dal sospetto affidamento illegale della ragazza. Che altro aspettarsi se non titoli come questo del Corsera? La procura di Milano: l’affido di Ruby fu regolare. Il Pdl: la bolla si sgonfia. Se la sfera Pdl gongola, dentro il suo volume Ghedini tripudia...Invano questi titoli dettagliano così: “Fase finale ‘corretta’, al vaglio le presunte pressioni” (occhiello del Corsera). Quel vaglio non disturba l’euforia del canile latrante di frettolosa gioia. Né il Cavaliere si muove per frenare tanta agitazione prematura. Anzi, rilancia e la spinge all’isterismo sensuale sparando una delle sue provocazioni ad alta risonanza: mi fate una colpa del mio debole per le belle donne? Ed io me ne vanto coram populo e pimento il vanto con uno sberleffo alle checche (questa parolina gentile non l’ha pronunciata, in verità, ma giureremmo che quel gay spolverato al suo posto ne era la maschera pubblica). Ecco il cocktail nel titolone del Corsera lungo quanto larga l’intera pagina 10 così dedicata: “Primo piano. Centrodestra Il premier”, al fianco, un pensierino severo di Paola Concia, del Pd: “Nessun politico europeo pensa, né si permetterebbe mai, di fare una battuta così spregevole nei confronti degli omosessuali.” Così il coro delle proteste viene gonfiato sempre più e il Berlù se la ride di gusto, in cuor suo spregiando tanta ipocrisia (che altro potrebbe essere per lui, questa pruderie?). Ma volgiamoci al testo dell’articolo, dove le parole testuali del mandrillo sono queste: “Meglio essere appassionati di belle ragazze che essere gay”. Tiè. Il cronista assicura: “Frase che ha costretto le agenzie di stampa a un superlavoro per la valanga di reazioni che ha provocato”. La sortita (alla Fiera di Milano) è parte di una strategia difensiva che mescola la battuta provocatoria al collaudato “numero” del processo a chi lo processa: magistratura, stampa, format televisivi ostili. Lui svampa di pubblico sdegno, ma se la gode: questa duplicità reattiva non entra nelle “coscienze” dei suoi detrattori, né in quelle dei consiglieri. E’, la sua, una pulsione genetica, cui non si resiste. Questa sua reiterazione di marachelle sessuali (o di innocue galanterie con signore istituzionali straniere) lo diverte, per così dire, a ventaglio: per il giochino in sé e per le reazioni moralesche che suscita intorno a sé. Capita anche a persone di specchiata correttezza sociale e severa morale di avvertire un moto di simpatia goliardica per questo scavezzacollo impunito e incorreggibile. Quella sua faccia tosta riesce a farsi perdonare per la sua stessa reiterata spavalderia. Una non risibile parte dell’itala gente dalle molte vite ama questo rodomonte dell’inganno e del successo economico. E non è un caso la presenza di molti personaggi del bel sesso tra i suoi collaboratori: dalle ministre alle... vivandiere. Il Bucaniere ama confessarsi in pubblico, a tal punto che soffre se deve proprio frenarsi: sa che a molti piace e che certo non dispiace alle belle donne, affascinate, se non dal suo fisico, dai suoi miliardi, segno del savoir faire che conta. Ecco un’altra pubblica confessione (questa, “allocata” a Bruxelles): “Amo la vita, amo le donne. Faccio una vita con sforzi disumani. Se ogni tanto sento il bisogno di una serata distensiva, nessuno mi potrà far cambiare il mio stile di vita, di cui sono orgoglioso.”.
Dinanzi a tanta saldezza di coerenza fra dire e fare, i suoi detrattori hanno la vita difficile. Come quel pupazzone di plastica di qualche decennio fa, don Silvio puoi piegarlo a terra per qualche secondo, ma appena lo molli ritorna dritto: si chiamava “Ercolino sempre in piedi”. Si dirà: allora non c’è niente da fare? Bisogna rassegnarsi all’attesa della sua scomparsa materiale? Ricordate quella battuta di un celebre film con il mitico Bogarth: “E’ la stampa, bellezza! E tu non puoi farci nulla.” Così è del bucaniere Berlù. Poi, diciamocela tutta: che specie di oppositori ci ritroviamo? gente pallida: di pensiero, di programma, di oratoria (assente). L’unico oppositore tosto e coerente è Di Pietro, ed è “fuggito” come la peste da certa dirigenza così detta di centrosinistra (per tacere dell’incensato Centro!). C’è anche Grillo, è vero, ma anche lui, utile e convincente, non attrae abbastanza la “gente seria”. Il duo Tonino-Beppe è troppo emotivo, sciamannato, urlante per i notai ragionatori dell’opposizione “assimilata”. Né il meno piccolo dei partiti oppositori è coeso e compatto: al contrario, linee di frattura potenziale continuano a renderne precaria la consistenza-resistenza. Per esempio, quella coabitazione fra cattolici vaticanofili e laici timidi: come può saldarsi in compatta omogeneità programmatica? Conosciamo l’obbiezione: se perdiamo i cattolici, cosa ci resta? A dirla ottimistica, mezzo partito. Risposta: meglio mezzo compatto che un intero frastagliato. Lo stesso vale per certi giovanotti sensibili alle casinerie: meglio perderli che trovarli (anche se hanno cognomi famosi!).
Tornando al Bucaniere. Dilettiamoci ancora un po’ alle castronerie dei seguaci e dei critici sprovveduti o di lui peggiori. Cicchitto, precedenza assoluta: Donde la sicurezza che ostenta sulla sorte del governo? E Perché non accettare un appoggio esterno dal Fli? Naturalmente, assolve il premier delle sue marachelle. Distinguere tra amare le donne e frequentare minorenni? E’ una parola. Meglio scivolare, sorvolare, stendere un pietoso silenzio sulla ragazzotta piacente da 5000 euro ad incontro (paterno, dice Cicchitto, pura opera di beneficenza, come sostiene il principale). Alle cicchitterie Adolfo Urso [Fli] risponde: “La battuta sui gay è da osteria, come Italia abbiamo fatto una pessima figura a livello internazionale”. Forse. Ma Silvio risponderebbe: state facendo un casino di una battuta scherzosamente provocatoria. Vi mancano argomenti più di peso? Julianne Moore: “Ha detto davvero così? Mi sembra un giudizio arcaico, idiota, infelice, imbarazzante”. Dall’interprete di un film su una relazione lesbica che altro aspettarsi?
Alfonso Signorini, direttore del settimanale Chi, gay dichiarato: “Sono sicuro che è stata una boutade, ma molto infelice e quand’è così si dice.” Prende le distanze, ma non diserta: “Sono sempre dalla sua parte e lo sostengo. Abbiamo parlato più volte di omosessualità e non l’ho mai trovato prevenuto. Io stesso ne sono la prova acclarata, visto che dirigo due corazzate Mondadori come Chi e Sorrisi e canzoni”. La reazione più tranchant la dobbiamo alla bocca larga della Santanché: di cosa vi scandalizzate, razza di bacchettoni? Tutti (sottinteso, i maschi) la pensano così, anche se non hanno il coraggio di dirlo. E il botto reattivo non si fece aspettare. Però per una volta quella bocca merita plauso e non l’auspicata transferta in più gai (gai, non gay!) impegni. Ma stop a quello che ormai è più gossip che dramma.
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Al momento di licenziare questo articolo un Evento (la maiuscola non è uno scivolo di tasto) ci ferma: il trionfo (non è un lapsus calami) di Fini alla prima convention di Fli a Bastia Umbra (Perugia): un Fini inatteso, che dà l’ultimatum a Berlusconi: vattene! Questa la sostanza dura e pura dell’exploit oratorio finiano. Le parole che la contengono sono meno drastiche, ma hanno un retrogusto ambiguo, non privo di un’infiltrazioncella ironica. Eccole: “Berlusconi deve mostrare coraggio (sic!), dare un colpo d’ala: rassegni le dimissioni e avvii la discussione per una nuova agenda e un nuovo programma”. Insomma, un nuovo governo. Con gli stessi alleati, se ci stanno, ma anche con l’Udc. Un tuono di applausi dal popolo del nuovo partito, giovani in prevalenza. Ma nessuno in fronzoli nostalgici. Ce ne occuperemo, forse, a situazione maturata. Per ora registriamo la replica indiretta del Pirata in veste di San Tommaso: se non vedo (e tocco) non credo. In chiaro: “Mi sfiduci in Parlamento, se vorrà assumersi la responsabilità”. Il trono trema: Berlusconi confida di non aver perduto ancora la maggioranza alla Camera, ma le certezze hanno messo le ali e tendono a volare lontano. Il quadro politico è in piena fermentazione, mentre il contenzioso cumulato dal Pirata con i suoi azzardi vitelloneschi (e non soltanto) è tutt’altro che esaurito.
La faccenda Ruby non è chiusa, né in senso politico né in quello giudiziario. Altre rivelazioni confessioni e indagini hanno allargato il perimetro del pluralissimo caso. C’è di mezzo il favoreggiamento della prostituzione, l’abuso di minore e via celebrando. E c’è, sopratutto, il gruzzolo di critiche e di conseguenti richieste messe in conto dal lungo discorso di Fini: non si governa senza legalità, l’Italia non merita i casi Ruby e meno ancora che i suoi tesori archeologici crollino e si polverizzino da soli (casa dei gladiatori, a Pompei), che il suo territorio si sfasci sotto la furia di Giove pluvio o sopra la silenziosa pestificazione dei rifiuti tossici ammucchiati e sepolti a milioni di tonnellate senza un adeguato trattamento innocuizzante. Non merita neppure le brutte figure che la leggerezza istrionica del premiser le ha procurato all’estero.